I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
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I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Anno - 1919
A seguire lo storico discorso di Benito MUSSOLINI, che segna l’atto di nascita del Movimento Fascista.
Fu pronunciato, nell’adunata di Piazza San Sepolcro, il 23 marzo 1919.
Prima di tutto, alcune parole circa l’ordine dei lavori. Senza troppe formalità o pedanterie vi leggerò tre dichiarazioni che mi sembrano degne di discussione e di voto. Poi, nel pomeriggio, riprenderemo la discussione sulla nostra dichiarazione programmatica.
Vi dico subito che non possiamo scendere ai dettagli. Volendo agire prendiamo la realtà nelle sue grandi linee, senza seguirla minutamente nei suoi particolari.
Prima dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo rivolge il suo primo saluto e il suo memore e reverente pensiero ai figli d'Italia che sono caduti per la grandezza della Patria e per la libertà del mondo, ai mutilati e invalidi, a tutti i combattenti, agli ex-prigionieri che compirono il loro dovere, e si dichiara pronta a sostenere energicamente le rivendicazioni d'ordine materiale e morale che saranno propugnate dalle associazioni dei combattenti.
Siccome noi non vogliamo fondare un partito dei combattenti, poiché un qualche cosa di simile si sta già formando in varie città d'Italia, non possiamo precisare il programma di queste rivendicazioni. Lo preciseranno gli interessati. Dichiariamo che lo appoggeremo. Noi non vogliamo separare i morti, né frugare loro nelle tasche per vedere quale tessera portassero: lasciamo questa immonda bisogna ai socialisti ufficiali.
Noi comprenderemo in un unico pensiero di amore tutti i morti, dal generale all'ultimo fante, dall'intelligentissimo a coloro che erano incolti ed ignoranti. Ma voi mi permetterete di ricordare con predilezione, se non con privilegio, i nostri morti, coloro che sono stati con noi nel maggio glorioso: i Corridoni, i Reguzzoni; i Vidali, i Deffenu, il nostro Serrani, questa gioventú meravigliosa che è andata al fronte e che là è rimasta. Certo, quando oggi si parla di grandezza della patria e di libertà del mondo, ci può essere qualcuno che affacci il ghigno e il sorriso ironico, poiché ora è di moda fare il processo alla guerra: ebbene la guerra si accetta in blocco o si respinge in blocco. Se questo processo deve essere eseguito, saremo noi che lo faremo e non gli altri. E volendo del resto esaminare la situazione nei suoi elementi di fatto, noi diciamo subito che l'attivo e il passivo di un'impresa così grandiosa non può essere stabilito con le norme della regolarità contabile: non si può mettere da una parte il quantum di fatto e di non fatto: ma bisogna tener conto dell'elemento "qualitativo". Da questo punto di vista noi possiamo affermare con piena sicurezza che la Patria oggi è píú grande: non solo perché giunge al Brennero - dove giunge Ergisto Bezzi, cui rivolgo il saluto - non solo perché va alla Dalmazia. Ma è più grande l'Italia anche se le piccole anime tentano un loro piccolo giuoco; è più grande perché noi ci sentiamo più grandi in quanto abbiamo l'esperienza di questa guerra, inquantoché noi l'abbiamo voluta, non c'è stata imposta, e potevamo evitarla. Se noi abbiamo scelto questa strada è segno che ci sono nella nostra storia, nel nostro sangue, degli elementi e dei fermenti di grandezza, poiché se ciò non fosse noi oggi saremmo l'ultimo popolo del mondo. La guerra ha dato ciò che noi chiedevamo: ha dato i suoi vantaggi negativi e positivi: negativi in quanto ha impedito alle case degli Hohenzollern, degli Absburgo e degli altri di dominare il mondo, e questo è un risultato che sta davanti agli occhi di tutti e basta a giustificare la guerra. Ha dato anche i suoi risultati positivi poiché in nessuna nazione vittoriosa si vede il trionfo della reazione. In tutte si marcia verso la più grande democrazia politica ed economica. La guerra ha dato, malgrado certi dettagli che possono urtare gli elementi più o meno intelligenti, tutto quello che chiedevamo.
E perché parliamo anche degli ex-prigionieri- È una questione scottante. Evidentemente ci sono stati di quelli che si sono arresi, ma quelli si chiamano disertori: d'altra parte in quella massa c'è la grande maggioranza che è caduta prigioniera dopo aver fatto il suo dovere, dopo aver, combattuto: se così non fosse potremmo cominciare a bollare Cesare Battisti e molti valorosi e brillanti ufficiali e soldati che hanno avuto la disgrazia di cadere nelle mani del nemico.
Seconda dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo dichiara di opporsi all'imperialismo degli altri popoli a danno dell'Italia e all'eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli; accetta il postulato supremo della Società delle Nazioni che presuppone l'integrazione di ognuna di esse, integrazione che per quanto riguarda l'Italia deve realizzarsi sulle Alpi e sull'Adriatico con la rivendicazione e annessione di Fiume e della Dalmazia.
Abbiamo quaranta milioni di abitanti su una superficie di 287 mila chilometri quadrati separati dagli Appennini che riducono ancora di più la disponibilità del nostro territorio lavorativo: saremo fra dieci o venti anni sessanta milioni ed abbiamo appena un milione e mezzo di chilometri quadrati di colonia, in gran parte sabbiosi, verso i quali certamente non potremo mai dirigere il più della nostra popolazione. Me se ci guardiamo attorno vediamo l'Inghilterra che con quarantasette milioni di abitanti ha un impero coloniale di 55 milioni di chilometri quadrati e la Francia che con una popolazione di trentotto milioni di abitanti ha un impero coloniale di 15 milioni di chilometri quadrati. E vi potrei dimostrare con le cifre alla mano che tutte le nazioni del mondo, non esclusi il Portogallo, l'Olanda e il Belgio, hanno tutte quante un impero coloniale al quale tengono e che non sono affatto disposte a mollare in base a tutte le ideologie che possono venire da oltre oceano.
Lloyd George parla apertamente di impero inglese. L'imperialismo è il fondamento della vita per ogni popolo che tende ad espandersi economicamente e spiritualmente. Quello che distingue gli imperialismi sono i mezzi. Ora i mezzi che potremo scegliere e sceglieremo non saranno mai mezzi di penetrazione barbarica, come quelli adottati dai tedeschi. E diciamo: o tutti idealisti o nessuno. Si faccia il proprio interesse. Non si comprende che si predichi l'idealismo da parte di coloro che stanno bene a coloro che soffrono, poiché ciò sarebbe molto facile. Noi vogliamo il nostro posto nel mondo poiché ne abbiamo il diritto.
Riaffermo qui in questo ordine del giorno, il "postulato societario della Società delle Nazioni". È nostro in fin dei conti, ma intendiamoci: se la Società delle Nazioni deve essere una solenne "fregata" da parte delle nazioni ricche contro le nazioni proletarie per fissare ed eternare quelle che possono essere le condizioni attuali dell'equilibrio mondiale, guardiamoci bene negli occhi. Io comprendo perfettamente che le nazioni arrivate possano stabilire questi premi d'assicurazione della loro opulenza e posizione attuale di dominio. Ma questo non è idealismo; è tornaconto e interesse.
Terza dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo impegna i fascisti a sabotare con tutti i mezzi le candidature dei neutralisti di tutti i Partiti.
Voi vedete che io passo da un punto ad un altro, ma in tutto ciò c'è logica, c'è un filo. Io non sono un entusiasta delle battaglie schedaiole, tanto è vero che da tempo ho abolito le cronache del "Camerone" e nessuno se ne è doluto: anzi il mio esempio aveva consigliato altri giornali a ridurre questa cronaca scandalosa fino ai limiti dello strettamente necessario. In ogni modo è evidente che entro quest'anno ci saranno le elezioni. Non si conosce ancora la data né il sistema che sarà seguito, ma dentro l'anno ci saranno queste battaglie elettorali e cartacee.
Ora, si voglia o non si voglia, in queste elezioni si farà il processo alla guerra, cioè il "fatto guerra" essendo stato il fatto dominante della nostra vita nazionale, è chiaro che non si potrà evitare di parlare di guerra.
Ora noi accetteremo la battaglia precisamente sul fatto guerra, poiché non solo non siamo pentiti di quello che abbiamo fatto, ma andiamo più in là: e con quel coraggio che è frutto del nostro individualismo, diciamo che se in Italia si ripetesse una condizione di cose simile a quella del 1915, noi ritorneremmo a invocare la guerra come nel 1915.
Ora è molto triste il pensare che ci siano stati degli interventisti che hanno defezionato in questi ultimi tempi. Sono stati pochi e per motivi non sempre politici. C'è stato il trapasso originato da ragioni di indole politica che non voglio discutere, ma c'è stata la defezione originata dalla paura fisica. Per quietare la belva molliamo la Dalmazia, rinunciamo a qualche cosa. Ma il calcolo è pietosamente fallito. Noi, non solo non ci metteremo su quel terreno politico, ma non avremo nemmeno quella paura fisica che è semplicemente grottesca. Ogni vita vale un'altra vita, ogni sangue vale un altro sangue, ogni barricata un'altra barricata. Se ci sarà da lottare impegneremo anche la lotta delle elezioni. Ci sono stati neutralisti fra i socialisti ufficiali e fra i repubblicani. Anche i cosiddetti cattolici del Partito italiano cercano di rimettersi in carreggiata per far dimenticare la loro opera mostruosa che va dal convegno di Udine al grido nefando uscito dal Vaticano. Tutto ciò non è stato soltanto un delitto contro la Patria ma si è tradotto in un di piú di sangue versato, di mutilati e di feriti. Noi andremo a vedere i passaporti di tutta questa gente: tanto dei neutralisti arrabbiati come di coloro che hanno accettato la guerra come una corvée penosa; andremo nei loro comizi, porteremo dei candidati e troveremo tutti i mezzi per sabotarli.
Noi non abbiamo bisogno di metterci programmaticamente sul terreno della rivoluzione perché, in senso storico, ci siamo dal 1915. Non è necessario prospettare un programma troppo analitico, ma possiamo affermare che il bolscevismo non ci spaventerebbe se ci dimostrasse che esso garantisce la grandezza di un popolo e che il suo regime sia migliore degli altri.
È ormai dimostrato irrefutabilmente che il bolscevismo ha rovinato la vita economica della Russia. Laggiù, l'attività economica, dall'agricoltura all'industria, è totalmente paralizzata. Regna la carestia e la fame. Non solo, ma il bolscevismo è un fenomeno tipicamente russo. Le nostre civiltà occidentali, a cominciare da quella tedesca, sono refrattarie.
Noi dichiariamo guerra al socialismo, non perché socialista, ma perché è stato contrario alla nazione. Su quello che è il socialismo, il suo programma e la sua tattica, ciascuno può discutere, ma il Partito Socialista Ufficiale Italiano è stato nettamente reazionario, assolutamente conservatore, e se fosse trionfata la sua tesi non vi sarebbe oggi per noi possibilità di vita nel mondo. Non è il Partito Socialista quello che può mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di ricostruzione. Siamo noi, che facendo il processo alla vita politica di questi ultimi anni, dobbiamo inchiodare alla sua responsabilità il Partito Socialista Ufficiale.
E' fatale che le maggioranze siano statiche, mentre le minoranze sono dinamiche. Noi vogliamo essere una minoranza attiva, vogliamo scindere il Partito Socialista Ufficiale dal proletariato, ma se la borghesia crede di trovare in noi dei parafulmini, s'inganna. Noi dobbiamo andare incontro al lavoro. Già al tempo dell'armistizio io scrissi che bisognava andare incontro al lavoro per chi ritornava dalle trincee, perché sarebbe odioso e bolscevico negare il riconoscimento dei diritti di chi ha fatto la guerra. Bisogna perciò accettare i postulati delle classi lavoratrici: vogliono le otto ore? Domani i minatori e gli operai che lavorano di notte imporranno le sei ore? Le pensioni per l'invalidità e la vecchiaia? Il controllo sulle industrie? Noi appoggeremo queste richieste, anche perché vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva delle aziende, anche per convincere gli operai che non è facile mandare avanti un'industria e un commercio.
Questi sono i nostri postulati, nostri per le ragioni che ho detto innanzi e perché nella storia ci sono cicli fatali per cui tutto si rinnova, tutto si trasforma. Se la dottrina sindacalista ritiene che dalle masse si possano trarre gli uomini direttivi necessari e capaci di assumere la direzione del lavoro, noi non potremo metterci di traverso, specie se questo movimento tenga conto di due realtà: la realtà della produzione e quella della nazione.
Per quello che riguarda la democrazia economica, noi ci mettiamo sul terreno del sindacalismo nazionale e contro l'ingerenza dello Stato, quando questo vorrebbe assassinare il processo di creazione della ricchezza.
Combatteremo il retrogradismo tecnico e spirituale. Ci sono industriali che non si rinnovano dal punto di vista tecnico e dal punto di vista morale. Se essi non troveranno la virtù di trasformarsi, saranno travolti, ma noi dobbiamo dire alla classe operaia che altro è demolire, altro è costruire, che la distruzione può essere opera di un'ora, mentre la creazione è opera di anni o di secoli.
Democrazia economica, questa è la nostra divisa. E veniamo alla democrazia politica.
Io ho l'impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. C'è una crisi che balza agli occhi di tutti. Abbiamo sentito tutti durante la guerra l'insufficienza della gente che ci governa e sappiamo che si è vinto per le sole virtù del popolo italiano, non già per l'intelligenza e la capacità dei dirigenti.
Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci: questi organi di creazione e agitazione capaci di scendere in piazza a gridare: "Siamo noi che abbiamo diritto alla successione perché fummo noi che spingemmo il paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria!".
Dal punto di vista politico abbiamo nel nostro programma delle riforme: il Senato deve essere abolito. Mentre traccio questo atto di decesso devo però aggiungere che il Senato in questi ultimi tempi si è dimostrato di molto superiore alla Camera.
Ci voleva poco? È vero, ma quel poco è stato fatto. Noi vogliamo dunque che quell'organismo feudale sia abolito; chiediamo il suffragio universale, per uomini e donne; lo scrutinio di lista a base regionale; la rappresentanza proporzionale. Dalle nuove elezioni uscirà un'assemblea nazionale alla quale noi chiediamo, che decida sulla forma di governo dello Stato italiano. Essa dirà: repubblica o monarchia, e noi che siamo stati sempre tendenzialmente repubblicani, diciamo fin da questo momento: repubblica! Noi non andremo a rimuovere i protocolli e a frugare negli archivi, non faremo il processo retrospettivo e storico alla monarchia. L'attuale rappresentanza politica non ci può bastare; vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli interessi, poiché io, come cittadino, posso votare secondo le mie idee, come professionista devo poter votare secondo le mie qualità professionali.
Si potrebbe dire contro questo programma che si ritorna verso le corporazioni. Non importa. Si tratta di costituire dei Consigli di categorie che integrino la rappresentanza sinceramente politica.
Ma non possiamo fermarci su dettagli. Fra tutti i problemi, quello che oggi interessa di piú è di creare la classe dirigente e di munirla dei poteri necessari.
E inutile porre delle questioni più o meno urgenti se non si creano i dirigenti capaci di risolverle.
Esaminando il nostro programma vi si potranno trovare delle analogie con altri programmi; vi si troveranno postulati comuni ai socialisti ufficiali, ma non per questo essi saranno identici nello spirito perché noi ci mettiamo sul terreno della guerra e della vittoria ed è mettendoci su questo terreno che noi possiamo avere tutte le audacie. Io vorrei che oggi i socialisti facessero l'esperimento del potere, perché è facile promettere il paradiso, difficile realizzarlo. Nessun Governo domani potrebbe smobilitare tutti i soldati in pochi giorni o aumentare la quantità dei viveri, perché non ce ne sono. Ma noi non possiamo permettere questo esperimento perché i socialisti vorrebbero portare in Italia una contraffazione del fenomeno russo al quale tutte le menti pensanti del socialismo sono contrarie, da Branting e Thomas a Bernstein, perché il fenomeno bolscevico non abolisce le classi, ma è una dittatura esercitata ferocemente.
Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell'intelligenza.
Vorrei perciò che l'assemblea approvasse un ordine del giorno nel quale accettasse le rivendicazioni del sindacalismo nazionale dal punto di vista economico.
Posta questa bussola al nostro viaggio, la nostra attività dovrà darci subito la creazione dei Fasci di combattimento. Domani indirizzeremo la loro azione simultaneamente in tutti i centri d'Italia. Non siamo degli statici; siamo dei dinamici e vogliamo prendere il nostro posto che deve essere sempre all'avanguardia".
Benito MUSSOLINI
Vi dico subito che non possiamo scendere ai dettagli. Volendo agire prendiamo la realtà nelle sue grandi linee, senza seguirla minutamente nei suoi particolari.
Prima dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo rivolge il suo primo saluto e il suo memore e reverente pensiero ai figli d'Italia che sono caduti per la grandezza della Patria e per la libertà del mondo, ai mutilati e invalidi, a tutti i combattenti, agli ex-prigionieri che compirono il loro dovere, e si dichiara pronta a sostenere energicamente le rivendicazioni d'ordine materiale e morale che saranno propugnate dalle associazioni dei combattenti.
Siccome noi non vogliamo fondare un partito dei combattenti, poiché un qualche cosa di simile si sta già formando in varie città d'Italia, non possiamo precisare il programma di queste rivendicazioni. Lo preciseranno gli interessati. Dichiariamo che lo appoggeremo. Noi non vogliamo separare i morti, né frugare loro nelle tasche per vedere quale tessera portassero: lasciamo questa immonda bisogna ai socialisti ufficiali.
Noi comprenderemo in un unico pensiero di amore tutti i morti, dal generale all'ultimo fante, dall'intelligentissimo a coloro che erano incolti ed ignoranti. Ma voi mi permetterete di ricordare con predilezione, se non con privilegio, i nostri morti, coloro che sono stati con noi nel maggio glorioso: i Corridoni, i Reguzzoni; i Vidali, i Deffenu, il nostro Serrani, questa gioventú meravigliosa che è andata al fronte e che là è rimasta. Certo, quando oggi si parla di grandezza della patria e di libertà del mondo, ci può essere qualcuno che affacci il ghigno e il sorriso ironico, poiché ora è di moda fare il processo alla guerra: ebbene la guerra si accetta in blocco o si respinge in blocco. Se questo processo deve essere eseguito, saremo noi che lo faremo e non gli altri. E volendo del resto esaminare la situazione nei suoi elementi di fatto, noi diciamo subito che l'attivo e il passivo di un'impresa così grandiosa non può essere stabilito con le norme della regolarità contabile: non si può mettere da una parte il quantum di fatto e di non fatto: ma bisogna tener conto dell'elemento "qualitativo". Da questo punto di vista noi possiamo affermare con piena sicurezza che la Patria oggi è píú grande: non solo perché giunge al Brennero - dove giunge Ergisto Bezzi, cui rivolgo il saluto - non solo perché va alla Dalmazia. Ma è più grande l'Italia anche se le piccole anime tentano un loro piccolo giuoco; è più grande perché noi ci sentiamo più grandi in quanto abbiamo l'esperienza di questa guerra, inquantoché noi l'abbiamo voluta, non c'è stata imposta, e potevamo evitarla. Se noi abbiamo scelto questa strada è segno che ci sono nella nostra storia, nel nostro sangue, degli elementi e dei fermenti di grandezza, poiché se ciò non fosse noi oggi saremmo l'ultimo popolo del mondo. La guerra ha dato ciò che noi chiedevamo: ha dato i suoi vantaggi negativi e positivi: negativi in quanto ha impedito alle case degli Hohenzollern, degli Absburgo e degli altri di dominare il mondo, e questo è un risultato che sta davanti agli occhi di tutti e basta a giustificare la guerra. Ha dato anche i suoi risultati positivi poiché in nessuna nazione vittoriosa si vede il trionfo della reazione. In tutte si marcia verso la più grande democrazia politica ed economica. La guerra ha dato, malgrado certi dettagli che possono urtare gli elementi più o meno intelligenti, tutto quello che chiedevamo.
E perché parliamo anche degli ex-prigionieri- È una questione scottante. Evidentemente ci sono stati di quelli che si sono arresi, ma quelli si chiamano disertori: d'altra parte in quella massa c'è la grande maggioranza che è caduta prigioniera dopo aver fatto il suo dovere, dopo aver, combattuto: se così non fosse potremmo cominciare a bollare Cesare Battisti e molti valorosi e brillanti ufficiali e soldati che hanno avuto la disgrazia di cadere nelle mani del nemico.
Seconda dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo dichiara di opporsi all'imperialismo degli altri popoli a danno dell'Italia e all'eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli; accetta il postulato supremo della Società delle Nazioni che presuppone l'integrazione di ognuna di esse, integrazione che per quanto riguarda l'Italia deve realizzarsi sulle Alpi e sull'Adriatico con la rivendicazione e annessione di Fiume e della Dalmazia.
Abbiamo quaranta milioni di abitanti su una superficie di 287 mila chilometri quadrati separati dagli Appennini che riducono ancora di più la disponibilità del nostro territorio lavorativo: saremo fra dieci o venti anni sessanta milioni ed abbiamo appena un milione e mezzo di chilometri quadrati di colonia, in gran parte sabbiosi, verso i quali certamente non potremo mai dirigere il più della nostra popolazione. Me se ci guardiamo attorno vediamo l'Inghilterra che con quarantasette milioni di abitanti ha un impero coloniale di 55 milioni di chilometri quadrati e la Francia che con una popolazione di trentotto milioni di abitanti ha un impero coloniale di 15 milioni di chilometri quadrati. E vi potrei dimostrare con le cifre alla mano che tutte le nazioni del mondo, non esclusi il Portogallo, l'Olanda e il Belgio, hanno tutte quante un impero coloniale al quale tengono e che non sono affatto disposte a mollare in base a tutte le ideologie che possono venire da oltre oceano.
Lloyd George parla apertamente di impero inglese. L'imperialismo è il fondamento della vita per ogni popolo che tende ad espandersi economicamente e spiritualmente. Quello che distingue gli imperialismi sono i mezzi. Ora i mezzi che potremo scegliere e sceglieremo non saranno mai mezzi di penetrazione barbarica, come quelli adottati dai tedeschi. E diciamo: o tutti idealisti o nessuno. Si faccia il proprio interesse. Non si comprende che si predichi l'idealismo da parte di coloro che stanno bene a coloro che soffrono, poiché ciò sarebbe molto facile. Noi vogliamo il nostro posto nel mondo poiché ne abbiamo il diritto.
Riaffermo qui in questo ordine del giorno, il "postulato societario della Società delle Nazioni". È nostro in fin dei conti, ma intendiamoci: se la Società delle Nazioni deve essere una solenne "fregata" da parte delle nazioni ricche contro le nazioni proletarie per fissare ed eternare quelle che possono essere le condizioni attuali dell'equilibrio mondiale, guardiamoci bene negli occhi. Io comprendo perfettamente che le nazioni arrivate possano stabilire questi premi d'assicurazione della loro opulenza e posizione attuale di dominio. Ma questo non è idealismo; è tornaconto e interesse.
Terza dichiarazione:
L'adunata del 23 marzo impegna i fascisti a sabotare con tutti i mezzi le candidature dei neutralisti di tutti i Partiti.
Voi vedete che io passo da un punto ad un altro, ma in tutto ciò c'è logica, c'è un filo. Io non sono un entusiasta delle battaglie schedaiole, tanto è vero che da tempo ho abolito le cronache del "Camerone" e nessuno se ne è doluto: anzi il mio esempio aveva consigliato altri giornali a ridurre questa cronaca scandalosa fino ai limiti dello strettamente necessario. In ogni modo è evidente che entro quest'anno ci saranno le elezioni. Non si conosce ancora la data né il sistema che sarà seguito, ma dentro l'anno ci saranno queste battaglie elettorali e cartacee.
Ora, si voglia o non si voglia, in queste elezioni si farà il processo alla guerra, cioè il "fatto guerra" essendo stato il fatto dominante della nostra vita nazionale, è chiaro che non si potrà evitare di parlare di guerra.
Ora noi accetteremo la battaglia precisamente sul fatto guerra, poiché non solo non siamo pentiti di quello che abbiamo fatto, ma andiamo più in là: e con quel coraggio che è frutto del nostro individualismo, diciamo che se in Italia si ripetesse una condizione di cose simile a quella del 1915, noi ritorneremmo a invocare la guerra come nel 1915.
Ora è molto triste il pensare che ci siano stati degli interventisti che hanno defezionato in questi ultimi tempi. Sono stati pochi e per motivi non sempre politici. C'è stato il trapasso originato da ragioni di indole politica che non voglio discutere, ma c'è stata la defezione originata dalla paura fisica. Per quietare la belva molliamo la Dalmazia, rinunciamo a qualche cosa. Ma il calcolo è pietosamente fallito. Noi, non solo non ci metteremo su quel terreno politico, ma non avremo nemmeno quella paura fisica che è semplicemente grottesca. Ogni vita vale un'altra vita, ogni sangue vale un altro sangue, ogni barricata un'altra barricata. Se ci sarà da lottare impegneremo anche la lotta delle elezioni. Ci sono stati neutralisti fra i socialisti ufficiali e fra i repubblicani. Anche i cosiddetti cattolici del Partito italiano cercano di rimettersi in carreggiata per far dimenticare la loro opera mostruosa che va dal convegno di Udine al grido nefando uscito dal Vaticano. Tutto ciò non è stato soltanto un delitto contro la Patria ma si è tradotto in un di piú di sangue versato, di mutilati e di feriti. Noi andremo a vedere i passaporti di tutta questa gente: tanto dei neutralisti arrabbiati come di coloro che hanno accettato la guerra come una corvée penosa; andremo nei loro comizi, porteremo dei candidati e troveremo tutti i mezzi per sabotarli.
Noi non abbiamo bisogno di metterci programmaticamente sul terreno della rivoluzione perché, in senso storico, ci siamo dal 1915. Non è necessario prospettare un programma troppo analitico, ma possiamo affermare che il bolscevismo non ci spaventerebbe se ci dimostrasse che esso garantisce la grandezza di un popolo e che il suo regime sia migliore degli altri.
È ormai dimostrato irrefutabilmente che il bolscevismo ha rovinato la vita economica della Russia. Laggiù, l'attività economica, dall'agricoltura all'industria, è totalmente paralizzata. Regna la carestia e la fame. Non solo, ma il bolscevismo è un fenomeno tipicamente russo. Le nostre civiltà occidentali, a cominciare da quella tedesca, sono refrattarie.
Noi dichiariamo guerra al socialismo, non perché socialista, ma perché è stato contrario alla nazione. Su quello che è il socialismo, il suo programma e la sua tattica, ciascuno può discutere, ma il Partito Socialista Ufficiale Italiano è stato nettamente reazionario, assolutamente conservatore, e se fosse trionfata la sua tesi non vi sarebbe oggi per noi possibilità di vita nel mondo. Non è il Partito Socialista quello che può mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di ricostruzione. Siamo noi, che facendo il processo alla vita politica di questi ultimi anni, dobbiamo inchiodare alla sua responsabilità il Partito Socialista Ufficiale.
E' fatale che le maggioranze siano statiche, mentre le minoranze sono dinamiche. Noi vogliamo essere una minoranza attiva, vogliamo scindere il Partito Socialista Ufficiale dal proletariato, ma se la borghesia crede di trovare in noi dei parafulmini, s'inganna. Noi dobbiamo andare incontro al lavoro. Già al tempo dell'armistizio io scrissi che bisognava andare incontro al lavoro per chi ritornava dalle trincee, perché sarebbe odioso e bolscevico negare il riconoscimento dei diritti di chi ha fatto la guerra. Bisogna perciò accettare i postulati delle classi lavoratrici: vogliono le otto ore? Domani i minatori e gli operai che lavorano di notte imporranno le sei ore? Le pensioni per l'invalidità e la vecchiaia? Il controllo sulle industrie? Noi appoggeremo queste richieste, anche perché vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva delle aziende, anche per convincere gli operai che non è facile mandare avanti un'industria e un commercio.
Questi sono i nostri postulati, nostri per le ragioni che ho detto innanzi e perché nella storia ci sono cicli fatali per cui tutto si rinnova, tutto si trasforma. Se la dottrina sindacalista ritiene che dalle masse si possano trarre gli uomini direttivi necessari e capaci di assumere la direzione del lavoro, noi non potremo metterci di traverso, specie se questo movimento tenga conto di due realtà: la realtà della produzione e quella della nazione.
Per quello che riguarda la democrazia economica, noi ci mettiamo sul terreno del sindacalismo nazionale e contro l'ingerenza dello Stato, quando questo vorrebbe assassinare il processo di creazione della ricchezza.
Combatteremo il retrogradismo tecnico e spirituale. Ci sono industriali che non si rinnovano dal punto di vista tecnico e dal punto di vista morale. Se essi non troveranno la virtù di trasformarsi, saranno travolti, ma noi dobbiamo dire alla classe operaia che altro è demolire, altro è costruire, che la distruzione può essere opera di un'ora, mentre la creazione è opera di anni o di secoli.
Democrazia economica, questa è la nostra divisa. E veniamo alla democrazia politica.
Io ho l'impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. C'è una crisi che balza agli occhi di tutti. Abbiamo sentito tutti durante la guerra l'insufficienza della gente che ci governa e sappiamo che si è vinto per le sole virtù del popolo italiano, non già per l'intelligenza e la capacità dei dirigenti.
Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci: questi organi di creazione e agitazione capaci di scendere in piazza a gridare: "Siamo noi che abbiamo diritto alla successione perché fummo noi che spingemmo il paese alla guerra e lo conducemmo alla vittoria!".
Dal punto di vista politico abbiamo nel nostro programma delle riforme: il Senato deve essere abolito. Mentre traccio questo atto di decesso devo però aggiungere che il Senato in questi ultimi tempi si è dimostrato di molto superiore alla Camera.
Ci voleva poco? È vero, ma quel poco è stato fatto. Noi vogliamo dunque che quell'organismo feudale sia abolito; chiediamo il suffragio universale, per uomini e donne; lo scrutinio di lista a base regionale; la rappresentanza proporzionale. Dalle nuove elezioni uscirà un'assemblea nazionale alla quale noi chiediamo, che decida sulla forma di governo dello Stato italiano. Essa dirà: repubblica o monarchia, e noi che siamo stati sempre tendenzialmente repubblicani, diciamo fin da questo momento: repubblica! Noi non andremo a rimuovere i protocolli e a frugare negli archivi, non faremo il processo retrospettivo e storico alla monarchia. L'attuale rappresentanza politica non ci può bastare; vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli interessi, poiché io, come cittadino, posso votare secondo le mie idee, come professionista devo poter votare secondo le mie qualità professionali.
Si potrebbe dire contro questo programma che si ritorna verso le corporazioni. Non importa. Si tratta di costituire dei Consigli di categorie che integrino la rappresentanza sinceramente politica.
Ma non possiamo fermarci su dettagli. Fra tutti i problemi, quello che oggi interessa di piú è di creare la classe dirigente e di munirla dei poteri necessari.
E inutile porre delle questioni più o meno urgenti se non si creano i dirigenti capaci di risolverle.
Esaminando il nostro programma vi si potranno trovare delle analogie con altri programmi; vi si troveranno postulati comuni ai socialisti ufficiali, ma non per questo essi saranno identici nello spirito perché noi ci mettiamo sul terreno della guerra e della vittoria ed è mettendoci su questo terreno che noi possiamo avere tutte le audacie. Io vorrei che oggi i socialisti facessero l'esperimento del potere, perché è facile promettere il paradiso, difficile realizzarlo. Nessun Governo domani potrebbe smobilitare tutti i soldati in pochi giorni o aumentare la quantità dei viveri, perché non ce ne sono. Ma noi non possiamo permettere questo esperimento perché i socialisti vorrebbero portare in Italia una contraffazione del fenomeno russo al quale tutte le menti pensanti del socialismo sono contrarie, da Branting e Thomas a Bernstein, perché il fenomeno bolscevico non abolisce le classi, ma è una dittatura esercitata ferocemente.
Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell'intelligenza.
Vorrei perciò che l'assemblea approvasse un ordine del giorno nel quale accettasse le rivendicazioni del sindacalismo nazionale dal punto di vista economico.
Posta questa bussola al nostro viaggio, la nostra attività dovrà darci subito la creazione dei Fasci di combattimento. Domani indirizzeremo la loro azione simultaneamente in tutti i centri d'Italia. Non siamo degli statici; siamo dei dinamici e vogliamo prendere il nostro posto che deve essere sempre all'avanguardia".
Benito MUSSOLINI
Riportiamo i più importanti discorsi che Benito Mussolini ha dedicato al Popolo italiano a partire dall’ultimo, tenutosi al Teatro Lirico di Milano il 16 dicembre 1944.
Camerati, cari camerati milanesi!
Rinuncio ad ogni preambolo ed entro subito nel vivo della materia del mio discorso.
A sedici mesi di distanza dalla tremenda data della resa a discrezione imposta ed accettata secondo la democratica e criminale formula di Casablanca, la valutazione degli avvenimenti ci pone, ancora una volta, queste domande: Chi ha tradito? Chi ha subito e subisce le conseguenze del tradimento? Non si tratta, intendiamoci bene, di un giudizio in sede di revisione storica, e, meno che mai, in qualsiasi guisa, giustificativa.
È stato tentato da qualche foglio neutrale, ma noi lo respingiamo nella maniera più categorica e per la sostanza e in secondo luogo per la stessa fonte dalla quale proviene. Dunque chi ha tradito? La resa a discrezione annunciata l'8 settembre è stata voluta dalla monarchia, dai circoli di corte, dalle correnti plutocratiche della borghesia italiana, da talune forze clericali, congiunte per l'occasione a quelle massoniche, dagli Stati Maggiori, che non credevano più alla vittoria e facevano capo a Badoglio. Sino dal maggio, e precisamente il 15 maggio, l'ex-re nota in un suo diario, venuto recentemente in nostro possesso, che bisogna ormai «sganciarsi» dall'alleanza con la Germania. Ordinatore della resa, senza l'ombra di un dubbio, l'ex-re; esecutore Badoglio. Ma per arrivare all'8 settembre, bisognava effettuare il 25 luglio, cioè realizzare il colpo di Stato e il trapasso di regime.
La giustificazione della resa, e cioè la impossibilità di più oltre continuare la guerra, veniva smentita quaranta giorni dopo, il 13 ottobre, con la dichiarazione di guerra alla Germania, dichiarazione non soltanto simbolica, perché da allora comincia una collaborazione, sia pure di retrovie e di lavoro, fra l'Italia badogliana e gli Alleati; mentre la flotta, costruita tutta dal fascismo, passata al completo al nemico, operava immediatamente con le flotte nemiche. Non pace, dunque, ma, attraverso la cosiddetta cobelligeranza, prosecuzione della guerra; non pace, ma il territorio tutto della nazione convertito in un immenso campo di battaglia, il che significa in un immenso campo di rovine; non pace, ma prevista partecipazione di navi e truppe italiane alla guerra contro il Giappone.
Ne consegue che chi ha subito le conseguenze del tradimento è soprattutto il popolo italiano. Si può affermare che nei confronti dell'alleato germanico il popolo italiano non ha tradito. Salvo casi sporadici, i reparti dell'Esercito si sciolsero senza fare alcuna resistenza di fronte all'ordine di disarmo impartito dai comandi tedeschi. Molti reparti dello stesso Esercito, dislocati fuori del territorio metropolitano, e dell'Aviazione, si schierarono immediatamente a lato delle forze tedesche, e si tratta di decine di migliaia di uomini; tutte le formazioni della Milizia, meno un battaglione in Corsica, passarono sino all'ultimo uomo coi tedeschi.
Il piano cosiddetto «P. 44», del quale si parlerà nell'imminente processo dei generali e che prevedeva l'immediato rovesciamento del fronte come il re e Badoglio avevano preordinato, non trovò alcuna applicazione da parte dei comandanti e ciò è provato dal processo che nell'Italia di Bonomi viene intentato a un gruppo di generali che agli ordini contenuti in tale piano non obbedirono. Lo stesso fecero i comandanti delle Armate schierate oltre frontiera.
Tuttavia, se tali comandanti evitarono il peggio, cioè l'estrema infamia, che sarebbe consistita nell'attaccare a tergo gli alleati di tre anni, la loro condotta dal punto di vista nazionale è stata nefasta. Essi dovevano, ascoltando la voce della coscienza e dell'onore, schierarsi armi e bagaglio dalla parte dell'alleato: avrebbero mantenuto le nostre posizioni territoriali e politiche; la nostra bandiera non sarebbe stata ammainata in terre dove tanto sangue italiano era stato sparso; le Armate avrebbero conservato la loro organica costituzione; si sarebbe evitato l'internamento coatto di centinaia di migliaia di soldati e le loro grandi sofferenze di natura soprattutto morale; non si sarebbe imposto all'alleato un sovraccarico di nuovi, impreveduti compiti militari, con conseguenze che influenzavano tutta la condotta strategica della guerra. Queste sono responsabilità specifiche nei confronti, soprattutto, del popolo italiano.
Si deve tuttavia riconoscere che i tradimenti dell'estate 1944 ebbero aspetti ancora più obbrobriosi, poiché romeni, bulgari e finnici, dopo avere anch'essi ignominiosamente capitolato, e uno di essi, il bulgaro, senza avere sparato un solo colpo di fucile, hanno nelle ventiquattro ore rovesciato il fronte ed hanno attaccato con tutte le forze mobilitate le unità tedesche, rendendone difficile e sanguinosa la ritirata.
Qui il tradimento è stato perfezionato nella più ripugnante significazione del termine.
Il popolo italiano è, quindi, quello che, nel confronto, ha tradito in misura minore e sofferto in misura che non esito a dire sovrumana. Non basta. Bisogna aggiungere che mentre una parte del popolo italiano ha accettato, per incoscienza o stanchezza, la resa, un'altra parte si è immediatamente schierata a fianco della Germania.
Sarà tempo di dire agli italiani, ai camerati tedeschi e ai camerati giapponesi che l'apporto dato dall'Italia repubblicana alla causa comune dal settembre del 1943 in poi, malgrado la temporanea riduzione del territorio della Repubblica, è di gran lunga superiore a quanto comunemente si crede.
Non posso, per evidenti ragioni, scendere a dettagliare le cifre nelle quali si compendia l'apporto complessivo, dal settore economico a quello militare, dato dall'Italia. La nostra collaborazione col Reich in soldati e operai è rappresentata da questo numero: si tratta, alla data del 30 settembre, di ben settecentottantaseimila uomini. Tale dato è incontrovertibile perché di fonte germanica. Bisogna aggiungervi gli ex-internati militari: cioè parecchie centinaia di migliaia di uomini immessi nel processo produttivo tedesco, e molte altre decine di migliaia di italiani che già erano nel Reich, ove andarono negli anni scorsi dall'Italia come liberi lavoratori nelle officine e nei campi. Davanti a questa documentazione, gli italiani che vivono nel territorio della Repubblica Sociale hanno il diritto, finalmente, di alzare la fronte e di esigere che il loro sforzo sia equamente e cameratescamente valutato da tutti i componenti del Tripartito.
Sono di ieri le dichiarazioni di Eden sulle perdite che la Gran Bretagna ha subito per difendere la Grecia. Durante tre anni l'Italia ha inflitto colpi severissimi agli inglesi ed ha, a sua volta, sopportato sacrifici imponenti di beni e di sangue. Non basta. Nel 1945 la partecipazione dell'Italia alla guerra avrà maggiori sviluppi, attraverso il progressivo rafforzamento delle nostre organizzazioni militari, affidate alla sicura fede e alla provata esperienza di quel prode soldato che risponde al nome del maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani.
Nel periodo tumultuoso di transizione dell'autunno e inverno 1943 sorsero complessi militari più o meno autonomi attorno a uomini che seppero, col loro passato e il loro fascino di animatori, raccogliere i primi nuclei di combattenti. Ci furono gli arruolamenti a carattere individuale. Arruolamenti di battaglioni, di reggimenti, di specialità Erano i vecchi comandanti che suonavano la diana. E fu ottima iniziativa, soprattutto morale. Ma la guerra moderna impone l'unità. Verso l'unità si cammina.
Oso credere che gli italiani di qualsiasi opinione saranno felici il giorno in cui tutte le Forze Armate della Repubblica saranno raccolte in un solo organismo e ci sarà una sola Polizia, l'uno e l'altra con articolazioni secondo le funzioni, entrambi intimamente viventi nel clima e nello spirito del fascismo e della Repubblica, poiché in una guerra come l'attuale, che ha assunto un carattere di guerra «politica», la politicità è una parola vuota di senso ed in ogni caso superata.
Un conto è la «politica», cioè l'adesione convinta e fanatica all'idea per cui si scende in campo, e un conto è un'attività politica, che il soldato ligio al suo dovere e alla consegna non ha nemmeno il tempo di esplicare, poiché la sua politica deve essere la preparazione al combattimento e l'esempio ai suoi gregari in ogni evento di pace e di guerra.
Il giorno 15 settembre il Partito Nazionale Fascista diventava il Partito Fascista Repubblicano. Non mancarono allora elementi malati di opportunismo o forse in stato di confusione mentale, che si domandarono se non sarebbe stato più furbesco eliminare la parola «fascismo», per mettere esclusivamente l'accento sulla parola «Repubblica». Respinsi allora, come respingerei oggi, questo suggerimento inutile e vile.
Sarebbe stato errore e viltà ammainare la nostra bandiera, consacrata da tanto sangue, e fare passare quasi di contrabbando quelle idee che costituiscono oggi la parola d'ordine nella battaglia dei continenti. Trattandosi di un espediente, ne avrebbe avuto i tratti e ci avrebbe squalificato di fronte agli avversari e soprattutto di fronte a noi stessi.
Chiamandoci ancora e sempre fascisti, e consacrandoci alla causa del fascismo, come dal 1919 ad oggi abbiamo fatto e continueremo anche domani a fare, abbiamo dopo gli avvenimenti impresso un nuovo indirizzo all'azione e nel campo particolarmente politico e in quello sociale. Veramente più che di un nuovo indirizzo, bisognerebbe con maggiore esattezza dire: ritorno alle posizioni originarie. È documentato nella storia che il fascismo fu sino al 1927 tendenzialmente repubblicano e sono stati illustrati i motivi per cui l'insurrezione del 1922 risparmiò la monarchia.
Dal punto di vista sociale, il programma del fascismo repubblicano non è che la logica continuazione del programma del 1919: delle realizzazioni degli anni splendidi che vanno dalla Carta del lavoro alla conquista dell'impero. La natura non fa dei salti, e nemmeno l'economia.
Bisognava porre le basi con le leggi sindacali e gli organismi corporativi per compiere il passo, ulteriore della socializzazione. Sin dalla prima seduta del Consiglio dei ministri del 27 settembre 1943 veniva da me dichiarato che «la Repubblica sarebbe stata unitaria nel campo politico e decentrata in quello amministrativo e che avrebbe avuto un pronunciatissimo contenuto sociale, tale da risolvere la questione sociale almeno nei suoi aspetti più stridenti, tale cioè da stabilire il posto, la funzione, la responsabilità del lavoro in una società nazionale veramente moderna».
In quella stessa seduta, io compii il primo gesto teso a realizzare la più vasta possibile concordia nazionale, annunciando che il Governo escludeva misure di rigore contro gli elementi dell'antifascismo.
Nel mese di ottobre fu da me elaborato e riveduto quello che nella storia politica italiana è il «manifesto di Verona», che fissava in alcuni punti abbastanza determinati il programma non tanto del Partito, quanto della Repubblica. Ciò accadeva esattamente il 15 novembre, due mesi dopo la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano.
Il manifesto dell'assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano, dopo un saluto ai caduti per la causa fascista e riaffermando come esigenza suprema la continuazione della lotta a fianco delle potenze del Tripartito e la ricostituzione delle Forze Armate, fissava i suoi diciotto punti programmatici.
Vediamo ora ciò che è stato fatto, ciò che non è stato fatto e soprattutto perché non è stato fatto.
Il manifesto cominciava con l'esigere la convocazione della Costituente e ne fissava anche la composizione, in modo che, come si disse, «la Costituente fosse la sintesi di tutti i valori della nazione».
Ora la Costituente non è stata convocata. Questo postulato non è stato sin qui realizzato e si può dire che sarà realizzato soltanto a guerra conclusa. Vi dico con la massima schiettezza che ho trovato superfluo convocare una Costituente quando il territorio della Repubblica, dato lo sviluppo delle operazioni militari, non poteva in alcun modo considerarsi definitivo. Mi sembrava prematuro creare un vero e proprio Stato di diritto nella pienezza di tutti i suoi istituti, quando non c'erano Forze Armate che lo sostenessero. Uno Stato che non dispone di Forze Armate è tutto, fuorché uno Stato.
Fu detto nel manifesto che nessun cittadino può essere trattenuto oltre i sette giorni senza un ordine dell'Autorità giudiziaria. Ciò non è sempre accaduto. Le ragioni sono da ricercarsi nella pluralità degli organi di Polizia nostri e alleati e nell'azione dei fuori legge, che hanno fatto scivolare questi problemi sul piano della guerra civile a base di rappresaglie e contro-rappresaglie. Su taluni episodi si è scatenata la speculazione dell'antifascismo, calcando le tinte e facendo le solite generalizzazioni. Debbo dichiarare nel modo più esplicito che taluni metodi mi ripugnano profondamente, anche se episodici. Lo Stato, in quanto tale, non può adottare metodi che lo degradano. Da secoli si parla della legge del taglione. Ebbene, è una legge, non un arbitrio più o meno personale.
Mazzini, l'inflessibile apostolo dell'idea repubblicana, mandò agli albori della Repubblica romana nel 1849 un commissario ad Ancona per insegnare ai giacobini che era lecito combattere i papalini, ma non ucciderli extra-legge, o prelevare, come si direbbe oggi, le argenterie dalle loro case. Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la tessera del Partito, merita doppia condanna.
Nessuna severità è in tal caso eccessiva, se si vuole che il Partito, come si legge nel «manifesto di Verona», sia veramente «un ordine di combattenti e di credenti, un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell'idea rivoluzionaria».
Alta personificazione di questo tipo di fascista fu il camerata Resega, che ricordo oggi e ricordiamo tutti con profonda emozione, nel primo anniversario della sua fine, dovuta a mano nemica.
Poiché attraverso la costituzione delle brigate nere il Partito sta diventando un «ordine di combattenti», il postulato di Verona ha il carattere di un impegno dogmatico e sacro. Nello stesso articolo 5, stabilendo che per nessun impiego o incarico viene richiesta la tessera del Partito, si dava soluzione al problema che chiamerò di collaborazione di altri elementi sul piano della Repubblica. Nel mio telegramma in data 10 marzo XXII ai capi delle provincie, tale formula veniva ripresa e meglio precisata. Con ciò ogni discussione sul problema della pluralità dei partiti appare del tutto inattuale.
In sede storica, nelle varie forme in cui la Repubblica come istituto politico trova presso i differenti popoli la sua estrinsecazione, vi sono molte repubbliche di tipo totalitario, quindi con un solo partito. Non citerò la più totalitaria di esse, quella dei sovieti, ma ricorderò una che gode le simpatie dei sommi bonzi del vangelo democratico: la Repubblica turca, che poggia su un solo partito, quello del popolo, e su una sola organizzazione giovanile, quella dei «focolari del popolo».
