Libia: attacco italiano. La storia si ripete

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Messaggio  Admin Mar 26 Apr 2011, 23:25

Libia: attacco italiano. La storia si ripete Attacc10

25 aprile 2011
Il Presidente americano Obama, da PADRONE, (telefona ed) ordina all’inutile capo dell’Italia di dare inizio ai bombardamenti sulla Libia, dove gli insorti, sostenuti con armi e denaro dagli alleati, non hanno nessuna capacità militare, come i partigiani in Italia si muovono solo dopo i pesanti bombardamenti che compiono americani, inglesi, francesi e da oggi gli italiani, colpendo i combattenti di Gheddafi e la popolazione a lui fedele.

Questa è la “libertà” che il 25 aprile 1945 i partigiani hanno conquistato per il nostro popolo.

Mentre l’esercito americano continua ad occupare il nostro Paese, i governanti americani, nostri padroni ordinano, e il nostro governo è obbligato ad obbedire.

Agli americani non interessa nulla della “democrazia” antifascista, che fermenta il pacifismo assecondo la nazione che gli Usa aggrediscono.

Americani e popolo italiano l’hanno capito da tempo, la sinistra è i servili partigiani, che sulla aggressione alla Libia, non stanno alimentato le manifestazioni pacifiste come fecero per l’Iraq, con l’intenzione di incolpare il capo del nostro governo del baciamano che fece a Roma all’amico Gheddafi, evidenziando come in poche mesi si è passati dal bacio ai bombardamenti sul popolo libico.

Libia che, come la falsa “democrazia” italiana, attaccano il passato ventennio Fascista. Il primo per il periodo colonialista, che fece di un territorio in mano ai Capi tribù una verrà nazione, i secondi per aver perso la poltrona di deputato socialcomunista o popolare, uomini, incapaci e corrotti, che al contrario del Fascismo volevano l’Italia asservita allo straniero.

La conquista libica da parte Fascista, al contrario di quando affermato da Gheddafi e dagli infami condiscendenti antitaliani, non avvenne attraverso atti di efferatezza, ma con azioni legittimi in tempo di guerra. non scordando che, in guerra le violenze sono eccessi di odiosa impotenza da entrambi i contendenti.

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Ieri per fare grande l'Italia, oggi per servire un padrone.
Nel settembre del 1934, un nostro informatore arabo fece ritorno da Sirte a Misurata dopo due mesi, quando già lo si riteneva morto.

Se non avesse mostrato due profondi solchi alle caviglie coperte di piaghe, segni inconfondibili dei torturanti ceppi del famigerato capo ribelle Ibrahim Sceteui, certamente sarebbe stato ucciso come uno di quei traditori che, fingendosi nostri amici, facevano molto spesso il doppio gioco, a favore dei ribelli.

Il tenente, comandante i CC. RR. di Misurata, che l’interrogò, nulla ebbe ad eccepire sul suo conto ed il colonnello comandante della Zona Orientale, ottimo conoscitore dell’ambiente, implacabile in combattimento, umano e caritatevole nelle opere di pace, dispose che gli venisse usato ogni riguardo.

L’informatore riferì che Ibrahin Sceteui, comandante di una forte mehalla, militarmente organizzata – l’unica superstite dopo la vittoriosa riconquista della Tripolitania settentrionale conseguita dal primo governatore fascista – s’era, con la forza, imposto ai due capi sirtici Mahdi Bubrik e Mohamed Buruela, i quali dovevano, perciò, rifornirlo di viveri e di quadrupedi. Appariva così chiaro come mai Ibrahim Sceteui, che aveva per primo sollecitato la generosità del comandante della zona, si fosse rifiutato di arrendesi quando questi, persuaso della insufficienza di viveri e di munizioni dell’avversario, lo aveva invitato a precisare le condizioni per una resa, sia pure onorevole, ma a discrezione. Il comandante della zona, infatti, conscio delle difficoltà logistiche e delle rilevanti spese che sarebbero occorse per far muovere una colonna di circa tre mila armati sul deserto sirtici e sui 280 chilometri costieri che separano Misurata da Sirte, aveva ideato di risolvere la situazione per via politica piuttosto che con le armi. Ma il venticinquenne Ibrahim, figlio di Ramadam Sceteui (già capo della Giammuria di Misurata, morto in combattimento contro gli Orfella di Abdenebi Belker, e nipote di Sadun Sceteui, glà comandante della più forte mehalla, ribelle ed ucciso dal nostro piombo nella fatale sanguinosissima battaglia di Bir Tagemur) riteneva, nella sua presuntuosa ignoranza, di essere invincibile e di potere, ancora una volta, metter piede sul suolo di Misurata. Il suo rifiuto, che poteva anche apparire degno d’un combattente, non era, però, onorevole, perché egli patteggiava la resa sulla base di godimenti materiali e sul riconoscimento della sua qualità di capo legittimo degli arabi misuratini.

