Critica Fascista

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Messaggio  Admin Mer 07 Dic 2011, 00:19

Critica Fascista Liber250

La falsa “democrazia” si è inventata l’apologia del Fascismo per impedire al Popolo italiano di conoscere i progetti che ha realizzato o si proponeva di realizzare.

Senza alcuna pretesa di eroismo, ci accingiamo ad illustrare in una sequela le ragioni e le azioni per le quali il Fascismo si può obbiettivamente considerate, ormai, come un elemento di stabilizzazione della vita politica italiana, pur subendo l’ostracismo delle nazioni che insieme erano uscite vittoriose dalla prima guerra mondiale.

Liberapresenza, intende promuovere la democrazia partecipativa fra i fascisti italiani, considerando il Fascismo autoritario come un fenomeno transitorio, prodotto dal minaccioso comportamento del bolscevismo dei social-comunisti, che hanno avvolto la nazione nel  marasma politico del dopo guerra.

Il fallimento di una previsione pessimistica

Al Fascismo veniva  attribuivano un ruolo di insurrezione passeggera di spiriti oppressi e di interessi colpiti, movimento che – a proposito di certe suggestive manifestazioni – appariva come un autentico relitto di guerra. Di conseguenza la previsione più accreditata era che i fascisti, esaurita la loro funzione (che potremmo chiamare di moralizzazione della nazione) sarebbero stati costretti a smobilitare, ritornando, i suoi elementi politici e dirigenti, a ricostruire una frazione di minoranza, alla quale fosse assegnato il solito compito del controllo e della critica.

Evidentemente, per abbandonarsi ad un’ipotesi del genere bisognava non avere afferrate le linee più ampie della rivoluzione fascista – perché di rivoluzione si tratto realmente – e le sue cause più intime e più profonde.
I politici acuti, si sono sempre ben guardati dal considerare il Fascismo con la superficialità scema ed acre, al contrario degli angusti uomini del socialismo parlamentare, e i pochi scrittori che si sono sempre sforzati di denigrarne la portata  – anche quando ogni approssimativa valutazione dei vari aspetti del fenomeno appariva azzardata ai nostri stessi leaders più riconosciuti -, i quali  hanno saputo sempre far prevalere la loro qualità di studio e di osservatore sulle passioni di uomini di parte.
Si può dire che abbiano per loro conto composto letture giornalistiche sul Fascismo, attraverso le quali esso appare come un movimento sempre embrionale, ma confortato da sintomi di resistenza e di sviluppo.
Ma, all’infuori da qualche solitario, il grosso del pubblico politico – sia per ragioni soggettive, sia proprio per un esame affrettato – era indotto ad abbandonarsi a pronostici poco confortanti per il Fascismo. Da un pò di tempo, però il coro dei salmodianti intorno al Fascismo si  era fatto più fioco e più lento.
Si cominciava a far strada nella mente dei suoi moltissimi nemici e dei molti cerberi osservatori la crucciante convinzione che il Fascismo ogni giorno si inseriva sempre più profondamente in tutti i campi dell’attività nazionale; sicché i più tenaci suoi dispregiatori, ormai, ridotti a profetare, non già la sua scomparsa, ma più prudentemente la sua decadenza.
Ma la attenta previsione non attribuisce però questa crisi di arresto alla preponderanza di elementi avversi, ma piuttosto alla virtù di intime discordie. Sarebbe di già questo un successo deciso per un partito o un movimento che, dopo aver debellato e spezzato il cerchio dei suoi nemici togliendo loro ogni diretta capacità offensiva, poteva prendersi il lusso di un maggiore controllo interiore e di un più rigoroso processo di eliminazione.

A proposito dell’assenza di una filosofia Fascista

Le più sostanziali critiche al Fascismo sono due:
1. che esso mancava di una sua propria dottrina;
2. che esso era pura milizia al servizio di caste conservatrici, insorte in un tentativo di reazione a fondo economico.
Il primo rilievo convalida la previsione della transitorietà del movimento Fascista, mentre il secondo adombra l’ipotesi di una riscossa di tutte le tendenze e forze “democratiche”, destinate ad  arrestare, isolare e domare la controffensiva antisocialista.