A un dato momento della evoluzione storica italiana può essere feconda di risultati, accanto al Partito unico e cioè responsabile della direzione globale dello Stato, la presenza di altri gruppi, che, come dice all'articolo tre il «manifesto di Verona», esercitino il diritto di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione. Gruppi che, partendo dall'accettazione leale, integrale e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica, socializzazione, abbiano la responsabilità di esaminare i provvedimenti del Governo e degli enti locali, di controllare i metodi di applicazione dei provvedimenti stessi e le persone che sono investite di cariche pubbliche e che devono rispondere al cittadino, nella sua qualità di soldato-lavoratore contribuente, del loro operato.
L'assemblea di Verona fissava al numero otto i suoi postulati di politica estera. Veniva solennemente dichiarato che il fine essenziale della politica estera della Repubblica è «l'unità, l'indipendenza, l'integrità territoriale della patria nei termini marittimi e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla storia».
Quanto all'unità territoriale, io mi rifiuto, conoscendo la Sicilia e i fratelli siciliani, di prendere sul serio i cosiddetti conati separatistici di spregevoli mercenari del nemico. Può darsi che questo separatismo abbia un altro motivo: che i fratelli siciliani vogliano separarsi dall'Italia di Bonomi per ricongiungersi con l'Italia repubblicana.
È mia profonda convinzione che, al di là di tutte le lotte e liquidato il criminoso fenomeno dei fuorilegge, l'unità morale degli italiani di domani sarà infinitamente più forte di quella di ieri, perché cementata da eccezionali sofferenze, che non hanno risparmiato una sola famiglia. E quando attraverso l'unità morale l'anima di un popolo è salva, è salva anche la sua integrità territoriale e la sua indipendenza politica.
A questo punto occorre dire una parola sull'Europa e relativo concetto. Non mi attardo a domandarmi che cosa è questa Europa, dove comincia e dove finisce dal punto di vista geografico, storico, morale, economico; né mi chiedo se oggi un tentativo di unificazione abbia migliore successo dei precedenti. Ciò mi porterebbe troppo lontano. Mi limito a dire che la costituzione di una comunità europea è auspicabile e forse anche possibile, ma tengo a dichiarare in forma esplicita che noi non ci sentiamo italiani in quanto europei, ma ci sentiamo europei in quanto italiani. La distinzione non è sottile, ma fondamentale.
Come la nazione è la risultante di milioni di famiglie che hanno una fisionomia propria, anche se posseggono il comune denominatore nazionale, così nella comunità europea ogni nazione dovrebbe entrare come un'entità ben definita, onde evitare che la comunità stessa naufraghi nell'internazionalismo di marca socialista o vegeti nel generico ed equivoco cosmopolitismo di marca giudaica e massonica.
Mentre taluni punti del programma di Verona sono stati scavalcati dalla successione degli eventi militari, realizzazioni più concrete sono state attuate nel campo economico-sociale.
Qui la innovazione ha aspetti radicali. I punti undici, dodici e tredici sono fondamentali. Precisati nella «premessa alla nuova struttura economica della nazione», essi hanno trovato nella legge sulla socializzazione la loro pratica applicazione. L'interesse suscitato nel mondo è stato veramente grande e oggi, dovunque, anche nell'Italia dominata e torturata dagli anglo-americani, ogni programma politico contiene il postulato della socializzazione.
Gli operai, dapprima alquanto scettici, ne hanno poi compreso l'importanza. La sua effettiva realizzazione è in corso. Il ritmo di ciò sarebbe stato più rapido in altri tempi. Ma il seme è gettato. Qualunque cosa accada, questo seme è destinato a germogliare. È il principio che inaugura quello che otto anni or sono, qui a Milano, di fronte a cinquecentomila persone acclamanti, vaticinai «secolo del lavoro», nel quale il lavoratore esce dalla condizione economico-morale di salariato per assumere quella di produttore, direttamente interessato agli sviluppi dell'economia e al benessere della nazione.
La socializzazione fascista è la soluzione logica e razionale che evita da un lato la burocratizzazione dell'economia attraverso il totalitarismo di Stato e supera l'individualismo dell'economia liberale, che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell'economia capitalistica, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove esigenze di carattere «sociale» delle comunità nazionali.
Attraverso la socializzazione i migliori elementi tratti dalle categorie lavoratrici faranno le loro prove. Io sono deciso a proseguire in questa direzione.
Due settori ho affidato alle categorie operaie: quello delle amministrazioni locali e quello alimentare. Tali settori, importantissimi specie nelle circostanze attuali, sono ormai completamente nelle mani degli operai. Essi devono mostrare, e spero mostreranno, la loro preparazione specifica e la loro coscienza civica.
Come vedete, qualche cosa si è fatto durante questi dodici mesi, in mezzo a difficoltà incredibili e crescenti, dovute alle circostanze obiettive della guerra e alla opposizione sorda degli elementi venduti al nemico e all'abulia morale che gli avvenimenti hanno provocato in molti strati del popolo.
In questi ultimissimi tempi la situazione è migliorata. Gli attendisti, coloro cioè che aspettavano gli anglo-americani, sono in diminuzione. Ciò che accade nell'Italia di Bonomi li ha delusi. Tutto ciò che gli anglo-americani promisero, si è appalesato un miserabile espediente propagandistico.
Credo di essere nel vero se affermo che le popolazioni della valle del Po non solo non desiderano, ma deprecano l'arrivo degli anglosassoni, e non vogliono saperne di un governo, che, pur avendo alla vicepresidenza un Togliatti, riporterebbe a nord le forze reazionarie, plutocratiche e dinastiche, queste ultime oramai palesemente protette dall'Inghilterra.
Quanto ridicoli quei repubblicani che non vogliono la Repubblica perché proclamata da Mussolini e potrebbero soggiacere alla monarchia voluta da Churchill. Il che dimostra in maniera irrefutabile che la monarchia dei Savoia serve la politica della Gran Bretagna, non quella dell'Italia!
Non c'è dubbio che la caduta di Roma è una data culminante nella storia della guerra. II generale Alexander stesso ha dichiarato che era necessaria alla vigilia dello sbarco in Francia una vittoria che fosse legata ad un grande nome, e non vi è nome più grande e universale di Roma; che fosse creata, quindi, una incoraggiante atmosfera.
Difatti, gli anglo-americani entrano in Roma il 5 giugno; all'indomani, 6, i primi reparti alleati sbarcano sulla costa di Normandia, tra i fiumi Vire e Orne. I mesi successivi sono stati veramente duri, su tutti i fronti dove i soldati del Reich erano e sono impegnati.
La Germania ha chiamato in linea tutte le riserve umane, con la mobilitazione totale affidata a Goebbels, e con la creazione della «Volkssturm». Solo un popolo come il germanico, schierato unanime attorno al Führer, poteva reggere a tale enorme pressione; solo un Esercito come quello nazionalsocialista poteva rapidamente superare la crisi del 20 luglio e continuare a battersi ai quattro punti cardinali con eccezionale tenacia e valore, secondo le stesse testimonianze del nemico.
Vi è stato un periodo in cui la conquista di Parigi e Bruxelles, la resa a discrezione della Romania, della Finlandia, della Bulgaria hanno dato motivo a un movimento euforico tale che, secondo corrispondenze giornalistiche, si riteneva che il prossimo Natale la guerra sarebbe stata praticamente finita, con l'entrata trionfale degli Alleati a Berlino.
Nel periodo di tale euforia venivano svalutate e dileggiate le nuove armi tedesche, impropriamente chiamate «segrete». Molti hanno creduto che grazie all'impiego di tali armi, a un certo punto, premendo un bottone, la guerra sarebbe finita di colpo. Questo miracolismo è ingenuo quando non sia doloso. Non si tratta di armi segrete, ma di «armi nuove», che, è lapalissiano il dirlo, sono segrete sino a quando non vengono impiegate in combattimento. Che tali armi esistano, lo sanno per amara constatazione gli inglesi; che le prime saranno seguite da altre, lo posso con cognizione di causa affermare; che esse siano tali da ristabilire l'equilibrio e successivamente la ripresa della iniziativa in mani germaniche, è nel limite delle umane previsioni quasi sicuro e anche non lontano.
Niente di più comprensibile delle impazienze, dopo cinque anni di guerra, ma si tratta di ordigni nei quali scienza, tecnica, esperienza, addestramento di singoli e di reparti devono procedere di conserva. Certo è che la serie delle sorprese non è finita; e che migliaia di scienziati germanici lavorano giorno e notte per aumentare il potenziale bellico della Germania.
Nel frattempo la resistenza tedesca diventa sempre più forte e molte illusioni coltivate dalla propaganda nemica sono cadute. Nessuna incrinatura nel morale del popolo tedesco, pienamente consapevole che è in gioco la sua esistenza fisica e il suo futuro come razza; nessun accenno di rivolta e nemmeno di agitazione fra i milioni e milioni di lavoratori stranieri, malgrado gli insistenti appelli e proclami del generalissimo americano. E indice eloquentissimo dello spirito della nazione è la percentuale dei volontari dell'ultima leva, che raggiunge la quasi totalità della classe. La Germania è in grado di resistere e di determinare il fallimento dei piani nemici.
Minimizzare la perdita di territori, conquistati e tenuti a prezzo di sangue, non è una tattica intelligente, ma lo scopo della guerra non è la conquista o la conservazione dei territori, bensì la distruzione delle forze nemiche, cioè la resa e quindi la cessazione delle ostilità.
Ora le Forze Armate tedesche non solo non sono distrutte, ma sono in una fase di crescente sviluppo e potenza.
Se si prende in esame la situazione dal punto di vista politico, sono maturati, in questo ultimo periodo del 1944, eventi e stati d'animo interessanti.
Pur non esagerando, si può osservare che la situazione politica non è oggi favorevole agli Alleati.
Prima di tutto in America, come in Inghilterra, vi sono correnti contrarie alla richiesta di resa a discrezione. La formula di Casablanca significa la morte di milioni di giovani, poiché prolunga indefinitamente la guerra; popoli come il tedesco e il giapponese non si consegneranno mai mani e piedi legati al nemico, il quale non nasconde i suoi piani di totale annientamento dei paesi del Tripartito.
Ecco perché Churchill ha dovuto sottoporre a doccia fredda i suoi connazionali surriscaldati e prorogare la fine del conflitto all'estate del 1945 per l'Europa e al 1947 per il Giappone.
Un giorno un ambasciatore sovietico a Roma, Potemkin, mi disse: «La prima guerra mondiale bolscevizzò la Russia, la seconda bolscevizzerà l'Europa». Questa profezia non si avvererà, ma se ciò accadesse, anche questa responsabilità ricadrebbe in primo luogo sulla Gran Bretagna.
Politicamente Albione è già sconfitta. Gli eserciti russi sono sulla Vistola e sul Danubio, cioè a metà dell'Europa. I partiti comunisti, cioè i partiti che agiscono al soldo e secondo gli ordini del maresciallo Stalin, sono parzialmente al potere nei paesi dell'occidente.
Che cosa significhi la «liberazione» nel Belgio, in Italia, in Grecia, lo dicono le cronache odierne. Miseria, disperazione, guerra civile. I «liberati»greci che sparano sui «liberatori» inglesi non sono che i comunisti russi che sparano sui conservatori britannici.
Davanti a questo panorama, la politica inglese è corsa ai ripari. In primo luogo, liquidando in maniera drastica o sanguinosa, come ad Atene, i movimenti partigiani, i quali sono l'ala marciante e combattente delle sinistre estreme, cioè del bolscevismo; in secondo luogo, appoggiando le forze democratiche, anche accentuate, ma rifuggenti dal totalitarismo, che trova la sua eccelsa espressione nella Russia dei sovieti.
Churchill ha inalberato il vessillo anticomunista in termini categorici nel suo ultimo discorso alla Camera dei Comuni, ma questo non può fare piacere a Stalin. La Gran Bretagna vuole riservarsi come zone d'influenza della democrazia l'Europa occidentale, che non dovrebbe essere contaminata, in alcun caso, dal comunismo.
Ma questa «fronda» di Churchill non può andare oltre ad un certo segno, altrimenti il grande maresciallo del Cremlino potrebbe adombrarsi. Churchill voleva che la zona d'influenza riservata alla democrazia nell'Occidente europeo fosse sussidiata da un patto tra Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Norvegia, in funzione antitedesca prima, eventualmente in funzione antirussa poi.
Gli accordi Stalin-De Gaulle hanno soffocato nel germe questa idea, che era stata avanzata, su istruzioni di Londra, dal belga Spaak. Il gioco è fallito e Churchill deve, per dirla all'inglese, mangiarsi il cappello e, pensando all'entrata dei Russi nel Mediterraneo e alla pressione russa nell'Iran, deve domandarsi se la politica di Casablanca non sia stata veramente per la «vecchia povera Inghilterra» una politica fallimentare.
Premuta dai due colossi militari dell'Occidente e dell'Oriente, dagli insolenti insaziabili cugini di oltre Oceano e dagli inesauribili euroasiatici, la Gran Bretagna vede in gioco e in pericolo il suo avvenire imperiale; cioè il suo destino. Che i rapporti «politici» tra gli Alleati non siano dei migliori, lo dimostra la faticosa preparazione del nuovo convegno a tre.
Parliamo ora del lontano e vicino Giappone. Più che certo, è dogmatico che l'impero del Sole Levante non piegherà mai e si batterà sino alla vittoria. In questi ultimi mesi le armi nipponiche sono state coronate da grandi successi. Le unità dello strombazzatissimo sbarco nell'isola di Leyte, una delle molte centinaia di isole che formano l'arcipelago delle Filippine, sbarco fatto a semplice scopo elettorale, sono, dopo due mesi, quasi al punto di prima.
Che cosa sia la volontà e l'anima del Giappone è dimostrato dai volontari della morte. Non sono decine, sono decine di migliaia di giovani che hanno come consegna questa: «Ogni apparecchio una nave nemica». E lo provano. Davanti a questa sovrumanamente eroica decisione, si comprende l'atteggiamento di taluni circoli americani, che si domandano se non sarebbe stato meglio per gli statunitensi che Roosevelt avesse tenuto fede alla promessa da lui fatta alle madri americane che nessun soldato sarebbe andato a combattere e a morire oltremare. Egli ha mentito, come è nel costume di tutte le democrazie.
È per noi, italiani della Repubblica, motivo di orgoglio avere a fianco come camerati fedeli e comprensivi i soldati, i marinai, gli aviatori del Tenno, che colle loro gesta s'impongono all'ammirazione del mondo.
Ora io vi domando: la buona semente degli italiani, degli italiani sani, i migliori, che considerano la morte per la patria come l'eternità della vita, sarebbe dunque spenta? (La folla grida: «No! No!»). Ebbene, nella guerra scorsa non vi fu un aviatore che non riuscendo ad abbattere con le armi l'aeroplano nemico, vi si precipitò contro, cadendo insieme con lui? Non ricordate voi questo nome? Era un umile sergente: Dall'Oro.
Nel 1935, quando l'Inghilterra voleva soffocarci nel nostro mare e io raccolsi il suo guanto di sfida (la folla si leva in piedi con un grido unanime di esaltazione: «Duce! Duce! Duce!») e feci passare ben quattrocentomila legionari sotto le navi di Sua Maestà britannica, ancorate nei porti del Mediterraneo, allora si costituirono in Italia, a Roma, le squadriglie della morte. Vi devo dire, per la verità, che il primo della lista era il comandante delle forze aeree. Ebbene, se domani fosse necessario ricostituire queste squadriglie, se fosse necessario mostrare che nelle nostre vene circola ancora il sangue dei legionari di Roma, il mio appello alla nazione cadrebbe forse nel vuoto? (La folla risponde: «No!»).
Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po (grida: «Sì!»); noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l'Italia sia repubblicana. (Grida entusiastiche: «Si! Tutta!»). Il giorno in cui tutta la valle del Po fosse contaminata dal nemico, il destino dell'intera nazione sarebbe compromesso; ma io sento, io vedo, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile agli invasori. Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po. (La folla prorompe in grida unanimi di consenso. Si grida: «Si! Sì!»).
Da quanto vi ho detto, balza evidente che non solo la coalizione nemica non ha vinto, ma che non vincerà. La mostruosa alleanza fra plutocrazia e bolscevismo ha potuto perpetrare la sua guerra barbarica come la esecuzione di un enorme delitto, che ha colpito folle di innocenti e distrutto ciò che la civiltà europea aveva creato in venti secoli. Ma non riuscirà ad annientare con la sua tenebra lo spirito eterno che tali monumenti innalzò.
La nostra fede assoluta nella vittoria non poggia su motivi di carattere soggettivo o sentimentale, ma su elementi positivi e determinanti. Se dubitassimo della nostra vittoria, dovremmo dubitare dell'esistenza di Colui che regola, secondo giustizia, le sorti degli uomini.
Quando noi come soldati della Repubblica riprenderemo contatto con gli italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato. La delusione, la miseria, l'abbiezione politica e morale esplode non solo nella vecchia frase «si stava meglio», con quel che segue, ma nella rivolta che da Palermo a Catania, a Otranto, a Roma stessa serpeggia in ogni parte dell'Italia «liberata».
Il popolo italiano al sud dell'Appennino ha l'animo pieno di cocenti nostalgie. L'oppressione nemica da una parte e la persecuzione bestiale del Governo dall'altra non fanno che dare alimento al movimento del fascismo. L'impresa di cancellarne i simboli esteriori fu facile; quella di sopprimerne l'idea, impossibile. (La folla grida: «Mai!»).
I sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo è morto, perché lo sentono vivo. Milioni di italiani confrontano ieri e oggi; ieri, quando la bandiera della patria sventolava dalle Alpi all'equatore somalo e l'italiano era uno dei popoli più rispettati della terra.
Non v'è italiano che non senta balzare il cuore nel petto nell'udire un nome africano, il suono di un inno che accompagnò le legioni dal Mediterraneo al Mar Rosso, alla vista di un casco coloniale. Sono milioni di italiani che dal 1919 al 1939 hanno vissuto quella che si può definire l'epopea della patria. Questi italiani esistono ancora, soffrono e credono ancora e sono disposti a serrare i ranghi per riprendere a marciare, onde riconquistare quanto fu perduto ed è oggi presidiato fra le dune libiche e le ambe etiopiche da migliaia e migliaia di caduti, il fiore di innumerevoli famiglie italiane, che non hanno dimenticato, né possono dimenticare.
Già si notano i segni annunciatori della ripresa, qui, soprattutto in questa Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha selvaggiamente colpito, ma non ha minimamente piegato.
Camerati, cari camerati milanesi!
È Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa!
Rinuncio ad ogni preambolo ed entro subito nel vivo della materia del mio discorso.
A sedici mesi di distanza dalla tremenda data della resa a discrezione imposta ed accettata secondo la democratica e criminale formula di Casablanca, la valutazione degli avvenimenti ci pone, ancora una volta, queste domande: Chi ha tradito? Chi ha subito e subisce le conseguenze del tradimento? Non si tratta, intendiamoci bene, di un giudizio in sede di revisione storica, e, meno che mai, in qualsiasi guisa, giustificativa.
È stato tentato da qualche foglio neutrale, ma noi lo respingiamo nella maniera più categorica e per la sostanza e in secondo luogo per la stessa fonte dalla quale proviene. Dunque chi ha tradito? La resa a discrezione annunciata l'8 settembre è stata voluta dalla monarchia, dai circoli di corte, dalle correnti plutocratiche della borghesia italiana, da talune forze clericali, congiunte per l'occasione a quelle massoniche, dagli Stati Maggiori, che non credevano più alla vittoria e facevano capo a Badoglio. Sino dal maggio, e precisamente il 15 maggio, l'ex-re nota in un suo diario, venuto recentemente in nostro possesso, che bisogna ormai «sganciarsi» dall'alleanza con la Germania. Ordinatore della resa, senza l'ombra di un dubbio, l'ex-re; esecutore Badoglio. Ma per arrivare all'8 settembre, bisognava effettuare il 25 luglio, cioè realizzare il colpo di Stato e il trapasso di regime.
La giustificazione della resa, e cioè la impossibilità di più oltre continuare la guerra, veniva smentita quaranta giorni dopo, il 13 ottobre, con la dichiarazione di guerra alla Germania, dichiarazione non soltanto simbolica, perché da allora comincia una collaborazione, sia pure di retrovie e di lavoro, fra l'Italia badogliana e gli Alleati; mentre la flotta, costruita tutta dal fascismo, passata al completo al nemico, operava immediatamente con le flotte nemiche. Non pace, dunque, ma, attraverso la cosiddetta cobelligeranza, prosecuzione della guerra; non pace, ma il territorio tutto della nazione convertito in un immenso campo di battaglia, il che significa in un immenso campo di rovine; non pace, ma prevista partecipazione di navi e truppe italiane alla guerra contro il Giappone.
Ne consegue che chi ha subito le conseguenze del tradimento è soprattutto il popolo italiano. Si può affermare che nei confronti dell'alleato germanico il popolo italiano non ha tradito. Salvo casi sporadici, i reparti dell'Esercito si sciolsero senza fare alcuna resistenza di fronte all'ordine di disarmo impartito dai comandi tedeschi. Molti reparti dello stesso Esercito, dislocati fuori del territorio metropolitano, e dell'Aviazione, si schierarono immediatamente a lato delle forze tedesche, e si tratta di decine di migliaia di uomini; tutte le formazioni della Milizia, meno un battaglione in Corsica, passarono sino all'ultimo uomo coi tedeschi.
Il piano cosiddetto «P. 44», del quale si parlerà nell'imminente processo dei generali e che prevedeva l'immediato rovesciamento del fronte come il re e Badoglio avevano preordinato, non trovò alcuna applicazione da parte dei comandanti e ciò è provato dal processo che nell'Italia di Bonomi viene intentato a un gruppo di generali che agli ordini contenuti in tale piano non obbedirono. Lo stesso fecero i comandanti delle Armate schierate oltre frontiera.
Tuttavia, se tali comandanti evitarono il peggio, cioè l'estrema infamia, che sarebbe consistita nell'attaccare a tergo gli alleati di tre anni, la loro condotta dal punto di vista nazionale è stata nefasta. Essi dovevano, ascoltando la voce della coscienza e dell'onore, schierarsi armi e bagaglio dalla parte dell'alleato: avrebbero mantenuto le nostre posizioni territoriali e politiche; la nostra bandiera non sarebbe stata ammainata in terre dove tanto sangue italiano era stato sparso; le Armate avrebbero conservato la loro organica costituzione; si sarebbe evitato l'internamento coatto di centinaia di migliaia di soldati e le loro grandi sofferenze di natura soprattutto morale; non si sarebbe imposto all'alleato un sovraccarico di nuovi, impreveduti compiti militari, con conseguenze che influenzavano tutta la condotta strategica della guerra. Queste sono responsabilità specifiche nei confronti, soprattutto, del popolo italiano.
Si deve tuttavia riconoscere che i tradimenti dell'estate 1944 ebbero aspetti ancora più obbrobriosi, poiché romeni, bulgari e finnici, dopo avere anch'essi ignominiosamente capitolato, e uno di essi, il bulgaro, senza avere sparato un solo colpo di fucile, hanno nelle ventiquattro ore rovesciato il fronte ed hanno attaccato con tutte le forze mobilitate le unità tedesche, rendendone difficile e sanguinosa la ritirata.
Qui il tradimento è stato perfezionato nella più ripugnante significazione del termine.
Il popolo italiano è, quindi, quello che, nel confronto, ha tradito in misura minore e sofferto in misura che non esito a dire sovrumana. Non basta. Bisogna aggiungere che mentre una parte del popolo italiano ha accettato, per incoscienza o stanchezza, la resa, un'altra parte si è immediatamente schierata a fianco della Germania.
Sarà tempo di dire agli italiani, ai camerati tedeschi e ai camerati giapponesi che l'apporto dato dall'Italia repubblicana alla causa comune dal settembre del 1943 in poi, malgrado la temporanea riduzione del territorio della Repubblica, è di gran lunga superiore a quanto comunemente si crede.
Non posso, per evidenti ragioni, scendere a dettagliare le cifre nelle quali si compendia l'apporto complessivo, dal settore economico a quello militare, dato dall'Italia. La nostra collaborazione col Reich in soldati e operai è rappresentata da questo numero: si tratta, alla data del 30 settembre, di ben settecentottantaseimila uomini. Tale dato è incontrovertibile perché di fonte germanica. Bisogna aggiungervi gli ex-internati militari: cioè parecchie centinaia di migliaia di uomini immessi nel processo produttivo tedesco, e molte altre decine di migliaia di italiani che già erano nel Reich, ove andarono negli anni scorsi dall'Italia come liberi lavoratori nelle officine e nei campi. Davanti a questa documentazione, gli italiani che vivono nel territorio della Repubblica Sociale hanno il diritto, finalmente, di alzare la fronte e di esigere che il loro sforzo sia equamente e cameratescamente valutato da tutti i componenti del Tripartito.
Sono di ieri le dichiarazioni di Eden sulle perdite che la Gran Bretagna ha subito per difendere la Grecia. Durante tre anni l'Italia ha inflitto colpi severissimi agli inglesi ed ha, a sua volta, sopportato sacrifici imponenti di beni e di sangue. Non basta. Nel 1945 la partecipazione dell'Italia alla guerra avrà maggiori sviluppi, attraverso il progressivo rafforzamento delle nostre organizzazioni militari, affidate alla sicura fede e alla provata esperienza di quel prode soldato che risponde al nome del maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani.
Nel periodo tumultuoso di transizione dell'autunno e inverno 1943 sorsero complessi militari più o meno autonomi attorno a uomini che seppero, col loro passato e il loro fascino di animatori, raccogliere i primi nuclei di combattenti. Ci furono gli arruolamenti a carattere individuale. Arruolamenti di battaglioni, di reggimenti, di specialità Erano i vecchi comandanti che suonavano la diana. E fu ottima iniziativa, soprattutto morale. Ma la guerra moderna impone l'unità. Verso l'unità si cammina.
Oso credere che gli italiani di qualsiasi opinione saranno felici il giorno in cui tutte le Forze Armate della Repubblica saranno raccolte in un solo organismo e ci sarà una sola Polizia, l'uno e l'altra con articolazioni secondo le funzioni, entrambi intimamente viventi nel clima e nello spirito del fascismo e della Repubblica, poiché in una guerra come l'attuale, che ha assunto un carattere di guerra «politica», la politicità è una parola vuota di senso ed in ogni caso superata.
Un conto è la «politica», cioè l'adesione convinta e fanatica all'idea per cui si scende in campo, e un conto è un'attività politica, che il soldato ligio al suo dovere e alla consegna non ha nemmeno il tempo di esplicare, poiché la sua politica deve essere la preparazione al combattimento e l'esempio ai suoi gregari in ogni evento di pace e di guerra.
Il giorno 15 settembre il Partito Nazionale Fascista diventava il Partito Fascista Repubblicano. Non mancarono allora elementi malati di opportunismo o forse in stato di confusione mentale, che si domandarono se non sarebbe stato più furbesco eliminare la parola «fascismo», per mettere esclusivamente l'accento sulla parola «Repubblica». Respinsi allora, come respingerei oggi, questo suggerimento inutile e vile.
Sarebbe stato errore e viltà ammainare la nostra bandiera, consacrata da tanto sangue, e fare passare quasi di contrabbando quelle idee che costituiscono oggi la parola d'ordine nella battaglia dei continenti. Trattandosi di un espediente, ne avrebbe avuto i tratti e ci avrebbe squalificato di fronte agli avversari e soprattutto di fronte a noi stessi.
Chiamandoci ancora e sempre fascisti, e consacrandoci alla causa del fascismo, come dal 1919 ad oggi abbiamo fatto e continueremo anche domani a fare, abbiamo dopo gli avvenimenti impresso un nuovo indirizzo all'azione e nel campo particolarmente politico e in quello sociale. Veramente più che di un nuovo indirizzo, bisognerebbe con maggiore esattezza dire: ritorno alle posizioni originarie. È documentato nella storia che il fascismo fu sino al 1927 tendenzialmente repubblicano e sono stati illustrati i motivi per cui l'insurrezione del 1922 risparmiò la monarchia.
Dal punto di vista sociale, il programma del fascismo repubblicano non è che la logica continuazione del programma del 1919: delle realizzazioni degli anni splendidi che vanno dalla Carta del lavoro alla conquista dell'impero. La natura non fa dei salti, e nemmeno l'economia.
Bisognava porre le basi con le leggi sindacali e gli organismi corporativi per compiere il passo, ulteriore della socializzazione. Sin dalla prima seduta del Consiglio dei ministri del 27 settembre 1943 veniva da me dichiarato che «la Repubblica sarebbe stata unitaria nel campo politico e decentrata in quello amministrativo e che avrebbe avuto un pronunciatissimo contenuto sociale, tale da risolvere la questione sociale almeno nei suoi aspetti più stridenti, tale cioè da stabilire il posto, la funzione, la responsabilità del lavoro in una società nazionale veramente moderna».
In quella stessa seduta, io compii il primo gesto teso a realizzare la più vasta possibile concordia nazionale, annunciando che il Governo escludeva misure di rigore contro gli elementi dell'antifascismo.
Nel mese di ottobre fu da me elaborato e riveduto quello che nella storia politica italiana è il «manifesto di Verona», che fissava in alcuni punti abbastanza determinati il programma non tanto del Partito, quanto della Repubblica. Ciò accadeva esattamente il 15 novembre, due mesi dopo la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano.
Il manifesto dell'assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano, dopo un saluto ai caduti per la causa fascista e riaffermando come esigenza suprema la continuazione della lotta a fianco delle potenze del Tripartito e la ricostituzione delle Forze Armate, fissava i suoi diciotto punti programmatici.
Vediamo ora ciò che è stato fatto, ciò che non è stato fatto e soprattutto perché non è stato fatto.
Il manifesto cominciava con l'esigere la convocazione della Costituente e ne fissava anche la composizione, in modo che, come si disse, «la Costituente fosse la sintesi di tutti i valori della nazione».
Ora la Costituente non è stata convocata. Questo postulato non è stato sin qui realizzato e si può dire che sarà realizzato soltanto a guerra conclusa. Vi dico con la massima schiettezza che ho trovato superfluo convocare una Costituente quando il territorio della Repubblica, dato lo sviluppo delle operazioni militari, non poteva in alcun modo considerarsi definitivo. Mi sembrava prematuro creare un vero e proprio Stato di diritto nella pienezza di tutti i suoi istituti, quando non c'erano Forze Armate che lo sostenessero. Uno Stato che non dispone di Forze Armate è tutto, fuorché uno Stato.
Fu detto nel manifesto che nessun cittadino può essere trattenuto oltre i sette giorni senza un ordine dell'Autorità giudiziaria. Ciò non è sempre accaduto. Le ragioni sono da ricercarsi nella pluralità degli organi di Polizia nostri e alleati e nell'azione dei fuori legge, che hanno fatto scivolare questi problemi sul piano della guerra civile a base di rappresaglie e contro-rappresaglie. Su taluni episodi si è scatenata la speculazione dell'antifascismo, calcando le tinte e facendo le solite generalizzazioni. Debbo dichiarare nel modo più esplicito che taluni metodi mi ripugnano profondamente, anche se episodici. Lo Stato, in quanto tale, non può adottare metodi che lo degradano. Da secoli si parla della legge del taglione. Ebbene, è una legge, non un arbitrio più o meno personale.
Mazzini, l'inflessibile apostolo dell'idea repubblicana, mandò agli albori della Repubblica romana nel 1849 un commissario ad Ancona per insegnare ai giacobini che era lecito combattere i papalini, ma non ucciderli extra-legge, o prelevare, come si direbbe oggi, le argenterie dalle loro case. Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la tessera del Partito, merita doppia condanna.
Nessuna severità è in tal caso eccessiva, se si vuole che il Partito, come si legge nel «manifesto di Verona», sia veramente «un ordine di combattenti e di credenti, un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell'idea rivoluzionaria».
Alta personificazione di questo tipo di fascista fu il camerata Resega, che ricordo oggi e ricordiamo tutti con profonda emozione, nel primo anniversario della sua fine, dovuta a mano nemica.
Poiché attraverso la costituzione delle brigate nere il Partito sta diventando un «ordine di combattenti», il postulato di Verona ha il carattere di un impegno dogmatico e sacro. Nello stesso articolo 5, stabilendo che per nessun impiego o incarico viene richiesta la tessera del Partito, si dava soluzione al problema che chiamerò di collaborazione di altri elementi sul piano della Repubblica. Nel mio telegramma in data 10 marzo XXII ai capi delle provincie, tale formula veniva ripresa e meglio precisata. Con ciò ogni discussione sul problema della pluralità dei partiti appare del tutto inattuale.
In sede storica, nelle varie forme in cui la Repubblica come istituto politico trova presso i differenti popoli la sua estrinsecazione, vi sono molte repubbliche di tipo totalitario, quindi con un solo partito. Non citerò la più totalitaria di esse, quella dei sovieti, ma ricorderò una che gode le simpatie dei sommi bonzi del vangelo democratico: la Repubblica turca, che poggia su un solo partito, quello del popolo, e su una sola organizzazione giovanile, quella dei «focolari del popolo».
A un dato momento della evoluzione storica italiana può essere feconda di risultati, accanto al Partito unico e cioè responsabile della direzione globale dello Stato, la presenza di altri gruppi, che, come dice all'articolo tre il «manifesto di Verona», esercitino il diritto di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione. Gruppi che, partendo dall'accettazione leale, integrale e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica, socializzazione, abbiano la responsabilità di esaminare i provvedimenti del Governo e degli enti locali, di controllare i metodi di applicazione dei provvedimenti stessi e le persone che sono investite di cariche pubbliche e che devono rispondere al cittadino, nella sua qualità di soldato-lavoratore contribuente, del loro operato.
L'assemblea di Verona fissava al numero otto i suoi postulati di politica estera. Veniva solennemente dichiarato che il fine essenziale della politica estera della Repubblica è «l'unità, l'indipendenza, l'integrità territoriale della patria nei termini marittimi e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla storia».
Quanto all'unità territoriale, io mi rifiuto, conoscendo la Sicilia e i fratelli siciliani, di prendere sul serio i cosiddetti conati separatistici di spregevoli mercenari del nemico. Può darsi che questo separatismo abbia un altro motivo: che i fratelli siciliani vogliano separarsi dall'Italia di Bonomi per ricongiungersi con l'Italia repubblicana.
È mia profonda convinzione che, al di là di tutte le lotte e liquidato il criminoso fenomeno dei fuorilegge, l'unità morale degli italiani di domani sarà infinitamente più forte di quella di ieri, perché cementata da eccezionali sofferenze, che non hanno risparmiato una sola famiglia. E quando attraverso l'unità morale l'anima di un popolo è salva, è salva anche la sua integrità territoriale e la sua indipendenza politica.
A questo punto occorre dire una parola sull'Europa e relativo concetto. Non mi attardo a domandarmi che cosa è questa Europa, dove comincia e dove finisce dal punto di vista geografico, storico, morale, economico; né mi chiedo se oggi un tentativo di unificazione abbia migliore successo dei precedenti. Ciò mi porterebbe troppo lontano. Mi limito a dire che la costituzione di una comunità europea è auspicabile e forse anche possibile, ma tengo a dichiarare in forma esplicita che noi non ci sentiamo italiani in quanto europei, ma ci sentiamo europei in quanto italiani. La distinzione non è sottile, ma fondamentale.
Come la nazione è la risultante di milioni di famiglie che hanno una fisionomia propria, anche se posseggono il comune denominatore nazionale, così nella comunità europea ogni nazione dovrebbe entrare come un'entità ben definita, onde evitare che la comunità stessa naufraghi nell'internazionalismo di marca socialista o vegeti nel generico ed equivoco cosmopolitismo di marca giudaica e massonica.
Mentre taluni punti del programma di Verona sono stati scavalcati dalla successione degli eventi militari, realizzazioni più concrete sono state attuate nel campo economico-sociale.
Qui la innovazione ha aspetti radicali. I punti undici, dodici e tredici sono fondamentali. Precisati nella «premessa alla nuova struttura economica della nazione», essi hanno trovato nella legge sulla socializzazione la loro pratica applicazione. L'interesse suscitato nel mondo è stato veramente grande e oggi, dovunque, anche nell'Italia dominata e torturata dagli anglo-americani, ogni programma politico contiene il postulato della socializzazione.
Gli operai, dapprima alquanto scettici, ne hanno poi compreso l'importanza. La sua effettiva realizzazione è in corso. Il ritmo di ciò sarebbe stato più rapido in altri tempi. Ma il seme è gettato. Qualunque cosa accada, questo seme è destinato a germogliare. È il principio che inaugura quello che otto anni or sono, qui a Milano, di fronte a cinquecentomila persone acclamanti, vaticinai «secolo del lavoro», nel quale il lavoratore esce dalla condizione economico-morale di salariato per assumere quella di produttore, direttamente interessato agli sviluppi dell'economia e al benessere della nazione.
La socializzazione fascista è la soluzione logica e razionale che evita da un lato la burocratizzazione dell'economia attraverso il totalitarismo di Stato e supera l'individualismo dell'economia liberale, che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell'economia capitalistica, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove esigenze di carattere «sociale» delle comunità nazionali.
Attraverso la socializzazione i migliori elementi tratti dalle categorie lavoratrici faranno le loro prove. Io sono deciso a proseguire in questa direzione.
Due settori ho affidato alle categorie operaie: quello delle amministrazioni locali e quello alimentare. Tali settori, importantissimi specie nelle circostanze attuali, sono ormai completamente nelle mani degli operai. Essi devono mostrare, e spero mostreranno, la loro preparazione specifica e la loro coscienza civica.
Come vedete, qualche cosa si è fatto durante questi dodici mesi, in mezzo a difficoltà incredibili e crescenti, dovute alle circostanze obiettive della guerra e alla opposizione sorda degli elementi venduti al nemico e all'abulia morale che gli avvenimenti hanno provocato in molti strati del popolo.
In questi ultimissimi tempi la situazione è migliorata. Gli attendisti, coloro cioè che aspettavano gli anglo-americani, sono in diminuzione. Ciò che accade nell'Italia di Bonomi li ha delusi. Tutto ciò che gli anglo-americani promisero, si è appalesato un miserabile espediente propagandistico.
Credo di essere nel vero se affermo che le popolazioni della valle del Po non solo non desiderano, ma deprecano l'arrivo degli anglosassoni, e non vogliono saperne di un governo, che, pur avendo alla vicepresidenza un Togliatti, riporterebbe a nord le forze reazionarie, plutocratiche e dinastiche, queste ultime oramai palesemente protette dall'Inghilterra.
Quanto ridicoli quei repubblicani che non vogliono la Repubblica perché proclamata da Mussolini e potrebbero soggiacere alla monarchia voluta da Churchill. Il che dimostra in maniera irrefutabile che la monarchia dei Savoia serve la politica della Gran Bretagna, non quella dell'Italia!
Non c'è dubbio che la caduta di Roma è una data culminante nella storia della guerra. II generale Alexander stesso ha dichiarato che era necessaria alla vigilia dello sbarco in Francia una vittoria che fosse legata ad un grande nome, e non vi è nome più grande e universale di Roma; che fosse creata, quindi, una incoraggiante atmosfera.
Difatti, gli anglo-americani entrano in Roma il 5 giugno; all'indomani, 6, i primi reparti alleati sbarcano sulla costa di Normandia, tra i fiumi Vire e Orne. I mesi successivi sono stati veramente duri, su tutti i fronti dove i soldati del Reich erano e sono impegnati.
La Germania ha chiamato in linea tutte le riserve umane, con la mobilitazione totale affidata a Goebbels, e con la creazione della «Volkssturm». Solo un popolo come il germanico, schierato unanime attorno al Führer, poteva reggere a tale enorme pressione; solo un Esercito come quello nazionalsocialista poteva rapidamente superare la crisi del 20 luglio e continuare a battersi ai quattro punti cardinali con eccezionale tenacia e valore, secondo le stesse testimonianze del nemico.
Vi è stato un periodo in cui la conquista di Parigi e Bruxelles, la resa a discrezione della Romania, della Finlandia, della Bulgaria hanno dato motivo a un movimento euforico tale che, secondo corrispondenze giornalistiche, si riteneva che il prossimo Natale la guerra sarebbe stata praticamente finita, con l'entrata trionfale degli Alleati a Berlino.
Nel periodo di tale euforia venivano svalutate e dileggiate le nuove armi tedesche, impropriamente chiamate «segrete». Molti hanno creduto che grazie all'impiego di tali armi, a un certo punto, premendo un bottone, la guerra sarebbe finita di colpo. Questo miracolismo è ingenuo quando non sia doloso. Non si tratta di armi segrete, ma di «armi nuove», che, è lapalissiano il dirlo, sono segrete sino a quando non vengono impiegate in combattimento. Che tali armi esistano, lo sanno per amara constatazione gli inglesi; che le prime saranno seguite da altre, lo posso con cognizione di causa affermare; che esse siano tali da ristabilire l'equilibrio e successivamente la ripresa della iniziativa in mani germaniche, è nel limite delle umane previsioni quasi sicuro e anche non lontano.
Niente di più comprensibile delle impazienze, dopo cinque anni di guerra, ma si tratta di ordigni nei quali scienza, tecnica, esperienza, addestramento di singoli e di reparti devono procedere di conserva. Certo è che la serie delle sorprese non è finita; e che migliaia di scienziati germanici lavorano giorno e notte per aumentare il potenziale bellico della Germania.
Nel frattempo la resistenza tedesca diventa sempre più forte e molte illusioni coltivate dalla propaganda nemica sono cadute. Nessuna incrinatura nel morale del popolo tedesco, pienamente consapevole che è in gioco la sua esistenza fisica e il suo futuro come razza; nessun accenno di rivolta e nemmeno di agitazione fra i milioni e milioni di lavoratori stranieri, malgrado gli insistenti appelli e proclami del generalissimo americano. E indice eloquentissimo dello spirito della nazione è la percentuale dei volontari dell'ultima leva, che raggiunge la quasi totalità della classe. La Germania è in grado di resistere e di determinare il fallimento dei piani nemici.
Minimizzare la perdita di territori, conquistati e tenuti a prezzo di sangue, non è una tattica intelligente, ma lo scopo della guerra non è la conquista o la conservazione dei territori, bensì la distruzione delle forze nemiche, cioè la resa e quindi la cessazione delle ostilità.
Ora le Forze Armate tedesche non solo non sono distrutte, ma sono in una fase di crescente sviluppo e potenza.
Se si prende in esame la situazione dal punto di vista politico, sono maturati, in questo ultimo periodo del 1944, eventi e stati d'animo interessanti.
Pur non esagerando, si può osservare che la situazione politica non è oggi favorevole agli Alleati.
Prima di tutto in America, come in Inghilterra, vi sono correnti contrarie alla richiesta di resa a discrezione. La formula di Casablanca significa la morte di milioni di giovani, poiché prolunga indefinitamente la guerra; popoli come il tedesco e il giapponese non si consegneranno mai mani e piedi legati al nemico, il quale non nasconde i suoi piani di totale annientamento dei paesi del Tripartito.
Ecco perché Churchill ha dovuto sottoporre a doccia fredda i suoi connazionali surriscaldati e prorogare la fine del conflitto all'estate del 1945 per l'Europa e al 1947 per il Giappone.
Un giorno un ambasciatore sovietico a Roma, Potemkin, mi disse: «La prima guerra mondiale bolscevizzò la Russia, la seconda bolscevizzerà l'Europa». Questa profezia non si avvererà, ma se ciò accadesse, anche questa responsabilità ricadrebbe in primo luogo sulla Gran Bretagna.
Politicamente Albione è già sconfitta. Gli eserciti russi sono sulla Vistola e sul Danubio, cioè a metà dell'Europa. I partiti comunisti, cioè i partiti che agiscono al soldo e secondo gli ordini del maresciallo Stalin, sono parzialmente al potere nei paesi dell'occidente.
Che cosa significhi la «liberazione» nel Belgio, in Italia, in Grecia, lo dicono le cronache odierne. Miseria, disperazione, guerra civile. I «liberati»greci che sparano sui «liberatori» inglesi non sono che i comunisti russi che sparano sui conservatori britannici.
Davanti a questo panorama, la politica inglese è corsa ai ripari. In primo luogo, liquidando in maniera drastica o sanguinosa, come ad Atene, i movimenti partigiani, i quali sono l'ala marciante e combattente delle sinistre estreme, cioè del bolscevismo; in secondo luogo, appoggiando le forze democratiche, anche accentuate, ma rifuggenti dal totalitarismo, che trova la sua eccelsa espressione nella Russia dei sovieti.
Churchill ha inalberato il vessillo anticomunista in termini categorici nel suo ultimo discorso alla Camera dei Comuni, ma questo non può fare piacere a Stalin. La Gran Bretagna vuole riservarsi come zone d'influenza della democrazia l'Europa occidentale, che non dovrebbe essere contaminata, in alcun caso, dal comunismo.
Ma questa «fronda» di Churchill non può andare oltre ad un certo segno, altrimenti il grande maresciallo del Cremlino potrebbe adombrarsi. Churchill voleva che la zona d'influenza riservata alla democrazia nell'Occidente europeo fosse sussidiata da un patto tra Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Norvegia, in funzione antitedesca prima, eventualmente in funzione antirussa poi.
Gli accordi Stalin-De Gaulle hanno soffocato nel germe questa idea, che era stata avanzata, su istruzioni di Londra, dal belga Spaak. Il gioco è fallito e Churchill deve, per dirla all'inglese, mangiarsi il cappello e, pensando all'entrata dei Russi nel Mediterraneo e alla pressione russa nell'Iran, deve domandarsi se la politica di Casablanca non sia stata veramente per la «vecchia povera Inghilterra» una politica fallimentare.
Premuta dai due colossi militari dell'Occidente e dell'Oriente, dagli insolenti insaziabili cugini di oltre Oceano e dagli inesauribili euroasiatici, la Gran Bretagna vede in gioco e in pericolo il suo avvenire imperiale; cioè il suo destino. Che i rapporti «politici» tra gli Alleati non siano dei migliori, lo dimostra la faticosa preparazione del nuovo convegno a tre.
Parliamo ora del lontano e vicino Giappone. Più che certo, è dogmatico che l'impero del Sole Levante non piegherà mai e si batterà sino alla vittoria. In questi ultimi mesi le armi nipponiche sono state coronate da grandi successi. Le unità dello strombazzatissimo sbarco nell'isola di Leyte, una delle molte centinaia di isole che formano l'arcipelago delle Filippine, sbarco fatto a semplice scopo elettorale, sono, dopo due mesi, quasi al punto di prima.
Che cosa sia la volontà e l'anima del Giappone è dimostrato dai volontari della morte. Non sono decine, sono decine di migliaia di giovani che hanno come consegna questa: «Ogni apparecchio una nave nemica». E lo provano. Davanti a questa sovrumanamente eroica decisione, si comprende l'atteggiamento di taluni circoli americani, che si domandano se non sarebbe stato meglio per gli statunitensi che Roosevelt avesse tenuto fede alla promessa da lui fatta alle madri americane che nessun soldato sarebbe andato a combattere e a morire oltremare. Egli ha mentito, come è nel costume di tutte le democrazie.
È per noi, italiani della Repubblica, motivo di orgoglio avere a fianco come camerati fedeli e comprensivi i soldati, i marinai, gli aviatori del Tenno, che colle loro gesta s'impongono all'ammirazione del mondo.
Ora io vi domando: la buona semente degli italiani, degli italiani sani, i migliori, che considerano la morte per la patria come l'eternità della vita, sarebbe dunque spenta? (La folla grida: «No! No!»). Ebbene, nella guerra scorsa non vi fu un aviatore che non riuscendo ad abbattere con le armi l'aeroplano nemico, vi si precipitò contro, cadendo insieme con lui? Non ricordate voi questo nome? Era un umile sergente: Dall'Oro.