Questa pretesa segnò la sua sorte e il comandante della zona, fedele alla politica di prestigio instaurata dal Fascismo, nonostante le reiterate sollecitazioni del capo ribelle, che chiedeva di parlamentare su terreno neutro, decise di annientarlo con le armi.

Il ribelle, oltre che di una mehalla di 400 fedeli misuratini, ottimamente equipaggiati ed armati di fucili ’91 con quattro mitragliatrice e quattro cannoni, disponeva anche della popolazione sirtica che poteva mettere in campo altri cinquecento armati. Forza considerevole, che assumeva una particolare importanza, tenuto conto della grande distanza dal teatro di operazioni, del territorio desertico e privo d’acqua e della mobilità del nemico, che avrebbe ostacolato seriamente la nostra lunga marcia con scaramucce ed agguati. Questo stato di cose imponeva la massima ponderazione ed esigeva un dato di assoluta certezza: la vittoria.

Nel 1924 la condotta delle operazioni militari nelle diverse regioni della Tripolitania settentrionale – Misurata, Cesellata, Tarhuma e Gebel – si era affermata con successo, più per l’ardire e lo slancio delle nostre esili colonne, che per la massa degli uomini e dei mezzi che le componevano. Sulla vasta linea d’occupazione manovrata in quel tempo una velatura di nostre truppe sapientemente impiegate dal comando di Tripoli, che aveva saputo imprimere nei quadri e nei gregari un nuovo spirito aggressivo per il quale le operazioni si svolgevano con attacchi a fondo, immediati, e decisivi. Erano stati abbandonati i vecchi concetti di sistemazione a difesa presidiaria e la nostre formazioni mobilissime non avevano ormai che un solo scopo; dare la caccia al nemico, raggiungerlo, annientarlo.

Un nostro insuccesso nella Sirtici, in quelle particolari condizioni, avrebbe certamente compromessa la situazione della zona orientale con grave danno del nostro prestigio. Lo stesso Governatore consigliò di non precipitare gli eventi, poiché il tempo lavorava per noi. Ibrahim Sceteui difettava, infatti, di viveri e di munizioni e se fosse stato possibile isolarlo, traendo nella nostra zona i due capi sirtici Bubrik e Buruela con le loro genti, il suo destino sarebbe stato irrimediabilmente segnato.

L’esito del primo invito, rivolto a costoro in obbedienza alle direttive del Governatore, fu superiore a ogni previsione. I due capi, oppressi e taglieggiati dai balzelli imposti dal prepotente Ibrahim, si dichiararono molto ben disposto a trasferirsi con le rispettive genti nel territorio protetto dalle nostre truppe, purché si fosse dato loro modo di difendersi dalle rappresaglie del ribelle.
Bubrik chiese, quindi,denaro e munizioni.
Qui sorsero nuove incertezze del comandante della zona. Nessuna difficoltà in fatto di denaro; ma in quanto a munizioni, il problema si presentava d’una delicatezza eccezionale. Le nostre munizioni portate a Sirte potevano molto facilmente cadere nelle mani di Ibrahim e risollevarne il morale, la tracotanza e la forza offensiva.

Difficili momenti furono quelli che precedettero le decisioni del comandante della zona, il quale, infine ordinò a un tenente dei carabinieri – l’unico che, del suo prestigio personale e per la sua profonda conoscenza della situazione politica locale, offrisse garanzia di successo – di sbarcare isolatamente a Sirte, abboccarsi con Bubrik, studiare le proposte e gli accordi e rendersi esatto conto delle intenzioni di questo capo, che nel 1915 aveva partecipato alla rivolta degli arabi incorporati nelle nostre colonne dirette al fezzan, frustrando gli scopi della spedizione col massacro di Gasr Bu Hadi, Tristi e dolorosi capitoli, questi, della nostra storia coloniale, che, come vedremo brevemente, furono magnificamente cancellati dall’inestinguibile valore delle nostre truppe.