La prima obbiezione parte genericamente da coloro i quali appartengono ai partiti tradizionali e che più sono oppressi da complicati e venerabili formulari filosofici, ma che in tanti anni di loro melanconico sciorinamento, non hanno mai saputo avvivarli alle fonti dell’applicazione e dell’attualità.
Si tratta di adoratori  di dottrine troppo estraniate ed avulse dalle correnti della vita. Intorno ad esse possono, in atto di contrita adorazione, immobilizzarsi, estasiati, dei sognatori; ma i temperamenti volitivi, i viandanti infaticati non possono indugiarsi molto; è destino che passino oltre, anche se qualche volta, nel loro corso verso l’avvenire tormentoso si soffermano cercando di trarre ispirazione ed ammonimento da quanto additato dai maestri.
E’ naturale che in prima linea a rimproverarci l’assenza di una dottrina siano alcuni soggetti del socialismo; l’esaltazione dell’ordine  e della nazione italiana, che costituisce la base etica del Fascismo, non ha nessun preciso significato, e se lo ha, è puramente negativo perché condivisa da altri partiti politici.
Effettivamente tutti i partiti – salvo quello socialista, comunista ed anarchico - non astraggono mai nelle loro manifestazioni di pensiero il concetto della nazione. Si tratta di vedere ora se questo concetto deve essere solo un complemento verboso, oppure la preoccupazione costante, il proposito unico, l’obiettivo dominante di tutta un’azione complessa di tutte le classi e di tutte le regioni del Paese.
Indubbiamente, anche, il partito repubblicano non negava la Patria. Il suo maggiore orgoglio, il suo più ambito titolo d’onore, anzi, era quello di avere dato sempre alla causa d’Italia luce e fervore.

Chiudendo la rapida parentesi polemica e riprendendo l’esame obbiettivo degli altri giudizi, osserviamo che l’opera del partito repubblicano, o meglio le sue aspirazioni si assommano in una visione più classica e quindi ineluttabilmente meno nostra e meno italiana, ne viene di conseguenza che il presupposto nazionale dei repubblicani è meno profondo di quello dei Fascisti i quali, invece, riassumano tutto nella nazione e alle sue fortune volendo sottomesse tutte le attività presenti e future, personali e collettive, spirituali ed economiche di tutti i cittadini di tutte le classi e di tutte le tendenze.

La dottrina della realtà

La nazione è in sostanza il nuovo mito e l’unico dogma per i fascisti.
Fra tante astruserie pseudo positivistiche, fra tanti fallaci esperimenti materialistici, fra tanti fallimenti pacifistici, abbiamo ragione di credere che il terreno che il Fascismo ha scelto per la sua lotta sia il più solido e il più proficuo, poiché è fecondo dalle linfe purissime di un’idea rivelatasi veramente viva ed immortale: la Patria.
Troppo poco, bofonchiano gli spiriti prevalentemente libreschi … abbastanza, rispondiamo noi, per essere sicuri di non fabbricare sull’arena e di non creare altre artificiose costruzioni filosofiche.
In ogni modo il Fascismo non disdegna né relega quanto di vivo e di pratico contiene l’altrui dottrina; assimila,  contempera, armonizza quanto, giorno per giorno, la opportunità richiede e la realtà consente, sempre ai fini basilari dell’interesse e dello sviluppo della Nazione.
Il Fascismo ha, in sostanza, capovolto uno schema della politica tradizionale; non è più la dottrina che guida od imprigiona un movimento, ma è il momento che produce ed anima la dottrina, non più arida raccolta di previsioni fatalistiche, di giudizi stantii, di teorie bislacche, ma solo agile ed organica consacrazione di avvenimenti contingenti.
I giudizi sbrigativi sul Fascismo; naturalmente sono emessi con la solita acidità e con il solito stucchevole spirito. Gli antifascisti, in un movimento, che da due anni domina nettamente tutto il paese e ogni giorno di più accenna a completarsi e ad intensificarsi, <>.
Anche ammesso che il Fascismo significhi e sia solo un prodotto di violenza, viene di domandarsi se un tale fenomeno – quando diventa normale cronaca – non sia già qualcosa. L’accusa è una riprova di quanto siano torpidi e stanchi certi temperamenti che invece si ritengono agili e spregiudicati.