Nel 1935, quando l'Inghilterra voleva soffocarci nel nostro mare e io raccolsi il suo guanto di sfida (la folla si leva in piedi con un grido unanime di esaltazione: «Duce! Duce! Duce!») e feci passare ben quattrocentomila legionari sotto le navi di Sua Maestà britannica, ancorate nei porti del Mediterraneo, allora si costituirono in Italia, a Roma, le squadriglie della morte. Vi devo dire, per la verità, che il primo della lista era il comandante delle forze aeree. Ebbene, se domani fosse necessario ricostituire queste squadriglie, se fosse necessario mostrare che nelle nostre vene circola ancora il sangue dei legionari di Roma, il mio appello alla nazione cadrebbe forse nel vuoto? (La folla risponde: «No!»).
Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po (grida: «Sì!»); noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l'Italia sia repubblicana. (Grida entusiastiche: «Si! Tutta!»). Il giorno in cui tutta la valle del Po fosse contaminata dal nemico, il destino dell'intera nazione sarebbe compromesso; ma io sento, io vedo, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione irresistibile ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile agli invasori. Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po. (La folla prorompe in grida unanimi di consenso. Si grida: «Si! Sì!»).
Da quanto vi ho detto, balza evidente che non solo la coalizione nemica non ha vinto, ma che non vincerà. La mostruosa alleanza fra plutocrazia e bolscevismo ha potuto perpetrare la sua guerra barbarica come la esecuzione di un enorme delitto, che ha colpito folle di innocenti e distrutto ciò che la civiltà europea aveva creato in venti secoli. Ma non riuscirà ad annientare con la sua tenebra lo spirito eterno che tali monumenti innalzò.
La nostra fede assoluta nella vittoria non poggia su motivi di carattere soggettivo o sentimentale, ma su elementi positivi e determinanti. Se dubitassimo della nostra vittoria, dovremmo dubitare dell'esistenza di Colui che regola, secondo giustizia, le sorti degli uomini.
Quando noi come soldati della Repubblica riprenderemo contatto con gli italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato. La delusione, la miseria, l'abbiezione politica e morale esplode non solo nella vecchia frase «si stava meglio», con quel che segue, ma nella rivolta che da Palermo a Catania, a Otranto, a Roma stessa serpeggia in ogni parte dell'Italia «liberata».
Il popolo italiano al sud dell'Appennino ha l'animo pieno di cocenti nostalgie. L'oppressione nemica da una parte e la persecuzione bestiale del Governo dall'altra non fanno che dare alimento al movimento del fascismo. L'impresa di cancellarne i simboli esteriori fu facile; quella di sopprimerne l'idea, impossibile. (La folla grida: «Mai!»).
I sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo è morto, perché lo sentono vivo. Milioni di italiani confrontano ieri e oggi; ieri, quando la bandiera della patria sventolava dalle Alpi all'equatore somalo e l'italiano era uno dei popoli più rispettati della terra.
Non v'è italiano che non senta balzare il cuore nel petto nell'udire un nome africano, il suono di un inno che accompagnò le legioni dal Mediterraneo al Mar Rosso, alla vista di un casco coloniale. Sono milioni di italiani che dal 1919 al 1939 hanno vissuto quella che si può definire l'epopea della patria. Questi italiani esistono ancora, soffrono e credono ancora e sono disposti a serrare i ranghi per riprendere a marciare, onde riconquistare quanto fu perduto ed è oggi presidiato fra le dune libiche e le ambe etiopiche da migliaia e migliaia di caduti, il fiore di innumerevoli famiglie italiane, che non hanno dimenticato, né possono dimenticare.
Già si notano i segni annunciatori della ripresa, qui, soprattutto in questa Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha selvaggiamente colpito, ma non ha minimamente piegato.
Camerati, cari camerati milanesi!
È Milano che deve dare e darà gli uomini, le armi, la volontà e il segnale della riscossa!
1943
18 settembre 1943
Benito Mussolini, imprigionato sul Gran Sasso, dopo la liberazione per mano tedesca, annuncia attraverso radio Monaco la fondazione della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), sotto il testo di quanto trasmesso.
Camicie Nere, Italiani e Italiane!
Dopo un lungo silenzio, ecco che nuovamente ví giunge la mia voce e sono sicuro che la riconoscerete: è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili e che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria.
Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi perché, dopo un periodo di isolamento morale, era necessario che riprendessi contatto col mondo.
La radio non ammette lunghi discorsi. Senza ricordare per ora i precedenti, vengo al pomeriggio del 25 luglio, nel quale accadde quella che, nella mia già abbastanza avventurosa vita, è la più incredibile delle avventure.
II colloquio che io ebbi col Re a Vílla Savoia durò venti minuti e forse meno. Trovai un uomo col quale ogni ragionamento era impossibile, poiché egli aveva già preso le sue decisioni. Lo scoppio della crisi era imminente.
E' già accaduto, in pace e in guerra, che un ministro sia dimissionario, un comandante silurato, ma è un fatto unico nella storia che un uomo il quale, come colui che vi parla, aveva per ventun anni servito il Re con assoluta, dico assoluta, lealtà, sia fatto arrestare sulla soglia della casa privata del Re, costretto a salire su una autoambulanza della Croce Rossa, col pretesto di sottrarlo ad un complotto, e condotto ad una velocità pazza, prima in una, poi in altra caserma dei carabinieri.
Ebbi subito l'impressione che la protezione non era in realtà che un fermo. Tale impressione crebbe, quando da Roma fui condotto a Ponza e successivamente mi convinsi, attraverso le peregrinazioni da Ponza alla Maddalena e dalla Maddalena al Gran Sasso, che il piano progettato contemplava la consegna della mia persona al nemico.
Avevo però la netta sensazione, pur essendo completamente isolato dal mondo, che il Fuhrer si preoccupava della mia sorte. Goering mi mandò un telegramma più che cameratesco, fraterno. Più tardi il Fuihrer mi fece pervenire una edizione veramente monumentale dell'opera di Nietzsche.
La parola "fedeltà" ha un significato profondo, inconfondibile, vorrei dire eterno, nell'anima tedesca, è la parola che nel collettivo e nell'individuale riassume il mondo spirituale germanico.
Ero convinto che ne avrei avuto la prova. Conosciute le condizioni dell'armistizio, non ebbi più un minuto di dubbio circa quanto si nascondeva nel testo dell'articolo 12. Del resto, un alto funzionario mi aveva detto: "Voi siete un ostaggio".
Nella notte dall'11 al 12 settembre feci sapere che i nemíci non mi avrebbero avuto vivo nelle loro mani. C'era nell'aria limpida attorno all'imponente cima del monte, una specie di aspettazione. Erano le 14 quando vidi atterrare il primo aliante, poi successivamente altri: quindi, squadre di uomini avanzarono verso il rifugio decisi a spezzare qualsiasi resistenza.
Le guardie che mi vegliavano lo capirono e non un colpo partì. Tutto è durato 5 minuti: l'impresa rivelatrice dell'organizzazione e dello spirito di iniziativa e della decisione tedesca rimarrà memorabile nella storia della guerra. Col tempo diverrà leggendaria.
Qui finisce il capitolo che potrebbe essere chiamato il mio dramma personale, ma esso è un ben trascurabile episodio di fronte alla spaventosa tragedia in cui il 1° governo democratico liberale e costituzionale del 25 luglio ha gettato l'intera nazione. Non credevo in un primo tempo che il governo del 25 luglio avesse programmi cosi catastrofici nei confronti del partito, del regime, della nazione stessa. Ma dopo pochi giorni le prime misure indicavano che era in atto l'applicazione di un programma tendente a distruggere l'opera compiuta dal regime durante venti anni ed a cancellare vent'anni di storia gloriosa che aveva dato all'Italia un impero ed un posto che non aveva maí avuto nel mondo.
Oggi, davanti alle rovine, davanti alla guerra che continua noi spettatori sul nostro territorio taluno vorrebbe sottilizzare per cercare formule di compromesso e attenuanti per quanto riguarda le responsabilità e quindi continuare nell'equivoco.
Mentre rivendichíamo in pieno la nostra responsabilità, vogliamo precisare quelle degli altri a cominciare dal Capo dello Stato, essendosi scoperto che, non avendo abdicato, come la maggioranza degli italiani si attendeva, può e deve essere chiamato direttamente in causa.
E' la stessa dinastia che, durante tutto il periodo della guerra, pur avendola il Re dichiarata, è stata l'agente principale del disfattismo e della propaganda antitedesca. II suo disinteresse all'andamento della guerra, le prudenti e non sempre prudenti riserve mentali, si prestarono a tutte le speculazioni del nemico mentre l'erede, che pure aveva voluto assumere il comando delle armate del sud, non è mai comparso sui campi di battaglia.
Sono ora più che mai convinto che casa Savoia ha voluto, preparato, organizzato anche nei minimi dettagli il colpo di stato, complice ed esecutore Badoglio, complici taluni generali imbelli ed imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo. Non può esistere alcun dubbío che il Re ha autorizzato, subito dopo la mia cattura, le trattative dell'armistizio, trattative che forse erano già incominciate tra le due dinastie di Roma e di Londra.
E' stato il Re che ha consigliato i suoi complici di ingannare nel modo più miserabile la Germania, smentendo anche dopo la firma che trattative fossero in corso.
E' il complesso dinastico che ha premeditato ed eseguito le demolizioni del regime che pur vent'anni fa l'aveva salvato e creato il potente diversivo interno a base del ritorno dello Statuto del 1848 e della libertà protetta dallo stato d'assedio. Quanto alle condizioni dell'armistizio, che dovevano essere generose, sono tra le più dure che la storia ricordi. II Re non ha fatto obbiezioni di sorta nemmeno, ben inteso, per quanto riguardava la premeditata consegna della mia persona al nemico. E' il Re che ha, con il suo gesto, dettato dalla preoccupazione per l'avvenire della sua Corona, creata per l'Italia una situazione di caos, di vergogna interna, che si riassume nei seguenti termini: in tutti i continenti, dalla estrema Asia all'America, si sa che cosa significhi tener fede ai patti da parte di casa Savoia.
Gli stessi nemici, ora che abbiano accettato la vergognosa capitolazione, non ci nascondono il loro disprezzo, né potrebbe accadere diversamente. L'Inghilterra, ad esempio, che nessuno pensava di attaccare e specialmente il Fuhrer non pensava di farlo è scesa in campo, secondo le affermazioni di Churchill, per la parola data alla Polonia.
D'ora innanzi può accadere che anche nei rapporti privati ogni italiano sia sospettato. Se tutto ciò portasse conseguenze solo per il gruppo dei responsabili, il male non sarebbe grave; ma non bisogna farsi illusioni: tutto ciò viene scontato dal popolo italiano, dal primo all'ultimo dei suoi cittadini.
Dopo l'onore compromesso, abbiamo perduto, oltre i territori metropolitani occupati e saccheggiati dal nemico, anche, e forse per sempre, tutte le nostre posizioni adriatiche, joniche, egee e francesi che avevamo conquistato non senza sacrifici di sangue.
II regio Esercito si è quasi dovunque rapidamente sbandato. E niente è più umiliante che essere disarmato da un alleato tradito tra lo scherno delle popolazioni.
Questa umiliazione deve essere stata soprattutto sanguinosa per quegli ufficiali e soldati che si erano battuti da valorosi accanto ai loro camerati tedeschi su tanti campi di battaglia. Negli stessi cimiteri di Africa e di Russia, dove soldati italiani e tedeschi riposano insieme, dopo l'ultimo combattimento, deve essere stato sentito il peso di questa ignominia.
La regia Marina, costruita tutta durante il ventennio fascista, si è consegnata al nemico, in quella Malta che costituiva e più ancora costituirà la minaccia permanente contro l'Italia e il caposaldo dell'imperialismo inglese nel Mediterraneo.
Solo l'aviazione ha potuto salvare buona parte del suo materiale, ma anch'essa è praticamente disorganizzata. Queste sono le responsabilità indiscutibili, documentate irrefutabilmente anche nel discorso del Fuhrer, il quale ha narrato, ora per ora, l'inganno teso alla Germania, inganno rafforzato dai micidiali bombardamenti che gli angloamericani, d'accordo col governo di Badoglio, hanno continuato, malgrado la firma dell'armistizio, contro grandi e piccole città dell'Italia centrale.
Date queste condizioni, non è il regime che ha tradito la monarchia, ma è la monarchia che ha tradito il regime, tanto che oggi è decaduta nelle coscienze del popolo ed è semplicemente assurdo supporre che ciò possa compromettere minimamente la compagine unitaria del popolo italiano. Quando una monarchia manca a quelli che sono i suoi compiti, essa perde ogni ragione di vita. Quanto alle tradizioni, ve ne sono più repubblicane che monarchiche: più che dai monarchici, l'unità e l'indipendenza d'Italia fu voluta, contro tutte le monarchie più o meno straniere, dalla corrente repubblicana che ebbe il suo puro e grande apostolo in Giuseppe Mazzini.
Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola: sarà cioè fascista nel senso delle nostre origini. Nell'attesa che il movimento si sviluppi fino a diventare irresistibile, i nostri postulati sono i seguenti:
1) riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati: soltanto il sangue può cancellare una pagina cosi obbrobriosa nella storia della Patria;
2) preparare, senza indugio, la riorganizzazione delle nostre Forze Armate attorno alle formazioni della Milizia; solo chi è animato da una fede e combatte per una idea non misura l'entità del sacrificio;
3) eliminare i traditori e in particolar modo quelli che fino alle 21,30 del 25 luglio militavano, talora da parecchi anni, nelle file del partito e sono passati nelle file del nemico;
4) annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il soggetto dell'economia e la base infrangibile dello Stato.
Camicie Nere fedeli di tutta Italia!
lo vi chiamo nuovamente al lavoro e alle armi. L’esultanza del nemico per la capitolazione dell'Italia non significa che esso abbia già la vittoria nel pugno, poiché i due grandi imperi Germania e Giappone non capitoleranno mai.
Voi, squadristi, ricostituite i vostri battaglioni che hanno compiuto eroiche gesta.
Voi, giovani fascisti, inquadratevi nelle divisioni che debbono rinnovare, sul suolo della Patria, la gloriosa impresa di Bir el Cobi.
Voi, aviatori, tornate accanto ai vostri camerati tedeschi ai vostri posti di pilotaggio, per rendere vana e dura l'azione nemica sulle nostre città.
Voi, donne fasciste, riprendete la vostra opera di assistenza morale e materiale, cosi necessaria al popolo. Contadini, operai e piccoli impiegati, lo Stato che uscirà dall'immane travaglio sarà il vostro e come tale lo difenderete contro chiunque sogni ritorni impossibili. La nostra volontà, il nostro coraggio e la vostra fede ridaranno all'Italia il suo volto, il suo avvenire, le sue possibilità di vita e il suo posto nel mondo. Più che una speranza, questa deve essere, per voi tutti, una suprema certezza.
Viva l'Italia! Viva il Partito Fascista Repubblicano!
[url=https://servimg.com/view/12992028/2209]Camicie Nere, Italiani e Italiane!
Dopo un lungo silenzio, ecco che nuovamente ví giunge la mia voce e sono sicuro che la riconoscerete: è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili e che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria.
Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi perché, dopo un periodo di isolamento morale, era necessario che riprendessi contatto col mondo.
La radio non ammette lunghi discorsi. Senza ricordare per ora i precedenti, vengo al pomeriggio del 25 luglio, nel quale accadde quella che, nella mia già abbastanza avventurosa vita, è la più incredibile delle avventure.
II colloquio che io ebbi col Re a Vílla Savoia durò venti minuti e forse meno. Trovai un uomo col quale ogni ragionamento era impossibile, poiché egli aveva già preso le sue decisioni. Lo scoppio della crisi era imminente.
E' già accaduto, in pace e in guerra, che un ministro sia dimissionario, un comandante silurato, ma è un fatto unico nella storia che un uomo il quale, come colui che vi parla, aveva per ventun anni servito il Re con assoluta, dico assoluta, lealtà, sia fatto arrestare sulla soglia della casa privata del Re, costretto a salire su una autoambulanza della Croce Rossa, col pretesto di sottrarlo ad un complotto, e condotto ad una velocità pazza, prima in una, poi in altra caserma dei carabinieri.
Ebbi subito l'impressione che la protezione non era in realtà che un fermo. Tale impressione crebbe, quando da Roma fui condotto a Ponza e successivamente mi convinsi, attraverso le peregrinazioni da Ponza alla Maddalena e dalla Maddalena al Gran Sasso, che il piano progettato contemplava la consegna della mia persona al nemico.
Avevo però la netta sensazione, pur essendo completamente isolato dal mondo, che il Fuhrer si preoccupava della mia sorte. Goering mi mandò un telegramma più che cameratesco, fraterno. Più tardi il Fuihrer mi fece pervenire una edizione veramente monumentale dell'opera di Nietzsche.
La parola "fedeltà" ha un significato profondo, inconfondibile, vorrei dire eterno, nell'anima tedesca, è la parola che nel collettivo e nell'individuale riassume il mondo spirituale germanico.
Ero convinto che ne avrei avuto la prova. Conosciute le condizioni dell'armistizio, non ebbi più un minuto di dubbio circa quanto si nascondeva nel testo dell'articolo 12. Del resto, un alto funzionario mi aveva detto: "Voi siete un ostaggio".
Nella notte dall'11 al 12 settembre feci sapere che i nemíci non mi avrebbero avuto vivo nelle loro mani. C'era nell'aria limpida attorno all'imponente cima del monte, una specie di aspettazione. Erano le 14 quando vidi atterrare il primo aliante, poi successivamente altri: quindi, squadre di uomini avanzarono verso il rifugio decisi a spezzare qualsiasi resistenza.
Le guardie che mi vegliavano lo capirono e non un colpo partì. Tutto è durato 5 minuti: l'impresa rivelatrice dell'organizzazione e dello spirito di iniziativa e della decisione tedesca rimarrà memorabile nella storia della guerra. Col tempo diverrà leggendaria.
Qui finisce il capitolo che potrebbe essere chiamato il mio dramma personale, ma esso è un ben trascurabile episodio di fronte alla spaventosa tragedia in cui il 1° governo democratico liberale e costituzionale del 25 luglio ha gettato l'intera nazione. Non credevo in un primo tempo che il governo del 25 luglio avesse programmi cosi catastrofici nei confronti del partito, del regime, della nazione stessa. Ma dopo pochi giorni le prime misure indicavano che era in atto l'applicazione di un programma tendente a distruggere l'opera compiuta dal regime durante venti anni ed a cancellare vent'anni di storia gloriosa che aveva dato all'Italia un impero ed un posto che non aveva maí avuto nel mondo.
Oggi, davanti alle rovine, davanti alla guerra che continua noi spettatori sul nostro territorio taluno vorrebbe sottilizzare per cercare formule di compromesso e attenuanti per quanto riguarda le responsabilità e quindi continuare nell'equivoco.
Mentre rivendichíamo in pieno la nostra responsabilità, vogliamo precisare quelle degli altri a cominciare dal Capo dello Stato, essendosi scoperto che, non avendo abdicato, come la maggioranza degli italiani si attendeva, può e deve essere chiamato direttamente in causa.
E' la stessa dinastia che, durante tutto il periodo della guerra, pur avendola il Re dichiarata, è stata l'agente principale del disfattismo e della propaganda antitedesca. II suo disinteresse all'andamento della guerra, le prudenti e non sempre prudenti riserve mentali, si prestarono a tutte le speculazioni del nemico mentre l'erede, che pure aveva voluto assumere il comando delle armate del sud, non è mai comparso sui campi di battaglia.
Sono ora più che mai convinto che casa Savoia ha voluto, preparato, organizzato anche nei minimi dettagli il colpo di stato, complice ed esecutore Badoglio, complici taluni generali imbelli ed imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo. Non può esistere alcun dubbío che il Re ha autorizzato, subito dopo la mia cattura, le trattative dell'armistizio, trattative che forse erano già incominciate tra le due dinastie di Roma e di Londra.
E' stato il Re che ha consigliato i suoi complici di ingannare nel modo più miserabile la Germania, smentendo anche dopo la firma che trattative fossero in corso.
E' il complesso dinastico che ha premeditato ed eseguito le demolizioni del regime che pur vent'anni fa l'aveva salvato e creato il potente diversivo interno a base del ritorno dello Statuto del 1848 e della libertà protetta dallo stato d'assedio. Quanto alle condizioni dell'armistizio, che dovevano essere generose, sono tra le più dure che la storia ricordi. II Re non ha fatto obbiezioni di sorta nemmeno, ben inteso, per quanto riguardava la premeditata consegna della mia persona al nemico. E' il Re che ha, con il suo gesto, dettato dalla preoccupazione per l'avvenire della sua Corona, creata per l'Italia una situazione di caos, di vergogna interna, che si riassume nei seguenti termini: in tutti i continenti, dalla estrema Asia all'America, si sa che cosa significhi tener fede ai patti da parte di casa Savoia.
Gli stessi nemici, ora che abbiano accettato la vergognosa capitolazione, non ci nascondono il loro disprezzo, né potrebbe accadere diversamente. L'Inghilterra, ad esempio, che nessuno pensava di attaccare e specialmente il Fuhrer non pensava di farlo è scesa in campo, secondo le affermazioni di Churchill, per la parola data alla Polonia.
D'ora innanzi può accadere che anche nei rapporti privati ogni italiano sia sospettato. Se tutto ciò portasse conseguenze solo per il gruppo dei responsabili, il male non sarebbe grave; ma non bisogna farsi illusioni: tutto ciò viene scontato dal popolo italiano, dal primo all'ultimo dei suoi cittadini.
Dopo l'onore compromesso, abbiamo perduto, oltre i territori metropolitani occupati e saccheggiati dal nemico, anche, e forse per sempre, tutte le nostre posizioni adriatiche, joniche, egee e francesi che avevamo conquistato non senza sacrifici di sangue.
II regio Esercito si è quasi dovunque rapidamente sbandato. E niente è più umiliante che essere disarmato da un alleato tradito tra lo scherno delle popolazioni.
Questa umiliazione deve essere stata soprattutto sanguinosa per quegli ufficiali e soldati che si erano battuti da valorosi accanto ai loro camerati tedeschi su tanti campi di battaglia. Negli stessi cimiteri di Africa e di Russia, dove soldati italiani e tedeschi riposano insieme, dopo l'ultimo combattimento, deve essere stato sentito il peso di questa ignominia.
La regia Marina, costruita tutta durante il ventennio fascista, si è consegnata al nemico, in quella Malta che costituiva e più ancora costituirà la minaccia permanente contro l'Italia e il caposaldo dell'imperialismo inglese nel Mediterraneo.
Solo l'aviazione ha potuto salvare buona parte del suo materiale, ma anch'essa è praticamente disorganizzata. Queste sono le responsabilità indiscutibili, documentate irrefutabilmente anche nel discorso del Fuhrer, il quale ha narrato, ora per ora, l'inganno teso alla Germania, inganno rafforzato dai micidiali bombardamenti che gli angloamericani, d'accordo col governo di Badoglio, hanno continuato, malgrado la firma dell'armistizio, contro grandi e piccole città dell'Italia centrale.
Date queste condizioni, non è il regime che ha tradito la monarchia, ma è la monarchia che ha tradito il regime, tanto che oggi è decaduta nelle coscienze del popolo ed è semplicemente assurdo supporre che ciò possa compromettere minimamente la compagine unitaria del popolo italiano. Quando una monarchia manca a quelli che sono i suoi compiti, essa perde ogni ragione di vita. Quanto alle tradizioni, ve ne sono più repubblicane che monarchiche: più che dai monarchici, l'unità e l'indipendenza d'Italia fu voluta, contro tutte le monarchie più o meno straniere, dalla corrente repubblicana che ebbe il suo puro e grande apostolo in Giuseppe Mazzini.
Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola: sarà cioè fascista nel senso delle nostre origini. Nell'attesa che il movimento si sviluppi fino a diventare irresistibile, i nostri postulati sono i seguenti:
1) riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati: soltanto il sangue può cancellare una pagina cosi obbrobriosa nella storia della Patria;
2) preparare, senza indugio, la riorganizzazione delle nostre Forze Armate attorno alle formazioni della Milizia; solo chi è animato da una fede e combatte per una idea non misura l'entità del sacrificio;
3) eliminare i traditori e in particolar modo quelli che fino alle 21,30 del 25 luglio militavano, talora da parecchi anni, nelle file del partito e sono passati nelle file del nemico;
4) annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il soggetto dell'economia e la base infrangibile dello Stato.
Camicie Nere fedeli di tutta Italia!
lo vi chiamo nuovamente al lavoro e alle armi. L’esultanza del nemico per la capitolazione dell'Italia non significa che esso abbia già la vittoria nel pugno, poiché i due grandi imperi Germania e Giappone non capitoleranno mai.
Voi, squadristi, ricostituite i vostri battaglioni che hanno compiuto eroiche gesta.
Voi, giovani fascisti, inquadratevi nelle divisioni che debbono rinnovare, sul suolo della Patria, la gloriosa impresa di Bir el Cobi.
Voi, aviatori, tornate accanto ai vostri camerati tedeschi ai vostri posti di pilotaggio, per rendere vana e dura l'azione nemica sulle nostre città.
Voi, donne fasciste, riprendete la vostra opera di assistenza morale e materiale, cosi necessaria al popolo. Contadini, operai e piccoli impiegati, lo Stato che uscirà dall'immane travaglio sarà il vostro e come tale lo difenderete contro chiunque sogni ritorni impossibili. La nostra volontà, il nostro coraggio e la vostra fede ridaranno all'Italia il suo volto, il suo avvenire, le sue possibilità di vita e il suo posto nel mondo. Più che una speranza, questa deve essere, per voi tutti, una suprema certezza.
Viva l'Italia! Viva il Partito Fascista Repubblicano!
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Ultima modifica di Admin il Dom 11 Mar 2018, 18:46 - modificato 2 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Anno - 1920
Milano, 24 maggio 1920: MUSSOLINI interviene per celebbrare il quinto anniversario dell'entrata in guerra.
Milano, 24 maggio 1920: MUSSOLINI interviene per celebbrare il quinto anniversario dell'entrata in guerra.
Inaugurandosi la seconda Adunata Nazionale dei Fasci di Combattimento al Teatro Lirico di Milano il 24 maggio 1920 quinto anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia MUSSOLINI pronunciava il seguente discorso:
Le parole in determinati momenti possono essere dei fatti. Supponiamo dunque e facciamo sì che tutte le parole pronunziate qui oggi siano delle azioni potenziali dell'oggi e reali del domani. Cinque anni fa in questi giorni l'entusiasmo popolare prorompeva in tutte le piazze e le strade d'Italia. Ed in questi giorni rivedendo i documenti dell'epoca posso affermare a tanta distanza di tempo con sicura e pura coscienza che la causa dell'intervento nelle settimane del maggio non fu sposata dalla cosidetta borghesia ma dalla parte più sana e migliore del popolo italiano. E quando dico popolo intendo parlare anche del proletariato perché nessuno può pensare che le migliaia di cittadini che nelle giornate di maggio seguivano Corridoni fossero tutti dei borghesi. Ricordo che una Camera del lavoro agricola quella di Parma a grande maggioranza si dichiarò favorevole all'intervento dell'Italia.
Anche ammesso che la guerra sia stata un errore ed io non lo ammetto di animo spregevole è colui che sputa su questo sacrificio. Se si vuole ritornare ad un esame critico io sono disposto ad affrontare in contradditorio chiunque ed a dimostrare:
1°) che la guerra fu voluta dagli Imperi centrali come è stato confessato dagli uomini politici della repubblica tedesca e come hanno confermato gli archivi dell'impero;
2°) che l'Italia non poteva rimanere neutrale;
3°) che se fosse rimasta neutrale oggi si troverebbe in una condizione peggiore di quella in cui si trova.
D'altra parte noi interventisti non dobbiamo stupirci se il mare è in tempesta. Sarebbe assurdo pretendere che un popolo uscente da una crisi così grave si rimetta a posto nelle 24 ore successive. E quando voi pensate che a due anni di distanza non abbiamo ancora la nostra pace quando voi pensate al trattamento fattoci dagli alleati alla deficienza dei nostri governanti voi dovete comprendere certe crisi di dubbio. Ma la guerra ha dato quello che doveva dare: la vittoria.
Fischiando poco fa la evocazione della falce e del martello voi non avete certamente voluto spregiare questi che sono due strumenti del lavoro umano. Niente di più bello e di più nobile della falce che ci dà il pane e del martello che forgia i metalli. Non dunque spregio al lavoro manuale. Dobbiamo comprendere che questa sopravalutazione odierna del lavoro manuale è data dal fatto che la umanità soffre della mancanza dei beni materiali. Ed è naturale che coloro che producono questi elementi necessari abbiano una sopravalutazione eccessiva. Noi non rappresentiamo un punto di reazione. Diciamo alle masse di non andare troppo oltre e di non pretendere di trasformare la società attraverso un figurino che poi non conoscono. Se trasformazioni devono verificarsi devono avvenire tenendo conto degli elementi storici e psicologici della nostra civiltà.
Non intendiamo osteggiare il movimento delle masse lavoratrici ma intendiamo smascherare la ignobile turlupinatura che ai danni delle masse lavoratrici fa una accozzaglia di borghesi semi borghesi e pseudo borghesi che per il solo fatto di avere la tessera credono di essere diventati salvatori dell'umanità. Non contro il proletariato ma contro il partito socialista fino a quando continuerà ad essere anti-italiano. Il partito socialista ha continuato dopo la vittoria a svalutare la guerra a fare la guerra all'intervento ed agli interventisti minacciando rappresaglie e scomuniche. Ebbene io per mio conto non cedo. Delle scomuniche me ne rido ma davanti alle rappresaglie risponderemo con le nostre sacrosante rappresaglie. Noi non possiamo però andare contro il popolo perché il popolo è quello che ha fatto la guerra. I contadini che oggi si agitano per risolvere il problema terriero non possono essere guardati da noi con antipatia. Commetteranno degli eccessi ma vi prego di considerare che il nerbo delle fanterie era composto di contadini che chi ha fatto la guerra sono stati i contadini.
Noi non ci illudiamo di riuscire a silurare completamente la ormai naufragante nave bolscevica. Ma io noto già dei segni di resipiscenza. Credo che ad un dato momento la massa operaia stanca di lasciarsi mistificare tornerà verso di nei riconoscendo che non l'abbiamo mai adulata ma abbiamo sempre detta la parola della brutale verità facendo realmente il suo interesse. Se oggi l'Italia non è precipitata nel baratro ungherese lo si deve anche a noi che ci siamo messi di traverso con la nostra azione e con la nostra vita. Un solo dovere abbiamo dunque: comprendere i fenomeni sociali che si svolgono sotto i nostri occhi combattere i mistificatori del popolo ed avere una fede sicura e assoluta nell'avvenire della nazione.
All'indomani di tutte le grandi crisi storiche c'è sempre stato un periodo di lassitudine. Ma poi a poco a poco i muscoli stanchi riprendono. Tutto ciò che fu ieri trascurato e vilipeso ritorna ad essere onorato ed ammirato. Oggi non si vuole più sentire parlare di guerra ed è naturale. Ma fra qualche tempo la psicologia del popolo sarà mutata e tutto o gran parte del popolo italiano riconoscerà il valore morale e materiale della vittoria; tutto il popolo onorerà i suoi combattenti e combatterà quei governi che non volessero garantire l'avvenire della nazione. Tutto il popolo onorerà gli arditi.
Sono gli arditi che andavano alle trincee cantando e se siamo ritornati dal Piave all'Isonzo è merito degli arditi; se teniamo ancora Fiume è merito degli arditi; se siamo ancora nella Dalmazia lo dobbiamo agli arditi. Tre martiri fra i mille che hanno consacrato la guerra italiana hanno voluto fissare i destini della nazione: Battisti ci dice che il Brennero deve essere il confine d'Italia; Sauro ci dice che l'Adriatico deve essere un mare italiano e commercialmente italo-slavo; Rismondo ci dice che la Dalmazia è italiana. Ebbene giuriamo davanti al vessillo che porta le insegne della morte che infutura la vita e della vita che non teme la morte di tener fede al sacrificio di questi martiri.
Trieste, 20 settembre 1920: MUSSOLINI Parla al Popolo triestino.
Nel cinquantesimo anniversario del compimento della prima fase dell'unità italiana - MUSSOLINI pronunciava questo discorso in Trieste al Politeama Rossetti. Coglieva l'occasione per considerare in una sintesi critica l'attivo e il passivo del Risorgimento italiano e della più recente Storia d'Italia per stabilire la genesi i compiti e i fini del Fascismo.
Questo discorso - critico e programmatico a un tempo — è uno di quelli che pongono nei momenti più torbidi e tristi le chiare basi della ricostruzione.
Io non vi considero o triestini come degli italiani ai quali non si può dire ancora la verità o tutta la verità poiché io vi considero come i migliori fra gli italiani ed il vostro entusiasmo di oggi me lo dimostra. L'evento che ebbe il 20 settembre 1870 in Roma il suo compimento fu un magnifico quadro dentro ad una mediocre cornice né su ciò mi soffermerò.
Dopo cinquant'anni dalla Breccia di Porta Pia noi dobbiamo fare il nostro esame di coscienza. Una nazione come la nostra che era uscita da una lunga divisione plurisecolare che aveva appena raggiunto l'unità non aveva ossa sufficientemente robuste per reggere il peso di una politica mondiale. Un uomo grande nel pensiero italiano Francesco Crispi ruppe questa tradizione.
In cinquant'anni di vita l'Italia ha realizzato progressi meravigliosi. Prima di tutto c'è un dato di fatto: ed è la vitalità della nostra stirpe della nostra razza. Ci sono delle nazioni che ogni anno devono compulsare con una certa preoccupazione i registri dello stato civile perché o signori è appunto in questo disquilibrio che si producono le grandi crisi dei popoli e voi sapete a chi alludo. Ma l'Italia non ha di queste preoccupazioni. L'Italia faceva 27.000.000 di abitanti nel 1870; ne ha 50.000.000 adesso: 40.000.000 nella penisola ed è il blocco più omogeneo che ci sia in Europa. Perché a paragone del blocco boemo ad esempio dove 5.000.000 di czechi governano 7.000.000 di altra razza l'Italia non ha che 180.000 tedeschi nell'Alto Adige immigrati in casa nostra; non ha che 360.000 slavi immigrati in casa nostra mentre tutto il resto è un blocco unico e compatto. E accanto a questi 40.000.000 in Italia ce ne sono 10.000.000 che hanno straripato in tutti i continenti oltre tutti gli oceani: 700.000 italiani sono a Nuova York 400.000 nello Stato di San Paolo dove la lingua di stato dovrà divenire la lingua italiana 900.000 nella Repubblica Argentina 120.000 in Tunisia quella Tunisia alla quale rinunciammo in un momento di minchioneria colossale: quella Tunisia che abbiamo riconquistato attraverso l'opera meravigliosa dei coloni siciliani che ivi hanno trasportato le loro tende che oggi lavorano per la reggenza francese ma che molto probabilmente lavoreranno domani sotto la reggenza italiana.
È un peccato che gli stranieri ci conoscano poco ma è anche più grave che gli italiani conoscano poco l'Italia perché se la conoscessero si vedrebbe che molti popoli d'oltre confine sono ancora più indietro di noi si saprebbe che nel campo industriale il più potente impianto idroelettrico del mondo è in Italia. E non mi si parli di forze reazionarie in Italia. Mi fanno ridere quelli che parlano di governo reazionario specialmente se sono elementi immigrati o rinnegati di Trieste; perché se c'è un paese al mondo dove la libertà sta per sconfinare nella licenza dove la libertà è patrimonio inviolabile di tutti i cittadini è l'Italia.
Non si è visto ancora in Italia quello che si è visto in Francia dove per uno sciopero politico la Repubblica francese ha sciolto la Confederazione generale del Lavoro ha legato i capi e li tiene ancora in galera; non si è visto ancora quello che si è visto in Inghilterra dove elementi cosiddetti non desiderabili sono spediti oltre la Manica e non si è visto ancora in Italia quello che si è visto compiuto nell'ultra democratica repubblica degli Stati Uniti dove in una sola notte 500 cosiddetti sovversivi vengono legati e spediti in 24 ore oltre l'Atlantico. Se c'è qualche cosa da dire è questo: è tempo di imporre una ferrea disciplina ai singoli ed alle folle perché un conto è la rinnovazione sociale alla quale non siamo contrari e un conto è la dissoluzione in casa. Finché si parla di trasformazione noi ci siamo tutti ma quando invece si vuol fare il salto nel buio allora noi poniamo il nostro alto là. Passerete diciamo ma passerete sui nostri corpi; prima dovete vincere la nostra resistenza.
Ora dopo mezzo secolo di vita italiana che io vi ho così schematicamente riassunto Trieste è italiana e sul Brennero sventola il tricolore. Se fosse possibile attardarci un minuto a misurare la grandiosità dell'evento voi trovereste che il fatto che sul Brennero ci sia il tricolore è un fatto d'importanza capitale non solo nella storia italiana ma anche nella storia europea. Il tricolore sul Brennero significa che i tedeschi non caleranno più impunemente nelle nostre contrade. Si sono messi tra noi e loro i ghiacciai e sopra i ghiacciai quei magnifici alpini che andavano all'assalto del Monte Nero che si sono sacrificati all'Ortigara ed hanno sulle loro bandiere il motto: «Di qui non si passa». (Applausi fragorosi).
Ora è un fatto importantissimo che Trieste è venuta all'Italia dopo una vittoria colossale.
Se noi non fossimo così quotidianamente presi dalle necessità della vita materiale se non avessimo continuamente attraversato il pensiero da altri problemi mediocri e banali noi sapremmo misurare tutto ciò che si svolse sulle rive del Piave nel giugno ed a Vittorio Veneto nell'ottobre. Un impero andò in isfacelo in un'ora un impero che aveva resistito nei secoli un impero dove si era sviluppata necessariamente un'arte sopraffina di governo che consisteva nel suo eterno divide et impera saggiamente secondo la sapienza di Budapest e di Vienna. Questo impero aveva un esercito aveva una politica tradizionale aveva una burocrazia aveva legato tutti i cittadini al suffragio universale. Questo impero che sembrava potente invincibile crollò sotto i colpi delle baionette del popolo italiano.
Il risorgimento italiano non è che una lotta fra un popolo ed uno Stato fra il popolo italiano da una parte e lo Stato absburgico dall'altra fra la forza viva avvenire e il morto passato. Era fatale che avendo passato il Mincio nel 1859 e l'Adige nel 1866 nel 1915 si dovesse passare l'Isonzo e giungere oltre: era fatale tanto fatale che oggi gli stessi neutralisti lo stesso uomo del «parecchio» Giolitti intervistato da un giornalista americano ha dovuto riconoscere che l'Italia pena il suicidio pena la morte pena maggiore: la vergogna non poteva rimanere neutrale. Era per lui questione di modo e di tempo. Ma essenziale per noi è che l'uomo del «parecchio» abbia detto che l'Italia doveva intervenire più tardi o prima non importa e che era logico e fatale che l'intervento si sviluppasse a fianco dell'Intesa.
Questa rivendicazione del nostro interventismo è quella che ci dà la massima soddisfazione. E che cosa importa se leggo in un libro nero e melanconico che Trieste Trento e Fiume rappresentano ancora un deficit di fronte alla guerra? Questo modo di ragionare è ridicolo. Prima di tutto non si riducono gli avvenimenti della storia ad una partita computistica di dare ed avere di entrata ed uscita. Non si può fare un bilancio preventivo nei fatti della storia e pretendere che collimi col bilancio consuntivo. Tutto questo è frutto di una melanconia filosofica abbastanza diffusa in Italia dopo la guerra.
Ma speriamo che passi presto per dar posto a sentimenti di ottimismo e di orgoglio. Questo dopoguerra è certamente critico: lo riconosco; ma chi pretende che una crisi gigantesca come quella di cinque anni di guerra mondiale si risolva subito? che tutto il mondo ritorni tranquillo come prima in men di due anni? La crisi non è di Trieste di Milano d'Italia ma mondiale e non è finita.
La lotta è l'origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c'è l'amore e l'odio il bianco e il nero il giorno e la notte il bene e il male e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana come suprema fatalità. E del resto e bene che sia così. Oggi può essere la lotta di guerra economica di idee ma il giorno in cui più non si lottasse sarebbe giorno di malinconia di fine di rovina. Ora questo giorno non verrà. Appunto perché la storia si presenta sempre come un panorama cangiante. Se si pretendesse di ritornare alla calma alla pace alla tranquillità si combatterebbero le odierne tendenze dell'attuale periodo dinamico. Bisogna prepararsi ad altre sorprese ad altre lotte. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io per mio conto non credo troppo a questi ideali ma non li escludo perché io non escludo niente: tutto è possibile anche l'impossibile e l'assurdo. Ma oggi come oggi sarebbe fallace pericoloso criminoso costruire le nostre case sulla fragile sabbia dell'internazionale cristiano-socialista-comunista. Questi ideali sono rispettabili ma sono ancora molto lontani dalla realtà. (Applausi).
Quale l'azione del fascismo in questo periodo così travagliato del dopoguerra? Primo pilastro fondamentale dell'azione fascista è l'italianità cioè: noi siamo orgogliosi di essere italiani noi intendiamo anche andando in Siberia di gridare ad alta voce: siamo Italiani! Ora è appunto tutto questo che ci separa da molta altra gente che è così grottesca e piccina e che nasconde la sua italianità perché in Italia c'era una volta l'80 per cento di analfabeti. Analfabeta non significa niente perché anche la piccola mediocre istruzione elementare può essere peggiore dell'analfabetismo puro e semplice. È vecchia idealità quella di credere che è più intelligente uno che sa scrivere di uno che essendo forse più intelligente non lo sa.
Quella gente si vergogna per esempio se gli emigranti italiani distribuiscono qualche generosa coltellata: ma tutto questo è un modo molto brillante di dimostrare che gli italiani non sono vigliacchi né rammolliti e che hanno il mezzo di difendere l'italianità quando i consoli non sanno difenderla. Ora noi rivendichiamo l'onore di essere italiani perché nella nostra penisola meravigliosa e adorabile — adorabile benché ci siano degli abitatori non sempre adorabili — s'è svolta la storia più prodigiosa e meravigliosa del genere umano. Pensate voi a un uomo che stia pure nel lontano Giappone o nell'America dei dollari o in qualche altro sito anche recondito pensate se quest'uomo possa essere civile senza conoscere la storia di Roma. Non è possibile.
Roma è il nome che riempie tutta la storia per venti secoli. Roma dà il segnale della civiltà universale; Roma che traccia strade segna confini e che dà al mondo le leggi eterne dell'immutabile suo diritto. Ma se questo è stato il compito universale di Roma nell'antichità ecco che dobbiamo assolvere ancora un altro compito universale. Questo destino non può diventare universale se non si trapianta nel terreno di Roma. Attraverso il cristianesimo Roma trova la sua forma e trova il modo di reggersi nel mondo. Ecco Roma che ritorna ancora una volta centro dell'impero universale che parla la sua lingua. Pensate che il compito di Roma non è finito no perché la storia italiana del medioevo la storia più brillante di Venezia che regna per 10 secoli che porta le sue galee in tutti i mari che ha ambasciate e governi governi di cui oggi si è perduta la semente non si è chiusa. La storia dei comuni italiani è una storia piena di prodigi piena di grandezza di nobiltà. Andate a Venezia a Pisa ad Amalfi a Genova a Firenze e voi troverete là sui palazzi nelle strade il segno l'impronta di questa nostra meravigliosa e non ancora marcita civiltà.
Ora amici che ascoltate dopo questo periodo sul principio dell'800 in cui l'Italia era divisa in sette piccoli Stati sorse una generazione di poeti: la poesia ha anche il compito di suscitare l'entusiasmo e di accendere le fedi e non per niente il più grande poeta dell'Italia moderna lo vogliano o no gli scribi che non sanno esprimere nel loro cervello un'ideuzza il più grande poeta d'Italia Gabriele d'Annunzio realizza nella magnifica unità di pensiero e di sentimento l'azione che è una caratteristica del popolo italiano. (Il pubblico scatta in piedi al grido di: Viva d'Annunzio viva Fiume).
Siamo orgogliosi di essere italiani non già per un criterio di gretto esclusivismo. Lo spirito moderno ha il timpano auricolare teso verso la bellezza e la verità. Non si può pensare un uomo moderno che non abbia letto Cervantes Shakespeare Goethe che non abbia letto Tolstoi. Ma tutto questo non deve farci dimenticare che noi abbiamo tenuto il primato che noi eravamo grandi quando gli altri non erano ancora nati che mentre il tedesco Klopstock scriveva la verbosa Messiade Dante Alighieri dal 1265 al 1321 giganteggiava. E abbiamo ancora la scultura di Michelangelo la pittura di Raffaello l'astronomia di Galileo la medicina di Morgagni e accanto a questi il misterioso Leonardo da Vinci che eccelle in tutti i campi e se volete passare all'arte della politica e della guerra ecco Napoleone ma soprattutto Garibaldi latinamente italiano.
Queste sono le Dolomiti del pensiero dello spirito italiano ma accanto a queste Dolomiti quasi inaccessibili c'è un panorama di culmini e di vette minori che dimostrano che non si può assolutamente pensare alla civiltà umana senza il contributo formidabile recatovi dal pensiero italiano. E questo bisogna ripetere qui dove stanno ai nostri confini tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili e che pretenderebbero soltanto perché sono in tanti di sopprimere e soppiantare questa nostra meravigliosa civiltà che ha resistito due millenni e si prepara a resistere il terzo.
Quando al secondo pilastro del fascismo esso significa antidemagogia e pragmatismo. Non abbiamo nessun preconcetto non ideali fissi e soprattutto non orgoglio sciocco. Coloro che dicono: «Siete infelici eccovi la ricetta per la felicità» mi fanno venire a mente la reclame: «Volete la salute?». Noi non promettiamo agli uomini felicità qui né al di là a differenza dei socialisti che pretenderebbero di mascherare la faccia dei Mediterranei con la maschera russa.
Una volta c'erano i cortigiani che bruciavano incenso davanti ai re e ai papi e ora c'è una nuova genia che brucia incenso senza sincerità davanti al proletariato. Dicono: solo chi ha l'Italia nelle mani ha diritto di governare e magari costoro non sanno governare nemmeno la propria famiglia. Noi no. Noi teniamo altro linguaggio molto più serio e spregiudicato e più degno di uomini liberi. Noi non escludiamo che il proletariato sia capace di sostituire altri valori ma diciamo al proletariato: prima di pretendere di governare una nazione incomincia col governare te stesso: comincia a rendertene degno tecnicamente e prima ancora moralmente perché governare è cosa tremendamente complessa difficile e complicata (applausi). La nazione ha milioni e milioni d'individui i cui interessi contrastano e non ci sono esseri superiori che possano conciliare tutte queste contrarietà per fare una unità di progressi e di vita.
D'altra parte noi non siamo passatisti assolutamente legati ai sassi e alle macerie. Nelle città moderne tutto deve trasformarsi. Ai trams alle automobili ai motori le vecchie strade delle nostre città non resistono più. Poiché in esse passa il flutto della civiltà. Si può distruggere per ricreare il più bello grande e nuovo ma mai distruggere col gusto del selvaggio che spezza una macchina per vedere che cosa c'è dentro. Non ci rifiutiamo a modificazioni anche nella città dello spirito appunto perché lo spirito è delicato. A me non ripugna nessuna trasformazione sociale necessaria. Così accetto questo famoso controllo delle fabbriche e anche la gestione cooperativa sociale delle fabbriche ma semplicemente chiedo che si abbia la coscienza morale pulita la capacità tecnica per mandare avanti le aziende; chiedo che queste aziende producano di più e se ciò mi è garantito dalle maestranze operaie e non più padronali non ho difficoltà a dire che gli ultimi hanno il diritto di sostituire i primi.