Il cacciatorpediniere <<Corazziere>> salpò a notte alta da Misurata Marina. Il tenente dei carabinieri aveva al seguito un fedele muntaz ed un amico personale di Bubrik, Mohamed Muntasser.

A velocità massima il caccia filava in pieno assetto di combattimento. Il tenente dei carabinieri, raccolto in un angolo dell’angusto quadrato, era assorto nei suoi pensieri. Mohamed Muntasser insisteva nel ritenere insufficienti le casse di munizioni e le somme di denaro destinate a Bubrik, il muntaz non parlava. All’alba, il caccia rallentò e gettò l’ancora presso Sirte; sull’alta duna si profilava il castello sventrato dalle granate dei nostri cannoni, mentre dal pendio sette armate scendevano verso la spiaggia. Un nostro battello con l’ufficiale dell’Arma , il suo seguito e dodici marinai armati si staccò dal caccia e toccò terra.

Il tenente dei carabinieri e i suoi due compagni furono condotti alla presenza di Bubrik e di Buruella. Dopo un’ora essi tornarono a bordo assieme con i capi, che nel mettere piede sulla nostra nave furono colti un’improvvisa evidentissima preoccupazione: la prigionia. Rassicurati, però, pienamente, promisero di trasferirsi a Misurata con tutte le loro genti, approfittando del prossimo cambiamento dei pascoli. Fu deciso che le munizioni sarebbero state consegnate dopo il concentramento delle popolazioni presso il castello di Sirte e le relative casse non furono, perciò, sbarcate con vivo disappunto del consigliere Mohamed Muntasser e con soddisfazione del fedele muntaz. Il comandante della zona approvò la decisione del tenente.

I giorni intanto passavano in continua attesa e nell’ambiente indigeno di Misurata cominciarono a circolare voci poco favorevoli sulla fedeltà di Bubrik, tanto che il comandante della zona, si decise ad inviargli un ultimatum. Purtroppo, invece, nella Sirtica le cose non andavano bene, Ibrahim Sceteui, subodorato l’accordo, impose a Bubrik di sospendere la trasmigrazione del bestiame, dislocò un reparto armato a Gasr Sultan per far fronte alle provenienze dal mare e circondò di spioni la dimora di Bubrik, tuttavia questi riuscì a comunicare col comandante della zona, dicendosi pronto a sostenere ormai apertamente la lotta contro il capo ribelle, purché gli fossero inviate subito abbondanti cartucce e una nave da guerra bombardasse Gasr Sultan. Di notte e nell’ora convenuta, il caccia, a lumi spenti, si portò nuovamente nelle acque di Sirti. Sceso a terra, il tenente dei carabinieri riuscì a prendere contatto con le sentinelle di Bubrik. Nuovo incontro, nuovo scambio di promesse e di incoraggiamenti. Le casse di cartucce furono sbarcate con un battello che tornò a bordo carico di pecore, gentile dono di Bubrik ai marinai italiani. Prima del commiato, il tenente regalò un moschetto ’91 all’undicenne figlio di Bubrik, Asfar, bel ragazzo, esperto cavaliere, dagli occhi espressivi, dai quali traspariva la gioia di essere in possesso di un’arma che i capi arabi avrebbero pagata un occhio. Il moschetto, infatti, più del fucile, è l’arma di un cavaliere e il capo arabo non può non essere un cavaliere. Asfar, ci rivedremo a Misurata! – disse, accarezzandolo, il tenente.-Naam, ia sidi – rispose il ragazzo assieme col padre.

Più tardi, quando le prime luci dell’alba fecero distinguere gli attendamenti dei ribelli fra le quattro palme di Gasr Suktan, il <<Corazziere>> apri il fuoco dei suoi cannoni. Fu lo scompiglio e la distruzione. Dall’alto del castello di Sirte, Bubrik ascoltava l’incessante rombo delle nostre granate. Anch’egli dovette comprendere quella voce di ammonimento. In giornata diete il via alle sue cabile, ma nella sebca di Sirte, Ibrahim Sceteui, esasperato, piombò sui partenti come un falco sulla preda. La sua ira feroce fu però rintuzzata dall’inaspettata reazione dei sirtici.
Il combattimento si svolse in modo aspro e le perdite furono numerose da ambo le parti. Il consumo di munizioni, che intaccava seriamente le magre riserve, consigliò il ribelle ad abbandonare l’impresa; egli si portò, quindi, a Sirte e la saccheggiò

Dopo pochi giorni, teme di essere investito dalle nostre truppe – sia dal mare che per vie interne – Ibrahim Sceteui abbandonò la costa e trasferì il campo a Gasr Buhadi, a 18 km. a sud di sirte, ove le ossa dei nostri morti e i resti dei nostri autocarri stavano ancora a testimoniare il tradimento di cui si macchiò nel 1915 Ramadam Sceteui. Ma il destino faceva sì che in quella stessa località gli spiriti eletti dei nostri eroi, trucidati o bruciati vivi dalla ferocia del Capo di Misurata, dovessero assistere fra poco, dopo 9 anni di attesa. Al trionfo del tricolore e al compimento della nemesi.