I nemici dell’interventismo rivoluzionario

Siffatta leggerezza di giudizio è comune, in genere, a parecchi ex interventisti di origine sovversiva, i quali considerano un gesto di fedeltà e di coerenza quella che è invece una  prova di cecità e d’incomprensione dei fenomeni politici , secondo molti, gli interventi rivoluzionari avrebbero dovuto imporsi ed esaltare tutti i principi di ordine, di disciplina, di patria, di gerarchia, ecc, salvo poi, ad armistizio firmato, dare un calcio a tutta questa roba.
Questi sono veramente i relitti di demagogia!... fra le due mentalità, quella sorta dai clamori mitigati e quella forgiata nel fango delle trincee, era naturale che nel nostro campo avesse il sopravvento la seconda.
Costoro ci rimproverano di essere venuti meno alle promesse rivoluzionarie del nostro interventismo, perché finita la guerra non abbiamo fatto la rivoluzione a base repubblicana. In primo luogo essi dimenticano che quel nostro interventismo, oltre un diffuso carattere rivoluzionario, aveva indubbiamente una sostanza nazionale; anzi era questa la molla che aveva scompaginato le nostre concezioni antipatriottiche ed internazionalistiche. Vedremo poi per forza di quali interiori eventi e di quali riflessioni questo elemento sia riuscito a campeggiare, signore, nel nostro spirito.
Limitando per ora l’indagine all’immediato dopo guerra, conviene ricordare in quali condizioni morali fosse caduta l’Italia all’indomani dell’armistizio. Inutile soffermarci a riesumare episodi particolari: basterà solo dire che le correnti neutraliste e disfattiste, principalmente quelle che facevano capo al partito socialista, straripavano in tutta la penisola e non proprio dirette verso un obbiettivo di rinnovamento politico e sociale, ma scagliate esclusivamente contro la vittoria della Patria e specificatamente contro i suoi più ardenti fautori. Non era lecito perciò sperare che, di fronte a tali intenzioni nemiche, gli interventisti tradissero le ragioni della guerra e della vittoria per solidarizzare e coalizzarsi, invece, con i negatori e gli spregiatori di esse. Nemmeno i più zelanti e più impazienti maddalena pentiti hanno osato sostenere questa aberrazione; anche perché la loro buona disposizione ad un embrassons nous generale, urtava con i propositi saturi di rancore e di disprezzo dei socialisti. Le pecorelle smarrite si sono perciò dovute contentare di recitare il mea culpa e di leccare le zampe agli avversari non ritraendosi nemmeno quando. In cambio, ricevevano pedate.
C’è stato qualcuno, più sensibile agli imperativi del decoro, che ha prospettata la possibilità di un movimento rivoluzionario ristretto ai partiti nazionali. Ma questo sogno è stato infranto dalla dimostrazione che le ridotte frazioni dell’interventismo – anche se fossero riuscite a rovesciare con un colpo d’audacia la monarchia – sarebbero state sommerse in un secondo tempo dalle forze antinazionali le quali, rotte le dighe dell’autorità e dell’ordine e facendo leva sulle vaste e pesanti riserve operaie, avrebbero, senza sforzo e senza soverchio sacrificio, ereditata la nostra repubblica nazionale per erigere sulle sue rovine un regime a fondo bolscevico.
A parte le difficoltà pratiche di sostenere anche in un primo tempo un duello in tre, potevamo noi gettare nello sfacelo l’Italia che avevamo invece voluto sospingere alla guerra per conferirle maggior gloria? Fu dunque, giocoforza resistere nella difesa della nuova ideologia e continuare a battersi  per essa.