Quello cui ci opponiamo noi fascisti è la mascheratura bolscevica del socialismo italiano. È strano che una razza che ha avuto Pisacane e Mazzini vada a cercare i vangeli prima in Germania e poi in Russia. Bisognerebbe studiare un po' Pisacane e Mazzini e si vedrebbe che alcune delle verità che si pretendono rivelate dalla Russia non sono che verità già consacrate nei libri dei nostri grandi maestri italiani. Ma infine come pensate che il comunismo sia possibile in Italia il paese più individualista del mondo? Questo è possibile dove ogni uomo è un numero ma non in Italia dove ogni uomo è un individuo anzi una individualità. Ma poi cari signori esiste ancora in Russia questo bolscevismo? Non esiste più. Non più consigli di fabbrica ma dittatori di fabbrica; non 8 ore di lavoro ma 12; non eguaglianza di salari ma 35 categorie di salari; non secondo il bisogno ma secondo i meriti. Non c'è in Russia nemmeno quella libertà che ha l'Italia. C'è una dittatura del proletariato? No! C'è una dittatura dei socialisti? No! C'è una dittatura di pochi uomini intellettuali non operai appartenenti ad una frazione del partito socialista combattuta da tutte le altre frazioni.
Questa dittatura di pochi uomini è quella che si chiama il bolscevismo. Ora in Italia noi non ne vogliamo sapere e gli stessi socialisti compresi quelli che hanno veduto la Russia quando voi li interrogate riconoscono che non si può trapiantare in Italia quello che va male in Russia. Solamente hanno il torto di non dirlo apertamente hanno il torto di giocare sull'equivoco e di mistificare le masse. Ripetiamo noi non siamo contrari alle masse operaie perché esse sono necessarie alla nazione sono necessarie sacrosantamente necessarie. I venti milioni di italiani che lavorano col braccio hanno il diritto di difendere i loro interessi. Quella che noi combattiamo è la mistificazione dei politicanti a danno delle classi operaie; noi combattiamo questi nuovi preti in mala fede che promettono un paradiso nel quale non credono neppure essi. Quelli che a Trieste fanno i bolscevichi più accesi lo fanno semplicemente per rendersi simpatici alle masse slave che abitano qui vicino. (Applausi fragorosi).
E se io ho una disistima profonda un disprezzo profondo di molti capi del movimento bolscevico d'Italia è perché li conosco bene perché li ho conosciuti tutti quanti sono stato con loro a contatto; so benissimo che quando fanno i leoni sono conigli so benissimo che fanno come quei tali frati di Arrigo Heine che predicano apertamente l'acqua e bevono nascostamente il vino. Noi vogliamo appunto che questa turpe speculazione finisca anche perché è antinazionale.
Mi sapete dire per qual caso singolare in tutte le questioni i socialisti italiani sono contro l'Italia? Mi sapete dire perché sono sempre coi popoli che avversano l'Italia? Cogli albanesi coi croati coi tedeschi e con tutti gli altri popoli? Mi sapete spiegare perché si grida viva l'Albania che fa la guerra per avere Valona che è albanese e non si grida viva l'Italia che fa la guerra per avere Trento e Trieste che sono italiane? Ma che criterio è questo di esser sempre contro l'Italia e di gridare sempre stupidissimi «-via-»?
Quattro arabi si rivoltano in Libia: via dalla Libia! Seimila albanesi attaccano: via da Valona! E se domani i croati della Dalmazia ci attaccheranno i socialisti diranno: via dalla Dalmazia! E se domani su questi monti arsicci del Carso si sviluppasse un movimento insurrezionale contro Trieste temo che i socialisti d'Italia direbbero anche: via da Trieste! (A questo punto tutto il pubblico scatta in piedi gridando «-Mai-»). Ma ci sono anche italiani di qui e fuori di qui che affogherebbero loro in bocca il grido fratricida.
Ed è lo stesso della loro opposizione alla guerra. Vedete la guerra è cosa orribile. Lo sanno coloro che l'han fatta. Ma allora bisogna spiegarsi: o la guerra in sé e per sé fatta per qualsiasi ragione sotto qualsiasi latitudine per qualsiasi pretesto non deve farsi e allora io rispetto questi umanitari questi tolstoiani se dicono: io abborro dal sangue per qualsiasi ragione sia versato. Li rispetto e li ammiro sebbene trovi ciò leggermente inattuabile. Ma i socialisti gridano «abbasso la guerra» quando la fa l'Italia e «viva la guerra» quando la fa la Russia. Voi avete un giornale che era lieto quando i cosidetti bolscevichi marciavano su Varsavia e usava uno stile prettamente militare: «-Mentre scriviamo il cannone ecc.-». Lo sappiamo a memoria. Ma allora la guerra non è la stessa cosa. La guerra russa non fa vedove non fa orfani? Non è fatta con cannoni aeroplani e tutte le armi infine che straziano e uccidono corpi umani? O voi dunque siete contrari a tutte le guerre e allora noi potremo discutere insieme ma se voi fate distinzione fra guerra e guerra guerra che si può fare e guerra che non si può fare allora noi vi diciamo che il vostro umanitarismo ci fa schifo. E se avete ragione di fare la guerra avevamo ragione noi di farla per i destini della nazione nel 1915. (Applausi).
Quale può essere quindi — e volgo alla fine — il compito dei fascisti? Il compito dei fascisti in Italia è questo: tenere testa alla demagogia con coraggio energia ed impeto. Il Fascio si chiama di combattimento e la parola combattimento non lascia dubbi di sorta. Combattere con armi pacifiche ma anche con armi guerriere. Del resto tutto ciò è normale in Italia perché tutto il mondo si arma e quindi è assolutamente necessario che noi che siamo italiani ci armiamo a nostra volta. Ma il compito dei fascisti di queste terre è più delicato più sacro più difficile più necessario. Qui il fascismo ha ragione d'essere; qui il fascismo trova il suo terreno naturale di sviluppo. In questa giornata storica mentre la crisi italiana sembra aggravarsi — non importa si risolverà — io ho fiducia illimitata nell'avvenire della nazione italiana. Le crisi si succederanno alle crisi ci saranno pause e parentesi ma andremo all'assestamento e non si potrà pensare a una storia di domani senza la partecipazione italiana. Perché è bensì vero che nel 1919 l'Italia ha avuto un Nitti e nel 1920 un Giolitti ma se questa è la faccia nera della situazione dall'altra parte la faccia splendente di questa situazione è Gabriele d'Annunzio il quale ha realizzato l'unica rivoltai contro la plutocrazia di Versaglia.
Molti ordini del giorno molti articoli di giornali molte chiacchiere più o meno insulse ma l'unico che abbia compiuto un gesto vero e reale di rivolta l'unico che per 12 o 13 mesi ha tenuto in iscacco tutte le forze del mondo è Gabriele d'Annunzio insieme coi suoi legionari. Contro quest'uomo di pura razza italiana si accaniscono tutti i vigliacchi ed è per questo che noi siamo Serissimi ed orgogliosi di essere con lui anche se contro di noi si accanisca la vasta tribù degli scemi. Quest'uomo significa anche la possibilità della vittoria e della resurrezione. E questa possibilità esiste perché abbiamo fatto la guerra e abbiamo vinto ed è ridicolo che coloro che di più hanno beneficiato della guerra in stipendi in voti in onori siano proprio coloro che sputano oggi su questa guerra e su questa vittoria. Ad ogni modo io penso e questa vostra adunata me ne fa testimonianza solenne che l'ora della riscossa del valore nazionale è spuntata. C'è da una parte un vasto mondo che brulica ma c'è anche un mondo che non è immemore che non è ignorante. (Applausi vivissimi).
Mentre partivo da Milano mi giungeva da Cupra Marittima un piccolo paese dell'Italia centrale un invito del sindaco che mi chiamava a commemorare i caduti in guerra. Non ho accettato perché i discorsi mi pesano. Ma questo episodio come il pellegrinaggio dell'Ortigara il pellegrinaggio sul Grappa il pellegrinaggio del 24 ottobre sulle pietraie del Carso vi dice che i valori ideali e morali non sono ancora tutti perduti e stanno anzi risorgendo. Noi vogliamo aiutare questa rinascita di valori spirituali e morali e vogliamo aiutarla colle opere scritte e fatte.
Ieri ebbi un minuto di viva commozione passando l'Isonzo. Tutte le volte che ho passato quel fiume collo zaino sulle spalle mi sono chinato a bere quell'acqua cristallina e limpida. Se non avessimo varcato quel fiume oggi il tricolore non sarebbe su San Giusto.
Qui è il significato vero e proprio della guerra. Orbene se il tricolore è issato su San Giusto vi è issato perché vent'anni fa un triestino fu il precursore di questa gesta; vi è issato anche perché nel 1915 i battaglioni italiani si precipitarono sui reticolati austriaci; ed a questa gesta tutta l'Italia ha preso parte dagli alpini delle montagne di Piemonte di Lombardia del Friuli alle fanterie magnifiche dell'Abruzzo delle Puglie della Sicilia ed ai soldati dell'isola generosa e ferrigna della Sardegna dimenticata anche troppo dal Governo italiano. E quei generosi figli non si sono ancora levati in rappresaglie contro i demagoghi dell'Italia perché sono ancora sempre pronti a compiere il loro dovere.
Triestini! Il tricolore di San Giusto è sacro: il tricolore sul Nevoso è sacro; ancora più sacro è il tricolore sulle Dinariche. Il tricolore sarà protetto dai nostri eroici morti: ma giuriamo insieme che sarà difeso anche dai vivi! (Calda e lunga ovazione).
Le parole in determinati momenti possono essere dei fatti. Supponiamo dunque e facciamo sì che tutte le parole pronunziate qui oggi siano delle azioni potenziali dell'oggi e reali del domani. Cinque anni fa in questi giorni l'entusiasmo popolare prorompeva in tutte le piazze e le strade d'Italia. Ed in questi giorni rivedendo i documenti dell'epoca posso affermare a tanta distanza di tempo con sicura e pura coscienza che la causa dell'intervento nelle settimane del maggio non fu sposata dalla cosidetta borghesia ma dalla parte più sana e migliore del popolo italiano. E quando dico popolo intendo parlare anche del proletariato perché nessuno può pensare che le migliaia di cittadini che nelle giornate di maggio seguivano Corridoni fossero tutti dei borghesi. Ricordo che una Camera del lavoro agricola quella di Parma a grande maggioranza si dichiarò favorevole all'intervento dell'Italia.
Anche ammesso che la guerra sia stata un errore ed io non lo ammetto di animo spregevole è colui che sputa su questo sacrificio. Se si vuole ritornare ad un esame critico io sono disposto ad affrontare in contradditorio chiunque ed a dimostrare:
1°) che la guerra fu voluta dagli Imperi centrali come è stato confessato dagli uomini politici della repubblica tedesca e come hanno confermato gli archivi dell'impero;
2°) che l'Italia non poteva rimanere neutrale;
3°) che se fosse rimasta neutrale oggi si troverebbe in una condizione peggiore di quella in cui si trova.
D'altra parte noi interventisti non dobbiamo stupirci se il mare è in tempesta. Sarebbe assurdo pretendere che un popolo uscente da una crisi così grave si rimetta a posto nelle 24 ore successive. E quando voi pensate che a due anni di distanza non abbiamo ancora la nostra pace quando voi pensate al trattamento fattoci dagli alleati alla deficienza dei nostri governanti voi dovete comprendere certe crisi di dubbio. Ma la guerra ha dato quello che doveva dare: la vittoria.
Fischiando poco fa la evocazione della falce e del martello voi non avete certamente voluto spregiare questi che sono due strumenti del lavoro umano. Niente di più bello e di più nobile della falce che ci dà il pane e del martello che forgia i metalli. Non dunque spregio al lavoro manuale. Dobbiamo comprendere che questa sopravalutazione odierna del lavoro manuale è data dal fatto che la umanità soffre della mancanza dei beni materiali. Ed è naturale che coloro che producono questi elementi necessari abbiano una sopravalutazione eccessiva. Noi non rappresentiamo un punto di reazione. Diciamo alle masse di non andare troppo oltre e di non pretendere di trasformare la società attraverso un figurino che poi non conoscono. Se trasformazioni devono verificarsi devono avvenire tenendo conto degli elementi storici e psicologici della nostra civiltà.
Non intendiamo osteggiare il movimento delle masse lavoratrici ma intendiamo smascherare la ignobile turlupinatura che ai danni delle masse lavoratrici fa una accozzaglia di borghesi semi borghesi e pseudo borghesi che per il solo fatto di avere la tessera credono di essere diventati salvatori dell'umanità. Non contro il proletariato ma contro il partito socialista fino a quando continuerà ad essere anti-italiano. Il partito socialista ha continuato dopo la vittoria a svalutare la guerra a fare la guerra all'intervento ed agli interventisti minacciando rappresaglie e scomuniche. Ebbene io per mio conto non cedo. Delle scomuniche me ne rido ma davanti alle rappresaglie risponderemo con le nostre sacrosante rappresaglie. Noi non possiamo però andare contro il popolo perché il popolo è quello che ha fatto la guerra. I contadini che oggi si agitano per risolvere il problema terriero non possono essere guardati da noi con antipatia. Commetteranno degli eccessi ma vi prego di considerare che il nerbo delle fanterie era composto di contadini che chi ha fatto la guerra sono stati i contadini.
Noi non ci illudiamo di riuscire a silurare completamente la ormai naufragante nave bolscevica. Ma io noto già dei segni di resipiscenza. Credo che ad un dato momento la massa operaia stanca di lasciarsi mistificare tornerà verso di nei riconoscendo che non l'abbiamo mai adulata ma abbiamo sempre detta la parola della brutale verità facendo realmente il suo interesse. Se oggi l'Italia non è precipitata nel baratro ungherese lo si deve anche a noi che ci siamo messi di traverso con la nostra azione e con la nostra vita. Un solo dovere abbiamo dunque: comprendere i fenomeni sociali che si svolgono sotto i nostri occhi combattere i mistificatori del popolo ed avere una fede sicura e assoluta nell'avvenire della nazione.
All'indomani di tutte le grandi crisi storiche c'è sempre stato un periodo di lassitudine. Ma poi a poco a poco i muscoli stanchi riprendono. Tutto ciò che fu ieri trascurato e vilipeso ritorna ad essere onorato ed ammirato. Oggi non si vuole più sentire parlare di guerra ed è naturale. Ma fra qualche tempo la psicologia del popolo sarà mutata e tutto o gran parte del popolo italiano riconoscerà il valore morale e materiale della vittoria; tutto il popolo onorerà i suoi combattenti e combatterà quei governi che non volessero garantire l'avvenire della nazione. Tutto il popolo onorerà gli arditi.
Sono gli arditi che andavano alle trincee cantando e se siamo ritornati dal Piave all'Isonzo è merito degli arditi; se teniamo ancora Fiume è merito degli arditi; se siamo ancora nella Dalmazia lo dobbiamo agli arditi. Tre martiri fra i mille che hanno consacrato la guerra italiana hanno voluto fissare i destini della nazione: Battisti ci dice che il Brennero deve essere il confine d'Italia; Sauro ci dice che l'Adriatico deve essere un mare italiano e commercialmente italo-slavo; Rismondo ci dice che la Dalmazia è italiana. Ebbene giuriamo davanti al vessillo che porta le insegne della morte che infutura la vita e della vita che non teme la morte di tener fede al sacrificio di questi martiri.
Trieste, 20 settembre 1920: MUSSOLINI Parla al Popolo triestino.
Nel cinquantesimo anniversario del compimento della prima fase dell'unità italiana - MUSSOLINI pronunciava questo discorso in Trieste al Politeama Rossetti. Coglieva l'occasione per considerare in una sintesi critica l'attivo e il passivo del Risorgimento italiano e della più recente Storia d'Italia per stabilire la genesi i compiti e i fini del Fascismo.
Questo discorso - critico e programmatico a un tempo — è uno di quelli che pongono nei momenti più torbidi e tristi le chiare basi della ricostruzione.
Io non vi considero o triestini come degli italiani ai quali non si può dire ancora la verità o tutta la verità poiché io vi considero come i migliori fra gli italiani ed il vostro entusiasmo di oggi me lo dimostra. L'evento che ebbe il 20 settembre 1870 in Roma il suo compimento fu un magnifico quadro dentro ad una mediocre cornice né su ciò mi soffermerò.
Dopo cinquant'anni dalla Breccia di Porta Pia noi dobbiamo fare il nostro esame di coscienza. Una nazione come la nostra che era uscita da una lunga divisione plurisecolare che aveva appena raggiunto l'unità non aveva ossa sufficientemente robuste per reggere il peso di una politica mondiale. Un uomo grande nel pensiero italiano Francesco Crispi ruppe questa tradizione.
In cinquant'anni di vita l'Italia ha realizzato progressi meravigliosi. Prima di tutto c'è un dato di fatto: ed è la vitalità della nostra stirpe della nostra razza. Ci sono delle nazioni che ogni anno devono compulsare con una certa preoccupazione i registri dello stato civile perché o signori è appunto in questo disquilibrio che si producono le grandi crisi dei popoli e voi sapete a chi alludo. Ma l'Italia non ha di queste preoccupazioni. L'Italia faceva 27.000.000 di abitanti nel 1870; ne ha 50.000.000 adesso: 40.000.000 nella penisola ed è il blocco più omogeneo che ci sia in Europa. Perché a paragone del blocco boemo ad esempio dove 5.000.000 di czechi governano 7.000.000 di altra razza l'Italia non ha che 180.000 tedeschi nell'Alto Adige immigrati in casa nostra; non ha che 360.000 slavi immigrati in casa nostra mentre tutto il resto è un blocco unico e compatto. E accanto a questi 40.000.000 in Italia ce ne sono 10.000.000 che hanno straripato in tutti i continenti oltre tutti gli oceani: 700.000 italiani sono a Nuova York 400.000 nello Stato di San Paolo dove la lingua di stato dovrà divenire la lingua italiana 900.000 nella Repubblica Argentina 120.000 in Tunisia quella Tunisia alla quale rinunciammo in un momento di minchioneria colossale: quella Tunisia che abbiamo riconquistato attraverso l'opera meravigliosa dei coloni siciliani che ivi hanno trasportato le loro tende che oggi lavorano per la reggenza francese ma che molto probabilmente lavoreranno domani sotto la reggenza italiana.
È un peccato che gli stranieri ci conoscano poco ma è anche più grave che gli italiani conoscano poco l'Italia perché se la conoscessero si vedrebbe che molti popoli d'oltre confine sono ancora più indietro di noi si saprebbe che nel campo industriale il più potente impianto idroelettrico del mondo è in Italia. E non mi si parli di forze reazionarie in Italia. Mi fanno ridere quelli che parlano di governo reazionario specialmente se sono elementi immigrati o rinnegati di Trieste; perché se c'è un paese al mondo dove la libertà sta per sconfinare nella licenza dove la libertà è patrimonio inviolabile di tutti i cittadini è l'Italia.
Non si è visto ancora in Italia quello che si è visto in Francia dove per uno sciopero politico la Repubblica francese ha sciolto la Confederazione generale del Lavoro ha legato i capi e li tiene ancora in galera; non si è visto ancora quello che si è visto in Inghilterra dove elementi cosiddetti non desiderabili sono spediti oltre la Manica e non si è visto ancora in Italia quello che si è visto compiuto nell'ultra democratica repubblica degli Stati Uniti dove in una sola notte 500 cosiddetti sovversivi vengono legati e spediti in 24 ore oltre l'Atlantico. Se c'è qualche cosa da dire è questo: è tempo di imporre una ferrea disciplina ai singoli ed alle folle perché un conto è la rinnovazione sociale alla quale non siamo contrari e un conto è la dissoluzione in casa. Finché si parla di trasformazione noi ci siamo tutti ma quando invece si vuol fare il salto nel buio allora noi poniamo il nostro alto là. Passerete diciamo ma passerete sui nostri corpi; prima dovete vincere la nostra resistenza.
Ora dopo mezzo secolo di vita italiana che io vi ho così schematicamente riassunto Trieste è italiana e sul Brennero sventola il tricolore. Se fosse possibile attardarci un minuto a misurare la grandiosità dell'evento voi trovereste che il fatto che sul Brennero ci sia il tricolore è un fatto d'importanza capitale non solo nella storia italiana ma anche nella storia europea. Il tricolore sul Brennero significa che i tedeschi non caleranno più impunemente nelle nostre contrade. Si sono messi tra noi e loro i ghiacciai e sopra i ghiacciai quei magnifici alpini che andavano all'assalto del Monte Nero che si sono sacrificati all'Ortigara ed hanno sulle loro bandiere il motto: «Di qui non si passa». (Applausi fragorosi).
Ora è un fatto importantissimo che Trieste è venuta all'Italia dopo una vittoria colossale.
Se noi non fossimo così quotidianamente presi dalle necessità della vita materiale se non avessimo continuamente attraversato il pensiero da altri problemi mediocri e banali noi sapremmo misurare tutto ciò che si svolse sulle rive del Piave nel giugno ed a Vittorio Veneto nell'ottobre. Un impero andò in isfacelo in un'ora un impero che aveva resistito nei secoli un impero dove si era sviluppata necessariamente un'arte sopraffina di governo che consisteva nel suo eterno divide et impera saggiamente secondo la sapienza di Budapest e di Vienna. Questo impero aveva un esercito aveva una politica tradizionale aveva una burocrazia aveva legato tutti i cittadini al suffragio universale. Questo impero che sembrava potente invincibile crollò sotto i colpi delle baionette del popolo italiano.
Il risorgimento italiano non è che una lotta fra un popolo ed uno Stato fra il popolo italiano da una parte e lo Stato absburgico dall'altra fra la forza viva avvenire e il morto passato. Era fatale che avendo passato il Mincio nel 1859 e l'Adige nel 1866 nel 1915 si dovesse passare l'Isonzo e giungere oltre: era fatale tanto fatale che oggi gli stessi neutralisti lo stesso uomo del «parecchio» Giolitti intervistato da un giornalista americano ha dovuto riconoscere che l'Italia pena il suicidio pena la morte pena maggiore: la vergogna non poteva rimanere neutrale. Era per lui questione di modo e di tempo. Ma essenziale per noi è che l'uomo del «parecchio» abbia detto che l'Italia doveva intervenire più tardi o prima non importa e che era logico e fatale che l'intervento si sviluppasse a fianco dell'Intesa.
Questa rivendicazione del nostro interventismo è quella che ci dà la massima soddisfazione. E che cosa importa se leggo in un libro nero e melanconico che Trieste Trento e Fiume rappresentano ancora un deficit di fronte alla guerra? Questo modo di ragionare è ridicolo. Prima di tutto non si riducono gli avvenimenti della storia ad una partita computistica di dare ed avere di entrata ed uscita. Non si può fare un bilancio preventivo nei fatti della storia e pretendere che collimi col bilancio consuntivo. Tutto questo è frutto di una melanconia filosofica abbastanza diffusa in Italia dopo la guerra.
Ma speriamo che passi presto per dar posto a sentimenti di ottimismo e di orgoglio. Questo dopoguerra è certamente critico: lo riconosco; ma chi pretende che una crisi gigantesca come quella di cinque anni di guerra mondiale si risolva subito? che tutto il mondo ritorni tranquillo come prima in men di due anni? La crisi non è di Trieste di Milano d'Italia ma mondiale e non è finita.
La lotta è l'origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c'è l'amore e l'odio il bianco e il nero il giorno e la notte il bene e il male e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana come suprema fatalità. E del resto e bene che sia così. Oggi può essere la lotta di guerra economica di idee ma il giorno in cui più non si lottasse sarebbe giorno di malinconia di fine di rovina. Ora questo giorno non verrà. Appunto perché la storia si presenta sempre come un panorama cangiante. Se si pretendesse di ritornare alla calma alla pace alla tranquillità si combatterebbero le odierne tendenze dell'attuale periodo dinamico. Bisogna prepararsi ad altre sorprese ad altre lotte. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io per mio conto non credo troppo a questi ideali ma non li escludo perché io non escludo niente: tutto è possibile anche l'impossibile e l'assurdo. Ma oggi come oggi sarebbe fallace pericoloso criminoso costruire le nostre case sulla fragile sabbia dell'internazionale cristiano-socialista-comunista. Questi ideali sono rispettabili ma sono ancora molto lontani dalla realtà. (Applausi).
Quale l'azione del fascismo in questo periodo così travagliato del dopoguerra? Primo pilastro fondamentale dell'azione fascista è l'italianità cioè: noi siamo orgogliosi di essere italiani noi intendiamo anche andando in Siberia di gridare ad alta voce: siamo Italiani! Ora è appunto tutto questo che ci separa da molta altra gente che è così grottesca e piccina e che nasconde la sua italianità perché in Italia c'era una volta l'80 per cento di analfabeti. Analfabeta non significa niente perché anche la piccola mediocre istruzione elementare può essere peggiore dell'analfabetismo puro e semplice. È vecchia idealità quella di credere che è più intelligente uno che sa scrivere di uno che essendo forse più intelligente non lo sa.
Quella gente si vergogna per esempio se gli emigranti italiani distribuiscono qualche generosa coltellata: ma tutto questo è un modo molto brillante di dimostrare che gli italiani non sono vigliacchi né rammolliti e che hanno il mezzo di difendere l'italianità quando i consoli non sanno difenderla. Ora noi rivendichiamo l'onore di essere italiani perché nella nostra penisola meravigliosa e adorabile — adorabile benché ci siano degli abitatori non sempre adorabili — s'è svolta la storia più prodigiosa e meravigliosa del genere umano. Pensate voi a un uomo che stia pure nel lontano Giappone o nell'America dei dollari o in qualche altro sito anche recondito pensate se quest'uomo possa essere civile senza conoscere la storia di Roma. Non è possibile.
Roma è il nome che riempie tutta la storia per venti secoli. Roma dà il segnale della civiltà universale; Roma che traccia strade segna confini e che dà al mondo le leggi eterne dell'immutabile suo diritto. Ma se questo è stato il compito universale di Roma nell'antichità ecco che dobbiamo assolvere ancora un altro compito universale. Questo destino non può diventare universale se non si trapianta nel terreno di Roma. Attraverso il cristianesimo Roma trova la sua forma e trova il modo di reggersi nel mondo. Ecco Roma che ritorna ancora una volta centro dell'impero universale che parla la sua lingua. Pensate che il compito di Roma non è finito no perché la storia italiana del medioevo la storia più brillante di Venezia che regna per 10 secoli che porta le sue galee in tutti i mari che ha ambasciate e governi governi di cui oggi si è perduta la semente non si è chiusa. La storia dei comuni italiani è una storia piena di prodigi piena di grandezza di nobiltà. Andate a Venezia a Pisa ad Amalfi a Genova a Firenze e voi troverete là sui palazzi nelle strade il segno l'impronta di questa nostra meravigliosa e non ancora marcita civiltà.
Ora amici che ascoltate dopo questo periodo sul principio dell'800 in cui l'Italia era divisa in sette piccoli Stati sorse una generazione di poeti: la poesia ha anche il compito di suscitare l'entusiasmo e di accendere le fedi e non per niente il più grande poeta dell'Italia moderna lo vogliano o no gli scribi che non sanno esprimere nel loro cervello un'ideuzza il più grande poeta d'Italia Gabriele d'Annunzio realizza nella magnifica unità di pensiero e di sentimento l'azione che è una caratteristica del popolo italiano. (Il pubblico scatta in piedi al grido di: Viva d'Annunzio viva Fiume).
Siamo orgogliosi di essere italiani non già per un criterio di gretto esclusivismo. Lo spirito moderno ha il timpano auricolare teso verso la bellezza e la verità. Non si può pensare un uomo moderno che non abbia letto Cervantes Shakespeare Goethe che non abbia letto Tolstoi. Ma tutto questo non deve farci dimenticare che noi abbiamo tenuto il primato che noi eravamo grandi quando gli altri non erano ancora nati che mentre il tedesco Klopstock scriveva la verbosa Messiade Dante Alighieri dal 1265 al 1321 giganteggiava. E abbiamo ancora la scultura di Michelangelo la pittura di Raffaello l'astronomia di Galileo la medicina di Morgagni e accanto a questi il misterioso Leonardo da Vinci che eccelle in tutti i campi e se volete passare all'arte della politica e della guerra ecco Napoleone ma soprattutto Garibaldi latinamente italiano.
Queste sono le Dolomiti del pensiero dello spirito italiano ma accanto a queste Dolomiti quasi inaccessibili c'è un panorama di culmini e di vette minori che dimostrano che non si può assolutamente pensare alla civiltà umana senza il contributo formidabile recatovi dal pensiero italiano. E questo bisogna ripetere qui dove stanno ai nostri confini tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili e che pretenderebbero soltanto perché sono in tanti di sopprimere e soppiantare questa nostra meravigliosa civiltà che ha resistito due millenni e si prepara a resistere il terzo.
Quando al secondo pilastro del fascismo esso significa antidemagogia e pragmatismo. Non abbiamo nessun preconcetto non ideali fissi e soprattutto non orgoglio sciocco. Coloro che dicono: «Siete infelici eccovi la ricetta per la felicità» mi fanno venire a mente la reclame: «Volete la salute?». Noi non promettiamo agli uomini felicità qui né al di là a differenza dei socialisti che pretenderebbero di mascherare la faccia dei Mediterranei con la maschera russa.
Una volta c'erano i cortigiani che bruciavano incenso davanti ai re e ai papi e ora c'è una nuova genia che brucia incenso senza sincerità davanti al proletariato. Dicono: solo chi ha l'Italia nelle mani ha diritto di governare e magari costoro non sanno governare nemmeno la propria famiglia. Noi no. Noi teniamo altro linguaggio molto più serio e spregiudicato e più degno di uomini liberi. Noi non escludiamo che il proletariato sia capace di sostituire altri valori ma diciamo al proletariato: prima di pretendere di governare una nazione incomincia col governare te stesso: comincia a rendertene degno tecnicamente e prima ancora moralmente perché governare è cosa tremendamente complessa difficile e complicata (applausi). La nazione ha milioni e milioni d'individui i cui interessi contrastano e non ci sono esseri superiori che possano conciliare tutte queste contrarietà per fare una unità di progressi e di vita.
D'altra parte noi non siamo passatisti assolutamente legati ai sassi e alle macerie. Nelle città moderne tutto deve trasformarsi. Ai trams alle automobili ai motori le vecchie strade delle nostre città non resistono più. Poiché in esse passa il flutto della civiltà. Si può distruggere per ricreare il più bello grande e nuovo ma mai distruggere col gusto del selvaggio che spezza una macchina per vedere che cosa c'è dentro. Non ci rifiutiamo a modificazioni anche nella città dello spirito appunto perché lo spirito è delicato. A me non ripugna nessuna trasformazione sociale necessaria. Così accetto questo famoso controllo delle fabbriche e anche la gestione cooperativa sociale delle fabbriche ma semplicemente chiedo che si abbia la coscienza morale pulita la capacità tecnica per mandare avanti le aziende; chiedo che queste aziende producano di più e se ciò mi è garantito dalle maestranze operaie e non più padronali non ho difficoltà a dire che gli ultimi hanno il diritto di sostituire i primi.
Quello cui ci opponiamo noi fascisti è la mascheratura bolscevica del socialismo italiano. È strano che una razza che ha avuto Pisacane e Mazzini vada a cercare i vangeli prima in Germania e poi in Russia. Bisognerebbe studiare un po' Pisacane e Mazzini e si vedrebbe che alcune delle verità che si pretendono rivelate dalla Russia non sono che verità già consacrate nei libri dei nostri grandi maestri italiani. Ma infine come pensate che il comunismo sia possibile in Italia il paese più individualista del mondo? Questo è possibile dove ogni uomo è un numero ma non in Italia dove ogni uomo è un individuo anzi una individualità. Ma poi cari signori esiste ancora in Russia questo bolscevismo? Non esiste più. Non più consigli di fabbrica ma dittatori di fabbrica; non 8 ore di lavoro ma 12; non eguaglianza di salari ma 35 categorie di salari; non secondo il bisogno ma secondo i meriti. Non c'è in Russia nemmeno quella libertà che ha l'Italia. C'è una dittatura del proletariato? No! C'è una dittatura dei socialisti? No! C'è una dittatura di pochi uomini intellettuali non operai appartenenti ad una frazione del partito socialista combattuta da tutte le altre frazioni.
Questa dittatura di pochi uomini è quella che si chiama il bolscevismo. Ora in Italia noi non ne vogliamo sapere e gli stessi socialisti compresi quelli che hanno veduto la Russia quando voi li interrogate riconoscono che non si può trapiantare in Italia quello che va male in Russia. Solamente hanno il torto di non dirlo apertamente hanno il torto di giocare sull'equivoco e di mistificare le masse. Ripetiamo noi non siamo contrari alle masse operaie perché esse sono necessarie alla nazione sono necessarie sacrosantamente necessarie. I venti milioni di italiani che lavorano col braccio hanno il diritto di difendere i loro interessi. Quella che noi combattiamo è la mistificazione dei politicanti a danno delle classi operaie; noi combattiamo questi nuovi preti in mala fede che promettono un paradiso nel quale non credono neppure essi. Quelli che a Trieste fanno i bolscevichi più accesi lo fanno semplicemente per rendersi simpatici alle masse slave che abitano qui vicino. (Applausi fragorosi).
E se io ho una disistima profonda un disprezzo profondo di molti capi del movimento bolscevico d'Italia è perché li conosco bene perché li ho conosciuti tutti quanti sono stato con loro a contatto; so benissimo che quando fanno i leoni sono conigli so benissimo che fanno come quei tali frati di Arrigo Heine che predicano apertamente l'acqua e bevono nascostamente il vino. Noi vogliamo appunto che questa turpe speculazione finisca anche perché è antinazionale.
Mi sapete dire per qual caso singolare in tutte le questioni i socialisti italiani sono contro l'Italia? Mi sapete dire perché sono sempre coi popoli che avversano l'Italia? Cogli albanesi coi croati coi tedeschi e con tutti gli altri popoli? Mi sapete spiegare perché si grida viva l'Albania che fa la guerra per avere Valona che è albanese e non si grida viva l'Italia che fa la guerra per avere Trento e Trieste che sono italiane? Ma che criterio è questo di esser sempre contro l'Italia e di gridare sempre stupidissimi «-via-»?
Quattro arabi si rivoltano in Libia: via dalla Libia! Seimila albanesi attaccano: via da Valona! E se domani i croati della Dalmazia ci attaccheranno i socialisti diranno: via dalla Dalmazia! E se domani su questi monti arsicci del Carso si sviluppasse un movimento insurrezionale contro Trieste temo che i socialisti d'Italia direbbero anche: via da Trieste! (A questo punto tutto il pubblico scatta in piedi gridando «-Mai-»). Ma ci sono anche italiani di qui e fuori di qui che affogherebbero loro in bocca il grido fratricida.
Ed è lo stesso della loro opposizione alla guerra. Vedete la guerra è cosa orribile. Lo sanno coloro che l'han fatta. Ma allora bisogna spiegarsi: o la guerra in sé e per sé fatta per qualsiasi ragione sotto qualsiasi latitudine per qualsiasi pretesto non deve farsi e allora io rispetto questi umanitari questi tolstoiani se dicono: io abborro dal sangue per qualsiasi ragione sia versato. Li rispetto e li ammiro sebbene trovi ciò leggermente inattuabile. Ma i socialisti gridano «abbasso la guerra» quando la fa l'Italia e «viva la guerra» quando la fa la Russia. Voi avete un giornale che era lieto quando i cosidetti bolscevichi marciavano su Varsavia e usava uno stile prettamente militare: «-Mentre scriviamo il cannone ecc.-». Lo sappiamo a memoria. Ma allora la guerra non è la stessa cosa. La guerra russa non fa vedove non fa orfani? Non è fatta con cannoni aeroplani e tutte le armi infine che straziano e uccidono corpi umani? O voi dunque siete contrari a tutte le guerre e allora noi potremo discutere insieme ma se voi fate distinzione fra guerra e guerra guerra che si può fare e guerra che non si può fare allora noi vi diciamo che il vostro umanitarismo ci fa schifo. E se avete ragione di fare la guerra avevamo ragione noi di farla per i destini della nazione nel 1915. (Applausi).
Quale può essere quindi — e volgo alla fine — il compito dei fascisti? Il compito dei fascisti in Italia è questo: tenere testa alla demagogia con coraggio energia ed impeto. Il Fascio si chiama di combattimento e la parola combattimento non lascia dubbi di sorta. Combattere con armi pacifiche ma anche con armi guerriere. Del resto tutto ciò è normale in Italia perché tutto il mondo si arma e quindi è assolutamente necessario che noi che siamo italiani ci armiamo a nostra volta. Ma il compito dei fascisti di queste terre è più delicato più sacro più difficile più necessario. Qui il fascismo ha ragione d'essere; qui il fascismo trova il suo terreno naturale di sviluppo. In questa giornata storica mentre la crisi italiana sembra aggravarsi — non importa si risolverà — io ho fiducia illimitata nell'avvenire della nazione italiana. Le crisi si succederanno alle crisi ci saranno pause e parentesi ma andremo all'assestamento e non si potrà pensare a una storia di domani senza la partecipazione italiana. Perché è bensì vero che nel 1919 l'Italia ha avuto un Nitti e nel 1920 un Giolitti ma se questa è la faccia nera della situazione dall'altra parte la faccia splendente di questa situazione è Gabriele d'Annunzio il quale ha realizzato l'unica rivoltai contro la plutocrazia di Versaglia.
Molti ordini del giorno molti articoli di giornali molte chiacchiere più o meno insulse ma l'unico che abbia compiuto un gesto vero e reale di rivolta l'unico che per 12 o 13 mesi ha tenuto in iscacco tutte le forze del mondo è Gabriele d'Annunzio insieme coi suoi legionari. Contro quest'uomo di pura razza italiana si accaniscono tutti i vigliacchi ed è per questo che noi siamo Serissimi ed orgogliosi di essere con lui anche se contro di noi si accanisca la vasta tribù degli scemi. Quest'uomo significa anche la possibilità della vittoria e della resurrezione. E questa possibilità esiste perché abbiamo fatto la guerra e abbiamo vinto ed è ridicolo che coloro che di più hanno beneficiato della guerra in stipendi in voti in onori siano proprio coloro che sputano oggi su questa guerra e su questa vittoria. Ad ogni modo io penso e questa vostra adunata me ne fa testimonianza solenne che l'ora della riscossa del valore nazionale è spuntata. C'è da una parte un vasto mondo che brulica ma c'è anche un mondo che non è immemore che non è ignorante. (Applausi vivissimi).
Mentre partivo da Milano mi giungeva da Cupra Marittima un piccolo paese dell'Italia centrale un invito del sindaco che mi chiamava a commemorare i caduti in guerra. Non ho accettato perché i discorsi mi pesano. Ma questo episodio come il pellegrinaggio dell'Ortigara il pellegrinaggio sul Grappa il pellegrinaggio del 24 ottobre sulle pietraie del Carso vi dice che i valori ideali e morali non sono ancora tutti perduti e stanno anzi risorgendo. Noi vogliamo aiutare questa rinascita di valori spirituali e morali e vogliamo aiutarla colle opere scritte e fatte.
Ieri ebbi un minuto di viva commozione passando l'Isonzo. Tutte le volte che ho passato quel fiume collo zaino sulle spalle mi sono chinato a bere quell'acqua cristallina e limpida. Se non avessimo varcato quel fiume oggi il tricolore non sarebbe su San Giusto.
Qui è il significato vero e proprio della guerra. Orbene se il tricolore è issato su San Giusto vi è issato perché vent'anni fa un triestino fu il precursore di questa gesta; vi è issato anche perché nel 1915 i battaglioni italiani si precipitarono sui reticolati austriaci; ed a questa gesta tutta l'Italia ha preso parte dagli alpini delle montagne di Piemonte di Lombardia del Friuli alle fanterie magnifiche dell'Abruzzo delle Puglie della Sicilia ed ai soldati dell'isola generosa e ferrigna della Sardegna dimenticata anche troppo dal Governo italiano. E quei generosi figli non si sono ancora levati in rappresaglie contro i demagoghi dell'Italia perché sono ancora sempre pronti a compiere il loro dovere.
Triestini! Il tricolore di San Giusto è sacro: il tricolore sul Nevoso è sacro; ancora più sacro è il tricolore sulle Dinariche. Il tricolore sarà protetto dai nostri eroici morti: ma giuriamo insieme che sarà difeso anche dai vivi! (Calda e lunga ovazione).
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 22:04 - modificato 5 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Anno -1921
Trieste, 6 febbraio 1921: MUSSOLINI pronuncia il Secondo discorso.
Trieste, 6 febbraio 1921: MUSSOLINI pronuncia il Secondo discorso.
Ancora una volta il Duce sceglieva Trieste redenta per esporre in ampia sintesi la posizione del Fascismo di fronte agli assillanti problemi di politica estero. Questo discorso fu pronunciato al Politeama Rossetti di Trieste il 6 febbraio 1921. La citazione che chiude il discorso è presa dall'Eneide canto I v. 287.
Per delineare quali direttive debba seguire la politica estera dell'Italia nell'immediato e mediato futuro è opportuno gettare preliminarmente uno sguardo d'insieme sulla situazione mondiale sulle forze e correnti che vi agiscono e prospettare quali possano esserne gli sbocchi e i risultati. Tutti gli Stati del mondo si trovano fra di loro in rapporto fatale d'interdipendenza il periodo della splendide isolation è passato per tutti. Si può ben dire che colla guerra e dalla guerra la storia del genere umano ha acquistato un ritmo mondiale. Mentre l'Europa dissanguata stenta a ritrovare il suo equilibrio economico politico e spirituale già si annunciano oltre i confini del vecchio continente formidabili antitesi d'interessi. Alludo al conflitto fra Stati Uniti e Giappone i cui episodi recenti che vanno dalla faccenda del «-cavo-» al «-bil-l» contro l'immigrazione gialla in California sono nella cronaca dei giornali. Il Giappone conta oggi 77 milioni d'abitanti; gli Stati Uniti 110 milioni. Che la coscienza della inevitabilità di un urto fra questi due Stati esista può trovarsi in questo particolare significantissimo: il libro che ha avuto ed ha a Tokio la maggiore diffusione in tutte le zone della popolazione s'intitola:
La nostra prossima guerra cogli Stati Uniti. Quella che si profila è la guerra dei continenti per il dominio del Pacifico. L'asse della civiltà mondiale tende a spostarsi. Fu sino al 1500 nel Mediterraneo; dal 1492 in poi scoperta dell'America passò nell'Atlantico: da oggi si annuncia il suo trapasso al più grande oceano del pianeta.
Dissi altra volta che ci avviciniamo al secolo «asiatico». Il Giappone è destinato a funzionare da fermento di tutto il mondo giallo mentre non è detto che Isaac Rufus diventato lord Reading e viceré delle Indie riuscirà a salvare in quelle terre l'imperialismo britannico.
Spostandosi l'asse della civiltà da Londra a New-York (che fa già 7 milioni di abitanti e sarà fra poco la più grande agglomerazione umana della terra) e dall'Atlantico al Pacifico c'è chi prevede un graduale decadimento economico e spirituale della nostra vecchia Europa del nostro continente piccolo e meraviglioso che è stato sino ad ieri guida e luce per tutte le genti. Assisteremo a questo oscurarsi ed eclissarsi del «-ruolo-» europeo nella storia del mondo?
A questa domanda inquietante e angosciosa rispondiamo: è possibile. La «-vita-» dell'Europa specialmente nelle zone dell'Europa Centrale è alla mercé degli americani. D'altra parte l'Europa ci presenta un panorama politico ed economico tormentatissimo un groviglio spinoso di questioni nazionali e di questioni sociali e talvolta accade che il comunismo sia la maschera del nazionalismo e viceversa. Non sembra vicina realtà quella di una «unità» europea. Egoismi ed interessi di nazioni e di classi si accampano in fieri contrasti. La Russia non è più un enigma dal punto di vista economico. In Russia non c'è comunismo e nemmeno socialismo ma una rivoluzione agraria a tipo democratico piccolo-borghese. Rimane l'enigma dal punto di vista politico. Quale politica estera persegue in realtà la Russia? È una politica di pace o di guerra? La varietà dei fatti a nostra conoscenza ci porta ad oscillare perennemente fra l'una e l'altra ipotesi. In altri termini: sotto l'emblema falce e martello si nasconde o non si nasconde il vecchio panslavismo che oggi sarebbe inoltre dominato da una ferrea necessità «rivoluzionaria» che è quella di allargare la rivoluzione nel resto d'Europa per salvare il Governo dei Soviety in Russia?
Se la Russia farà una politica di guerra la sorte degli Stati baltici (Lituania Lettonia Estonia) appare segnata. Incerto anche il destino della Polonia che potrebbe essere schiacciata al muro ostile tedesco dell'eventuale straripare dei russi. Ci sono in quelle plaghe dell'Europa nord-orientale punti di dissidio fra gli Stati. C'è un dissidio polacco-lituano-russo a proposito di Wilna e di Grodno. Il diritto in base alla storia e alle statistiche è dalla parte dei polacchi. Ci sono nel distretto di Wilna 263.000 polacchi 118.000 lituani 8000 bianco-ruteni 83.000 israeliti. Le stesse cifre proporzionalmente si hanno per Grodno Quanto all'Alta Slesia che tiene agitatissimo il mondo tedesco e quello polacco le statistiche tedesche danno queste cifre: 1.348.000 polacchi; 588.000 tedeschi. L'Alta Slesia è dunque polacca ma il suo destino sarà deciso dal plebiscito convocato pel 15 marzo.
La grande guerra si è conclusa con sei finora trattati di pace: Versailles S. Germano Trianon Neuilly Sevres Rapallo. Nessuno di questi trattati ha accontentato in tutto i vincitori: nessuno di questi trattati nemmeno quello di Rapallo che si volle definire un trionfo delle negoziazioni amichevoli e pacifiche è stato accettato dai vinti. Ognuno di questi trattati ha dei punti controversi o di difficile realizzazione. Per quello che riguarda il «-trattatissimo» di Versailles è in piedi proprio in questo momento la grossa questione dell'indennità che la Germania dovrebbe pagare: è una cifra che dà le vertigini. L'ultima parola non è stata ancora detta. Tutto quello che si fa specie dai diplomatici è un definitivo che ha sempre un ironico carattere di provvisorio. I tedeschi che hanno realizzato l'«union sacrée» del non pagare annunciano che faranno delle controproposte e se ne riparlerà a Londra presenti gli stessi tedeschi fra qualche settimana. La nostra opinione è che se i tedeschi possono pagare devono sino al grado della loro possibilità pagare. I «-tecnici-» stabiliscano questa loro possibilità. Non bisogna dimenticare prima di abbandonarsi a compiangere i tedeschi che se vincevano la indennità che noi avremmo dovuto pagare era già stata fissata in 500 miliardi oro; che i tedeschi hanno scatenato la guerra e che il primo irredentismo inscenato dai tedeschi è diretto contro l'Italia per la loro minoranza calata abusivamente nell'Alto Adige.
Dal trattato di S. Germano è uscita l'attuale repubblica austriaca. Può vivere così com'è formata? Generalmente si opina di no. Rimane l'ipotesi di una confederazione danubiana sull'asse Vienna-Budapest ma la «-Piccola Intesa-» composta degli eredi vigila a che non si ritorni sotto una forma o l'altra all'antico.