A Misurata, Bubhik ricevuto amabilmente dalle autorità, fu senz’altro immesso nel godimento delle vaste proprietà della famiglia Sceteui, mentre il colonnello comandante della zona iniziava sen’altro il suo piano di operazione.

Le truppe necessarie erano sotto mano. Si trattava, però, di organizzare una carovana di mille cammelli per poter far fronte a tutte le esigenze logistiche. I militari, sui quali il comandante della zona faceva assegnamento, requisirono, superando difficoltà enormi, i mille cammelli in tempo relativamente breve e prima ancora che scadesse il termine previsto.

Ai primi di novembre del 1924, le truppe e i servizi si concentrarono a Tauorga.

Fra Misurata e Sirte, il vuoto era assoluto.

Ibrahim Sceteui nella conca di Gasr Bu Hadi vivacchia, rassicurato dalle notizie tranquillizzanti che giornalmente riceveva dal capo Alì Mangusc, comandante dei 40 uomini lasciati a presidio del castello di Sirte.

Da Tauorga, dopo breve organizzazione, la colonna, in completo assetto di guerra, iniziò la marcia su Sirte a tappe di 40 chilometri al giorno. Facevano parte del comando della colonna un plotone di 30 militari a cavallo con tre ufficiali: un capitano, un tenente destinato alla costituenda tendenza di Sirte e un tenente con funzioni politiche, lo stesso che aveva condotto felicemente le trattative con Bubrik. Durante la lunga, difficile marcia i militari furono instancabili nel disimpegnare dei faticosi servizi di esplorazione e nelle ricerca delle spie dei ribelli, percorrendo vasti itinerari ed informando, per mezzo di opportuni collegamenti, il comandante della colonna, d’ogni novità. La sorpresa, mediante la quale fu possibile coronare di successo la brillante operazione di grande polizia conclusasi a Gasr Bu Hadi, devesi in gran parte, come fu affermato dal comandante della colonna, ai servizi di sicurezza e alle precise informazioni attinte dall’Arma con cura meticolosa e con interessamento spinto fino al sacrificio. Il mal tempo e le forti piogge ostacolarono la speditezza della marcia e reso più duro il lungo cammino attraverso le secche, tramutatesi in laghi, e lungo i costoni rocciosi del terreno collinoso.

L’ultima tappa fu la più lunga. A sera la colonna si accampò a pochi chilometri da Sirte, in prossimità della spiaggia ed a ridosso di un alto costone che serviva da paravento. Alla sommità i militari trascorsero la notte in osservazione e riuscirono a catturare due spioni nell’atto in cui fuggivano verso Sirti. Di buon’ora, un uragano con turbini impetuosi svelse le tende dell’accampamento, come per affrettare la partenza.
Con largo movimento, la colonna, disposta a semicerchio, si strinse attorno a Sirte, mentre a nord il mare tempestoso, da buon alleato, buttava in secca le poche barche pescherecce, precludendo al nemico ogni via di scampo.

Il comandante della colonna, a cavallo di un bel grigio, osservava col suo binocolo i movimento delle compagnie ormai serrate attorno alla collina.

Con improvvisa decisione, chiamò a sé i tre ufficiali. <<A loro- disse- e ai trenta cavalieri, l’onore di occupare la città di Sirte!>>. Nell’animo degli ufficiali passò un brivido di orgogliosa fierezza, e nel loro sguardo balenò un lampo di gioia per cosi ambito privilegio.