Le nostre nuove posizioni mentali

Non ubbidiremmo alle esigenze del nostro temperamento schietto se non confessassimo che la guerra ha eretto nel nostro spirito nuove posizioni mentali, capovolgendo o modificando sostanzialmente quelle entro cui avevamo vissuto la nostra prima giovinezza politica.
Noi – e quando dico noi parlo dei sindacalisti rivoluzionari – crediamo che il proletariato fosse migliore della borghesia e fosse degno della sua successione. Era, invece, un’illusione, frutto di una fede non ancora provata in nessuna giornata di sangue, frutto di una dottrina non maturata dai fatti, ma accampata sulle nubi dell’astrattismo  teorico.
Dopo pochi mesi di guerra, durante i quali abbiamo potuto apprezzare innumerevoli ignorati gesti eroici compiuti dai diffamati figli della borghesia, mentre il grosso del proletariato dava alla guerra il corpo e non l’anima (un fenomeno di viltà che di per sé esclude ogni speranza di ardimento rivoluzionario futuro ed ogni diritto di dominio) – ci siamo accorti che la nostra fede classista vacillava e che il proletariato poteva essere, si una parte – cospicua ed indispensabile quanto si vuole – della collettività, ma che per ora non aveva nessun requisito morale superiore alla borghesia, mentre scarsissime erano le sue capacità tecniche.
Queste riflessioni producevano la prima falla nel vascello del nostro credo carico di dogmi e di pregiudizi; ad affondarlo completamente è sopravvenuta la rivoluzione russa.
Essa dimostra in maniera lampante ed inequivocabile due cose:
1. che la civiltà borghese è in piena efficienza;
2. che il regime cosiddetto proletario è particolarmente burocratico, tirannico, accentratore, appunto perché – essendo le masse incapaci di governare le masse – esso viene affidato sempre a ristretti gruppi di borghesi chiamati a formare le nuove caste politiche.

La nostra rivoluzione in potenza

Al cospetto di questi due avvenimenti, la guerra e la rivoluzione russa – due fatti storici, non dunque vane elucubrazioni filosofiche – il Fascismo e per esso i vecchi interventi rivoluzionari si sono accinti a fare la loro rivoluzione. Già; perché gli uomini riformisti o repubblicani, che ci fanno il viso delle armi perché abbiamo ignorato quelle certe famose premesse, non si accorgono che in Italia si è fatta una vera rivoluzione, una rivoluzione a cui manca una consacrazione ufficiale, un crisma esteriore, ma che per questo non è meno vera, sostanziale e profonda.
Con la resistenza e la controffensiva Fascista abbiamo ottenuto questi risultati:
1. Si è data un’altra anima alla nazione;
2. Si è respinto il pericolo bolscevico;
3. Si sta creando un’altra generazione;
4. Si è domato il partito socialista (il partito più antinazionale fra tutti i partiti socialisti del mondo;
5. Si stanno armonizzando in guerra contro lavoro con quelli della produzione;
6. Si stanno muovendo in guerra contro le fisime democratiche, livellatrici e collettivistiche;
7 Si sta, infine, ripristinando in tutti i campi il principio dell’autorità… c’è qualcosa di più la rivoluzione italiana ha caratteri nuovi ed impreveduti ed è sfociata in una direzione diversa da quella prevista.
Invece di una rivoluzione di masse e fatta a beneficio delle sole masse, forti solo del numero, di una rivoluzione democratica, egualitaria e plebea a base internazionalista è stata una rivoluzione, non solo animata, ma anche fatta di minoranze, una rivoluzione di ceti giovani e degni, a favore della prosperità di tutte le classi e a fondo esclusivamente italiano. Anche in queste occasione il Fascismo ha operato un capovolgimento di consuetudini e di rapporti.
Fra gli scrittori di parte avversaria che si sono occupati del Fascismo in speciali studi. Un saggio ha dimostrato che, sia pure senza accorgersene, l’Italia ha già avuto la sua rivoluzione. La definisce <>, per un superstite attaccamento al monopolio della parola rivoluzione, ma in effetti, avendo essa spostato le linee normali e generali della vita politica nazionale, ed accennando ora a stabilire una modificazione sostanziale dei rapporti economici nel campo agricolo, è stata una autentica rivoluzione intesa nel suo significato universale.

Il fascismo fenomeno di volontà

La pubblicazione del  saggio ha un altro merito, quello di rilevare il fattore dominante nel movimento Fascista: la volontà. Poiché in proposito il giudizio di un avversario – un noto anarchico militante – assume un tono aperto di rivendicazione, crediamo opportuno riportare il brano più significativo:
<<<<<>.
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