Noi pensiamo che per forza di cose a una Confederazione economica danubiana presto o tardi ci si arriverà e allora le condizioni dell'Austria e in particolar modo quelle di Vienna ne verrebbero migliorate sino ad attenuare il movimento annessionistico pro-Germania. Dal punto di vista della giustizia e quando ci fosse una manifesta e chiara volontà di popolo l'Austria avrebbe diritto di «-alienarsi-» alla Germania. Questa ipotesi non ci può lasciar indifferenti per via del confine al Brennero questione di vita o di morte per la sicurezza della valle padana. Un'Austria affamata ed elemosinante non può scatenare un irredentismo pericoloso contro di noi; unita alla Germania la questione dell'Alto Adige si farebbe certissimamente più acuta. Quanto all'Ungheria essa può attendere una ragionevole revisione del Trattato che la mutilava da ogni parte. Bisogna però aggiungere che il capitolo «Fiume» è definitivamente sepolto nella storia ungherese. In tutto il mondo balcanico esistono focolai d'infezione di nuove guerre. Citiamo: Montenegro Albania. Siamo per la indipendenza del primo e della seconda se dimostrerà di saperla godere. Macedonia che è bulgara (1.181.000 bulgari di fronte a 499.000 turchi ed a 228.000 greci). La Bulgaria ha diritto a un porto sull'Egeo. È questo di un interesse capitale per l'espansione economica italiana in Bulgaria. Il trattato di Sevres ha massacrato la Turchia per iperbolizzare la Grecia di Venizelos e di Costantino che ha dato alla guerra europea il sacrificio di ben 787 «-euzoni-». Pensiamo che per ciò che riguarda il Mediterraneo Orientale l'Italia debba seguire una politica piuttosto turcofila.
A suo tempo immediatamente dopo la firma del trattato il Comitato Centrale dei Fasci diede il suo giudizio sul trattato di Rapallo trovandolo «accettabile per il confine orientale inaccettabile e deficente per Fiume insufficiente e da respingere per Zara e la Dalmazia-». A tre mesi di distanza quel giudizio non appare smentito dagli avvenimenti successivi. Il trattato di Rapallo è un compromesso infelice contro il quale sul Popolo furono elevate pagine di critica che è ora inutile riesumare. Si tratta di spiegare come l'Italia vittoriosa sia giunta a Rapallo. E la spiegazione non richiede eccessivi sforzi mentali. Siamo arrivati a Rapallo come conseguenza logica della politica estera — fatta o impostaci — prima della guerra durante la guerra e dopo la guerra. Per spiegare Rapallo bisogna pensare agli alleati due dei quali essendo mediterranei per posizione geografica (Francia) o per interessi e colonie (Inghilterra) non possono vedere di buon occhio il sorgere dell'Italia in potenza mediterranea onde si spiegano in loro lo zelo e tutte le manovre più o meno oblique con cui sono riuscite a creare nell'Adriatico Superiore e Inferiore il contraltare marittimo — jugoslavo e greco — dell'Italia. Rapallo si spiega pensando a Wilson e ai suoi cosiddetti «-experts-»; alla mancanza assoluta di propaganda italiana all'estero; alla stanchezza mortale e perfettamente comprensibile della popolazione. Rapallo si spiega col convegno delle Nazionalità oppresse tenutosi nell'aprile del 1918 a Roma e quel convegno si riattacca all'infausta pagina di Caporetto. Tutto si paga nella vita. Il 12 novembre del 1920 abbiamo pagato a Rapallo la rotta del 24 ottobre 1917. Senza Caporetto niente Patto di Roma. In quel congresso i jugoslavi ci vendettero del fumo poiché in realtà essi nulla assolutamente nulla fecero per disintegrare dall'interno la duplice monarchia della quale furono fedelissimi servitori sino all'ultimo con lealismo tradizionalmente croato. Non per niente dopo il suo decesso la monarchia d'Absburgo tentava regalare ai jugoslavi la sua flotta di guerra. Ma nell'aprile del 1918 si creava — consenzienti tutte le correnti dell'opinione pubblica italiana compresa la nostra e la nazionalista — l'irreparabile; si elevavano cioè al rango di alleati effettuali e potenziali i nostri peggiori nemici e si capisce che a vittoria ottenuta costoro non hanno accettato il ruolo di vinti ma hanno insistito sul loro ruolo di collaboratori e hanno rivendicato anche nei nostri confronti la relativa quota-parte del bottino comune. Dopo il Patto di Roma non si poteva piantare il ginocchio sul petto alla Jugoslavia: questa la verità. Così è accaduto che il popolo italiano stanco ed impoverito snervato da due lunghi anni di inutili trattative demoralizzato dalla politica di Cagoia e dalla tremenda ondata di disfattismo postbellico alla quale solo i Fasci hanno potentemente reagito ha accettato o subito il trattato di Rapallo senza manifestazioni di gioia o di rammarico. Pur di finirla una buona volta molta gente avrebbe trangugiato anche la linea terribile di Montemaggiore. Tutti i partiti di tutte le gradazioni di destra o di sinistra hanno accettato il trattato come un «-meno peggio-». Noi lo abbiamo subito considerandolo soprattutto come una cosa effimera e transitoria (c'è mai stato nel mondo e specialmente sulle sabbie mobili della diplomazia qualche cosa di definitivo?) e nell'intento di preparare tutte le forze affinché la prossima o lontana ma fatale revisione migliori il trattato e non lo peggiori; porti il nostro confine alle Dinariche ma non porti mai più il confine jugoslavo all'Isonzo. La sorte toccata alla Dalmazia ci angoscia profondamente. Ma la colpa della rinuncia non è da attribuirsi tutta ai negoziatori dell'ultima ora: la rinuncia era già stata perpetrata nel Parlamento nel giornalismo nell'Università stessa dove un professore ha stampato libri — naturalmente tradotti a Zagabria — per dimostrare — a modo suo — che la Dalmazia non è italiana!
La tragedia dalmata è in questa ignoranza malafede e incomprensione colpe alle quali speriamo di riparare colla nostra opera futura intesa a far conoscere amare e difendere la Dalmazia italiana.
Firmato il trattato si poteva annullarlo con uno o l'altro di questi due mezzi: o la guerra all'esterno o la rivoluzione all'interno. L'una e l'altra assurde! Non si fa scattare un popolo sulle piazze contro un trattato di pace dopo cinque anni di calvario sanguinoso. Nessuno è capace di operare tale prodigio!
Si è potuta fare in Italia una rivoluzione per imporre l'intervento ma nel novembre 1920 non si poteva pensare a una rivoluzione per annullare un trattato di pace che buono o cattivo era accettato dal 99 per cento degli italiani! Io non tengo fra tutte le virtù possibili e pensabili alla coerenza; ma testimoni esistono e documenti stenografici fanno fede che dopo Rapallo io ho sempre dichiarato che due cose mi rifiutavo di fare contro il trattato: la guerra all'esterno e la guerra all'interno. Pensavo anche che era pericoloso imbottigliarsi in un'opposizione armata al trattato rimanendo in un punto periferico della Nazione come Fiume.
Due mesi di polemiche e note quotidiane dei mesi di novembre e dicembre stanno a testimoniare trionfalmente la mia opera di solidarietà colla causa di Fiume e la mia aperta e recisa opposizione al Governo di Giolitti. Gran peccato che l'oblio cada così rapidamente sugli scritti di un quotidiano; né io ho l'abitudine melanconica di riesumare ciò che pubblico. Ma la realtà indistruttibile è che giorno per giorno ho battagliato perché il Governo di Roma riconoscesse quello di Fiume; perché al convegno di Rapallo fossero invitati i rappresentanti della Reggenza; perché da parte del Governo di Roma si evitasse ogni attacco armato contro Fiume. A tragedia iniziata ho bollato come un enorme delitto l'attacco della vigilia di Natale e ho segnato all'indomani i «titoli d'infamia» del Governo di Giolitti e sempre ho esaltato lo spirito di giustizia di libertà e di volontà che è lo spirito immortale della legione di Ronchi.
Accade per gli avvenimenti della storia come talvolta a teatro: ci sono delle platee ringhiose che avendo pagato il biglietto pretendono che la rappresentazione a qualunque costo vada a termine. Così oggi in Italia incontrate due categorie d'individui: gli uni tipo Malagodi o Papini che rimproverano a d'Annunzio di essere sopravvissuto alla tragedia fiumana e altri che rimproverano a Mussolini di non aver fatto quella piccola cosa leggera facile graziosa che si chiama una «-rivoluzione-». Io ho sempre disdegnato gli alibi vigliacchi coi quali e pei quali in Italia — deficienze impotenze rancori e miserie — ci si sfoga su teste di turco reali o immaginarie. I Fasci di Combattimento non hanno mai promesso di fare la rivoluzione in Italia in caso di un attacco a Fiume e specialmente dopo la defezione di Millo. Io poi personalmente non ho mai scritto o fatto sapere a d'Annunzio che la rivoluzione in Italia dipendeva dal mio capriccio. Non faccio del bluff e non vendo del fumo. La rivoluzione non è una boite à surprise che scatta a piacere. Io non la porto in tasca e non la portano nemmeno coloro che del suo nome si riempiono la bocca rumorosamente e all'atto pratico non vanno oltre al tafferuglio di piazza dopo la dimostrazioncella inconcludente magari col provvidenziale arresto che salva da guai peggiori. Conosco la specie e gli uomini. Faccio la politica da vent'anni. A guerra iniziata fra Caviglia e Fiume o c'era la possibilità di scatenare grandi cose o altrimenti per un senso di pudore bisognava evitare l'eccessivo vociare e le sparate fumose dileguate subito senza traccia e senza sangue.
La storia raccolta di fatti lontani insegna poco agli uomini; ma la cronaca storia che si fa sotto gli occhi nostri dovrebbe essere più fortunata. Ora la cronaca ci dice che le rivoluzioni si fanno coll'esercito non contro l'esercito; colle armi non senza armi; con movimenti di reparti inquadrati non con masse amorfe chiamate a comizi di piazza. Riescono quando le circonda un alone di simpatia da parte della maggioranza; se no gelano e falliscono. Ora nella tragedia fiumana esercito e marina non defezionarono. Certo rivoluzionarismo fiumano dell'ultima ora non si definiva: andava da taluni anarchici a taluni nazionalisti. Secondo taluni «emissari» si poteva mettere insieme il diavolo e l'acqua santa; la nazione e l'anti-nazione; Misiano e Delcroix. Ora io dichiaro che respingo tutti i bolscevismi ma qualora dovessi per forza sceglierne uno prenderei quello di Mosca e di Lenin non fosse altro perché ha proporzioni gigantesche barbariche universali. Quale rivoluzione allora? La nazionale o la bolscevica? Una grande incertezza — complicata da tante altre cause minori — confondeva gli animi mentre la nazione più che in un senso di rivolta per ciò che accadeva attorno a Fiume si raccoglieva in un senso di dolore e una sola cosa auspicava: la localizzazione dell'episodio e la sua rapida pacifica conclusione.
Delle due l'una nel caso che ci fosse stata e non c'era assolutamente dato il contegno delle forze armate di cui disponeva il governo la possibilità di un moto insurrezionale da parte nostra: o la disfatta o la vittoria. Nel primo caso tutto sarebbe andato perduto irreparabilmente nel baratro di una inutile guerra civile. Facciamo pure per amore di polemica la seconda ipotesi; l'ipotesi della vittoria colla caduta del governo e del regime. E nel secondo tempo? Dopo la più o meno facile demolizione quale direzione avrebbe avuto la rivoluzione? Sociale come volevano taluni bolscevizzanti — quelli della formula «sempre più a sinistra» equivalente della grottesca «corsa al più rosso» — o nazionale e dalmatica e reazionaria come la volevano altri?
Non possibilità di conciliazione fra le due correnti. Per una rivoluzione socialoide che significato avrebbero potuto avere ancora le questioni territoriali e precisamente dalmatiche? Nell'altro caso di una rivoluzione nazionale contro il trattato di Rapallo il tutto si sarebbe limitato ad un annullamento formale del trattato e a una sostituzione di uomini per poi addivenire a un altro trattato in un'altra Rapallo qualsiasi poiché un giorno o l'altro la nazione avrebbe dovuto finalmente avere la sua pace. Non si sanava un episodio di guerra civile scatenando più ampia guerra in un momento come quello che si attraversa e nessuno è capace di prolungare o di creare artificiosamente situazioni storiche conchiuse e superate. A chi sa elevarsi al disopra delle meschine passioni e sa trarre una sintesi dal vario cozzare degli elementi e scernere il grano puro dal loglio equivoco è concesso il privilegio dell'anticipazione sul Natale fiumano che può essere chiamato il punto d'incrocio tragico fra la ragione di Stato e la ragione dell'Ideale; il convegno terminale di tutte le nostre deficienze e di tutte le nostre grandezze!
Il primo è quello di Fiume. Non sentiamo il bisogno di accumulare frasi per ripetere la nostra solidarietà colla città olocausta. Abbiamo dato proprio in questi giorni le prove più tangibili della nostra solidarietà al Fascio Fiumano di Combattimento per rimetterlo in condizioni tali da impegnare la lotta contro la croataglia che ritorna a farsi viva. L'azione dei fascisti deve tendere a realizzare per il momento l'annessione economica di Fiume all'Italia. Sollecitare governo e privati. Nello stesso tempo mantenere con ogni mezzo la fiamma dell'italianità in modo che dall'annessione economica si passi in breve a quella politica. A ciò si arriverà malgrado tutto. Tutta la solidarietà fascista nazionale e governativa dev'essere concentrata su Zara in modo che la piccola città possa adempiere al suo delicato e grandioso compito storico. Tutela efficace degli italiani rimasti negli altri centri della Dalmazia. Niente collegio separato per gli slavi in Istria o per i tedeschi nell'Alto Adige. Non si può creare un precedente siffatto che ci porterebbe molto lontano. I francesi della Val d'Aosta che sono in realtà ottimi italiani non hanno collegio speciale o altri privilegi del genere. Questa duplice circoscrizione sarebbe un errore gravissimo. Tocca ai fascisti del Trentino e di Trieste impedire a qualunque costo che si compia.
Gli orientamenti stabiliti l'anno scorso — nell'adunata del maggio a Milano — non sono invecchiati o sorpassati.
Il Fascismo gode fama di essere «-imperialista-». Quest'accusa fa il paio coll'altra del «-reazionarismo-». Il Fascismo è anti-rinunciatario quando «rinunciare» significa umiliarsi e diminuirsi. A paragrafi:
1°) Il Fascismo non crede alla vitalità e ai principi che inspirano la cosiddetta Società delle Nazioni. In questa Società le Nazioni non sono affatto su un piede di eguaglianza. È una specie di santa alleanza delle nazioni plutocratiche del gruppo franco-anglo-sassone per garantirsi — malgrado inevitabili urti d'interessi — lo sfruttamento della massima parte del mondo.
2°) Il Fascismo non crede alle Internazionali rosse che muoiono si riproducono si moltiplicano tornano a morire. Si tratta di costruzioni artificiali e formalistiche che raccolgono piccole minoranze in confronto alle masse di popolazioni che vivendo movendosi e progredendo o regredendo finiscono per determinare quegli spostamenti d'interesse davanti ai quali vanno a pezzi le costruzioni internazionalistiche di prima seconda terza maniera.
3°) Il Fascismo non crede alla immediata possibilità del disarmo universale.
4°) Il Fascismo pensa che l'Italia debba fare nell'attuale periodo storico una politica europea di equilibrio e di conciliazione fra le diverse Potenze.
Da queste premesse generali consegue che i Fasci Italiani di Combattimento chiedono:
a) che i Trattati di pace siano riveduti e modificati in quelle parti che si appalesano inapplicabili o la cui applicazione può essere fonte di odi formidabili e fomite di nuove guerre;
b) l'annessione economica di Fiume all'Italia e la tutela degli italiani residenti nelle terre dalmatiche;
c) lo svincolamento graduale dell'Italia dal gruppo delle nazioni plutocratiche occidentali attraverso lo sviluppo delle nostre forze produttive interne;
d) il riavvicinamento alle nazioni nemiche — Austria Germania Bulgaria Turchia Ungheria — ma con atteggiamento di dignità e tenendo fermo alle necessità supreme dei nostri confini settentrionali e orientali;
e) creazione e intensificazione di relazioni amichevoli con tutti i popoli dell'Oriente non esclusi quelli governati dai «-Soviety-» e del Sud-Oriente europeo;
f) rivendicazioni nei riguardi coloniali dei diritti e delle necessità della nazione;
g) svecchiamento e rinnovamento di tutte le nostre rappresentanze diplomatiche con elementi usciti da facoltà speciali universitarie;
h) valorizzazione delle colonie italiane del Mediterraneo e di oltre Atlantico con istituzioni economiche e colturali e con rapide comunicazioni.
Ho una fede illimitata nell'avvenire di grandezza del popolo italiano. Il nostro è fra i popoli europei il più numeroso e il più omogeneo. È destino che il Mediterraneo torni nostro. È destino che Roma torni ad essere la città direttrice della civiltà in tutto l'Occidente d'Europa. Innalziamo la bandiera dell'impero del nostro imperialismo che non dev'essere confuso con quello di marca prussiana o inglese. Commettiamo alle nuove generazioni che sorgono la fiamma di questa passione: fare dell'Italia una delle nazioni senza le quali è impossibile concepire la storia futura dell'Umanità.
Respingiamo tutte le stolide obiezioni dei sedentari che ci parlano di analfabetismo e di pellagra ed altro quando si vede che mezzo secolo di «piede di casa» non ci ha guariti da questi che non sono né delitti né vergogne. Al disopra dei pessimisti che vedono tutto grande in casa altrui e tutto piccolo in casa propria dobbiamo avere l'orgoglio della nostra razza e della nostra storia. La guerra ha enormemente aumentato il prestigio morale dell'Italia. Si grida: «Viva l'Italia» nella lontana Lettonia e nell'ancora più lontana Georgia. Italia è l'ala tricolore di Ferrarin l'onda magnetica di Marconi la bacchetta di Toscanini il ritorno a Dante nel sesto centenario della sua dipartita. Sogniamo e prepariamo — con l'alacre fatica di ogni giorno — l'Italia di domani libera e ricca sonante di cantieri coi mari e i cieli popolati dalle sue flotte colla terra ovunque fecondata dai suoi aratri. Possa il cittadino che verrà dire quel che Virgilio diceva di Roma: imperium oceano famam qui terminet astris: ponga i termini dell'Impero all'Oceano ma la sua fama elevi alle stelle.
Bologna, 3 aprile 1921: Mussolini Parla ai bolognesi.
Questo discorso fu pronunciato a Bologna al Teatro Comunale il 3 aprile 1921. Anche questo è un discorso sintetico in cui appaiono le basi essenziali e le idee-forza del Fascismo. Con esso al 1° maggio d'infausta memoria socialista si opponeva il 21 aprile fascista data del Natale di Roma consacrato al Lavoro e alla Nazione. Fra le persone citate nel discorso giovi rammentare che Giulio Giordani fu assassinato in Bologna da un'aggressione rossa nel Palazzo d'Accursio in pieno consiglio comunale. L'avv. Grandi è il futuro Ministro degli Affari Esteri; i nomi di Bucco Zanardi e Bentini note personalità del socialismo sono presi ad esponente di tutta una categoria di uomini che pur facendo i politicanti rossi non avevano neppure il coraggio di una possibile rivoluzione.
Fascisti dell'Emilia e della Romagna! Cittadini bolognesi! Tutte le circostanze a cominciare dalle accoglienze di ieri sera dai canti di questa notte a questo magnifico mareggiare di teste al saluto che io accettai con trepida venerazione dalla vedova del nostro indimenticabile Giulio Giordani (applausi) alla presenza in un palco di due donne eroiche vedove di eroi grandissimi: parlo di Battisti e di Venezian (applausi) tutto ciò potrebbe trascinarmi sopra un terreno dell'eloquenza che non è la mia. Ma io credo io sono quasi certo che voi non vi attendete da me un discorso retorico ma vi attendete da me un discorso duro ed aspro come è nel mio costume. Ed allora noi ci parleremo schiettamente fascisticamente.
Io ringrazio l'avv. Grandi che mi ha presentato a voi con parole troppo lusinghiere: io le accetto e credo di non commettere un peccato di orgoglio. Potrei dirvi socraticamente che se ognuno deve conoscere se stesso anche io conosco e devo conoscere me stesso (applausi). Come è nato questo fascismo attorno al quale è così vasto strepito di passioni di simpatie di odi di rancori e di incomprensione? Non è nato soltanto dalla mia mente o dal mio cuore: non è nato soltanto da quella riunione che nel marzo 1919 noi tenemmo in una piccola sala di Milano. È nato da un profondo perenne bisogno di questa nostra stirpe ariana e mediterranea che ad un dato momento si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali della esistenza da una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata (applausi).
Noi sentimmo allora noi che non eravamo i maddaleni pentiti; noi che avevamo il coraggio di esaltare sempre l'intervento e le ragioni delle giornate del 1915; noi che non ci vergognavamo di avere sbaragliato l'Austria sul Piave e di averla poi mandata in frantumi a Vittorio Veneto; noi che volemmo una pace vittoriosa noi sentimmo subito appena cessata l'esaltazione della vittoria che il nostro compito non era finito ed io stesso sentii che il mio compito non era finito. Difatti ad ogni volgere di stagione si dice che il mio compito e il compito delle forze che mi seguono sia finito. Nel maggio 1915 quando i fasci di azione rivoluzionaria avevano spazzato da tutte le strade da tutte le piazze e le vie d'Italia perfino nei più piccoli borghi d'Italia il neutralismo parecchista si disse: Mussolini non ha più niente da dire alla nazione. Ma quando vennero le tragiche e tristi giornate di Caporetto quando Milano era grigia e terrea perché sentiva che se gli austriaci passavano e venivano nella città delle cinque giornate sarebbe stata la fine dell'Italia tutta allora noi sentimmo di avere ancora una parola da dire.
E dopo la vittoria quando sorse la scuola della rinunzia più o meno democratica che intendeva amputare la vittoria noi fascisti avemmo il supremo spregiudicato coraggio di dirci imperialisti ed antirinunciatarì.
Fu quella la prima battaglia che demmo nel Teatro della Scala nel gennaio 1919. Ma come? Avevamo vinto avevamo vinto noi per tutti avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù e poi si veniva a noi coi conti degli usurai degli strozzini. Ci si contendevano i termini sacri della patria e c'erano in Italia dei democratici la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi (applausi) che ci lanciavano questa stolta accusa semplicemente perché intendevamo che il confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero dove sarà fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia (applausi). Intendevamo che il confine orientale fosse al Nevoso perché là sono i naturali giusti confini della Patria e perché non eravamo sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore lo spasimo dei fratelli della Dalmazia perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino anche a quegli italiani che non vogliono più esserlo a quelli di Corsica a quelli che sono al di là dell'Oceano a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza (applausi). Si notavano già le prime avvisaglie della offensiva pussista. Milano il 16 febbraio assistette fra lo sgomento e il terrore di una borghesia infiacchita e trepidante ad una sfilata di 20 mila bolscevichi i quali dopo avere inneggiato a Lenin dall'alto dei torrioni del castello dissero che la rivoluzione bolscevica era imminente.
Allora io uscii all'indomani con un articolo che fece una certa impressione anche ad alcuni amici. Era intitolato: «-Contro il ritorno della bestia trionfante-». Era un articolo in cui si diceva: noi siamo disposti a convertire le piazze delle città d'Italia in tante trincee munite di reticolati per vincere la nostra battaglia per dare l'ultima battaglia contro questo nemico interno. E la battaglia disfattista iniziatasi con quella parata continuò per tutta l'estate quando fu rimestata fino alla nausea quella inchiesta sul disastro di Caporetto che un ministro infame infamabile da infamarsi (morte a Nitti morte a Cagoia viva d'Annunzio applausi) aveva dato in pasto alla esasperazione ed ai giusti dolori di gran parte del popolo italiano.
Anche allora noi fascisti avemmo il coraggio di difendere certe azioni che col misurino della morale corrente non sono forse difendibili. Ma o signori la guerra è come la rivoluzione: si accetta in blocco: non si può scendere al dettaglio: non si può e non si deve.
Ma intanto questa campagna aveva le sue risultanze elettorali. Un milione e 850.000 elettori misero nell'urna la scheda con la falce e il martello: 156 deputati alla Camera. Pareva imminente la catastrofe. Io fui ripescato suicida nelle acque niente affatto limpide del vecchio Naviglio. Ma si dimenticava una cosa: si dimenticava il mio spirito tenacissimo e la mia volontà qualche volta indomabile. Io tutto orgoglioso dei miei quattromila voti e chi mi ha visto in quei giorni sa con quanta disinvoltura accettassi questo responso elettorale dissi: la battaglia continua! Perché io credevo fermamente che giorno sarebbe venuto in cui gli italiani si sarebbero vergognati delle elezioni del 16 novembre giorno sarebbe venuto in cui gli italiani non avrebbero più eletto in due città quell'ignobile disertore che io in questo momento non voglio nominare (applausi; morte a Misiano!). Tanto è vero che costui oggi essendo incapace di vivere nel dramma scende nella farsa e dopo avere disprezzato la guardia regia chiede a quella divisa la impunità e la salvezza.
Ma ancora non è finito l'avvento di questo fascismo di questo movimento straripante di questo movimento giovane ardimentoso ed eroico. Io solo qualche volta io che rivendico la paternità di questa mia creatura così traboccante di vita io posso qualche volta sentire che il movimento ha già straripato dai modesti confini che gli aveva assegnato. Infine noi fascisti abbiamo un programma ben chiaro: noi dobbiamo procedere innanzi preceduti da una colonna di fuoco perché ci si calunniava e non ci si voleva comprendere. E per quanto si possa deplorare la violenza è evidente che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dovevamo a suon di randellate toccare i crani refrattari.
Ma noi non facciamo della violenza una scuola un sistema o peggio ancora una estetica. Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo. Ma vi dico subito che bisogna conservare alla violenza necessaria del fascismo una linea uno stile nettamente aristocratico o se meglio vi piace nettamente chirurgico.
Le nostre spedizioni punitive tutte quelle violenze che occupano le cronache dei giornali devono avere sempre il carattere di una giusta ritorsione e di una legittima rappresaglia. Perché noi siamo i primi a riconoscere che è triste dopo avere combattuto contro i nemici di fuori combattere ora contro i nemici di dentro che vogliono o non vogliono sono italiani anch'essi. Ma è necessario e fin che sarà necessario assolveremo al nostro compito in questa dura ed ingrata fatica.
Ora i democratici i repubblicani i socialisti ci muovono accuse di diverso genere. I socialisti fino a ieri hanno detto che siamo venduti ai pescicani o all'agraria.
Non ci sarebbero pescicani sufficienti in Italia per sovvenzionare un movimento come il nostro e d'altra parte vi devo dire che sarebbero pescicani piuttosto stupidi perché fin dal marzo 1919 noi nei postulati fascisti abbiamo messo dei provvedimenti fiscali assai gravi e che sono in ogni caso antipescecaneschi.
Le altre accuse che ci fa la democrazia sono ridicole. Le accuse che ci fanno i repubblicani altrettanto. Io non mi spiego come dei repubblicani possano essere contrari ad un movimento che è tendenzialmente repubblicano. Io comprenderei che fossero contrari ad un movimento tendenzialmente monarchico. Ci si dice: Voi non avete pregiudiziali. Non ne abbiamo ed è nostro vanto non averne. Ma voi dovete spiegarvi il fenomeno dell'ira e della incomprensione dei socialisti. I socialisti avevano in Italia costituito uno stato nello Stato. Se questo nuovo stato fosse stato più liberale più moderno più vicino all'antico niente in contrario. Ma questo stato e voi lo sapete per esperienza diretta era uno stato più tirannico più illiberale più camorrista del vecchio per cui questa che noi compiamo oggi è una rivoluzione che spezza lo stato bolscevico nell'attesa di fare i conti con lo stato liberale che rimane. (Applausi).
C'è chi pensa che la crisi socialista sia soltanto una crisi di uomini di questi piccoli uomini che voi conoscete i Bucco i Zanardi i Bentini (urla di abbasso) e simile tritume umano: ma la crisi è più profonda cari amici è un tracollo di tutti i valori. Non è soltanto una fuga più o meno ignobile di uomini perché fra tutte le cose assurde c'è stata questa: di battezzare il socialismo come scientifico. Ora di scientifico non c'è niente al mondo. La scienza ci spiega il come dei fenomeni ma non ci spiega anche il perché di essi. Ora se non c'è niente di scientifico in quelle che si chiamano le scienze esatte pensate se non era assurdo se non era grottesco gabellare per scientifico un movimento vasto incerto oscuro sotterraneo come è stato il movimento socialista il quale ha avuto una funzione utile in un primo tempo quando si è diretto a queste plebi oppresse e le ha fatte scattare verso nuove forme di vita. Voi converrete con me che non si torna indietro. Non si deve fare del contrabbando stolto reazionario o conservatore sotto il gagliardetto del fascismo. Non si può pensare a strappare alle masse operaie le conquiste che hanno ottenuto con sacrifici. Noi siamo i primi a riconoscere che una legge dello Stato deve dare le otto ore di lavoro e che ci deve essere una legislazione sociale rispondente alle esigenze dei tempi nuovi. E ciò non perché riconosciamo la maestà di S. M. il proletariato. Noi partiamo da un altro punto di vista. Ed è questo: che non ci può essere una grande nazione capace di grandezza attuale e potenziale se le masse lavoratrici sono costrette ad un regime di abbrutimento. (Applausi). È necessario quindi che attraverso ad una predicazione e ad una pratica che io chiamerei mazziniana la quale concilii e debba conciliare il diritto col dovere è necessario che questa massa enorme di diecine di milioni di gente che lavora che questa enorme massa sia portata sempre più ad un livello superiore di vita.
È stolto ed assurdo dipingerci come nemici della classe lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli in ispirito con coloro che lavorano: ma non facciamo distinzioni assurde ma non mettiamo al primo piano il callo specie se è al cervello. Noi non mettiamo sugli altari la nuova divinità del lavoratore manuale. Per noi tutti lavorano: anche l'astronomo che sta nella sua specula a consultare la traiettoria delle stelle lavora anche il giurista l'archeologo lo studioso di religioni anche l'artista lavora quando accresce il patrimonio dei beni spirituali che sono a disposizione del genere umano: lavora anche il minatore il marinaio il contadino. Noi vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda: vogliamo che tra spirito e materia fra cervello e braccio si realizzi la comunione la solidarietà della stirpe. Ed allora questo fascismo è la ventata di tutte le eresie che batte alle porte di tutte le chiese. E dice ai vecchi sacerdoti più o meno piagnoni: andatevene da questi tempi che minacciano rovina perché la nostra eresia trionfante è destinata a portare la luce in tutti i cervelli a tutti gli animi. E diciamo a tutti: piccoli e grandi uomini della scena politica nazionale diciamo: fate largo che passa la giovinezza d'Italia che vuole imporre la sua fede e la sua passione. E se voi non farete spontaneamente largo voi sarete travolti dalla nostra universale spedizione punitiva che raccoglierà in un fascio gli spiriti liberi della nazione italiana. (Applausi).
Siamo dinanzi ad un fatto che è il fatto elettorale. Essendo la camera vecchia e peggio che vecchia fradicia ed imputridita essendo tutti i protagonisti di questa semitragedia degli uomini usati ed abusati stanchi e peggio ancora stracchi si impone la nuova consultazione elettorale. Ebbene non sentite voi che se le elezioni del 1919 furono disfattiste e misianesche le elezioni del 1921 saranno nettamente fasciste? Non sentite voi che il timone dello Stato non ritornerà più ai vecchi uomini della vecchia Italia: né a Salandra né a Sonnino né al lacrimoso Orlando né al porcino Nitti? Non sentite voi che il timone passa per un trapasso spontaneo da Giovanni Giolitti l'uomo dal parecchio neutralista del 1915 a Gabriele d'Annunzio che è un uomo nuovo? (Applausi ovazioni prolungale: Viva d'Annunzio).
Questi vostri applausi dicono molte cose: e disperdono equivoci che sono già dispersi. Ho ricevuto oggi un messaggio in base al quale posso affermare sinceramente che il dissidio creato più o meno ad arte fra quelli che hanno difeso Fiume — e noi tributeremo sempre loro l'omaggio della nostra riconoscenza — e noi che la difendemmo all'interno non ha ragione di essere. E Gabriele d'Annunzio porrà fine a questo dissidio che più che da legionari partiva da certi politicanti che forse non erano neppure a Fiume quando a Fiume ci si batteva sul serio. E credo di aver detto a sufficienza perché tutti mi comprendano. (Applausi).
Altro elemento di vita del fascismo è l'orgoglio della nostra italianità. A questo proposito sono lieto di annunziarvi che abbiamo già pensato alla giornata fascista: se i socialisti hanno il 1° maggio se i popolari hanno il 15 maggio se altri partiti di altro colore hanno altre giornate noi fascisti ne avremo una: ed è il Natale di Roma il 21 aprile. In quel giorno noi nel segno di Roma Eterna nel segno di quella città che ha dato due civiltà al mondo e darà la terza noi ci riconosceremo e le legioni regionali sfileranno col nostro ordine che non è militaresco e nemmeno tedesco ma semplicemente romano. Noi anche così abbiamo abolito e tendiamo ad abolire il gregge la processione: noi aboliamo tutto ciò e sostituiamo a queste forme di manifestazioni passatiste la nostra marcia che impone un controllo individuale ad ognuno che impone a tutti un ordine ed una disciplina. Perché noi vogliamo appunto instaurare una solida disciplina nazionale perché pensiamo che senza questa disciplina l'Italia non può divenire la nazione mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni. E quelli che ci rimproverano di marciare alla tedesca devono pensare che non siamo noi che copiamo i tedeschi ma sono questi che copiavano e copiano i romani per cui siamo noi che ritorniamo alle origini che ritorniamo al nostro stile romano latino e mediterraneo. E non abbiamo pregiudiziali: non le abbiamo perché non siamo una chiesa: siamo un movimento. Non siamo un partito: siamo una palestra di uomini liberi. Quando uno è stufo di essere fascista ha venti botteghe e venti chiese cui battere alla porta per domandare ospitalità. Non abbiamo nemmeno istituti: li riteniamo superflui. Il nostro è un esercito che si riconosce dalla sua passione e dalla disciplina volontaria: che si riconosce soprattutto per ritenersi non guardia di un partito o di una fazione ma soltanto guardia della nazione. Ci riconosciamo soprattutto dall'amore che sentiamo per l'Italia per l'Italia resa e raffigurata nella sua storia nella sua civiltà e raffigurata anche nella sua struttura geografica ed umana.
Ieri mentre il treno mi portava a Bologna io mi sentivo veramente legato con le cose e con gli uomini mi sentivo legato a questa terra mi sentivo parte infinitesimale di quel magnifico fiume che corre dalle Alpi all'Adriatico mi riconoscevo fratello nei contadini che avevano il gesto sacro e grave di colui che lavora la terra; mi riconoscevo nel cielo azzurro che suscitava la mia inestinguibile passione del volo mi riconoscevo in tutti gli aspetti della natura e degli uomini. Ed allora una preghiera profonda saliva dal mio cuore. È la preghiera che tutti gli italiani dovrebbero recitare quando le aurore incendiano il cielo o quando i crepuscoli obnubilano la terra. Noi italiani del secolo XX noi che abbiamo veduto la grande tragedia del compimento nazionale noi che portiamo nel profondo del nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti che sono la nostra religione noi o cittadini d'Italia facciamo un solo giuramento un solo proposito: vogliamo essere gli artefici modesti ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire. (Applausi ed ovazioni).
Per delineare quali direttive debba seguire la politica estera dell'Italia nell'immediato e mediato futuro è opportuno gettare preliminarmente uno sguardo d'insieme sulla situazione mondiale sulle forze e correnti che vi agiscono e prospettare quali possano esserne gli sbocchi e i risultati. Tutti gli Stati del mondo si trovano fra di loro in rapporto fatale d'interdipendenza il periodo della splendide isolation è passato per tutti. Si può ben dire che colla guerra e dalla guerra la storia del genere umano ha acquistato un ritmo mondiale. Mentre l'Europa dissanguata stenta a ritrovare il suo equilibrio economico politico e spirituale già si annunciano oltre i confini del vecchio continente formidabili antitesi d'interessi. Alludo al conflitto fra Stati Uniti e Giappone i cui episodi recenti che vanno dalla faccenda del «-cavo-» al «-bil-l» contro l'immigrazione gialla in California sono nella cronaca dei giornali. Il Giappone conta oggi 77 milioni d'abitanti; gli Stati Uniti 110 milioni. Che la coscienza della inevitabilità di un urto fra questi due Stati esista può trovarsi in questo particolare significantissimo: il libro che ha avuto ed ha a Tokio la maggiore diffusione in tutte le zone della popolazione s'intitola:
La nostra prossima guerra cogli Stati Uniti. Quella che si profila è la guerra dei continenti per il dominio del Pacifico. L'asse della civiltà mondiale tende a spostarsi. Fu sino al 1500 nel Mediterraneo; dal 1492 in poi scoperta dell'America passò nell'Atlantico: da oggi si annuncia il suo trapasso al più grande oceano del pianeta.
Dissi altra volta che ci avviciniamo al secolo «asiatico». Il Giappone è destinato a funzionare da fermento di tutto il mondo giallo mentre non è detto che Isaac Rufus diventato lord Reading e viceré delle Indie riuscirà a salvare in quelle terre l'imperialismo britannico.
Spostandosi l'asse della civiltà da Londra a New-York (che fa già 7 milioni di abitanti e sarà fra poco la più grande agglomerazione umana della terra) e dall'Atlantico al Pacifico c'è chi prevede un graduale decadimento economico e spirituale della nostra vecchia Europa del nostro continente piccolo e meraviglioso che è stato sino ad ieri guida e luce per tutte le genti. Assisteremo a questo oscurarsi ed eclissarsi del «-ruolo-» europeo nella storia del mondo?
A questa domanda inquietante e angosciosa rispondiamo: è possibile. La «-vita-» dell'Europa specialmente nelle zone dell'Europa Centrale è alla mercé degli americani. D'altra parte l'Europa ci presenta un panorama politico ed economico tormentatissimo un groviglio spinoso di questioni nazionali e di questioni sociali e talvolta accade che il comunismo sia la maschera del nazionalismo e viceversa. Non sembra vicina realtà quella di una «unità» europea. Egoismi ed interessi di nazioni e di classi si accampano in fieri contrasti. La Russia non è più un enigma dal punto di vista economico. In Russia non c'è comunismo e nemmeno socialismo ma una rivoluzione agraria a tipo democratico piccolo-borghese. Rimane l'enigma dal punto di vista politico. Quale politica estera persegue in realtà la Russia? È una politica di pace o di guerra? La varietà dei fatti a nostra conoscenza ci porta ad oscillare perennemente fra l'una e l'altra ipotesi. In altri termini: sotto l'emblema falce e martello si nasconde o non si nasconde il vecchio panslavismo che oggi sarebbe inoltre dominato da una ferrea necessità «rivoluzionaria» che è quella di allargare la rivoluzione nel resto d'Europa per salvare il Governo dei Soviety in Russia?
Se la Russia farà una politica di guerra la sorte degli Stati baltici (Lituania Lettonia Estonia) appare segnata. Incerto anche il destino della Polonia che potrebbe essere schiacciata al muro ostile tedesco dell'eventuale straripare dei russi. Ci sono in quelle plaghe dell'Europa nord-orientale punti di dissidio fra gli Stati. C'è un dissidio polacco-lituano-russo a proposito di Wilna e di Grodno. Il diritto in base alla storia e alle statistiche è dalla parte dei polacchi. Ci sono nel distretto di Wilna 263.000 polacchi 118.000 lituani 8000 bianco-ruteni 83.000 israeliti. Le stesse cifre proporzionalmente si hanno per Grodno Quanto all'Alta Slesia che tiene agitatissimo il mondo tedesco e quello polacco le statistiche tedesche danno queste cifre: 1.348.000 polacchi; 588.000 tedeschi. L'Alta Slesia è dunque polacca ma il suo destino sarà deciso dal plebiscito convocato pel 15 marzo.
La grande guerra si è conclusa con sei finora trattati di pace: Versailles S. Germano Trianon Neuilly Sevres Rapallo. Nessuno di questi trattati ha accontentato in tutto i vincitori: nessuno di questi trattati nemmeno quello di Rapallo che si volle definire un trionfo delle negoziazioni amichevoli e pacifiche è stato accettato dai vinti. Ognuno di questi trattati ha dei punti controversi o di difficile realizzazione. Per quello che riguarda il «-trattatissimo» di Versailles è in piedi proprio in questo momento la grossa questione dell'indennità che la Germania dovrebbe pagare: è una cifra che dà le vertigini. L'ultima parola non è stata ancora detta. Tutto quello che si fa specie dai diplomatici è un definitivo che ha sempre un ironico carattere di provvisorio. I tedeschi che hanno realizzato l'«union sacrée» del non pagare annunciano che faranno delle controproposte e se ne riparlerà a Londra presenti gli stessi tedeschi fra qualche settimana. La nostra opinione è che se i tedeschi possono pagare devono sino al grado della loro possibilità pagare. I «-tecnici-» stabiliscano questa loro possibilità. Non bisogna dimenticare prima di abbandonarsi a compiangere i tedeschi che se vincevano la indennità che noi avremmo dovuto pagare era già stata fissata in 500 miliardi oro; che i tedeschi hanno scatenato la guerra e che il primo irredentismo inscenato dai tedeschi è diretto contro l'Italia per la loro minoranza calata abusivamente nell'Alto Adige.
Dal trattato di S. Germano è uscita l'attuale repubblica austriaca. Può vivere così com'è formata? Generalmente si opina di no. Rimane l'ipotesi di una confederazione danubiana sull'asse Vienna-Budapest ma la «-Piccola Intesa-» composta degli eredi vigila a che non si ritorni sotto una forma o l'altra all'antico.
Noi pensiamo che per forza di cose a una Confederazione economica danubiana presto o tardi ci si arriverà e allora le condizioni dell'Austria e in particolar modo quelle di Vienna ne verrebbero migliorate sino ad attenuare il movimento annessionistico pro-Germania. Dal punto di vista della giustizia e quando ci fosse una manifesta e chiara volontà di popolo l'Austria avrebbe diritto di «-alienarsi-» alla Germania. Questa ipotesi non ci può lasciar indifferenti per via del confine al Brennero questione di vita o di morte per la sicurezza della valle padana. Un'Austria affamata ed elemosinante non può scatenare un irredentismo pericoloso contro di noi; unita alla Germania la questione dell'Alto Adige si farebbe certissimamente più acuta. Quanto all'Ungheria essa può attendere una ragionevole revisione del Trattato che la mutilava da ogni parte. Bisogna però aggiungere che il capitolo «Fiume» è definitivamente sepolto nella storia ungherese. In tutto il mondo balcanico esistono focolai d'infezione di nuove guerre. Citiamo: Montenegro Albania. Siamo per la indipendenza del primo e della seconda se dimostrerà di saperla godere. Macedonia che è bulgara (1.181.000 bulgari di fronte a 499.000 turchi ed a 228.000 greci). La Bulgaria ha diritto a un porto sull'Egeo. È questo di un interesse capitale per l'espansione economica italiana in Bulgaria. Il trattato di Sevres ha massacrato la Turchia per iperbolizzare la Grecia di Venizelos e di Costantino che ha dato alla guerra europea il sacrificio di ben 787 «-euzoni-». Pensiamo che per ciò che riguarda il Mediterraneo Orientale l'Italia debba seguire una politica piuttosto turcofila.
A suo tempo immediatamente dopo la firma del trattato il Comitato Centrale dei Fasci diede il suo giudizio sul trattato di Rapallo trovandolo «accettabile per il confine orientale inaccettabile e deficente per Fiume insufficiente e da respingere per Zara e la Dalmazia-». A tre mesi di distanza quel giudizio non appare smentito dagli avvenimenti successivi. Il trattato di Rapallo è un compromesso infelice contro il quale sul Popolo furono elevate pagine di critica che è ora inutile riesumare. Si tratta di spiegare come l'Italia vittoriosa sia giunta a Rapallo. E la spiegazione non richiede eccessivi sforzi mentali. Siamo arrivati a Rapallo come conseguenza logica della politica estera — fatta o impostaci — prima della guerra durante la guerra e dopo la guerra. Per spiegare Rapallo bisogna pensare agli alleati due dei quali essendo mediterranei per posizione geografica (Francia) o per interessi e colonie (Inghilterra) non possono vedere di buon occhio il sorgere dell'Italia in potenza mediterranea onde si spiegano in loro lo zelo e tutte le manovre più o meno oblique con cui sono riuscite a creare nell'Adriatico Superiore e Inferiore il contraltare marittimo — jugoslavo e greco — dell'Italia. Rapallo si spiega pensando a Wilson e ai suoi cosiddetti «-experts-»; alla mancanza assoluta di propaganda italiana all'estero; alla stanchezza mortale e perfettamente comprensibile della popolazione. Rapallo si spiega col convegno delle Nazionalità oppresse tenutosi nell'aprile del 1918 a Roma e quel convegno si riattacca all'infausta pagina di Caporetto. Tutto si paga nella vita. Il 12 novembre del 1920 abbiamo pagato a Rapallo la rotta del 24 ottobre 1917. Senza Caporetto niente Patto di Roma. In quel congresso i jugoslavi ci vendettero del fumo poiché in realtà essi nulla assolutamente nulla fecero per disintegrare dall'interno la duplice monarchia della quale furono fedelissimi servitori sino all'ultimo con lealismo tradizionalmente croato. Non per niente dopo il suo decesso la monarchia d'Absburgo tentava regalare ai jugoslavi la sua flotta di guerra. Ma nell'aprile del 1918 si creava — consenzienti tutte le correnti dell'opinione pubblica italiana compresa la nostra e la nazionalista — l'irreparabile; si elevavano cioè al rango di alleati effettuali e potenziali i nostri peggiori nemici e si capisce che a vittoria ottenuta costoro non hanno accettato il ruolo di vinti ma hanno insistito sul loro ruolo di collaboratori e hanno rivendicato anche nei nostri confronti la relativa quota-parte del bottino comune. Dopo il Patto di Roma non si poteva piantare il ginocchio sul petto alla Jugoslavia: questa la verità. Così è accaduto che il popolo italiano stanco ed impoverito snervato da due lunghi anni di inutili trattative demoralizzato dalla politica di Cagoia e dalla tremenda ondata di disfattismo postbellico alla quale solo i Fasci hanno potentemente reagito ha accettato o subito il trattato di Rapallo senza manifestazioni di gioia o di rammarico. Pur di finirla una buona volta molta gente avrebbe trangugiato anche la linea terribile di Montemaggiore. Tutti i partiti di tutte le gradazioni di destra o di sinistra hanno accettato il trattato come un «-meno peggio-». Noi lo abbiamo subito considerandolo soprattutto come una cosa effimera e transitoria (c'è mai stato nel mondo e specialmente sulle sabbie mobili della diplomazia qualche cosa di definitivo?) e nell'intento di preparare tutte le forze affinché la prossima o lontana ma fatale revisione migliori il trattato e non lo peggiori; porti il nostro confine alle Dinariche ma non porti mai più il confine jugoslavo all'Isonzo. La sorte toccata alla Dalmazia ci angoscia profondamente. Ma la colpa della rinuncia non è da attribuirsi tutta ai negoziatori dell'ultima ora: la rinuncia era già stata perpetrata nel Parlamento nel giornalismo nell'Università stessa dove un professore ha stampato libri — naturalmente tradotti a Zagabria — per dimostrare — a modo suo — che la Dalmazia non è italiana!