Serrati come un blocco granitico, al grido di <<Savoia!>> (no, Fascismo! o Mussolini!) scattarono in testa i cavalieri, con un impeto travolgente. I cavalli arabi, nella corsa vertiginosa, rispondevano coi loro nitriti alle grida d’assalto degli zaptiè sciabolatori. Il colonnello, ritto a cavallo, seguiva con attenzione quel pugno di fedelissimi, che, superato d’un balzo il pendio della collina, scomparvero nelle viuzze tortuose dell’abitato. Nella piazza del castello circa cento arabi si dispongono alla difesa, quando i nostri irrompono a frotte. Gli ufficiali aprono il fuoco con le pistole, spingendo i cavalli sul nemico, i cavalieri si gettano anch’essi sui ribelli e li scompigliano, la reazione di alcuni gendarmi dagli spalti del castello viene subito annientata.

Quando il colonnello giunge nella piazza di Sirte, tutti i ribelli sono già stati perquisiti e disarmati: Sirti, in meno di un’ora è in nostro pieno e sicuro possesso.

A rapporto, il colonnello ha brevi parole di elogio per gli ufficiali; quindi, rivoltosi al suo aiutante di campo, prescrive di preparare l’ordine di marcia su Gasr Bu hadi. Lasciato a presidio di Sirte un esiguo reparto, il grosso della colonna alle ore 14 precise inizia il movimento su Gasr Bu Hadi.

I 18 chilometri di distanza potevano essere percorsi in tre ore. Ma la necessità di giungere al campo nemico di sorpresa costrinse la colonna a marciare con molta cautela per non farsi avvistare dalle vendette nemiche, le quali avrebbero dato l’allarme e reso impossibile l’annientamento della mehalla. A sera fu dato ordine alle compagnie di stringere gli interventi e di regolare la marcia sull’unica lanterna rossa, che uno zapitè del comando portava a cavallo in cima ad un palo.

La densa oscurità della notte rendeva faticosa la scalata al castello di Gasr bu hadi, posto su una collina impervia cosparsa di buche e di cespugli spinosi. Inciampando e annaspando, uomini e quadrupedi giunsero finalmente sui ruderi del vecchio castello, da cui si vedeva il sottostante campo nemico, illuminato da centinaia di fuochi.
Era l’ora del pasto, il colonnello osservò lo spettacolo e senza indugio ordinò l’immediato accerchiamento e attacco. Lo squadrone savari e i trenta militari furono i primi a lanciarsi contro il nemico e ad aprire il fuoco. La sorpresa riuscì in pieno; le nostre compagnie eritree, invaso il campo, determinarono lo scompiglio e il massacro.

L’alba irradiò di luce la nostra bandiera nel fascino della vittoria. Tutto cadde nelle nostre mani: tende, depositi, armi e munizioni. Ibrahim Sceteui, seminudo, montò a pelo sul primo quadrupede a portata di mano e riuscì a fuggire assieme a pochi superstiti. Dopo lungo viaggio, giunse a Honn nel Fezzan, ove si affidò alla protezione dei fratelli Sef el Nasser, dai quali fu trucidato poco dopo per insanabili rancori personali.

I ribelli fuggiaschi intanto si dirigevano a frotte verso la costa, costituendosi ai presidi marginali, mentre sulla via del ritorno la colonna sostava nello stesso luogo ove i nostri avevano subito il massacro del 1915. Il colonnello, con parole ispirate a nobiltà di sentire e a virilità di propositi, placò gli spiriti dei nostri morti, esaltando il valore delle nostre armi e le immancabili fortune della Patria. Qualche giorno dopo sulla piazza di Sirte tutte le truppe in armi furono disposte in quadrato. Le due batterie scoda e le quattro mitragliatrici catturate al nemico furono disposte con le bocche rivolte al mare e al deserto. Il colonnello dette il present’arm e nell’immobilità di quel silenzio, comandò l’alzabandiera. I cannoni e le mitragliatrice tolte ai ribelli salutarono con le loro salve il tricolore, che lentamente saliva sull’alta antenna del castello, dispiegandosi verso oriente.

Con affianco due interpreti, l’uno arabo, l’altro eritreo, il colonnello, con parole infiammate di orgoglio e di fierezza, dette alle truppe atto solenne della brillante vittoria, che assicurava alla Patria il definitivo possesso di tutta La Libia settentrionale. Con accento affettuoso e commosso ringraziò, poi, tutti gli ufficiali a rapporto ai cui disse: <<Siete elementi preziosi ed insostituibili. Ammiro le vostre virtù militari, il vostro spirito di sacrificio, la vostra modestia, il vostro sentimento di dedizione al dovere e lo sprezzo del pericolo. Siete dei valorosi, degni emuli del Risorgimento. <<Portare nel cuore il ricordo di avere occupato Sirte>>.
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