La tragedia dalmata è in questa ignoranza malafede e incomprensione colpe alle quali speriamo di riparare colla nostra opera futura intesa a far conoscere amare e difendere la Dalmazia italiana.
Firmato il trattato si poteva annullarlo con uno o l'altro di questi due mezzi: o la guerra all'esterno o la rivoluzione all'interno. L'una e l'altra assurde! Non si fa scattare un popolo sulle piazze contro un trattato di pace dopo cinque anni di calvario sanguinoso. Nessuno è capace di operare tale prodigio!
Si è potuta fare in Italia una rivoluzione per imporre l'intervento ma nel novembre 1920 non si poteva pensare a una rivoluzione per annullare un trattato di pace che buono o cattivo era accettato dal 99 per cento degli italiani! Io non tengo fra tutte le virtù possibili e pensabili alla coerenza; ma testimoni esistono e documenti stenografici fanno fede che dopo Rapallo io ho sempre dichiarato che due cose mi rifiutavo di fare contro il trattato: la guerra all'esterno e la guerra all'interno. Pensavo anche che era pericoloso imbottigliarsi in un'opposizione armata al trattato rimanendo in un punto periferico della Nazione come Fiume.
Due mesi di polemiche e note quotidiane dei mesi di novembre e dicembre stanno a testimoniare trionfalmente la mia opera di solidarietà colla causa di Fiume e la mia aperta e recisa opposizione al Governo di Giolitti. Gran peccato che l'oblio cada così rapidamente sugli scritti di un quotidiano; né io ho l'abitudine melanconica di riesumare ciò che pubblico. Ma la realtà indistruttibile è che giorno per giorno ho battagliato perché il Governo di Roma riconoscesse quello di Fiume; perché al convegno di Rapallo fossero invitati i rappresentanti della Reggenza; perché da parte del Governo di Roma si evitasse ogni attacco armato contro Fiume. A tragedia iniziata ho bollato come un enorme delitto l'attacco della vigilia di Natale e ho segnato all'indomani i «titoli d'infamia» del Governo di Giolitti e sempre ho esaltato lo spirito di giustizia di libertà e di volontà che è lo spirito immortale della legione di Ronchi.
Accade per gli avvenimenti della storia come talvolta a teatro: ci sono delle platee ringhiose che avendo pagato il biglietto pretendono che la rappresentazione a qualunque costo vada a termine. Così oggi in Italia incontrate due categorie d'individui: gli uni tipo Malagodi o Papini che rimproverano a d'Annunzio di essere sopravvissuto alla tragedia fiumana e altri che rimproverano a Mussolini di non aver fatto quella piccola cosa leggera facile graziosa che si chiama una «-rivoluzione-». Io ho sempre disdegnato gli alibi vigliacchi coi quali e pei quali in Italia — deficienze impotenze rancori e miserie — ci si sfoga su teste di turco reali o immaginarie. I Fasci di Combattimento non hanno mai promesso di fare la rivoluzione in Italia in caso di un attacco a Fiume e specialmente dopo la defezione di Millo. Io poi personalmente non ho mai scritto o fatto sapere a d'Annunzio che la rivoluzione in Italia dipendeva dal mio capriccio. Non faccio del bluff e non vendo del fumo. La rivoluzione non è una boite à surprise che scatta a piacere. Io non la porto in tasca e non la portano nemmeno coloro che del suo nome si riempiono la bocca rumorosamente e all'atto pratico non vanno oltre al tafferuglio di piazza dopo la dimostrazioncella inconcludente magari col provvidenziale arresto che salva da guai peggiori. Conosco la specie e gli uomini. Faccio la politica da vent'anni. A guerra iniziata fra Caviglia e Fiume o c'era la possibilità di scatenare grandi cose o altrimenti per un senso di pudore bisognava evitare l'eccessivo vociare e le sparate fumose dileguate subito senza traccia e senza sangue.
La storia raccolta di fatti lontani insegna poco agli uomini; ma la cronaca storia che si fa sotto gli occhi nostri dovrebbe essere più fortunata. Ora la cronaca ci dice che le rivoluzioni si fanno coll'esercito non contro l'esercito; colle armi non senza armi; con movimenti di reparti inquadrati non con masse amorfe chiamate a comizi di piazza. Riescono quando le circonda un alone di simpatia da parte della maggioranza; se no gelano e falliscono. Ora nella tragedia fiumana esercito e marina non defezionarono. Certo rivoluzionarismo fiumano dell'ultima ora non si definiva: andava da taluni anarchici a taluni nazionalisti. Secondo taluni «emissari» si poteva mettere insieme il diavolo e l'acqua santa; la nazione e l'anti-nazione; Misiano e Delcroix. Ora io dichiaro che respingo tutti i bolscevismi ma qualora dovessi per forza sceglierne uno prenderei quello di Mosca e di Lenin non fosse altro perché ha proporzioni gigantesche barbariche universali. Quale rivoluzione allora? La nazionale o la bolscevica? Una grande incertezza — complicata da tante altre cause minori — confondeva gli animi mentre la nazione più che in un senso di rivolta per ciò che accadeva attorno a Fiume si raccoglieva in un senso di dolore e una sola cosa auspicava: la localizzazione dell'episodio e la sua rapida pacifica conclusione.
Delle due l'una nel caso che ci fosse stata e non c'era assolutamente dato il contegno delle forze armate di cui disponeva il governo la possibilità di un moto insurrezionale da parte nostra: o la disfatta o la vittoria. Nel primo caso tutto sarebbe andato perduto irreparabilmente nel baratro di una inutile guerra civile. Facciamo pure per amore di polemica la seconda ipotesi; l'ipotesi della vittoria colla caduta del governo e del regime. E nel secondo tempo? Dopo la più o meno facile demolizione quale direzione avrebbe avuto la rivoluzione? Sociale come volevano taluni bolscevizzanti — quelli della formula «sempre più a sinistra» equivalente della grottesca «corsa al più rosso» — o nazionale e dalmatica e reazionaria come la volevano altri?
Non possibilità di conciliazione fra le due correnti. Per una rivoluzione socialoide che significato avrebbero potuto avere ancora le questioni territoriali e precisamente dalmatiche? Nell'altro caso di una rivoluzione nazionale contro il trattato di Rapallo il tutto si sarebbe limitato ad un annullamento formale del trattato e a una sostituzione di uomini per poi addivenire a un altro trattato in un'altra Rapallo qualsiasi poiché un giorno o l'altro la nazione avrebbe dovuto finalmente avere la sua pace. Non si sanava un episodio di guerra civile scatenando più ampia guerra in un momento come quello che si attraversa e nessuno è capace di prolungare o di creare artificiosamente situazioni storiche conchiuse e superate. A chi sa elevarsi al disopra delle meschine passioni e sa trarre una sintesi dal vario cozzare degli elementi e scernere il grano puro dal loglio equivoco è concesso il privilegio dell'anticipazione sul Natale fiumano che può essere chiamato il punto d'incrocio tragico fra la ragione di Stato e la ragione dell'Ideale; il convegno terminale di tutte le nostre deficienze e di tutte le nostre grandezze!
Il primo è quello di Fiume. Non sentiamo il bisogno di accumulare frasi per ripetere la nostra solidarietà colla città olocausta. Abbiamo dato proprio in questi giorni le prove più tangibili della nostra solidarietà al Fascio Fiumano di Combattimento per rimetterlo in condizioni tali da impegnare la lotta contro la croataglia che ritorna a farsi viva. L'azione dei fascisti deve tendere a realizzare per il momento l'annessione economica di Fiume all'Italia. Sollecitare governo e privati. Nello stesso tempo mantenere con ogni mezzo la fiamma dell'italianità in modo che dall'annessione economica si passi in breve a quella politica. A ciò si arriverà malgrado tutto. Tutta la solidarietà fascista nazionale e governativa dev'essere concentrata su Zara in modo che la piccola città possa adempiere al suo delicato e grandioso compito storico. Tutela efficace degli italiani rimasti negli altri centri della Dalmazia. Niente collegio separato per gli slavi in Istria o per i tedeschi nell'Alto Adige. Non si può creare un precedente siffatto che ci porterebbe molto lontano. I francesi della Val d'Aosta che sono in realtà ottimi italiani non hanno collegio speciale o altri privilegi del genere. Questa duplice circoscrizione sarebbe un errore gravissimo. Tocca ai fascisti del Trentino e di Trieste impedire a qualunque costo che si compia.
Gli orientamenti stabiliti l'anno scorso — nell'adunata del maggio a Milano — non sono invecchiati o sorpassati.
Il Fascismo gode fama di essere «-imperialista-». Quest'accusa fa il paio coll'altra del «-reazionarismo-». Il Fascismo è anti-rinunciatario quando «rinunciare» significa umiliarsi e diminuirsi. A paragrafi:
1°) Il Fascismo non crede alla vitalità e ai principi che inspirano la cosiddetta Società delle Nazioni. In questa Società le Nazioni non sono affatto su un piede di eguaglianza. È una specie di santa alleanza delle nazioni plutocratiche del gruppo franco-anglo-sassone per garantirsi — malgrado inevitabili urti d'interessi — lo sfruttamento della massima parte del mondo.
2°) Il Fascismo non crede alle Internazionali rosse che muoiono si riproducono si moltiplicano tornano a morire. Si tratta di costruzioni artificiali e formalistiche che raccolgono piccole minoranze in confronto alle masse di popolazioni che vivendo movendosi e progredendo o regredendo finiscono per determinare quegli spostamenti d'interesse davanti ai quali vanno a pezzi le costruzioni internazionalistiche di prima seconda terza maniera.
3°) Il Fascismo non crede alla immediata possibilità del disarmo universale.
4°) Il Fascismo pensa che l'Italia debba fare nell'attuale periodo storico una politica europea di equilibrio e di conciliazione fra le diverse Potenze.
Da queste premesse generali consegue che i Fasci Italiani di Combattimento chiedono:
a) che i Trattati di pace siano riveduti e modificati in quelle parti che si appalesano inapplicabili o la cui applicazione può essere fonte di odi formidabili e fomite di nuove guerre;
b) l'annessione economica di Fiume all'Italia e la tutela degli italiani residenti nelle terre dalmatiche;
c) lo svincolamento graduale dell'Italia dal gruppo delle nazioni plutocratiche occidentali attraverso lo sviluppo delle nostre forze produttive interne;
d) il riavvicinamento alle nazioni nemiche — Austria Germania Bulgaria Turchia Ungheria — ma con atteggiamento di dignità e tenendo fermo alle necessità supreme dei nostri confini settentrionali e orientali;
e) creazione e intensificazione di relazioni amichevoli con tutti i popoli dell'Oriente non esclusi quelli governati dai «-Soviety-» e del Sud-Oriente europeo;
f) rivendicazioni nei riguardi coloniali dei diritti e delle necessità della nazione;
g) svecchiamento e rinnovamento di tutte le nostre rappresentanze diplomatiche con elementi usciti da facoltà speciali universitarie;
h) valorizzazione delle colonie italiane del Mediterraneo e di oltre Atlantico con istituzioni economiche e colturali e con rapide comunicazioni.
Ho una fede illimitata nell'avvenire di grandezza del popolo italiano. Il nostro è fra i popoli europei il più numeroso e il più omogeneo. È destino che il Mediterraneo torni nostro. È destino che Roma torni ad essere la città direttrice della civiltà in tutto l'Occidente d'Europa. Innalziamo la bandiera dell'impero del nostro imperialismo che non dev'essere confuso con quello di marca prussiana o inglese. Commettiamo alle nuove generazioni che sorgono la fiamma di questa passione: fare dell'Italia una delle nazioni senza le quali è impossibile concepire la storia futura dell'Umanità.
Respingiamo tutte le stolide obiezioni dei sedentari che ci parlano di analfabetismo e di pellagra ed altro quando si vede che mezzo secolo di «piede di casa» non ci ha guariti da questi che non sono né delitti né vergogne. Al disopra dei pessimisti che vedono tutto grande in casa altrui e tutto piccolo in casa propria dobbiamo avere l'orgoglio della nostra razza e della nostra storia. La guerra ha enormemente aumentato il prestigio morale dell'Italia. Si grida: «Viva l'Italia» nella lontana Lettonia e nell'ancora più lontana Georgia. Italia è l'ala tricolore di Ferrarin l'onda magnetica di Marconi la bacchetta di Toscanini il ritorno a Dante nel sesto centenario della sua dipartita. Sogniamo e prepariamo — con l'alacre fatica di ogni giorno — l'Italia di domani libera e ricca sonante di cantieri coi mari e i cieli popolati dalle sue flotte colla terra ovunque fecondata dai suoi aratri. Possa il cittadino che verrà dire quel che Virgilio diceva di Roma: imperium oceano famam qui terminet astris: ponga i termini dell'Impero all'Oceano ma la sua fama elevi alle stelle.
Bologna, 3 aprile 1921: Mussolini Parla ai bolognesi.
Questo discorso fu pronunciato a Bologna al Teatro Comunale il 3 aprile 1921. Anche questo è un discorso sintetico in cui appaiono le basi essenziali e le idee-forza del Fascismo. Con esso al 1° maggio d'infausta memoria socialista si opponeva il 21 aprile fascista data del Natale di Roma consacrato al Lavoro e alla Nazione. Fra le persone citate nel discorso giovi rammentare che Giulio Giordani fu assassinato in Bologna da un'aggressione rossa nel Palazzo d'Accursio in pieno consiglio comunale. L'avv. Grandi è il futuro Ministro degli Affari Esteri; i nomi di Bucco Zanardi e Bentini note personalità del socialismo sono presi ad esponente di tutta una categoria di uomini che pur facendo i politicanti rossi non avevano neppure il coraggio di una possibile rivoluzione.
Fascisti dell'Emilia e della Romagna! Cittadini bolognesi! Tutte le circostanze a cominciare dalle accoglienze di ieri sera dai canti di questa notte a questo magnifico mareggiare di teste al saluto che io accettai con trepida venerazione dalla vedova del nostro indimenticabile Giulio Giordani (applausi) alla presenza in un palco di due donne eroiche vedove di eroi grandissimi: parlo di Battisti e di Venezian (applausi) tutto ciò potrebbe trascinarmi sopra un terreno dell'eloquenza che non è la mia. Ma io credo io sono quasi certo che voi non vi attendete da me un discorso retorico ma vi attendete da me un discorso duro ed aspro come è nel mio costume. Ed allora noi ci parleremo schiettamente fascisticamente.
Io ringrazio l'avv. Grandi che mi ha presentato a voi con parole troppo lusinghiere: io le accetto e credo di non commettere un peccato di orgoglio. Potrei dirvi socraticamente che se ognuno deve conoscere se stesso anche io conosco e devo conoscere me stesso (applausi). Come è nato questo fascismo attorno al quale è così vasto strepito di passioni di simpatie di odi di rancori e di incomprensione? Non è nato soltanto dalla mia mente o dal mio cuore: non è nato soltanto da quella riunione che nel marzo 1919 noi tenemmo in una piccola sala di Milano. È nato da un profondo perenne bisogno di questa nostra stirpe ariana e mediterranea che ad un dato momento si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali della esistenza da una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata (applausi).
Noi sentimmo allora noi che non eravamo i maddaleni pentiti; noi che avevamo il coraggio di esaltare sempre l'intervento e le ragioni delle giornate del 1915; noi che non ci vergognavamo di avere sbaragliato l'Austria sul Piave e di averla poi mandata in frantumi a Vittorio Veneto; noi che volemmo una pace vittoriosa noi sentimmo subito appena cessata l'esaltazione della vittoria che il nostro compito non era finito ed io stesso sentii che il mio compito non era finito. Difatti ad ogni volgere di stagione si dice che il mio compito e il compito delle forze che mi seguono sia finito. Nel maggio 1915 quando i fasci di azione rivoluzionaria avevano spazzato da tutte le strade da tutte le piazze e le vie d'Italia perfino nei più piccoli borghi d'Italia il neutralismo parecchista si disse: Mussolini non ha più niente da dire alla nazione. Ma quando vennero le tragiche e tristi giornate di Caporetto quando Milano era grigia e terrea perché sentiva che se gli austriaci passavano e venivano nella città delle cinque giornate sarebbe stata la fine dell'Italia tutta allora noi sentimmo di avere ancora una parola da dire.
E dopo la vittoria quando sorse la scuola della rinunzia più o meno democratica che intendeva amputare la vittoria noi fascisti avemmo il supremo spregiudicato coraggio di dirci imperialisti ed antirinunciatarì.
Fu quella la prima battaglia che demmo nel Teatro della Scala nel gennaio 1919. Ma come? Avevamo vinto avevamo vinto noi per tutti avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù e poi si veniva a noi coi conti degli usurai degli strozzini. Ci si contendevano i termini sacri della patria e c'erano in Italia dei democratici la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi (applausi) che ci lanciavano questa stolta accusa semplicemente perché intendevamo che il confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero dove sarà fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia (applausi). Intendevamo che il confine orientale fosse al Nevoso perché là sono i naturali giusti confini della Patria e perché non eravamo sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore lo spasimo dei fratelli della Dalmazia perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino anche a quegli italiani che non vogliono più esserlo a quelli di Corsica a quelli che sono al di là dell'Oceano a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza (applausi). Si notavano già le prime avvisaglie della offensiva pussista. Milano il 16 febbraio assistette fra lo sgomento e il terrore di una borghesia infiacchita e trepidante ad una sfilata di 20 mila bolscevichi i quali dopo avere inneggiato a Lenin dall'alto dei torrioni del castello dissero che la rivoluzione bolscevica era imminente.
Allora io uscii all'indomani con un articolo che fece una certa impressione anche ad alcuni amici. Era intitolato: «-Contro il ritorno della bestia trionfante-». Era un articolo in cui si diceva: noi siamo disposti a convertire le piazze delle città d'Italia in tante trincee munite di reticolati per vincere la nostra battaglia per dare l'ultima battaglia contro questo nemico interno. E la battaglia disfattista iniziatasi con quella parata continuò per tutta l'estate quando fu rimestata fino alla nausea quella inchiesta sul disastro di Caporetto che un ministro infame infamabile da infamarsi (morte a Nitti morte a Cagoia viva d'Annunzio applausi) aveva dato in pasto alla esasperazione ed ai giusti dolori di gran parte del popolo italiano.
Anche allora noi fascisti avemmo il coraggio di difendere certe azioni che col misurino della morale corrente non sono forse difendibili. Ma o signori la guerra è come la rivoluzione: si accetta in blocco: non si può scendere al dettaglio: non si può e non si deve.
Ma intanto questa campagna aveva le sue risultanze elettorali. Un milione e 850.000 elettori misero nell'urna la scheda con la falce e il martello: 156 deputati alla Camera. Pareva imminente la catastrofe. Io fui ripescato suicida nelle acque niente affatto limpide del vecchio Naviglio. Ma si dimenticava una cosa: si dimenticava il mio spirito tenacissimo e la mia volontà qualche volta indomabile. Io tutto orgoglioso dei miei quattromila voti e chi mi ha visto in quei giorni sa con quanta disinvoltura accettassi questo responso elettorale dissi: la battaglia continua! Perché io credevo fermamente che giorno sarebbe venuto in cui gli italiani si sarebbero vergognati delle elezioni del 16 novembre giorno sarebbe venuto in cui gli italiani non avrebbero più eletto in due città quell'ignobile disertore che io in questo momento non voglio nominare (applausi; morte a Misiano!). Tanto è vero che costui oggi essendo incapace di vivere nel dramma scende nella farsa e dopo avere disprezzato la guardia regia chiede a quella divisa la impunità e la salvezza.
Ma ancora non è finito l'avvento di questo fascismo di questo movimento straripante di questo movimento giovane ardimentoso ed eroico. Io solo qualche volta io che rivendico la paternità di questa mia creatura così traboccante di vita io posso qualche volta sentire che il movimento ha già straripato dai modesti confini che gli aveva assegnato. Infine noi fascisti abbiamo un programma ben chiaro: noi dobbiamo procedere innanzi preceduti da una colonna di fuoco perché ci si calunniava e non ci si voleva comprendere. E per quanto si possa deplorare la violenza è evidente che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dovevamo a suon di randellate toccare i crani refrattari.
Ma noi non facciamo della violenza una scuola un sistema o peggio ancora una estetica. Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo. Ma vi dico subito che bisogna conservare alla violenza necessaria del fascismo una linea uno stile nettamente aristocratico o se meglio vi piace nettamente chirurgico.
Le nostre spedizioni punitive tutte quelle violenze che occupano le cronache dei giornali devono avere sempre il carattere di una giusta ritorsione e di una legittima rappresaglia. Perché noi siamo i primi a riconoscere che è triste dopo avere combattuto contro i nemici di fuori combattere ora contro i nemici di dentro che vogliono o non vogliono sono italiani anch'essi. Ma è necessario e fin che sarà necessario assolveremo al nostro compito in questa dura ed ingrata fatica.
Ora i democratici i repubblicani i socialisti ci muovono accuse di diverso genere. I socialisti fino a ieri hanno detto che siamo venduti ai pescicani o all'agraria.
Non ci sarebbero pescicani sufficienti in Italia per sovvenzionare un movimento come il nostro e d'altra parte vi devo dire che sarebbero pescicani piuttosto stupidi perché fin dal marzo 1919 noi nei postulati fascisti abbiamo messo dei provvedimenti fiscali assai gravi e che sono in ogni caso antipescecaneschi.
Le altre accuse che ci fa la democrazia sono ridicole. Le accuse che ci fanno i repubblicani altrettanto. Io non mi spiego come dei repubblicani possano essere contrari ad un movimento che è tendenzialmente repubblicano. Io comprenderei che fossero contrari ad un movimento tendenzialmente monarchico. Ci si dice: Voi non avete pregiudiziali. Non ne abbiamo ed è nostro vanto non averne. Ma voi dovete spiegarvi il fenomeno dell'ira e della incomprensione dei socialisti. I socialisti avevano in Italia costituito uno stato nello Stato. Se questo nuovo stato fosse stato più liberale più moderno più vicino all'antico niente in contrario. Ma questo stato e voi lo sapete per esperienza diretta era uno stato più tirannico più illiberale più camorrista del vecchio per cui questa che noi compiamo oggi è una rivoluzione che spezza lo stato bolscevico nell'attesa di fare i conti con lo stato liberale che rimane. (Applausi).
C'è chi pensa che la crisi socialista sia soltanto una crisi di uomini di questi piccoli uomini che voi conoscete i Bucco i Zanardi i Bentini (urla di abbasso) e simile tritume umano: ma la crisi è più profonda cari amici è un tracollo di tutti i valori. Non è soltanto una fuga più o meno ignobile di uomini perché fra tutte le cose assurde c'è stata questa: di battezzare il socialismo come scientifico. Ora di scientifico non c'è niente al mondo. La scienza ci spiega il come dei fenomeni ma non ci spiega anche il perché di essi. Ora se non c'è niente di scientifico in quelle che si chiamano le scienze esatte pensate se non era assurdo se non era grottesco gabellare per scientifico un movimento vasto incerto oscuro sotterraneo come è stato il movimento socialista il quale ha avuto una funzione utile in un primo tempo quando si è diretto a queste plebi oppresse e le ha fatte scattare verso nuove forme di vita. Voi converrete con me che non si torna indietro. Non si deve fare del contrabbando stolto reazionario o conservatore sotto il gagliardetto del fascismo. Non si può pensare a strappare alle masse operaie le conquiste che hanno ottenuto con sacrifici. Noi siamo i primi a riconoscere che una legge dello Stato deve dare le otto ore di lavoro e che ci deve essere una legislazione sociale rispondente alle esigenze dei tempi nuovi. E ciò non perché riconosciamo la maestà di S. M. il proletariato. Noi partiamo da un altro punto di vista. Ed è questo: che non ci può essere una grande nazione capace di grandezza attuale e potenziale se le masse lavoratrici sono costrette ad un regime di abbrutimento. (Applausi). È necessario quindi che attraverso ad una predicazione e ad una pratica che io chiamerei mazziniana la quale concilii e debba conciliare il diritto col dovere è necessario che questa massa enorme di diecine di milioni di gente che lavora che questa enorme massa sia portata sempre più ad un livello superiore di vita.
È stolto ed assurdo dipingerci come nemici della classe lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli in ispirito con coloro che lavorano: ma non facciamo distinzioni assurde ma non mettiamo al primo piano il callo specie se è al cervello. Noi non mettiamo sugli altari la nuova divinità del lavoratore manuale. Per noi tutti lavorano: anche l'astronomo che sta nella sua specula a consultare la traiettoria delle stelle lavora anche il giurista l'archeologo lo studioso di religioni anche l'artista lavora quando accresce il patrimonio dei beni spirituali che sono a disposizione del genere umano: lavora anche il minatore il marinaio il contadino. Noi vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda: vogliamo che tra spirito e materia fra cervello e braccio si realizzi la comunione la solidarietà della stirpe. Ed allora questo fascismo è la ventata di tutte le eresie che batte alle porte di tutte le chiese. E dice ai vecchi sacerdoti più o meno piagnoni: andatevene da questi tempi che minacciano rovina perché la nostra eresia trionfante è destinata a portare la luce in tutti i cervelli a tutti gli animi. E diciamo a tutti: piccoli e grandi uomini della scena politica nazionale diciamo: fate largo che passa la giovinezza d'Italia che vuole imporre la sua fede e la sua passione. E se voi non farete spontaneamente largo voi sarete travolti dalla nostra universale spedizione punitiva che raccoglierà in un fascio gli spiriti liberi della nazione italiana. (Applausi).
Siamo dinanzi ad un fatto che è il fatto elettorale. Essendo la camera vecchia e peggio che vecchia fradicia ed imputridita essendo tutti i protagonisti di questa semitragedia degli uomini usati ed abusati stanchi e peggio ancora stracchi si impone la nuova consultazione elettorale. Ebbene non sentite voi che se le elezioni del 1919 furono disfattiste e misianesche le elezioni del 1921 saranno nettamente fasciste? Non sentite voi che il timone dello Stato non ritornerà più ai vecchi uomini della vecchia Italia: né a Salandra né a Sonnino né al lacrimoso Orlando né al porcino Nitti? Non sentite voi che il timone passa per un trapasso spontaneo da Giovanni Giolitti l'uomo dal parecchio neutralista del 1915 a Gabriele d'Annunzio che è un uomo nuovo? (Applausi ovazioni prolungale: Viva d'Annunzio).
Questi vostri applausi dicono molte cose: e disperdono equivoci che sono già dispersi. Ho ricevuto oggi un messaggio in base al quale posso affermare sinceramente che il dissidio creato più o meno ad arte fra quelli che hanno difeso Fiume — e noi tributeremo sempre loro l'omaggio della nostra riconoscenza — e noi che la difendemmo all'interno non ha ragione di essere. E Gabriele d'Annunzio porrà fine a questo dissidio che più che da legionari partiva da certi politicanti che forse non erano neppure a Fiume quando a Fiume ci si batteva sul serio. E credo di aver detto a sufficienza perché tutti mi comprendano. (Applausi).
Altro elemento di vita del fascismo è l'orgoglio della nostra italianità. A questo proposito sono lieto di annunziarvi che abbiamo già pensato alla giornata fascista: se i socialisti hanno il 1° maggio se i popolari hanno il 15 maggio se altri partiti di altro colore hanno altre giornate noi fascisti ne avremo una: ed è il Natale di Roma il 21 aprile. In quel giorno noi nel segno di Roma Eterna nel segno di quella città che ha dato due civiltà al mondo e darà la terza noi ci riconosceremo e le legioni regionali sfileranno col nostro ordine che non è militaresco e nemmeno tedesco ma semplicemente romano. Noi anche così abbiamo abolito e tendiamo ad abolire il gregge la processione: noi aboliamo tutto ciò e sostituiamo a queste forme di manifestazioni passatiste la nostra marcia che impone un controllo individuale ad ognuno che impone a tutti un ordine ed una disciplina. Perché noi vogliamo appunto instaurare una solida disciplina nazionale perché pensiamo che senza questa disciplina l'Italia non può divenire la nazione mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni. E quelli che ci rimproverano di marciare alla tedesca devono pensare che non siamo noi che copiamo i tedeschi ma sono questi che copiavano e copiano i romani per cui siamo noi che ritorniamo alle origini che ritorniamo al nostro stile romano latino e mediterraneo. E non abbiamo pregiudiziali: non le abbiamo perché non siamo una chiesa: siamo un movimento. Non siamo un partito: siamo una palestra di uomini liberi. Quando uno è stufo di essere fascista ha venti botteghe e venti chiese cui battere alla porta per domandare ospitalità. Non abbiamo nemmeno istituti: li riteniamo superflui. Il nostro è un esercito che si riconosce dalla sua passione e dalla disciplina volontaria: che si riconosce soprattutto per ritenersi non guardia di un partito o di una fazione ma soltanto guardia della nazione. Ci riconosciamo soprattutto dall'amore che sentiamo per l'Italia per l'Italia resa e raffigurata nella sua storia nella sua civiltà e raffigurata anche nella sua struttura geografica ed umana.
Ieri mentre il treno mi portava a Bologna io mi sentivo veramente legato con le cose e con gli uomini mi sentivo legato a questa terra mi sentivo parte infinitesimale di quel magnifico fiume che corre dalle Alpi all'Adriatico mi riconoscevo fratello nei contadini che avevano il gesto sacro e grave di colui che lavora la terra; mi riconoscevo nel cielo azzurro che suscitava la mia inestinguibile passione del volo mi riconoscevo in tutti gli aspetti della natura e degli uomini. Ed allora una preghiera profonda saliva dal mio cuore. È la preghiera che tutti gli italiani dovrebbero recitare quando le aurore incendiano il cielo o quando i crepuscoli obnubilano la terra. Noi italiani del secolo XX noi che abbiamo veduto la grande tragedia del compimento nazionale noi che portiamo nel profondo del nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti che sono la nostra religione noi o cittadini d'Italia facciamo un solo giuramento un solo proposito: vogliamo essere gli artefici modesti ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire. (Applausi ed ovazioni).
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 22:21 - modificato 4 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
SEGUE Anno - 1921
Roma, 21 giugno 1921: Il primo discorso di MUSSOLINI alla Camera dei deputati.
Roma, 21 giugno 1921: Il primo discorso di MUSSOLINI alla Camera dei deputati.
Le elezioni del 1919 non avevano portato Benito Mussolini al Parlamento.. Gli avversari vincitori si erano abbandonati ad ignobili e nefande gazzarre e Mussolini era stato illegalmente arrestato dal Questore di Milano che aveva dovuto poi rilasciarlo in seguito all'intervento dei cittadini più autorevoli e all'esplosione di sdegno dell'opinione pubblica. La sconfitta del 1919 si era trasformata in un'alta affermazione morale.
Ma nel 1921 il Fascismo aveva già fatto passi da gigante e capitanava la concentrazione delle forze nazionali. Mussolini nel 1919 come capolista aveva ottenuto 4064 voti; nel 1921 ottenne 124.918 voti.
Entrò alla Camera come leader non solo del movimento fascista ma di tutte le forze nazionali di destra. Sprezzante del vecchio parlamentarismo si servì della tribuna parlamentare per parlare non ai deputati ma all'intera nazione; e il crescente consenso dell'opinione pubblica dava alle sue parole un peso che superava di gran lunga tutte le sterili guerriglie di Montecitorio.
Questo è il primo discorso dal banco di deputato pronunciato nella tornata del 21 giugno 1921 mentre si discuteva su l'indirizzo di risposta al discorso della Corona. Gli oggetti del discorso sono due: 1° critica alla politica italiana nell'Alto Adige e alla politica estera del Conte Sforza; 2° la posizione del Fascismo di fronte agli altri Partiti. Le citazioni carducciane a pag. 185 derivano dall'ode «-Alla città di Ferrara-» (in Rime e Ritmi) dall'ode «-Per Eduardo Corazzini» e da quella «Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti-» (in Giambi ed Epodi).
Non mi dispiace onorevoli colleghi di iniziare il mio discorso da quei banchi dell'estrema destra dove nei tempi in cui lo spaccio della Bestia trionfante aveva le sue porte spalancate ed un commercio avviatissimo nessuno osava più sedere.
Vi dichiaro subito con quel sovrano disprezzo che ho di tutti i nominalismi che sosterrò nel mio discorso tesi reazionarie.
Sarà quindi il mio discorso non so quanto parlamentare nella forma ma nettamente antidemocratico e antisocialista nella sostanza (approvazioni all'estrema destra) e quando dico antisocialista intendo dire anche anti-giolittiano (ilarità) perché non mai come in questi giorni fu assidua la corrispondenza d'amorosi sensi tra l'onorevole Giolitti e il gruppo parlamentare socialista. Oso dire che fra di essi esiste il broncio effimero degli innamorati non già l'irriconciliabilità irreparabile dei nemici.
Ciò non ostante ho la immodestia di affermare che il mio discorso può essere ascoltato con qualche utilità da tutti i settori della Camera. In primo luogo dal Governo il quale si renderà conto del nostro atteggiamento verso di lui; in secondo luogo dai socialisti i quali dopo sette anni di fortunose vicende vedono innanzi a sé nell'atteggiamento orgoglioso dell'eretico l'uomo che essi espulsero dalla loro chiesa ortodossa. D'altra parte essi mi ascolteranno perché avendo io tenuto nel pugno le vicende del loro movimento per due anni forse nel loro cuore ci sono anche delle segrete nostalgie. (Commenti).
Potrò essere ascoltato con interesse anche dai popolari e da tutti gli altri gruppi e partiti. Infine poiché io mi riprometto di precisare alcune posizioni politiche e oserei dire storiche di quel movimento così complesso e così forte che si chiama fascismo può darsi che il mio discorso provochi conseguenze politiche degne di qualche rilievo.
Vi prego di non interrompermi perché io non interromperò mai nessuno e aggiungo fin da questo momento che farò un uso assai parco in questo ambiente della mia libertà di parola.
E vengo all'argomento.
Nel discorso della Camera voi onorevole Giolitti avete fatto dire al Sovrano che la barriera alpina è tutta in nostro potere. Io vi contesto l'esattezza geografica e politica di questa affermazione. A pochi chilometri da Milano noi non abbiamo ancora a difesa della Lombardia e di tutta la valle del Po la barriera alpina. Tocco un tasto molto delicato; ma d'altra parte in questa Camera e fuori tutti sanno che nel Canton Ticino che si sta tedeschizzando e imbastardendo affiora un movimento di avanguardie nazionali che io segnalo e che noi fascisti seguiamo con viva simpatia.
Che cosa fa il Governo presente per difendere la barriera alpina al Brennero e al Nevoso? La politica seguita da questo Governo per ciò che riguarda l'Alto Adige è quanto di più lacrimevole si possa immaginare.
L'onorevole Credaro avrà i numeri per governare un asilo infantile (ilarità) ma io nego recisamente che abbia le qualità necessarie e sufficienti per governare una regione mistilingue dove il contrasto delle razze è antico e acerbissimo.
Altro responsabile della situazione difficile che gli italiani hanno nell'Alto Adige è il signor Salata. Egli ha regalato il Collegio di Gorizia agli sloveni e ha regalato quattro deputati tedeschi alla Camera italiana.
Del resto l'onorevole Credaro appartiene a quella categoria di personaggi più o meno rispettabili che sono schiavi dei cosiddetti immortali principi i quali consistono nel ritenere che ci sia un solo Governo buono in questo mondo che esso sia applicabile a tutti i popoli in tutti i tempi in tutte le parti del mondo.
Mi permetto di esporre alla Camera i risultati di una mia inchiesta personale sulla situazione dell'Alto Adige.
Il movimento politico antitaliano nell'Alto Adige è monopolizzato dal «-Deutscher Verband-» il quale è la emanazione dell'«-Andreas Hoferbund-» che ha sede a Monaco e che rivendica quale confine tedesco non già la stretta di Salorno ma la «-Bern Clause-» o Chiusa di Verona.
Ora il signor Credaro è responsabile della propaganda pangermanista nell'Alto Adige perché ha avallato prefazionandolo un libro dove si dice che il confine naturale della Germania è ai piedi delle Alpi verso la valle del Po.
Nei primi tempi immediatamente dopo l'armistizio della occupazione militare il movimento italofobo non fu possibile ma da quando per somma sventura sulla seggiola di governatore si pose l'onorevole Credaro i rapporti cambiarono immediatamente; e alla sottomissione sorniona si sostituì l'insolente arroganza di gente che negava la disfatta austriaca e covava nell'animo le ardenti nostalgie degli Absburgo. La fiera campionaria fu voluta dalla Camera di Commercio di Bolzano nido di pangermanisti con esclusione di ditte italiane tanto vero che gl'inviti furono fatti solo in lingua tedesca e durante il periodo della fiera una banda bavarese in costume suonò continuamente.
Vengo ai fatti del 24 aprile quando una bomba fascista giustamente collocata a scopo di rappresaglia e per la quale rivendico la mia parte di responsabilità morale segnò il limite al di là del quale il fascismo non intende che vada l'elemento tedesco.
La manifestazione del 24 aprile nel Tirolo non era che una manifestazione simultanea al plebiscito che in quel giorno oltre Brennero era stato indetto.
Perché nell'Alto Adige i pangermanisti ricorrono a questo sottile trucco: di far coincidere le stesse manifestazioni sotto veste diversa. Così quando oltre Brennero si fecero le cerimonie di lutto per la perdita dell'Alto Adige di qua del Brennero si commemorò con altrettanta manifestazione il lutto per i caduti di guerra dell'Austria-Ungheria!
Del resto quando i fascisti si presentarono a Bolzano trovarono una polizia con tanto di elmo e fiocco e quando furono arrestati l'istruttoria fu affidata al conte Breitemberg il quale è notoriamente socio della «-Deutscher Verband-».
Non vi voglio intrattenere sui casi di Mamelter perché formano un capitolo da romanzo; ma non posso rinunciare a citarvi un episodio curiosissimo.
Il commissario di Merano si reca al comune di Maja Alta ed è ricevuto non già al Municipio ma in una stamberga nella quale si sono radunati il sindaco ed i consiglieri. Il commissario legge la formula del giuramento il sindaco ed i consiglieri immediatamente si mettono a sedere si coprono il capo e scoppiano in una grande risata. Il commissario non si è ancora rimesso dalla sorpresa che il sindaco levatosi in piedi con una valanga di insulti lancia ingiurie al Re alla monarchia all'Italia e al commissario. Questi ritorna a Merano e domanda a Trento lo scioglimento di quel Consiglio; ma interviene il «Deutscher Verband» presso il governatore. E Salata restituisce il rapporto scrivendo al commissario che non è bene fare dell'irredentismo. E la rappresentanza del comune rimase quale era!
Da quando Credaro sgoverna nell'Alto Adige la bilinguità è totalmente scomparsa. Il Perathoner che non è altro che un Pierantoni rinnegato italiano diventato tedesco si rifiuta di accettare la deposizione che egli stesso invita a fare sui fatti del 24 aprile perché narrata e scritta in italiano. Sono piccoli episodi analitici ma che danno il panorama della situazione.
A Malgrè l'italofobo Dorsi Don Angelo presidente del circolo giovanile cattolico di Santo Stefano fa cacciare da questo una decina di giovani perché hanno presentato a lui domanda scritta in italiano ed afferma che la lingua italiana non serve per i suoi uffici: l'italiano tenetevelo per voi! Ciò evidentemente è fatto allo scopo di alterare i documenti e di ritardare i pagamenti delle pensioni a coloro che ne hanno diritto. E a presidente della Corte di Appello di Trento redenta italiana tra tutti i concorrenti si è scelto un tale che nel 1915 si dimise da magistrato per potere correre volontario come kaiser-jager a servizio dell'Austria-Ungheria. Costui oggi amministra la giustizia nel nome dell'Italia! (Commenti).
Credete che le comunicazioni postali e telegrafiche dell'Alto Adige siano in mani italiane? È un errore è una illusione: il «Deutscher Verband» ha in mano tutte le comunicazioni e ne dispone a piacimento. Il 24 aprile per quanto giorno festivo i pangermanisti e i capi del movimento di Innsbruk erano informati minuto per minuto dello svolgersi dei fatti di Bolzano.
A Innsbruk cinque minuti dopo l'incidente si conosceva la portata di esso in tutti i suoi particolari mentre venivano tagliate tutte le comunicazioni colle autorità civili e militari e per quasi ventiquattro ore isolate completamente da Trento e dal resto d'Italia.
Questa è la situazione.
Ma a questo punto io debbo chiamare in causa l'onorevole Luigi Luzzatti. Io l'ho già chiamato in causa sul mio giornale; ma siccome quest'uomo appartiene alla specie dei padri eterni più o meno venerabili e venerandi non si è degnato ancora di rispondere. Ora io spero che chiamando in causa dalla tribuna parlamentare si deciderà di rispondere ad un quesito che gli pongo nella maniera più chiara e categorica.
Il Nuovo Trentino un giornale molto serio che esce a Trento il 27 maggio scrive: «-L'onorevole Luigi Luzzatti cavaliere della SS. Annunziata relatore della Commissione parlamentare che esaminò ed approvò il trattato di San Germano disse in presenza di Salata del barone Toggenburg già ministro austriaco di Francesco Giuseppe del tenente austriaco Reuth Nikolussi: "Avere scritto nella relazione al Parlamento il passo riguardante l'autonomia dell'Alto Adige aggiungendo però essere sua opinione personale che la regione tedesca dell'Alto Adige avrebbe fatto bene a non mandare alcun deputato al Parlamento di Roma giacché essa avrebbe avuto poi s'intende dall'Italia istituzioni proprie e una propria rappresentanza politica rimanendo così a suo agio unita all'Italia fino a che avesse potuto ricongiungersi alla sua Nazione"-».
Ora noi contestiamo a Luigi Luzzatti fosse egli anche più sapiente o più grande di quello che in realtà non sia il diritto di disporre del territorio italiano. (Approvazioni commenti).
E allora signori del Governo per la situazione dell'Alto Adige noi vi domandiamo queste immediate misure: lo sfasciamento di ogni forma anche esteriore che ricordi la monarchia austro-ungarica. Perché è inutile onorevole Sforza fare dei patti per tutti gli eredi austriaci più austriaci dell'Austria per impedire il ritorno degli Absburgo quando noi lasciamo intatta gran parte dell'Austria dentro i nostri confini;
scioglimento del «Deutscher Verband»; deposizione immediata di Credaro e Salata. (Approvazioni all'estrema destra);
provincia unica Tridentina con sede a Trento e stretta osservanza della bilinguità in ogni atto pubblico ed amministrativo.
Non so quali misure saranno adottate dal Governo ma dichiaro qui senza assumere pose solenni e lo dichiaro ai quattro deputati tedeschi che essi debbono dire e far sapere oltre Brennero che al Brennero ci siamo e ci resteremo a qualunque costo. (Applausi).
Giolitti (presidente del Consiglio dei ministri ministro dell'interno). Su questo siamo tutti d'accordo. (Vivi applausi).
Mussolini. Prendo atto con molto piacere della dichiarazione esplicita fattami in questo momento dal presidente del Consiglio.
Nel discorso della Corona si parla di Alpi che scendono al Quarnero. Ora si desidera sapere se queste Alpi comprendono Fiume o l'escludono.
Io deploro che nel discorso della Corona non ci sia stato un accenno all'azione svolta da Gabriele d'Annunzio e dai suoi legionari (applausi all'estrema destra) senza la quale noi oggi saremmo col confine al Monte Maggiore e non già al Nevoso.
Un tale accenno era generoso ed anche politicamente opportuno. Io non mi dilungo sul sacrificio della Dalmazia. Ne ha parlato ieri con molta eloquenza il mio amico onorevole Federzoni. Ma mi fa sorridere il discorso della Corona quando afferma che Zara deve rappresentare sull'altra sponda un faro di luce italiana. Zara è una città assassinata di fronte al mare slavo e al retroterra completamente slavo. C'è a Zara oggi un Buonfanti Linares che se vi rimarrà ancora sarà causa di fieri e seri incidenti.
Sempre in tema Adriatico o signori del Governo non possiamo dimenticare noi che parliamo per la prima volta in quest'aula il contegno che avete tenuto di fronte all'impresa di Fiume; non possiamo dimenticare che voi avete attaccato Fiume alla vigilia di Natale utilizzando anche i due giorni di sospensione di tutti i giornali; non possiamo dimenticare che avete imposto l'accettazione del Trattato di Rapallo con un atto di violenza e di crudeltà raffinata. Quando il 28 dicembre il generale Ferrano disse che «non poteva sospendere l'ordine di esecuzione del bombardamento che avrebbe raso al suolo Fiume» quel generale e il Governo che gli ordinava di agire in tal modo si misero un poco fuori dai limiti della coscienza e della dignità nazionale. E non possiamo nemmeno dimenticare quel foglio riservatissimo n. 22 del generale Ferrario in cui per il giorno di Natale si dava un soprassoldo più o meno lucroso a soldati italiani che andavano a combattere contro altri italiani. (Approvazioni a destra).
Avete posto un coltello al collo di Fiume ma non avete risolto il problema di Fiume. Avete mandato là il comandante Foschini con un piano diabolico di realizzare un Governo che accetti i patti che sono stati convenuti dal signor Quartieri a Belgrado che accetti cioè quel consorzio che è la rovina se non immediata mediata del porto di Fiume perché voi sapete che dopo dodici anni Porto Barros e il Delta dovrebbero andare alla Jugoslavia perché voi ora alla Jugoslavia l'avete già
consegnato e se non l'avete consegnato avreste dovuto fare già delle dichiarazioni specifiche che sono mancate.
Infine quali sono gli orientamenti della nostra politica estera di fronte a quel vasto focolare di discordie che il trattato di pace o meglio i vari trattati di non pace hanno lasciato in tutte le parti del mondo?
Non vi parlo del focolare di discordie greco-turche quantunque esso possa avere delle applicazioni impensate se è vero come si dice che Lenin è alleato di Kemal Pascià e manda già le avanguardie degli eserciti rossi verso l'Asia Minore. Non vi parlo dell'Alta Slesia perché non sono ancora riuscito a decifrare il punto di vista del nostro Governo. Non vi parlo degli avvenimenti di Egitto ma non posso tacere sulla sorte che si prepara al Montenegro.
Come ha perduto la sua indipendenza il Montenegro? De jure non l'ha mai perduta; ma de facto l'ha perduta nell'ottobre 1918. E pure il conte Sforza mi insegna che l'indipendenza del Montenegro era completamente garantita dal patto di Londra del 1915 che prevedeva l'ingrandimento del Montenegro a spese dell'Austria e la restituzione di Scutari; dalle condizioni di pace esposte da Wilson agli alleati in cui l'esistenza indipendente del Montenegro veniva garantita come quella del Belgio e della Serbia; dalla decisione del Consiglio Supremo della Conferenza della pace del 13 gennaio 1919 nella quale si riconosceva al Montenegro il diritto di essere rappresentato da un delegato alla conferenza di Parigi. Non solo ma quando Franchet d'Esperey andò con alcuni elementi francesi e serbi in Montenegro diede ad intendere che avrebbe governato in nome di Sua Maestà Re Nicola.
Quando però Re Nicola la Corte ed il Governo intendevano riguadagnare la Montagna Nera la Francia che aveva tutto l'interesse di creare la grande Jugoslavia per fare da contro-altare nell'Adriatico all'Italia fece sapere al Governo del Montenegro che avrebbe rotto le relazioni diplomatiche se il Re e la sua Corte fossero ritornati a Cettigne.
Quale è stata la politica italiana in questo frangente?
L'onorevole Federzoni ha ieri parlato di una convenzione che è diventata uno straccio di carta ed è la convenzione del 30 aprile 1919. In questa convenzione sono chiaramente stabiliti dei patti fra il Governo d'Italia e il Governo del Montenegro. E si dice precisamente: «-A seguito dell'accordo intervenuto fra il ministro italiano degli affari esteri e il Governo del Montenegro (dunque un Governo del Montenegro esisteva ancora in data 30 aprile 1919) rappresentato dal suo console generale in Roma commendatore Ramanadovich si costituirà a Gaeta per cura del Governo montenegrino un nucleo di militari ufficiali e truppa tratti dai profughi montenegrini. Il Governo montenegrino riceverà da quello italiano i fondi in danaro necessari per il pagamento degli assegni truppa ed ufficiali-».
Seguono altre condizioni fra le quali l'ultima è: «-La presente convenzione non può essere modificata che col pieno accordo tra il Governo italiano ed il Governo del Montenegro-».
Ora questa convenzione è stata stracciata dopo la morte di Nicola del Montenegro. Si notarono sintomi di disgregazione in mezzo alle truppe montenegrine ed il comando di queste truppe chiese organi militari al nostro Governo per procedere ad una epurazione. Fu nominata una Commissione che venne presieduta dal colonnello Vigevano. La Commissione che doveva salvare dalla disgregazione l'esercito montenegrino fu la causa principale della sua dissoluzione. Non solo ma in data 27 maggio il conte Sforza mise nuovamente il coltello alla gola del Governo montenegrino dicendo: «-O sciogliete le truppe o non vi darò più i fondi per mantenere questi vostri soldati!-».
E con ciò il conte Sforza violava la convenzione 50 aprile 1919 perché in essa era detto: «-La presente convenzione non può essere modificata che di pieno accordo fra i due Governi-».
Dunque decisione unilaterale perché il Governo del Montenegro rappresentato dal suo console generale in Roma non l'aveva mai accettata.
Ma in fine il conte Sforza si è giovato dell'esercito montenegrino per un calcolo politico. Agevolandone l'esistenza in Italia il conte Sforza credeva di poter avere dei patti migliori dalla Jugoslavia. Questo non è avvenuto ed in un dato momento l'esercito montenegrino è stato buttato sotto il tavolo come una carta che non si poteva più giuocare.
Il fatto nuovo le elezioni della Costituente non basta a giustificare l'abbandono tragico in cui l'Italia ha lasciato il Montenegro perché solo il venti per cento degli elettori hanno partecipato alle elezioni e solo il nove per cento ha votato per l'annessione alla Serbia. Le autorità serbe hanno instaurato nel Montenegro un regime di vero terrore e hanno impedito la presentazione di liste che contenessero nomi di candidati favorevoli all'indipendenza del Montenegro. Ma non riteniate onorevole Sforza che la questione del Montenegro sia stata liquidata! Prima di tutto perché il popolo del Montenegro è ancora in armi contro la Serbia e voi lo sapete; ed in secondo luogo perché il popolo italiano per una volta tanto è unanime in tale questione. Persino i socialisti e lo dico a loro onore parecchie volte nel loro giornale hanno dichiarato che la causa dell'indipendenza del Montenegro è sacrosanta. Le Università da quelle di Bologna e di Padova si sono pronunziate per l'indipendenza del Montenegro.
Noi fascisti abbiamo presentato una mozione. Voi dovete riscattare la pagina vergognosa che avete scritto assassinando il popolo montenegrino con l'accettare la nostra mozione. Se voi l'accetterete cioè se voi porrete ancora la questione davanti alle grandi Potenze e se farete in modo che sia indetto un plebiscito io sono certissimo che questo plebiscito fatto in condizione di libertà darà dei risultati antiserbi.
Vengo ad un'altra questione molto delicata.
È una questione che bisogna affrontare prima di tutto perché la cronaca lo ha imposto ed in secondo luogo perché dopo l'allocuzione pontificia davanti al Concistoro segreto di giorni fa non è più possibile ignorare che esiste una questione della Palestina.
Bisogna scegliere; bisogna che il Governo abbia un suo punto di vista. O sceglie il punto di vista sionistico inglese o sceglie il punto di vista di Benedetto XV.
Credo di non tediare la Camera ricordando brevemente i precedenti della questione.
Il 2 novembre 1917 il Governo inglese si dichiarava favorevole alla creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico restando bene inteso che nulla si sarebbe fatto che potesse recare offesa ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina e ai diritti ed agli istituti politici di cui godono gli ebrei in tutte le altre nazioni del mondo. In un secondo tempo le Potenze alleate hanno adottato questa dichiarazione. Finalmente con l'art. 222 del trattato di pace sottoscritto il 20 agosto 1920 a Sevres la Turchia rinunziava a tutti i suoi diritti sulla Palestina e le Potenze alleate sceglievano come mandataria l'Inghilterra.
Ora mentre le nazioni civili dell'Occidente non hanno modificato il regime comune di libertà per le diverse confessioni religiose in Palestina è accaduto tutto il contrario anche perché l'amministrazione di quello Stato in embrione e stata affidata all'organizzazione politica del sionismo.
Ma in Palestina ci sono 600.000 arabi che vivono là da dieci secoli e 70.000 cristiani mentre gli ebrei non arrivano che a 50.000. Si è così determinata una situazione straordinariamente interessante. Gli ebrei autoctoni che hanno vissuto per secoli e secoli all'ombra delle moschee di Gerusalemme non possono soffrire gli elementi che vengono dalla Polonia dall'Ucraina dalla Russia perché hanno delle arie straordinariamente emancipate e quelli che sono immigrati si sono già divisi in tre fazioni una delle quali che si chiama abbreviatamente Mopsi è già inscritta regolarmente come frazione comunista alla Terza Internazionale di Mosca.
Apro una parentesi per dire che non si deve vedere nelle mie parole alcun cenno ad un antisemitismo che sarebbe nuovo in quest'aula. Riconosco che il sacrificio di sangue dato dagli ebrei italiani in guerra è stato largo vastissimo e generoso ma qui si tratta di esaminare una determinata situazione politica e indicare quali possono essere le direttive eventuali del Governo.
Ora in Palestina si è determinata l'alleanza tra cristiani ed arabi si è formato il partito della Conferenza di Jaffa che si oppone con la guerra civile e col boicottaggio ad ogni immigrazione ebraica ed il 1° maggio e il 14 maggio si sono verificati disordini sanguinosi in cui ci sono stati qualche centinaio di feriti e vari morti tra i quali uno scrittore di una certa fama. Ora a quanto si legge nel Bulletin du Comité des Delegations juives a pagina 19 pare che il testo del mandato inglese per la Palestina debba essere sottomesso al Consiglio della Società delle Nazioni nella prossima riunione di Ginevra. Ed io desidererei che il Governo accettasse in questa questione delicatissima il punto di vista espresso dal Vaticano.
Ciò è anche nell'interesse degli ebrei i quali sfuggiti ai pogroms dell'Ucraina e della Polonia non devono incontrare i pogroms arabici della Palestina ed anche perché non si determini nelle Nazioni occidentali una penosa situazione giuridica per gli ebrei in quanto se domani gli ebrei fossero cittadini sudditi del loro Stato potrebbero diventare immediatamente colonie straniere negli stessi Stati.
Oh io non voglio allargarmi in tema di politica estera perché allora potrei navigare in alto mare e potrei domandare al conte Sforza qual'è la posizione dell'Italia nei formidabili conflitti che si delineano nell'agone internazionale. Ma in fondo il conte Sforza fa una politica che è riflessa dai suoi lineamenti di diplomatico blasé (si ride)... dell'uomo che ha molto vissuto che ha molto visto del diplomatico di carriera in fondo scettico e senza pathos. (Si ride).
Finché al Governo di Giolitti vi sia titolare della politica estera il conte Sforza noi non possiamo che trovarci all'opposizione. (Commenti).
Passo alla politica interna. Vengo cioè a precisare la posizione del fascismo di fronte ai diversi partiti. (Segni di attenzione).
Comincio dal partito comunista.
Il comunismo l'onorevole Graziadei me lo insegna è una dottrina che spunta nelle epoche di miseria e di disperazione. (Commenti).
Quando la somma dei beni è decimata il primo pensiero che balza alla mente degli umani è quello di mettere tutto in comune perché ce ne sia un po' per tutti. Ma questa non è che la prima fase del comunismo la fase del consumo: dopo vi è la fase della produzione che è enormemente difficile tanto difficile che quel grande quel formidabile artista (non già legislatore) che risponde al nome di Vladimiro Ulianoff-Lenin quando ha dovuto foggiare il materiale umano si è accorto che esso è più refrattario del bronzo e del marmo. (Approvazioni commenti).
Conosco i comunisti. Li conosco perché parte di loro sono i miei figli... intendiamoci... spirituali. (Ilarità commenti).
Presidente. Non è ammessa la ricerca della paternità onorevole Mussolini! (Si ride).
Mussolini. ... e riconosco con una sincerità che può parere cinica che io per primo ho infettato codesta gente quando ho introdotto nella circolazione del socialismo italiano un po' di Bergson mescolato a molto Blanqui.
C'è un filosofo al banco dei ministri ed egli certamente m'insegna che le filosofie neo-spiritualistiche con quel loro ondeggiare continuo fra la metafisica e la lirica sono perniciosissime per i piccoli cervelli. (Ilarità).
Le filosofie neo-spiritualistiche sono come le ostriche: gustosissime al palato... ma bisogna digerirle! (Ilarità).
Codesti miei amici o nemici...
Voci all'estrema sinistra. Nemici! Nemici!
Mussolini. Questo è pacifico dunque!...
Codesti miei nemici hanno mangiato Bergson a venticinque anni e non l'hanno digerito a trenta.
Mi stupisco molto di vedere fra i comunisti un economista della forza di Antonio Graziadei col quale io ho lungamente polemizzato quando egli era ferocemente riformista... (Ilarità) e aveva buttato sotto il tavolo Marx e le sue dottrine. Finché i comunisti parleranno di dittatura proletaria di repubbliche di più o meno oziose assurdità fra noi e loro non ci potrà essere che il combattimento. (Interruzioni all'estrema sinistra commenti rumori).
La nostra posizione varia quando ci poniamo di fronte al partito socialista. Anzitutto ci teniamo bene a distinguere quello che è movimento operaio da quello che è partito politico. (Commenti all'estrema sinistra).
Non sono qui per sopravalutare l'importanza del movimento sindacale. Quando si pensi che i lavoratori del braccio sono 16 milioni in Italia dei quali appena 3 milioni sindacati e sindacati in una Confederazione generale del lavoro in una Unione sindacale italiana in una Unione italiana del lavoro in una Confederazione dei sindacati economici italiani in una Federazione bianca e in altre organizzazioni che non sono in questo quadro e queste organizzazioni aumentano o diminuiscono secondo i momenti; quando pensate che i veramente evoluti e coscienti che si propongono di creare un tipo di civiltà sono un'esigua minoranza avete subito l'impressione che noi siamo nel vero quando non sopravalutiamo l'importanza storica del movimento operaio.
Riconosciamo però che la Confederazione generale del lavoro non ha tenuto di fronte alla guerra il contegno di ostilità tenuto da gran parte del partito socialista ufficiale.
Riconosciamo anche che attraverso la Confederazione generale del lavoro si sono espressi dei valori tecnici di prim'ordine e riconosciamo ancora che per il fatto che gli organizzatori sono a contatto diuturno e diretto con la complessa realtà economica sono abbastanza ragionevoli. (Interruzioni all'estrema sinistra commenti).
Noi e qui ci sono dei testimoni che possono dichiararlo non abbiamo mai preso aprioristicamente un atteggiamento di opposizione contro la Confederazione generale del lavoro.
Aggiungo che il nostro atteggiamento verso la Confederazione generale del lavoro potrebbe modificarsi in seguito se la Confederazione stessa ed i suoi dirigenti lo meditano da un pezzo si distaccasse dal partito politico socialista che è una frazione di tutto il socialismo politico e che è costituito da gente che forma i quadri e che ha bisogno per agire delle grosse forze rappresentate dalle organizzazioni operaie.
Ascoltate del resto quello che sto per dire. Quando voi presenterete il disegno di legge delle otto ore di lavoro noi voteremo a favore. (Commenti all'estrema sinistra interruzioni).
Non ci opporremo e voteremo anzi a favore di tutte le misure e dei provvedimenti che siano destinati a perfezionare la nostra legislazione sociale. Non ci opporremo nemmeno ad esperimenti di cooperativismo: però vi dico subito che ci opporremo con tutte le nostre forze a tentativi di socializzazione di statizzazione di collettivizzazione! (Commenti). Ne abbiamo abbastanza del socialismo di stato! (Applausi all'estrema destra e su altri banchi commenti all'estrema sinistra interruzioni). E non desisteremo nemmeno dalla lotta che vorrei chiamare dottrinale contro il complesso delle vostre dottrine alle quali neghiamo il carattere di verità e soprattutto di fatalità.
Neghiamo che esistano due classi perché ne esistono molte di più; neghiamo che si possa spiegare tutta la storia umana col determinismo economico. (Applausi all'estrema destra approvazioni).
Neghiamo il vostro internazionalismo perché è una merce di lusso che solo nelle alte classi può essere praticato mentre il popolo è disperatamente legato alla sua terra nativa. (Applausi all'estrema destra).
Non solo ma noi affermiamo e sulla scorta di una letteratura socialista recentissima che voi non dovreste negare che comincia adesso la vera storia del capitalismo perché il capitalismo non è solo un sistema di oppressione ma è anche una selezione di valori una coordinazione di gerarchie un senso più ampiamente sviluppato della responsabilità individuale. (Approvazioni). Tanto è vero che Lenin dopo aver istituito i Consigli di fabbrica li ha aboliti e vi ha messo i dittatori; tanto è vero che dopo aver nazionalizzato il commercio egli lo ha ricondotto al regime di libertà e (lo sapete voi che siete stati in Russia) dopo aver soppresso anche fisicamente i borghesi oggi li chiama da tutti gli orizzonti perché senza il capitalismo senza i suoi sistemi tecnici di produzione la Russia non si rialzerebbe mai più. (Applausi all'estrema destra commenti).
E permettetemi che vi parli con franchezza e vi dica quali sono stati gli errori che avete commesso immediatamente dopo l'armistizio.
Errori fondamentali che sono destinati a pesare sulla storia della vostra politica: voi avete prima di tutto ignorato e disprezzato le forze superstiti dell'interventismo. (Approvazioni). Il vostro giornale si coprì di ridicolo tanto che per mesi non ha mai fatto il mio nome come se con questo fosse possibile eliminare un uomo dalla vita o dalla cronaca. (Commenti). Voi avete incanaglito nella diffamazione della guerra e della vittoria. (Vive approvazioni all'estrema destra).
Avete agitato il mito russo suscitando un'aspettazione messianica enorme. (Approvazioni all'estrema destra). E solo dopo quando siete andati a vedere la realtà avete cambiato posizione con una ritirata strategica più o meno prudente! (Si ride). Solo dopo due anni vi siete ricordati di mettere accanto alla falce nobilissimo strumento e al martello altrettanto nobile il libro che rappresenta l'imponderabile i diritti dello spirito al di sopra della materia diritti che non si possono sopprimere o negare (Bene! Bravo!) diritti che voi che vi ritenete alfieri di una nuova umanità dovevate per i primi incidere nelle vostre bandiere! (Vivi applausi all'estrema destra).
E vengo al partito popolare.
Ricordo ai popolari che nella storia del fascismo non vi sono invasioni di chiese e non c'è nemmeno l'assassinio di quel frate Angelico Galassi finito a revolverate ai piedi di un altare. Vi confesso che c'è qualche legnata e che c'è un incendio sacrosanto di un giornale che aveva definito il fascismo una associazione a delinquere. (Commenti interruzioni al centro rumori).
Il fascismo non predica e non pratica l'anticlericalismo. Il fascismo anche questo si può dire non è legato alla massoneria la quale in realtà non merita gli spaventi da cui sembrano pervasi taluni del partito popolare. Per me la massoneria è un enorme paravento dietro al quale generalmente vi sono piccole cose e piccoli uomini (Commenti si ride). Ma veniamo ai problemi concreti.
Qui è stato accennato al problema del divorzio. Io in fondo in fondo non sono un divorzista perché ritengo che i problemi di ordine sentimentale non si possono risolvere con formule giuridiche; ma prego i popolari di riflettere se sia giusto che i ricchi possano divorziare andando in Ungheria e che i poveri diavoli siano costretti qualche volta a portare una catena per tutta la vita.
Siamo d'accordo con i popolari per quel che riguarda la libertà della scuola; siamo molto vicini a essi per quel che riguarda il problema agrario per il quale noi pensiamo che dove la piccola proprietà esiste è inutile sabotarla che dove è possibile crearla è giusto crearla che dove non è giusto crearla perché sarebbe anti-produttiva allora si possono adottare forme diverse non esclusa la cooperazione più o meno collettivista. Siamo d'accordo per quel che riguarda il decentramento amministrativo con le dovute cautele: purché non si parli di federalismo e di autonomismo perché dal federalismo provinciale e così via di seguito per una catena infinita l'Italia ritornerebbe a quella che era un secolo fa.
Ma vi è un problema che trascende questi problemi contingenti e sul quale io richiamo l'attenzione dei rappresentanti del partito popolare ed è il problema storico dei rapporti che possono intercedere non solo fra noi fascisti e il partito popolare ma tra l'Italia e il Vaticano. (Segni di attenzione).
Tutti noi che dai 15 ai 25 anni ci siamo abbeverati di letteratura carducciana abbiamo odiato una «vecchia vaticana lupa cruenta» di cui parlava Carducci mi pare nell'ode «-A Ferrara-»; abbiamo sentito parlare di «-un pontefice fosco del mistero-» al quale faceva contrapposto un poeta «sacerdote dell'augusto vero — vate dell'avvenire»; abbiamo sentito parlare di una «-tiberina — vergin di nere chiome» che avrebbe insegnato «la ruina d'un'onta senza nome-» al pellegrino avventuratosi verso San Pietro.
Ma tutto ciò che relegato nel campo della letteratura può essere brillantissimo oggi a noi fascisti spiriti eminentemente spregiudicati sembra alquanto anacronistico.
Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo. (Approvazioni).
Se come diceva Mommsen 25 o 30 anni fa non si resta a Roma senza una idea universale io penso e affermo che l'unica idea universale che oggi esista a Roma è quella che s'irradia dal Vaticano. (Approvazioni).
Sono molto inquieto quando vedo che si formano delle Chiese nazionali perché penso che sono milioni e milioni di uomini che non guardano più all'Italia e a Roma. Ragione per cui io avanzo questa ipotesi; penso anzi che se il Vaticano rinunzia definitivamente ai suoi sogni temporalistici — e credo che sia già su questa strada — l'Italia profana o laica dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali le agevolazioni materiali per scuole chiese ospedali o altro che una potenza profana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del cattolicismo nel mondo l'aumento dei 400 milioni di uomini che in tutte le parti della terra guardano a Roma è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani.
Il partito popolare deve scegliere: o amico nostro o nostro nemico o neutrale. Dal momento che io ho parlato chiaro spero che qualche oratore del P. P. parlerà altrettanto chiaro.
Quanto alla democrazia sociale essa ci appare molto equivoca. (Si ride). Prima di tutto non si capisce perché si chiami sociale. Una democrazia è già necessariamente sociale; pensiamo perciò che questa democrazia sociale sia una specie di cavallo di Ulisse che rechi nei suoi fianchi un uomo che noi combatteremo continuamente. (Commenti).
Sono all'ultima parte del mio discorso e voglio toccare un argomento molto difficile e che dati i tempi è destinato a richiamare l'attenzione della Camera. Parlo della lotta della guerra civile in Italia.
Non bisogna prima di tutto esagerare anche di fronte allo straniero la vastità e le proporzioni di questa lotta.
I socialisti hanno pubblicato un volume di 300 pagine; domattina ne esce uno nostro di 300. D'altra parte tutte le nazioni d'Europa hanno avuto un po' di guerra civile. C'è stata in Ungheria c'è stata in Germania c'è oggi in Inghilterra sotto forma di un colossale conflitto sociale. C'è stata anche in Francia quando Jouhaux lanciò le sue famose «ondate» che furono infrante da un Governo che aveva più coraggio degli uomini che sono ora a quel posto.
È inutile che Giolitti dica che vuole restaurare l'autorità dello Stato. Il compito è enormemente difficile perché ci sono già tre o quattro Stati in Italia che si contendono il probabile possibile esercizio del potere.
D'altra parte per salvare lo Stato bisogna fare una operazione chirurgica. Ieri l'on. Orano diceva che lo Stato è simile al gigante Briareo che ha cento braccia. Io credo che bisogna amputarne 95; cioè bisogna ridurre lo Stato alla sua espressione puramente giuridica e politica.
Lo Stato ci dia una polizia che salvi i galantuomini dai furfanti una giustizia bene organizzata un esercito pronto per tutte le eventualità una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto e non escludo nemmeno la scuola secondaria deve rientrare nell'attività privata dell'individuo. Se voi volete salvare lo Stato dovete abolire lo Stato collettivista (Bene!) così come c'è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra e ritornare allo Stato manchesteriano.
La guerra civile si aggrava anche per questo fatto: che tutti i partiti tendono a formarsi a inquadrarsi in eserciti; quindi l'urto che se non era pericoloso quando si trattava di partiti allo stato di nebulosa è molto più pericoloso oggi che gli uomini sono nettamente inquadrati comandati e controllati. D'altra parte è pacifico oramai che nel terreno della violenza le masse operaie saranno battute. Lo riconosceva molto giustamente Baidesi ma non ne diceva la ragione profonda; ed è questa: che le masse operaie sono naturalmente oserei dire santamente pacifondaie perché rappresentano sempre le riserve statiche della società umana mentre il rischio il pericolo il gusto dell'avventura sono stati sempre il compito il privilegio delle piccole aristocrazie.
E allora o socialisti se voi convenite e ammettete e confessate che su questo terreno noi vi batteremo (Rumori all'estrema sinistra) ... allora dovete concludere che avete sbagliato strada. (Interruzioni all'estrema sinistra).
La violenza non è per noi un sistema non è un estetismo e meno ancora uno sport è una dura necessità alla quale ci siamo sottoposti. (Commenti). E aggiungo anche che siamo disposti a disarmare se voi disarmate a vostra volta soprattutto gli spiriti.
Nell'Avanti! del 18 giugno edizione milanese è detto: «Noi non predichiamo la vendetta come fanno i nostri avversari. Pensiamo alla ascesa maestosa dei popoli e delle classi con opera pacifica e feconda pur nelle inevitabili anzi necessarie lotte civili. Se questo è il vostro punto di vista o signori sta a voi illuminare gl'incoscienti e disarmare i criminali. Noi abbiamo già detto la nostra parola abbiamo già compiuto la nostra opera».
Ora io ribatto che anche voi dovete illuminare gli incoscienti che ritengono che noi siamo degli scherani del capitalismo degli agenti del Governo; dovete disarmare anche i criminali perché abbiamo nel nostro martirologio 176 morti. Se voi farete questo allora sarà possibile segnare la parola fine al triste capitolo della guerra civile in Italia.
Non dovete pensare che in noi non vibrino sentimenti di umanità profonda. Noi possiamo dire come Terenzio: siamo umani e niente di quanto è umano ci è straniero.
Ma il disarmo non può essere che reciproco. Se sarà reciproco si avvererà quella condizione di cose che noi ardentemente auspichiamo perché andando avanti di questo passo la Nazione corre serio pericolo di precipitare nell'abisso. (Commenti).
Siamo in un periodo decisivo; lealtà per lealtà prima di deporre le nostre armi disarmate i vostri spiriti.
Ho parlato chiaro; attendo che la vostra risposta sia altrettanto alta e chiara.
Ho finito. (Vivissimi e reiterati applausi all'estrema destra commenti prolungati molte congratulazioni).
Roma, 23 luglio 1921: MUSSOLINI dichiara il voto contrario all'insediamento del ministero Bonomi
Questo discorso - pronunciato alla Camera nella tornata del 23 luglio 1921 verso la fine della seduta all'indomani del discorso pronunciato per i fatti di Sarzana - è in apparenza una semplice dichiarazione di voto. Ma nella chiusa va assai oltre. Dopo aver dichiarato i motivi del voto contrario al Ministero Bonomi Mussolini prospetta la possibilità dell'unione delle tre correnti di masse - il movimento fascista i Partiti socialista e popolare - «-coalizzate sopra un programma-» che ne costituisca «il minimo comune denominatore» per «-condurre la Patria a più prospere fortune-». Egli stesso si rende conto che la proposta è «paradossale i dato lo spirito dogmatico dei due partiti avversari. Tuttavia questo discorso - che s'inizia con una spiegazione attenuatrice della chiusa del discorso precedente - influì alla conclusione del «patto di pacificazione» fra socialisti e fascisti che fu firmato pochi giorni dopo il 3 agosto 1921 arbitro l'on. De Nicola presidente della Camera. Tale patto come è noto non fu mantenuto dai socialisti che si trincerarono dietro a ragioni sofistiche - allegando il pretesto della non accettazione da parte dei comunisti - per non rispettarlo e fu denunciato nel successivo novembre dallo stesso Mussolini.
Data l'ora tarda io non voglio dirvi che sarò breve per non farvi credere esattamente il contrario.
Il Gruppo Parlamentare Fascista mi ha incaricato di spiegare succintamente i motivi per cui esso nega la fiducia al ministero Bonomi. Ma mi permetterete innanzi tutto alcune dichiarazioni che devono precisare alcuni punti venuti in discussione.
Non si deve credere non ostante la frase da me pronunziata ieri sera alla fine del mio discorso che la nostra volontà di pacificazione sia venuta meno. Può darsi anzi io ammetto che la frase possa avere in qualche parte tradito il mio intimo pensiero. (Commenti).
E a dimostrare ciò vi basti sapere (credo che la Camera ne prenderà atto con soddisfazione) che noi stiamo provvedendo energicamente e indipendentemente dall'esito che potranno avere le trattative dirò così diplomatiche a ristabilire nel nostro movimento una disciplina inflessibile con una serie di norme che dovranno essere rigorosamente seguite da tutti i nostri inscritti.
Permettetemi di documentare questa affermazione. Noi abbiamo mandata una circolare ai Fasci e la rendiamo di pubblica ragione perché non abbiamo nulla da nascondere nella quale imponiamo la cessazione di ogni forma di violenza individuale che non sia giustificata da ragioni di legittima difesa e specie quando ci sia sproporzione di numero; cessazione immediata di spedizioni punitive contro organizzazioni economiche e cooperative; ricerca delle responsabilità per coloro che hanno ordinato azioni dannose alla causa fascista.
Credo fermissimamente che una tregua giovi a tutti e oserei dire giovi anche ai comunisti che rappresentano una parte accessoria nel giuoco delle passioni politiche; e mi permetto di dire perché io credo di non essere in errore poiché io seguo da vicino il movimento comunista italiano che i comunisti italiani debbano aggiornare il loro movimento alla nuova realtà russa... (Commenti).
Mi permetto di dire che voi siete alquanto in ritardo! E badate che con questo non voglio negare l'enorme valore storico della rivoluzione russa che consiste appunto in questo non cioè nell'avere instaurato un comunismo impossibile e assurdo ma nell'avere preparato le condizioni necessariamente sufficienti allo sviluppo di una grande economia capitalistica in quel grandissimo e fecondissimo paese. (Commenti).
Ora il nostro voto contrario al ministero Bonomi dev'essere interpretato al giusto segno. Noi non intendiamo di dichiararci con questo voto sempiternamente contrari al Ministero dell'onorevole Bonomi perché non abbiamo pregiudiziali di sorta e non siamo legati da dogmi speciali ad una opposizione sistematica a tutti i Governi così detti borghesi.
Può darsi quindi che a mutate condizioni di cose muti necessariamente di conseguenza il nostro atteggiamento. Ma il nostro voto contrario si parte da un duplice ordine di ragioni.
Debbo dichiarare che sono insoddisfatto delle dichiarazioni che l'onorevole Bonomi ha fatto in materia di politica estera. Siete stato insufficiente nelle dichiarazioni che avete fatto per la sorte di Fiume assai vago ed incerto per quello che riguarda il Montenegro; ma soprattutto non avete detto verbo sopra una parte della politica estera che un giorno o l'altro (ed è stato già fatto dall'onorevole Treves) dovrà fornire vasto tema di discussione alla Camera italiana; cioè i rapporti economici fra i nostri alleati e con tutto il mondo.
Riguardo poi alla politica interna io non posso accettare onorevole Bonomi la vostra equazione l'equazione che avete stabilito fra un movimento come il nostro che si parte da motivi di esasperato idealismo patriottico e che mira a ristabilire energicamente l'autorità dello Stato e un movimento contrario che si butta contro lo Stato per demolirlo. (Approvazione all'estrema destra).
Ammetto che voi siate imparziale dal punto di vista giuridico dal punto di vista del codice penale dal punto di vista della repressione di tutte le violenze siano esse compiute dai fascisti o dai comunisti; ma io mi rifiuto di accettare la vostra equazione; e voi stesso nella vostra intima coscienza dovrete rifiutarvi perché non potrete stabilire identità di sorta fra un movimento sovversivo che tende a capovolgere ab imis la stessa economia politica del Paese e noi che non vogliamo notate bene conservare all'infinito istituzioni che siano rese difettose o insufficienti ma che però in questo momento rappresentano la forza la salvaguardia dello Stato.
Voi non avete ordinata nessuna inchiesta seria sui fatti di Sarzana e soprattutto mi duole dirlo non avete avuto una parola di gentilezza e di compianto per quelle vittime molte delle quali erano adolescenti molte altre decorati combattenti feriti e mutilati. (Commenti).
È dunque per una ragione d'ordine più sentimentale che politico che noi neghiamo la fiducia al Ministero Bonomi; ed io credo che tutta la Camera comprenderà e apprezzerà il nostro legittimo stato d'animo.
E poiché si parla di coalizione oserei manifestare un'opinione che in questo momento può sembrare alquanto paradossale. Penso cioè che si va o presto o tardi ad una nuova e grande coalizione e sarà quella delle tre forze efficienti in questo momento nella vita del Paese.
Esistono qui dei gruppi parlamentari numerosi; ma io vi domando se la democrazia e sociale e liberale ha delle forze solidamente inquadrate nel paese mentre tutti sappiamo che tali forze non esistono quando si astragga dalla massa assai fluttuante che vota nel giorno delle elezioni.
Ecco perché non accetto la tesi anti-proporzionalista in quanto essa viene sostenuta col danno che ne ricavano i partiti deboli. Se i partiti sono deboli o si rafforzano o muoiono ma le grandi forze espresse dal Paese in quest'ora sono tre: un socialismo che dovrà correggersi e già comincia: notevole il voto confederale contro i comunisti soprattutto notevole il nuovo punto di vista della Confederazione generale del lavoro per ciò che riguarda lo sciopero dei servizi pubblici; la forza dei popolari che esiste che è potente anche perché si appoggia non so con quanto profitto per la religione alla forza immensa del cattolicismo; e finalmente non si può negare l'esistenza di un terzo movimento complesso formidabile eminentemente idealistico che raccoglie la parte migliore della gioventù italiana. Credo che a queste tre forze coalizzate sopra un programma che deve costituire il minimo comune denominatore spetterà domani il compito di condurre la Patria a più prospere fortune. (Applausi all'estrema destra commenti prolungati).
Roma, 7 novembre 1921: Discorso di MUSSOLINI al I^ Congresso Fascista svoltosi all'augusteo
Il 7 novembre 1921 s'inaugurò all'Augusteo il Congresso Fascista di Roma che segna una pietra miliare nella storia del Fascismo per la trasformazione del movimento in Partito e per la chiarificazione del problema sindacale.
Nella giornata del 9 novembre - essendo accaduti in Roma alcuni incidenti provocati dai sovversivi - MUSSOLINI esortò i congressisti a difendersi ma a non attaccare. Questo atteggiamento fermo e sereno non valse tuttavia ad evitare la provocazione sovversiva.
MUSSOLINI lascio da parte questo tema spiacevole per elevarsi com'Egli diceva «a più spirabili aure».
Eleviamoci a più spirabili aure e parliamo del nostro programma sul quale sono disposto a battermi senza quartiere. Devo anzitutto dichiarare che nel complesso sono ammirato per lo spettacolo di disciplina e dignità che il Congresso ha dato fino ad ora. Per fissare la attività politica del Fascismo è necessario esaminare partiti e organizzazioni economiche italiane. Cominciamo dall'estrema sinistra dove troviamo gli anarchici con a capo Malatesta — santo e profeta — che è un fenomeno di coerenza che si può ammirare. Occorre stabilire che al Congresso anarchico di Ancona l'altro giorno è stato condannato il bolscevismo russo. Il comunismo attuale giudicandolo da quello di Torino è paragonabile alla corrente letteraria che aveva per esponente la rivista Lacerba. Noi per la Nazione accettiamo la dittatura e lo stato d'assedio; anche i comunisti chiedono la dittatura per uno scopo classista. Anche nel comunismo c'è una ala destra ed un'ala sinistra. Il Partito socialista si basa sull'equivoco e ci nausea sia che si tratti di Turati che fa il formicone in un partito in cui non crede più sia che si tratti di Serrati. Se il pus non avesse dietro di sé la Confederazione del lavoro avrebbe un'importanza limitata. I repubblicani partito secolare che ha dato all'Italia Mazzini e Garibaldi che ha dato alla guerra il fiore dei suoi martiri sono anch'essi travagliati da una crisi. Il Fascismo potrà integrare le teorie mazziniane ma non potrà dimenticarle. Noi non abbiamo bisogno di andare a cercare i profeti in Russia o in altri paesi quando abbiamo dei profeti che hanno detto un verbo nazionale che è il prodotto dello spirito e della civiltà italiana. Nel mezzo troviamo un caos di partiti democrazia liberale e democrazia sociale. Che cosa vogliono dire? E chi non è democratico al giorno d'oggi? Chi pensa di strappare al popolo tutto il mucchio di concessioni graziose — suffragio universale rappresentanza proporzionale ecc. — che ha avuto e di cui s'infischia? Sopra undici milioni di elettori sei soli vanno a votare e spesso per ragioni alcooliche e pecuniarie. I partiti democratici sono un'accolta di capitani senza soldati che soltanto nelle date fatidiche in mesto e ben ordinato corteo fanno della coreografia ufficiale.
Il Partito popolare prima di fischiarlo studiamolo. Ora questo è indubbiamente un partito potente perché si appoggia a trentamila parrocchie ha un'organizzazione politica disciplinata che scimmiotta il Fascismo. Potente per le banche i giornali e il prestigio che lo fa ritenere espressione del mondo cattolico. Anch'esso è travagliato da crisi interne. Esso raccoglie molti elementi della più fetida neutralità; esso ha molti elementi che hanno sabotata la guerra e sul terreno agrario gareggia col bolscevismo vero e proprio. Abbiamo quindi due bolscevismi: quello rosso e quello migliolino. Contro questo partito noi non possiamo non ingaggiare la lotta. Vi è l'ala destra di esso che cerca riconciliarsi con la Nazione ma la riconciliazione comincia là dove si riconosce prima di tutto Roma capitale d'Italia.
Il popolo italiano ha una grande storia. Basta scendere a Roma per sentire che venti e trenta secoli fa era il centro del mondo e gli italiani nei secoli passati furono grandi nelle arti nelle lettere e nei commerci. Dal loro popolò si espressero il genio di Dante e di Napoleone. L'Italia d'oggi ha vita da soli cinquant'anni. Soltanto attorno al '70 l'Italia ebbe gli uomini della destra che compresero pure errando spesso il suo avvenire. Furono quelli uomini pieni di intelletto e soprattutto di probità politica che non avevano l'abitudine di mistificare le masse. Il fascismo deve volere che dentro i confini non vi siano più veneti romagnoli toscani siciliani e sardi: ma italiani solo italiani. E per questo il Fascismo sarà contro ogni tentativo separatistico e quando le autonomie che oggi si reclamano dovessero portarci al separatismo noi dovremmo essere contro. Noi siamo per un decentramento amministrativo non per la divisione dell'Italia.
Durante gli ultimi decenni di travaglio nazionale l'Italia ebbe un uomo solo che ebbe... voi m'intendete! Parlo di Francesco Crispi. Egli solo seppe proiettare l'Italia nel Mediterraneo con anima e pensiero imperialistico. Ma quando parlo di imperialismo non intendo riferirmi a quello prussiano; intendo un imperialismo economico di espansione commerciale. Quei popoli che un giorno privi di volontà si rinchiudono in casa sono quelli che si avviano alla morte.
Io non voglio essere un Mosè sbarbato che vi dice: «-Ecco le tavole della legge giuratevi sopra!-». No. Intendo dire che il Fascismo si preoccupi del problema della razza; i Fascisti devono preoccuparsi della salute della razza con la quale si fa la storia. Noi partiamo dal concetto di Nazione; che è per noi un fatto né cancellabile né superabile. Siamo quindi in antitesi contro tutti gli internazionalismi.
Il sogno di una grande umanità è fondato sull'utopia e non sulla realtà. Niente ci autorizza ad affermare che il millennio della fratellanza universale sia imminente.
Malgrado i sogni dell'internazionale quando battono le grandi ore quelli che rinnegano la patria muoiono per lei. Partendo dalla Nazione arriviamo allo Stato che è il Governo nella sua espressione tangibile. Ma lo Stato siamo noi: attraverso un processo vogliamo identificare la Nazione con lo Stato. La crisi di autorità degli Stati è universale ed è un prodotto del cataclisma guerresco. È necessario però che lo Stato ritrovi la sua autorità altrimenti si va al caos. Senza il Fascismo il Fante Ignoto oggi non dormirebbe nel sarcofago dell'altare della Patria. Noi non ci vergognamo di essere stati interventisti ma con ciò non intendiamo accomunarci con certi esaltatori della guerra che attorno ad essa fecero della cattiva letteratura. Non esaltiamo la guerra per la guerra come non esaltiamo la pace per la pace. Noi esaltiamo quella guerra che nel 1915 fu voluta dal popolo da noi contro tutti! M'intendete! Il popolo sentiva che quella guerra era il suo battesimo che era la consacrazione della sua esistenza e se oggi l'Italia è a Washington a discutere con poche altre Nazioni della pace del mondo lo deve agli interventisti del 1915. Il popolo disse allora all'Italia: Solo osando tu avrai diritto alla storia di domani!
Il regime! Si disse dopo le elezioni a proposito di una mia dichiarazione e di un avverbio che fece fortuna che io mi ero rovinato la carriera. Mi ricordai in quei giorni che fra i partiti c'era anche quello repubblicano e dissi che il Fascismo era tendenzialmente repubblicano. Così dicendo non intendevo precipitare il paese in un moto rivoluzionario. Con quella dichiarazione io intendevo soltanto aprire un varco verso il futuro. Chi può dire che le attuali istituzioni siano in grado di difendere sempre gli interessi soprattutto ideali del popolo italiano? Nessuno. Oggi un movimento repubblicano sarebbe destinato a un insuccesso. Potrebbe riuscire in un primo momento per essere subissato da un moto successivo. Se una repubblica può essere in Italia non potrebbe mai essere quella che Nitti in combutta con altri ha vagheggiato! Né potrà essere la repubblica vagheggiata dal partito repubblicano ufficiale. Sulla questione del regime il Fascismo deve essere agnostico ciò che significa vigilanza e controllo. Perché per il regime è l'abito che deve adattarsi alla Nazione e non già la Nazione che si deve adattare al regime.
In economia siamo dichiaratamente antisocialisti. Io non mi dolgo di essere stato socialista ho tagliato i ponti col passato. Non ho nostalgia. Non si tratta di entrare nel socialismo ma di uscirne. In materia economica siamo liberali perché riteniamo che l'economia nazionale non possa essere affidata a enti collettivi e burocratici. Dopo l'esperimento russo basta di tutto ciò. Io restituirei le ferrovie e i telegrafi alle aziende private; perché l'attuale congegno è mostruoso e vulnerabile in tutte le sue parti.
Lo Stato etico non è lo Stato monopolistico lo Stato burocratico ma è quello che riduce le sue funzioni allo strettamente necessario. Siamo contro lo Stato economico. Le dottrine socialiste sono crollate: i miti internazionali sono caduti la lotta di classe è una favola perché l'umanità non si può dividere. Proletariato e borghesia non esistono nella storia; sono entrambi anelli della stessa formazione.
Non crediamo in queste fole. Il proletariato anche là dove ha avuto il potere è imprigionato dal capitalismo. Siamo antisocialisti ma non necessariamente antiproletari.
Si dice bisogna conquistare le masse. C'è chi dice anche: la storia è fatta dagli eroi; altri dicono che è fatta dalle masse. La verità è nel mezzo. Che cosa farebbe la massa se non avesse il proprio interprete espresso dallo spirito del popolo e che cosa farebbe il poeta se non avesse il materiale da forgiare? Non siamo antiproletari ma non vogliamo creare un feticismo per sua Maestà la Massa. Noi vogliamo servirla educarla ma quando sbaglia fustigarla. Bisogna prometterle quello che si sa matematicamente di poter mantenere. Noi vogliamo elevarne il livello intellettuale e morale perché vogliamo inserirla nella storia della Nazione. Perché con un proletariato riottoso malarico pellagroso non vi può essere un elevamento dell'economia nazionale. E diciamo alle masse che quando gli interessi della Nazione sono in giuoco tutti gli egoismi così del proletariato come della borghesia devono tacere. Può il Fascismo trovare le sue tavole negli statuti della reggenza del Carnaro? A mio avviso no. D'Annunzio è un uomo di genio. È l'uomo delle ore eccezionali non è l'uomo della pratica quotidiana. Però negli statuti della reggenza del Carnaro c'è uno spirito un imponderabile che possiamo far nostro: l'orgoglio di sentirci italiani il proposito di voler lavorare per la grandezza della Patria comune. Così dicendo esprimiamo un concetto territoriale politico economico e soprattutto spirituale. Ora questo spirito lo si trova se non nelle parole nell'essenza di quegli statuti. Onde noi dobbiamo guardare a quegli statuti come si guarda ad una stella come ci si disseta ad una fonte. Ci sono in essi delle direttive perché il nostro movimento diventando troppo politico o sociale non isterilisca i valori eterni della razza.
Altro è parlare di politica estera.
Ancora vi devo una parola sui rapporti tra l'Italia e il Vaticano. Lo Stato è sovrano in ogni campo dell'attività nazionale. Prima di togliere la legge delle guarentigie occorrono cautele. La diplomazia vaticana è più abile di quella della Consulta. Bisogna imporre il rispetto a ogni fede perché per il Fascismo il fatto religioso rientra nel campo della coscienza individuale. Il cattolicismo può essere utilizzato per l'espansione nazionale. Riguardo all'atteggiamento coi popolari ci regoleremo a seconda del loro atteggiamento. Si dice che questo programma è come gli altri: ma tutti gli uomini sono uguali; i piedi sono tutti di una forma la differenza è nei cervelli. Epperò bisogna guardare allo spirito del programma. Che cosa importa dar fondo all'universo se non ci sono energie necessarie per raggiungere la meta comune? Ritengo che attorno a noi si raggrupperanno i frammenti degli altri partiti costituzionali. Noi assorbiremo i liberali e il liberalismo perché col metodo della violenza abbiamo sepolti tutti i metodi precedenti. Mi permetterete che ci sia in me un sentimento di soddisfazione nel parlare davanti a questa imponente assemblea; forse la più imponente dal '70 ad oggi. Raccolgo il frutto di questi sette anni di dure battaglie. Non dico di non aver commesso errori: ammetto pure di essere un pessimo temperamento. In me lottano due Mussolini uno che non ama le masse individualista l'altro assolutamente disciplinato. Può darsi che abbia lanciato delle parole dure; ma esse non erano dirette contro le milizie fasciste ma erano dirette contro chi intendeva aggiogare il Fascismo ad interessi privati mentre il Fascismo deve essere a guardia della Nazione. Preferisco l'opera del chirurgo che affonda il lucido coltello nella carne cancrenosa al metodo omeopatico che s'indugia nel da fare. Nella nuova organizzazione io voglio sparire perché voi dovete guarire del mio male e camminare da voi. Solo così affrontando le responsabilità e i problemi si vincono le grandi battaglie. Vi raccomando di tener fede al principio animatore del Fascismo. In un canto del Paradiso Dante esalta la figura del poverello di Assisi che dopo aver sposato la povertà «poscia di dì in dì l'amò più forte». Questo o fascisti è il nostro giuramento: amare di dì in dì sempre più forte questa madre adorabile che si chiama: Italia.
(Un'entusiastica ovazione accoglie le ultime parole del Duce: vengono gettati fiori su lui quando scende in platea; è abbracciato e sollevato in trionfo dagli squadristi).
Ma nel 1921 il Fascismo aveva già fatto passi da gigante e capitanava la concentrazione delle forze nazionali. Mussolini nel 1919 come capolista aveva ottenuto 4064 voti; nel 1921 ottenne 124.918 voti.
Entrò alla Camera come leader non solo del movimento fascista ma di tutte le forze nazionali di destra. Sprezzante del vecchio parlamentarismo si servì della tribuna parlamentare per parlare non ai deputati ma all'intera nazione; e il crescente consenso dell'opinione pubblica dava alle sue parole un peso che superava di gran lunga tutte le sterili guerriglie di Montecitorio.
Questo è il primo discorso dal banco di deputato pronunciato nella tornata del 21 giugno 1921 mentre si discuteva su l'indirizzo di risposta al discorso della Corona. Gli oggetti del discorso sono due: 1° critica alla politica italiana nell'Alto Adige e alla politica estera del Conte Sforza; 2° la posizione del Fascismo di fronte agli altri Partiti. Le citazioni carducciane a pag. 185 derivano dall'ode «-Alla città di Ferrara-» (in Rime e Ritmi) dall'ode «-Per Eduardo Corazzini» e da quella «Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti-» (in Giambi ed Epodi).
Non mi dispiace onorevoli colleghi di iniziare il mio discorso da quei banchi dell'estrema destra dove nei tempi in cui lo spaccio della Bestia trionfante aveva le sue porte spalancate ed un commercio avviatissimo nessuno osava più sedere.
Vi dichiaro subito con quel sovrano disprezzo che ho di tutti i nominalismi che sosterrò nel mio discorso tesi reazionarie.
Sarà quindi il mio discorso non so quanto parlamentare nella forma ma nettamente antidemocratico e antisocialista nella sostanza (approvazioni all'estrema destra) e quando dico antisocialista intendo dire anche anti-giolittiano (ilarità) perché non mai come in questi giorni fu assidua la corrispondenza d'amorosi sensi tra l'onorevole Giolitti e il gruppo parlamentare socialista. Oso dire che fra di essi esiste il broncio effimero degli innamorati non già l'irriconciliabilità irreparabile dei nemici.
Ciò non ostante ho la immodestia di affermare che il mio discorso può essere ascoltato con qualche utilità da tutti i settori della Camera. In primo luogo dal Governo il quale si renderà conto del nostro atteggiamento verso di lui; in secondo luogo dai socialisti i quali dopo sette anni di fortunose vicende vedono innanzi a sé nell'atteggiamento orgoglioso dell'eretico l'uomo che essi espulsero dalla loro chiesa ortodossa. D'altra parte essi mi ascolteranno perché avendo io tenuto nel pugno le vicende del loro movimento per due anni forse nel loro cuore ci sono anche delle segrete nostalgie. (Commenti).
Potrò essere ascoltato con interesse anche dai popolari e da tutti gli altri gruppi e partiti. Infine poiché io mi riprometto di precisare alcune posizioni politiche e oserei dire storiche di quel movimento così complesso e così forte che si chiama fascismo può darsi che il mio discorso provochi conseguenze politiche degne di qualche rilievo.
Vi prego di non interrompermi perché io non interromperò mai nessuno e aggiungo fin da questo momento che farò un uso assai parco in questo ambiente della mia libertà di parola.
E vengo all'argomento.
Nel discorso della Camera voi onorevole Giolitti avete fatto dire al Sovrano che la barriera alpina è tutta in nostro potere. Io vi contesto l'esattezza geografica e politica di questa affermazione. A pochi chilometri da Milano noi non abbiamo ancora a difesa della Lombardia e di tutta la valle del Po la barriera alpina. Tocco un tasto molto delicato; ma d'altra parte in questa Camera e fuori tutti sanno che nel Canton Ticino che si sta tedeschizzando e imbastardendo affiora un movimento di avanguardie nazionali che io segnalo e che noi fascisti seguiamo con viva simpatia.
Che cosa fa il Governo presente per difendere la barriera alpina al Brennero e al Nevoso? La politica seguita da questo Governo per ciò che riguarda l'Alto Adige è quanto di più lacrimevole si possa immaginare.
L'onorevole Credaro avrà i numeri per governare un asilo infantile (ilarità) ma io nego recisamente che abbia le qualità necessarie e sufficienti per governare una regione mistilingue dove il contrasto delle razze è antico e acerbissimo.
Altro responsabile della situazione difficile che gli italiani hanno nell'Alto Adige è il signor Salata. Egli ha regalato il Collegio di Gorizia agli sloveni e ha regalato quattro deputati tedeschi alla Camera italiana.
Del resto l'onorevole Credaro appartiene a quella categoria di personaggi più o meno rispettabili che sono schiavi dei cosiddetti immortali principi i quali consistono nel ritenere che ci sia un solo Governo buono in questo mondo che esso sia applicabile a tutti i popoli in tutti i tempi in tutte le parti del mondo.
Mi permetto di esporre alla Camera i risultati di una mia inchiesta personale sulla situazione dell'Alto Adige.
Il movimento politico antitaliano nell'Alto Adige è monopolizzato dal «-Deutscher Verband-» il quale è la emanazione dell'«-Andreas Hoferbund-» che ha sede a Monaco e che rivendica quale confine tedesco non già la stretta di Salorno ma la «-Bern Clause-» o Chiusa di Verona.
Ora il signor Credaro è responsabile della propaganda pangermanista nell'Alto Adige perché ha avallato prefazionandolo un libro dove si dice che il confine naturale della Germania è ai piedi delle Alpi verso la valle del Po.
Nei primi tempi immediatamente dopo l'armistizio della occupazione militare il movimento italofobo non fu possibile ma da quando per somma sventura sulla seggiola di governatore si pose l'onorevole Credaro i rapporti cambiarono immediatamente; e alla sottomissione sorniona si sostituì l'insolente arroganza di gente che negava la disfatta austriaca e covava nell'animo le ardenti nostalgie degli Absburgo. La fiera campionaria fu voluta dalla Camera di Commercio di Bolzano nido di pangermanisti con esclusione di ditte italiane tanto vero che gl'inviti furono fatti solo in lingua tedesca e durante il periodo della fiera una banda bavarese in costume suonò continuamente.
Vengo ai fatti del 24 aprile quando una bomba fascista giustamente collocata a scopo di rappresaglia e per la quale rivendico la mia parte di responsabilità morale segnò il limite al di là del quale il fascismo non intende che vada l'elemento tedesco.
La manifestazione del 24 aprile nel Tirolo non era che una manifestazione simultanea al plebiscito che in quel giorno oltre Brennero era stato indetto.
Perché nell'Alto Adige i pangermanisti ricorrono a questo sottile trucco: di far coincidere le stesse manifestazioni sotto veste diversa. Così quando oltre Brennero si fecero le cerimonie di lutto per la perdita dell'Alto Adige di qua del Brennero si commemorò con altrettanta manifestazione il lutto per i caduti di guerra dell'Austria-Ungheria!
Del resto quando i fascisti si presentarono a Bolzano trovarono una polizia con tanto di elmo e fiocco e quando furono arrestati l'istruttoria fu affidata al conte Breitemberg il quale è notoriamente socio della «-Deutscher Verband-».
Non vi voglio intrattenere sui casi di Mamelter perché formano un capitolo da romanzo; ma non posso rinunciare a citarvi un episodio curiosissimo.
Il commissario di Merano si reca al comune di Maja Alta ed è ricevuto non già al Municipio ma in una stamberga nella quale si sono radunati il sindaco ed i consiglieri. Il commissario legge la formula del giuramento il sindaco ed i consiglieri immediatamente si mettono a sedere si coprono il capo e scoppiano in una grande risata. Il commissario non si è ancora rimesso dalla sorpresa che il sindaco levatosi in piedi con una valanga di insulti lancia ingiurie al Re alla monarchia all'Italia e al commissario. Questi ritorna a Merano e domanda a Trento lo scioglimento di quel Consiglio; ma interviene il «Deutscher Verband» presso il governatore. E Salata restituisce il rapporto scrivendo al commissario che non è bene fare dell'irredentismo. E la rappresentanza del comune rimase quale era!
Da quando Credaro sgoverna nell'Alto Adige la bilinguità è totalmente scomparsa. Il Perathoner che non è altro che un Pierantoni rinnegato italiano diventato tedesco si rifiuta di accettare la deposizione che egli stesso invita a fare sui fatti del 24 aprile perché narrata e scritta in italiano. Sono piccoli episodi analitici ma che danno il panorama della situazione.
A Malgrè l'italofobo Dorsi Don Angelo presidente del circolo giovanile cattolico di Santo Stefano fa cacciare da questo una decina di giovani perché hanno presentato a lui domanda scritta in italiano ed afferma che la lingua italiana non serve per i suoi uffici: l'italiano tenetevelo per voi! Ciò evidentemente è fatto allo scopo di alterare i documenti e di ritardare i pagamenti delle pensioni a coloro che ne hanno diritto. E a presidente della Corte di Appello di Trento redenta italiana tra tutti i concorrenti si è scelto un tale che nel 1915 si dimise da magistrato per potere correre volontario come kaiser-jager a servizio dell'Austria-Ungheria. Costui oggi amministra la giustizia nel nome dell'Italia! (Commenti).
Credete che le comunicazioni postali e telegrafiche dell'Alto Adige siano in mani italiane? È un errore è una illusione: il «Deutscher Verband» ha in mano tutte le comunicazioni e ne dispone a piacimento. Il 24 aprile per quanto giorno festivo i pangermanisti e i capi del movimento di Innsbruk erano informati minuto per minuto dello svolgersi dei fatti di Bolzano.
A Innsbruk cinque minuti dopo l'incidente si conosceva la portata di esso in tutti i suoi particolari mentre venivano tagliate tutte le comunicazioni colle autorità civili e militari e per quasi ventiquattro ore isolate completamente da Trento e dal resto d'Italia.
Questa è la situazione.
Ma a questo punto io debbo chiamare in causa l'onorevole Luigi Luzzatti. Io l'ho già chiamato in causa sul mio giornale; ma siccome quest'uomo appartiene alla specie dei padri eterni più o meno venerabili e venerandi non si è degnato ancora di rispondere. Ora io spero che chiamando in causa dalla tribuna parlamentare si deciderà di rispondere ad un quesito che gli pongo nella maniera più chiara e categorica.
Il Nuovo Trentino un giornale molto serio che esce a Trento il 27 maggio scrive: «-L'onorevole Luigi Luzzatti cavaliere della SS. Annunziata relatore della Commissione parlamentare che esaminò ed approvò il trattato di San Germano disse in presenza di Salata del barone Toggenburg già ministro austriaco di Francesco Giuseppe del tenente austriaco Reuth Nikolussi: "Avere scritto nella relazione al Parlamento il passo riguardante l'autonomia dell'Alto Adige aggiungendo però essere sua opinione personale che la regione tedesca dell'Alto Adige avrebbe fatto bene a non mandare alcun deputato al Parlamento di Roma giacché essa avrebbe avuto poi s'intende dall'Italia istituzioni proprie e una propria rappresentanza politica rimanendo così a suo agio unita all'Italia fino a che avesse potuto ricongiungersi alla sua Nazione"-».
Ora noi contestiamo a Luigi Luzzatti fosse egli anche più sapiente o più grande di quello che in realtà non sia il diritto di disporre del territorio italiano. (Approvazioni commenti).
E allora signori del Governo per la situazione dell'Alto Adige noi vi domandiamo queste immediate misure: lo sfasciamento di ogni forma anche esteriore che ricordi la monarchia austro-ungarica. Perché è inutile onorevole Sforza fare dei patti per tutti gli eredi austriaci più austriaci dell'Austria per impedire il ritorno degli Absburgo quando noi lasciamo intatta gran parte dell'Austria dentro i nostri confini;
scioglimento del «Deutscher Verband»; deposizione immediata di Credaro e Salata. (Approvazioni all'estrema destra);
provincia unica Tridentina con sede a Trento e stretta osservanza della bilinguità in ogni atto pubblico ed amministrativo.
Non so quali misure saranno adottate dal Governo ma dichiaro qui senza assumere pose solenni e lo dichiaro ai quattro deputati tedeschi che essi debbono dire e far sapere oltre Brennero che al Brennero ci siamo e ci resteremo a qualunque costo. (Applausi).
Giolitti (presidente del Consiglio dei ministri ministro dell'interno). Su questo siamo tutti d'accordo. (Vivi applausi).
Mussolini. Prendo atto con molto piacere della dichiarazione esplicita fattami in questo momento dal presidente del Consiglio.
Nel discorso della Corona si parla di Alpi che scendono al Quarnero. Ora si desidera sapere se queste Alpi comprendono Fiume o l'escludono.
Io deploro che nel discorso della Corona non ci sia stato un accenno all'azione svolta da Gabriele d'Annunzio e dai suoi legionari (applausi all'estrema destra) senza la quale noi oggi saremmo col confine al Monte Maggiore e non già al Nevoso.
Un tale accenno era generoso ed anche politicamente opportuno. Io non mi dilungo sul sacrificio della Dalmazia. Ne ha parlato ieri con molta eloquenza il mio amico onorevole Federzoni. Ma mi fa sorridere il discorso della Corona quando afferma che Zara deve rappresentare sull'altra sponda un faro di luce italiana. Zara è una città assassinata di fronte al mare slavo e al retroterra completamente slavo. C'è a Zara oggi un Buonfanti Linares che se vi rimarrà ancora sarà causa di fieri e seri incidenti.
Sempre in tema Adriatico o signori del Governo non possiamo dimenticare noi che parliamo per la prima volta in quest'aula il contegno che avete tenuto di fronte all'impresa di Fiume; non possiamo dimenticare che voi avete attaccato Fiume alla vigilia di Natale utilizzando anche i due giorni di sospensione di tutti i giornali; non possiamo dimenticare che avete imposto l'accettazione del Trattato di Rapallo con un atto di violenza e di crudeltà raffinata. Quando il 28 dicembre il generale Ferrano disse che «non poteva sospendere l'ordine di esecuzione del bombardamento che avrebbe raso al suolo Fiume» quel generale e il Governo che gli ordinava di agire in tal modo si misero un poco fuori dai limiti della coscienza e della dignità nazionale. E non possiamo nemmeno dimenticare quel foglio riservatissimo n. 22 del generale Ferrario in cui per il giorno di Natale si dava un soprassoldo più o meno lucroso a soldati italiani che andavano a combattere contro altri italiani. (Approvazioni a destra).
Avete posto un coltello al collo di Fiume ma non avete risolto il problema di Fiume. Avete mandato là il comandante Foschini con un piano diabolico di realizzare un Governo che accetti i patti che sono stati convenuti dal signor Quartieri a Belgrado che accetti cioè quel consorzio che è la rovina se non immediata mediata del porto di Fiume perché voi sapete che dopo dodici anni Porto Barros e il Delta dovrebbero andare alla Jugoslavia perché voi ora alla Jugoslavia l'avete già
consegnato e se non l'avete consegnato avreste dovuto fare già delle dichiarazioni specifiche che sono mancate.
Infine quali sono gli orientamenti della nostra politica estera di fronte a quel vasto focolare di discordie che il trattato di pace o meglio i vari trattati di non pace hanno lasciato in tutte le parti del mondo?
Non vi parlo del focolare di discordie greco-turche quantunque esso possa avere delle applicazioni impensate se è vero come si dice che Lenin è alleato di Kemal Pascià e manda già le avanguardie degli eserciti rossi verso l'Asia Minore. Non vi parlo dell'Alta Slesia perché non sono ancora riuscito a decifrare il punto di vista del nostro Governo. Non vi parlo degli avvenimenti di Egitto ma non posso tacere sulla sorte che si prepara al Montenegro.
Come ha perduto la sua indipendenza il Montenegro? De jure non l'ha mai perduta; ma de facto l'ha perduta nell'ottobre 1918. E pure il conte Sforza mi insegna che l'indipendenza del Montenegro era completamente garantita dal patto di Londra del 1915 che prevedeva l'ingrandimento del Montenegro a spese dell'Austria e la restituzione di Scutari; dalle condizioni di pace esposte da Wilson agli alleati in cui l'esistenza indipendente del Montenegro veniva garantita come quella del Belgio e della Serbia; dalla decisione del Consiglio Supremo della Conferenza della pace del 13 gennaio 1919 nella quale si riconosceva al Montenegro il diritto di essere rappresentato da un delegato alla conferenza di Parigi. Non solo ma quando Franchet d'Esperey andò con alcuni elementi francesi e serbi in Montenegro diede ad intendere che avrebbe governato in nome di Sua Maestà Re Nicola.
Quando però Re Nicola la Corte ed il Governo intendevano riguadagnare la Montagna Nera la Francia che aveva tutto l'interesse di creare la grande Jugoslavia per fare da contro-altare nell'Adriatico all'Italia fece sapere al Governo del Montenegro che avrebbe rotto le relazioni diplomatiche se il Re e la sua Corte fossero ritornati a Cettigne.
Quale è stata la politica italiana in questo frangente?
L'onorevole Federzoni ha ieri parlato di una convenzione che è diventata uno straccio di carta ed è la convenzione del 30 aprile 1919. In questa convenzione sono chiaramente stabiliti dei patti fra il Governo d'Italia e il Governo del Montenegro. E si dice precisamente: «-A seguito dell'accordo intervenuto fra il ministro italiano degli affari esteri e il Governo del Montenegro (dunque un Governo del Montenegro esisteva ancora in data 30 aprile 1919) rappresentato dal suo console generale in Roma commendatore Ramanadovich si costituirà a Gaeta per cura del Governo montenegrino un nucleo di militari ufficiali e truppa tratti dai profughi montenegrini. Il Governo montenegrino riceverà da quello italiano i fondi in danaro necessari per il pagamento degli assegni truppa ed ufficiali-».
Seguono altre condizioni fra le quali l'ultima è: «-La presente convenzione non può essere modificata che col pieno accordo tra il Governo italiano ed il Governo del Montenegro-».
Ora questa convenzione è stata stracciata dopo la morte di Nicola del Montenegro. Si notarono sintomi di disgregazione in mezzo alle truppe montenegrine ed il comando di queste truppe chiese organi militari al nostro Governo per procedere ad una epurazione. Fu nominata una Commissione che venne presieduta dal colonnello Vigevano. La Commissione che doveva salvare dalla disgregazione l'esercito montenegrino fu la causa principale della sua dissoluzione. Non solo ma in data 27 maggio il conte Sforza mise nuovamente il coltello alla gola del Governo montenegrino dicendo: «-O sciogliete le truppe o non vi darò più i fondi per mantenere questi vostri soldati!-».
E con ciò il conte Sforza violava la convenzione 50 aprile 1919 perché in essa era detto: «-La presente convenzione non può essere modificata che di pieno accordo fra i due Governi-».
Dunque decisione unilaterale perché il Governo del Montenegro rappresentato dal suo console generale in Roma non l'aveva mai accettata.
Ma in fine il conte Sforza si è giovato dell'esercito montenegrino per un calcolo politico. Agevolandone l'esistenza in Italia il conte Sforza credeva di poter avere dei patti migliori dalla Jugoslavia. Questo non è avvenuto ed in un dato momento l'esercito montenegrino è stato buttato sotto il tavolo come una carta che non si poteva più giuocare.
Il fatto nuovo le elezioni della Costituente non basta a giustificare l'abbandono tragico in cui l'Italia ha lasciato il Montenegro perché solo il venti per cento degli elettori hanno partecipato alle elezioni e solo il nove per cento ha votato per l'annessione alla Serbia. Le autorità serbe hanno instaurato nel Montenegro un regime di vero terrore e hanno impedito la presentazione di liste che contenessero nomi di candidati favorevoli all'indipendenza del Montenegro. Ma non riteniate onorevole Sforza che la questione del Montenegro sia stata liquidata! Prima di tutto perché il popolo del Montenegro è ancora in armi contro la Serbia e voi lo sapete; ed in secondo luogo perché il popolo italiano per una volta tanto è unanime in tale questione. Persino i socialisti e lo dico a loro onore parecchie volte nel loro giornale hanno dichiarato che la causa dell'indipendenza del Montenegro è sacrosanta. Le Università da quelle di Bologna e di Padova si sono pronunziate per l'indipendenza del Montenegro.
Noi fascisti abbiamo presentato una mozione. Voi dovete riscattare la pagina vergognosa che avete scritto assassinando il popolo montenegrino con l'accettare la nostra mozione. Se voi l'accetterete cioè se voi porrete ancora la questione davanti alle grandi Potenze e se farete in modo che sia indetto un plebiscito io sono certissimo che questo plebiscito fatto in condizione di libertà darà dei risultati antiserbi.
Vengo ad un'altra questione molto delicata.
È una questione che bisogna affrontare prima di tutto perché la cronaca lo ha imposto ed in secondo luogo perché dopo l'allocuzione pontificia davanti al Concistoro segreto di giorni fa non è più possibile ignorare che esiste una questione della Palestina.
Bisogna scegliere; bisogna che il Governo abbia un suo punto di vista. O sceglie il punto di vista sionistico inglese o sceglie il punto di vista di Benedetto XV.
Credo di non tediare la Camera ricordando brevemente i precedenti della questione.
Il 2 novembre 1917 il Governo inglese si dichiarava favorevole alla creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico restando bene inteso che nulla si sarebbe fatto che potesse recare offesa ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina e ai diritti ed agli istituti politici di cui godono gli ebrei in tutte le altre nazioni del mondo. In un secondo tempo le Potenze alleate hanno adottato questa dichiarazione. Finalmente con l'art. 222 del trattato di pace sottoscritto il 20 agosto 1920 a Sevres la Turchia rinunziava a tutti i suoi diritti sulla Palestina e le Potenze alleate sceglievano come mandataria l'Inghilterra.
Ora mentre le nazioni civili dell'Occidente non hanno modificato il regime comune di libertà per le diverse confessioni religiose in Palestina è accaduto tutto il contrario anche perché l'amministrazione di quello Stato in embrione e stata affidata all'organizzazione politica del sionismo.
Ma in Palestina ci sono 600.000 arabi che vivono là da dieci secoli e 70.000 cristiani mentre gli ebrei non arrivano che a 50.000. Si è così determinata una situazione straordinariamente interessante. Gli ebrei autoctoni che hanno vissuto per secoli e secoli all'ombra delle moschee di Gerusalemme non possono soffrire gli elementi che vengono dalla Polonia dall'Ucraina dalla Russia perché hanno delle arie straordinariamente emancipate e quelli che sono immigrati si sono già divisi in tre fazioni una delle quali che si chiama abbreviatamente Mopsi è già inscritta regolarmente come frazione comunista alla Terza Internazionale di Mosca.
Apro una parentesi per dire che non si deve vedere nelle mie parole alcun cenno ad un antisemitismo che sarebbe nuovo in quest'aula. Riconosco che il sacrificio di sangue dato dagli ebrei italiani in guerra è stato largo vastissimo e generoso ma qui si tratta di esaminare una determinata situazione politica e indicare quali possono essere le direttive eventuali del Governo.
Ora in Palestina si è determinata l'alleanza tra cristiani ed arabi si è formato il partito della Conferenza di Jaffa che si oppone con la guerra civile e col boicottaggio ad ogni immigrazione ebraica ed il 1° maggio e il 14 maggio si sono verificati disordini sanguinosi in cui ci sono stati qualche centinaio di feriti e vari morti tra i quali uno scrittore di una certa fama. Ora a quanto si legge nel Bulletin du Comité des Delegations juives a pagina 19 pare che il testo del mandato inglese per la Palestina debba essere sottomesso al Consiglio della Società delle Nazioni nella prossima riunione di Ginevra. Ed io desidererei che il Governo accettasse in questa questione delicatissima il punto di vista espresso dal Vaticano.
Ciò è anche nell'interesse degli ebrei i quali sfuggiti ai pogroms dell'Ucraina e della Polonia non devono incontrare i pogroms arabici della Palestina ed anche perché non si determini nelle Nazioni occidentali una penosa situazione giuridica per gli ebrei in quanto se domani gli ebrei fossero cittadini sudditi del loro Stato potrebbero diventare immediatamente colonie straniere negli stessi Stati.
Oh io non voglio allargarmi in tema di politica estera perché allora potrei navigare in alto mare e potrei domandare al conte Sforza qual'è la posizione dell'Italia nei formidabili conflitti che si delineano nell'agone internazionale. Ma in fondo il conte Sforza fa una politica che è riflessa dai suoi lineamenti di diplomatico blasé (si ride)... dell'uomo che ha molto vissuto che ha molto visto del diplomatico di carriera in fondo scettico e senza pathos. (Si ride).
Finché al Governo di Giolitti vi sia titolare della politica estera il conte Sforza noi non possiamo che trovarci all'opposizione. (Commenti).
Passo alla politica interna. Vengo cioè a precisare la posizione del fascismo di fronte ai diversi partiti. (Segni di attenzione).
Comincio dal partito comunista.
Il comunismo l'onorevole Graziadei me lo insegna è una dottrina che spunta nelle epoche di miseria e di disperazione. (Commenti).
Quando la somma dei beni è decimata il primo pensiero che balza alla mente degli umani è quello di mettere tutto in comune perché ce ne sia un po' per tutti. Ma questa non è che la prima fase del comunismo la fase del consumo: dopo vi è la fase della produzione che è enormemente difficile tanto difficile che quel grande quel formidabile artista (non già legislatore) che risponde al nome di Vladimiro Ulianoff-Lenin quando ha dovuto foggiare il materiale umano si è accorto che esso è più refrattario del bronzo e del marmo. (Approvazioni commenti).
Conosco i comunisti. Li conosco perché parte di loro sono i miei figli... intendiamoci... spirituali. (Ilarità commenti).
Presidente. Non è ammessa la ricerca della paternità onorevole Mussolini! (Si ride).
Mussolini. ... e riconosco con una sincerità che può parere cinica che io per primo ho infettato codesta gente quando ho introdotto nella circolazione del socialismo italiano un po' di Bergson mescolato a molto Blanqui.
C'è un filosofo al banco dei ministri ed egli certamente m'insegna che le filosofie neo-spiritualistiche con quel loro ondeggiare continuo fra la metafisica e la lirica sono perniciosissime per i piccoli cervelli. (Ilarità).
Le filosofie neo-spiritualistiche sono come le ostriche: gustosissime al palato... ma bisogna digerirle! (Ilarità).
Codesti miei amici o nemici...
Voci all'estrema sinistra. Nemici! Nemici!
Mussolini. Questo è pacifico dunque!...
Codesti miei nemici hanno mangiato Bergson a venticinque anni e non l'hanno digerito a trenta.
Mi stupisco molto di vedere fra i comunisti un economista della forza di Antonio Graziadei col quale io ho lungamente polemizzato quando egli era ferocemente riformista... (Ilarità) e aveva buttato sotto il tavolo Marx e le sue dottrine. Finché i comunisti parleranno di dittatura proletaria di repubbliche di più o meno oziose assurdità fra noi e loro non ci potrà essere che il combattimento. (Interruzioni all'estrema sinistra commenti rumori).
La nostra posizione varia quando ci poniamo di fronte al partito socialista. Anzitutto ci teniamo bene a distinguere quello che è movimento operaio da quello che è partito politico. (Commenti all'estrema sinistra).
Non sono qui per sopravalutare l'importanza del movimento sindacale. Quando si pensi che i lavoratori del braccio sono 16 milioni in Italia dei quali appena 3 milioni sindacati e sindacati in una Confederazione generale del lavoro in una Unione sindacale italiana in una Unione italiana del lavoro in una Confederazione dei sindacati economici italiani in una Federazione bianca e in altre organizzazioni che non sono in questo quadro e queste organizzazioni aumentano o diminuiscono secondo i momenti; quando pensate che i veramente evoluti e coscienti che si propongono di creare un tipo di civiltà sono un'esigua minoranza avete subito l'impressione che noi siamo nel vero quando non sopravalutiamo l'importanza storica del movimento operaio.
Riconosciamo però che la Confederazione generale del lavoro non ha tenuto di fronte alla guerra il contegno di ostilità tenuto da gran parte del partito socialista ufficiale.
Riconosciamo anche che attraverso la Confederazione generale del lavoro si sono espressi dei valori tecnici di prim'ordine e riconosciamo ancora che per il fatto che gli organizzatori sono a contatto diuturno e diretto con la complessa realtà economica sono abbastanza ragionevoli. (Interruzioni all'estrema sinistra commenti).
Noi e qui ci sono dei testimoni che possono dichiararlo non abbiamo mai preso aprioristicamente un atteggiamento di opposizione contro la Confederazione generale del lavoro.
Aggiungo che il nostro atteggiamento verso la Confederazione generale del lavoro potrebbe modificarsi in seguito se la Confederazione stessa ed i suoi dirigenti lo meditano da un pezzo si distaccasse dal partito politico socialista che è una frazione di tutto il socialismo politico e che è costituito da gente che forma i quadri e che ha bisogno per agire delle grosse forze rappresentate dalle organizzazioni operaie.
Ascoltate del resto quello che sto per dire. Quando voi presenterete il disegno di legge delle otto ore di lavoro noi voteremo a favore. (Commenti all'estrema sinistra interruzioni).
Non ci opporremo e voteremo anzi a favore di tutte le misure e dei provvedimenti che siano destinati a perfezionare la nostra legislazione sociale. Non ci opporremo nemmeno ad esperimenti di cooperativismo: però vi dico subito che ci opporremo con tutte le nostre forze a tentativi di socializzazione di statizzazione di collettivizzazione! (Commenti). Ne abbiamo abbastanza del socialismo di stato! (Applausi all'estrema destra e su altri banchi commenti all'estrema sinistra interruzioni). E non desisteremo nemmeno dalla lotta che vorrei chiamare dottrinale contro il complesso delle vostre dottrine alle quali neghiamo il carattere di verità e soprattutto di fatalità.
Neghiamo che esistano due classi perché ne esistono molte di più; neghiamo che si possa spiegare tutta la storia umana col determinismo economico. (Applausi all'estrema destra approvazioni).
Neghiamo il vostro internazionalismo perché è una merce di lusso che solo nelle alte classi può essere praticato mentre il popolo è disperatamente legato alla sua terra nativa. (Applausi all'estrema destra).
Non solo ma noi affermiamo e sulla scorta di una letteratura socialista recentissima che voi non dovreste negare che comincia adesso la vera storia del capitalismo perché il capitalismo non è solo un sistema di oppressione ma è anche una selezione di valori una coordinazione di gerarchie un senso più ampiamente sviluppato della responsabilità individuale. (Approvazioni). Tanto è vero che Lenin dopo aver istituito i Consigli di fabbrica li ha aboliti e vi ha messo i dittatori; tanto è vero che dopo aver nazionalizzato il commercio egli lo ha ricondotto al regime di libertà e (lo sapete voi che siete stati in Russia) dopo aver soppresso anche fisicamente i borghesi oggi li chiama da tutti gli orizzonti perché senza il capitalismo senza i suoi sistemi tecnici di produzione la Russia non si rialzerebbe mai più. (Applausi all'estrema destra commenti).
E permettetemi che vi parli con franchezza e vi dica quali sono stati gli errori che avete commesso immediatamente dopo l'armistizio.
Errori fondamentali che sono destinati a pesare sulla storia della vostra politica: voi avete prima di tutto ignorato e disprezzato le forze superstiti dell'interventismo. (Approvazioni). Il vostro giornale si coprì di ridicolo tanto che per mesi non ha mai fatto il mio nome come se con questo fosse possibile eliminare un uomo dalla vita o dalla cronaca. (Commenti). Voi avete incanaglito nella diffamazione della guerra e della vittoria. (Vive approvazioni all'estrema destra).
Avete agitato il mito russo suscitando un'aspettazione messianica enorme. (Approvazioni all'estrema destra). E solo dopo quando siete andati a vedere la realtà avete cambiato posizione con una ritirata strategica più o meno prudente! (Si ride). Solo dopo due anni vi siete ricordati di mettere accanto alla falce nobilissimo strumento e al martello altrettanto nobile il libro che rappresenta l'imponderabile i diritti dello spirito al di sopra della materia diritti che non si possono sopprimere o negare (Bene! Bravo!) diritti che voi che vi ritenete alfieri di una nuova umanità dovevate per i primi incidere nelle vostre bandiere! (Vivi applausi all'estrema destra).
E vengo al partito popolare.
Ricordo ai popolari che nella storia del fascismo non vi sono invasioni di chiese e non c'è nemmeno l'assassinio di quel frate Angelico Galassi finito a revolverate ai piedi di un altare. Vi confesso che c'è qualche legnata e che c'è un incendio sacrosanto di un giornale che aveva definito il fascismo una associazione a delinquere. (Commenti interruzioni al centro rumori).
Il fascismo non predica e non pratica l'anticlericalismo. Il fascismo anche questo si può dire non è legato alla massoneria la quale in realtà non merita gli spaventi da cui sembrano pervasi taluni del partito popolare. Per me la massoneria è un enorme paravento dietro al quale generalmente vi sono piccole cose e piccoli uomini (Commenti si ride). Ma veniamo ai problemi concreti.
Qui è stato accennato al problema del divorzio. Io in fondo in fondo non sono un divorzista perché ritengo che i problemi di ordine sentimentale non si possono risolvere con formule giuridiche; ma prego i popolari di riflettere se sia giusto che i ricchi possano divorziare andando in Ungheria e che i poveri diavoli siano costretti qualche volta a portare una catena per tutta la vita.
Siamo d'accordo con i popolari per quel che riguarda la libertà della scuola; siamo molto vicini a essi per quel che riguarda il problema agrario per il quale noi pensiamo che dove la piccola proprietà esiste è inutile sabotarla che dove è possibile crearla è giusto crearla che dove non è giusto crearla perché sarebbe anti-produttiva allora si possono adottare forme diverse non esclusa la cooperazione più o meno collettivista. Siamo d'accordo per quel che riguarda il decentramento amministrativo con le dovute cautele: purché non si parli di federalismo e di autonomismo perché dal federalismo provinciale e così via di seguito per una catena infinita l'Italia ritornerebbe a quella che era un secolo fa.
Ma vi è un problema che trascende questi problemi contingenti e sul quale io richiamo l'attenzione dei rappresentanti del partito popolare ed è il problema storico dei rapporti che possono intercedere non solo fra noi fascisti e il partito popolare ma tra l'Italia e il Vaticano. (Segni di attenzione).
Tutti noi che dai 15 ai 25 anni ci siamo abbeverati di letteratura carducciana abbiamo odiato una «vecchia vaticana lupa cruenta» di cui parlava Carducci mi pare nell'ode «-A Ferrara-»; abbiamo sentito parlare di «-un pontefice fosco del mistero-» al quale faceva contrapposto un poeta «sacerdote dell'augusto vero — vate dell'avvenire»; abbiamo sentito parlare di una «-tiberina — vergin di nere chiome» che avrebbe insegnato «la ruina d'un'onta senza nome-» al pellegrino avventuratosi verso San Pietro.
Ma tutto ciò che relegato nel campo della letteratura può essere brillantissimo oggi a noi fascisti spiriti eminentemente spregiudicati sembra alquanto anacronistico.
Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo. (Approvazioni).
Se come diceva Mommsen 25 o 30 anni fa non si resta a Roma senza una idea universale io penso e affermo che l'unica idea universale che oggi esista a Roma è quella che s'irradia dal Vaticano. (Approvazioni).
Sono molto inquieto quando vedo che si formano delle Chiese nazionali perché penso che sono milioni e milioni di uomini che non guardano più all'Italia e a Roma. Ragione per cui io avanzo questa ipotesi; penso anzi che se il Vaticano rinunzia definitivamente ai suoi sogni temporalistici — e credo che sia già su questa strada — l'Italia profana o laica dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali le agevolazioni materiali per scuole chiese ospedali o altro che una potenza profana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del cattolicismo nel mondo l'aumento dei 400 milioni di uomini che in tutte le parti della terra guardano a Roma è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani.
Il partito popolare deve scegliere: o amico nostro o nostro nemico o neutrale. Dal momento che io ho parlato chiaro spero che qualche oratore del P. P. parlerà altrettanto chiaro.
Quanto alla democrazia sociale essa ci appare molto equivoca. (Si ride). Prima di tutto non si capisce perché si chiami sociale. Una democrazia è già necessariamente sociale; pensiamo perciò che questa democrazia sociale sia una specie di cavallo di Ulisse che rechi nei suoi fianchi un uomo che noi combatteremo continuamente. (Commenti).
Sono all'ultima parte del mio discorso e voglio toccare un argomento molto difficile e che dati i tempi è destinato a richiamare l'attenzione della Camera. Parlo della lotta della guerra civile in Italia.
Non bisogna prima di tutto esagerare anche di fronte allo straniero la vastità e le proporzioni di questa lotta.
I socialisti hanno pubblicato un volume di 300 pagine; domattina ne esce uno nostro di 300. D'altra parte tutte le nazioni d'Europa hanno avuto un po' di guerra civile. C'è stata in Ungheria c'è stata in Germania c'è oggi in Inghilterra sotto forma di un colossale conflitto sociale. C'è stata anche in Francia quando Jouhaux lanciò le sue famose «ondate» che furono infrante da un Governo che aveva più coraggio degli uomini che sono ora a quel posto.
È inutile che Giolitti dica che vuole restaurare l'autorità dello Stato. Il compito è enormemente difficile perché ci sono già tre o quattro Stati in Italia che si contendono il probabile possibile esercizio del potere.
D'altra parte per salvare lo Stato bisogna fare una operazione chirurgica. Ieri l'on. Orano diceva che lo Stato è simile al gigante Briareo che ha cento braccia. Io credo che bisogna amputarne 95; cioè bisogna ridurre lo Stato alla sua espressione puramente giuridica e politica.
Lo Stato ci dia una polizia che salvi i galantuomini dai furfanti una giustizia bene organizzata un esercito pronto per tutte le eventualità una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto e non escludo nemmeno la scuola secondaria deve rientrare nell'attività privata dell'individuo. Se voi volete salvare lo Stato dovete abolire lo Stato collettivista (Bene!) così come c'è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra e ritornare allo Stato manchesteriano.
La guerra civile si aggrava anche per questo fatto: che tutti i partiti tendono a formarsi a inquadrarsi in eserciti; quindi l'urto che se non era pericoloso quando si trattava di partiti allo stato di nebulosa è molto più pericoloso oggi che gli uomini sono nettamente inquadrati comandati e controllati. D'altra parte è pacifico oramai che nel terreno della violenza le masse operaie saranno battute. Lo riconosceva molto giustamente Baidesi ma non ne diceva la ragione profonda; ed è questa: che le masse operaie sono naturalmente oserei dire santamente pacifondaie perché rappresentano sempre le riserve statiche della società umana mentre il rischio il pericolo il gusto dell'avventura sono stati sempre il compito il privilegio delle piccole aristocrazie.
E allora o socialisti se voi convenite e ammettete e confessate che su questo terreno noi vi batteremo (Rumori all'estrema sinistra) ... allora dovete concludere che avete sbagliato strada. (Interruzioni all'estrema sinistra).
La violenza non è per noi un sistema non è un estetismo e meno ancora uno sport è una dura necessità alla quale ci siamo sottoposti. (Commenti). E aggiungo anche che siamo disposti a disarmare se voi disarmate a vostra volta soprattutto gli spiriti.
Nell'Avanti! del 18 giugno edizione milanese è detto: «Noi non predichiamo la vendetta come fanno i nostri avversari. Pensiamo alla ascesa maestosa dei popoli e delle classi con opera pacifica e feconda pur nelle inevitabili anzi necessarie lotte civili. Se questo è il vostro punto di vista o signori sta a voi illuminare gl'incoscienti e disarmare i criminali. Noi abbiamo già detto la nostra parola abbiamo già compiuto la nostra opera».
Ora io ribatto che anche voi dovete illuminare gli incoscienti che ritengono che noi siamo degli scherani del capitalismo degli agenti del Governo; dovete disarmare anche i criminali perché abbiamo nel nostro martirologio 176 morti. Se voi farete questo allora sarà possibile segnare la parola fine al triste capitolo della guerra civile in Italia.
Non dovete pensare che in noi non vibrino sentimenti di umanità profonda. Noi possiamo dire come Terenzio: siamo umani e niente di quanto è umano ci è straniero.
Ma il disarmo non può essere che reciproco. Se sarà reciproco si avvererà quella condizione di cose che noi ardentemente auspichiamo perché andando avanti di questo passo la Nazione corre serio pericolo di precipitare nell'abisso. (Commenti).
Siamo in un periodo decisivo; lealtà per lealtà prima di deporre le nostre armi disarmate i vostri spiriti.
Ho parlato chiaro; attendo che la vostra risposta sia altrettanto alta e chiara.
Ho finito. (Vivissimi e reiterati applausi all'estrema destra commenti prolungati molte congratulazioni).
Roma, 23 luglio 1921: MUSSOLINI dichiara il voto contrario all'insediamento del ministero Bonomi
Questo discorso - pronunciato alla Camera nella tornata del 23 luglio 1921 verso la fine della seduta all'indomani del discorso pronunciato per i fatti di Sarzana - è in apparenza una semplice dichiarazione di voto. Ma nella chiusa va assai oltre. Dopo aver dichiarato i motivi del voto contrario al Ministero Bonomi Mussolini prospetta la possibilità dell'unione delle tre correnti di masse - il movimento fascista i Partiti socialista e popolare - «-coalizzate sopra un programma-» che ne costituisca «il minimo comune denominatore» per «-condurre la Patria a più prospere fortune-». Egli stesso si rende conto che la proposta è «paradossale i dato lo spirito dogmatico dei due partiti avversari. Tuttavia questo discorso - che s'inizia con una spiegazione attenuatrice della chiusa del discorso precedente - influì alla conclusione del «patto di pacificazione» fra socialisti e fascisti che fu firmato pochi giorni dopo il 3 agosto 1921 arbitro l'on. De Nicola presidente della Camera. Tale patto come è noto non fu mantenuto dai socialisti che si trincerarono dietro a ragioni sofistiche - allegando il pretesto della non accettazione da parte dei comunisti - per non rispettarlo e fu denunciato nel successivo novembre dallo stesso Mussolini.
Data l'ora tarda io non voglio dirvi che sarò breve per non farvi credere esattamente il contrario.
Il Gruppo Parlamentare Fascista mi ha incaricato di spiegare succintamente i motivi per cui esso nega la fiducia al ministero Bonomi. Ma mi permetterete innanzi tutto alcune dichiarazioni che devono precisare alcuni punti venuti in discussione.
Non si deve credere non ostante la frase da me pronunziata ieri sera alla fine del mio discorso che la nostra volontà di pacificazione sia venuta meno. Può darsi anzi io ammetto che la frase possa avere in qualche parte tradito il mio intimo pensiero. (Commenti).
E a dimostrare ciò vi basti sapere (credo che la Camera ne prenderà atto con soddisfazione) che noi stiamo provvedendo energicamente e indipendentemente dall'esito che potranno avere le trattative dirò così diplomatiche a ristabilire nel nostro movimento una disciplina inflessibile con una serie di norme che dovranno essere rigorosamente seguite da tutti i nostri inscritti.
Permettetemi di documentare questa affermazione. Noi abbiamo mandata una circolare ai Fasci e la rendiamo di pubblica ragione perché non abbiamo nulla da nascondere nella quale imponiamo la cessazione di ogni forma di violenza individuale che non sia giustificata da ragioni di legittima difesa e specie quando ci sia sproporzione di numero; cessazione immediata di spedizioni punitive contro organizzazioni economiche e cooperative; ricerca delle responsabilità per coloro che hanno ordinato azioni dannose alla causa fascista.
Credo fermissimamente che una tregua giovi a tutti e oserei dire giovi anche ai comunisti che rappresentano una parte accessoria nel giuoco delle passioni politiche; e mi permetto di dire perché io credo di non essere in errore poiché io seguo da vicino il movimento comunista italiano che i comunisti italiani debbano aggiornare il loro movimento alla nuova realtà russa... (Commenti).
Mi permetto di dire che voi siete alquanto in ritardo! E badate che con questo non voglio negare l'enorme valore storico della rivoluzione russa che consiste appunto in questo non cioè nell'avere instaurato un comunismo impossibile e assurdo ma nell'avere preparato le condizioni necessariamente sufficienti allo sviluppo di una grande economia capitalistica in quel grandissimo e fecondissimo paese. (Commenti).
Ora il nostro voto contrario al ministero Bonomi dev'essere interpretato al giusto segno. Noi non intendiamo di dichiararci con questo voto sempiternamente contrari al Ministero dell'onorevole Bonomi perché non abbiamo pregiudiziali di sorta e non siamo legati da dogmi speciali ad una opposizione sistematica a tutti i Governi così detti borghesi.
Può darsi quindi che a mutate condizioni di cose muti necessariamente di conseguenza il nostro atteggiamento. Ma il nostro voto contrario si parte da un duplice ordine di ragioni.
Debbo dichiarare che sono insoddisfatto delle dichiarazioni che l'onorevole Bonomi ha fatto in materia di politica estera. Siete stato insufficiente nelle dichiarazioni che avete fatto per la sorte di Fiume assai vago ed incerto per quello che riguarda il Montenegro; ma soprattutto non avete detto verbo sopra una parte della politica estera che un giorno o l'altro (ed è stato già fatto dall'onorevole Treves) dovrà fornire vasto tema di discussione alla Camera italiana; cioè i rapporti economici fra i nostri alleati e con tutto il mondo.
Riguardo poi alla politica interna io non posso accettare onorevole Bonomi la vostra equazione l'equazione che avete stabilito fra un movimento come il nostro che si parte da motivi di esasperato idealismo patriottico e che mira a ristabilire energicamente l'autorità dello Stato e un movimento contrario che si butta contro lo Stato per demolirlo. (Approvazione all'estrema destra).
Ammetto che voi siate imparziale dal punto di vista giuridico dal punto di vista del codice penale dal punto di vista della repressione di tutte le violenze siano esse compiute dai fascisti o dai comunisti; ma io mi rifiuto di accettare la vostra equazione; e voi stesso nella vostra intima coscienza dovrete rifiutarvi perché non potrete stabilire identità di sorta fra un movimento sovversivo che tende a capovolgere ab imis la stessa economia politica del Paese e noi che non vogliamo notate bene conservare all'infinito istituzioni che siano rese difettose o insufficienti ma che però in questo momento rappresentano la forza la salvaguardia dello Stato.
Voi non avete ordinata nessuna inchiesta seria sui fatti di Sarzana e soprattutto mi duole dirlo non avete avuto una parola di gentilezza e di compianto per quelle vittime molte delle quali erano adolescenti molte altre decorati combattenti feriti e mutilati. (Commenti).
È dunque per una ragione d'ordine più sentimentale che politico che noi neghiamo la fiducia al Ministero Bonomi; ed io credo che tutta la Camera comprenderà e apprezzerà il nostro legittimo stato d'animo.
E poiché si parla di coalizione oserei manifestare un'opinione che in questo momento può sembrare alquanto paradossale. Penso cioè che si va o presto o tardi ad una nuova e grande coalizione e sarà quella delle tre forze efficienti in questo momento nella vita del Paese.
Esistono qui dei gruppi parlamentari numerosi; ma io vi domando se la democrazia e sociale e liberale ha delle forze solidamente inquadrate nel paese mentre tutti sappiamo che tali forze non esistono quando si astragga dalla massa assai fluttuante che vota nel giorno delle elezioni.
Ecco perché non accetto la tesi anti-proporzionalista in quanto essa viene sostenuta col danno che ne ricavano i partiti deboli. Se i partiti sono deboli o si rafforzano o muoiono ma le grandi forze espresse dal Paese in quest'ora sono tre: un socialismo che dovrà correggersi e già comincia: notevole il voto confederale contro i comunisti soprattutto notevole il nuovo punto di vista della Confederazione generale del lavoro per ciò che riguarda lo sciopero dei servizi pubblici; la forza dei popolari che esiste che è potente anche perché si appoggia non so con quanto profitto per la religione alla forza immensa del cattolicismo; e finalmente non si può negare l'esistenza di un terzo movimento complesso formidabile eminentemente idealistico che raccoglie la parte migliore della gioventù italiana. Credo che a queste tre forze coalizzate sopra un programma che deve costituire il minimo comune denominatore spetterà domani il compito di condurre la Patria a più prospere fortune. (Applausi all'estrema destra commenti prolungati).
Roma, 7 novembre 1921: Discorso di MUSSOLINI al I^ Congresso Fascista svoltosi all'augusteo
Il 7 novembre 1921 s'inaugurò all'Augusteo il Congresso Fascista di Roma che segna una pietra miliare nella storia del Fascismo per la trasformazione del movimento in Partito e per la chiarificazione del problema sindacale.
Nella giornata del 9 novembre - essendo accaduti in Roma alcuni incidenti provocati dai sovversivi - MUSSOLINI esortò i congressisti a difendersi ma a non attaccare. Questo atteggiamento fermo e sereno non valse tuttavia ad evitare la provocazione sovversiva.
MUSSOLINI lascio da parte questo tema spiacevole per elevarsi com'Egli diceva «a più spirabili aure».
Eleviamoci a più spirabili aure e parliamo del nostro programma sul quale sono disposto a battermi senza quartiere. Devo anzitutto dichiarare che nel complesso sono ammirato per lo spettacolo di disciplina e dignità che il Congresso ha dato fino ad ora. Per fissare la attività politica del Fascismo è necessario esaminare partiti e organizzazioni economiche italiane. Cominciamo dall'estrema sinistra dove troviamo gli anarchici con a capo Malatesta — santo e profeta — che è un fenomeno di coerenza che si può ammirare. Occorre stabilire che al Congresso anarchico di Ancona l'altro giorno è stato condannato il bolscevismo russo. Il comunismo attuale giudicandolo da quello di Torino è paragonabile alla corrente letteraria che aveva per esponente la rivista Lacerba. Noi per la Nazione accettiamo la dittatura e lo stato d'assedio; anche i comunisti chiedono la dittatura per uno scopo classista. Anche nel comunismo c'è una ala destra ed un'ala sinistra. Il Partito socialista si basa sull'equivoco e ci nausea sia che si tratti di Turati che fa il formicone in un partito in cui non crede più sia che si tratti di Serrati. Se il pus non avesse dietro di sé la Confederazione del lavoro avrebbe un'importanza limitata. I repubblicani partito secolare che ha dato all'Italia Mazzini e Garibaldi che ha dato alla guerra il fiore dei suoi martiri sono anch'essi travagliati da una crisi. Il Fascismo potrà integrare le teorie mazziniane ma non potrà dimenticarle. Noi non abbiamo bisogno di andare a cercare i profeti in Russia o in altri paesi quando abbiamo dei profeti che hanno detto un verbo nazionale che è il prodotto dello spirito e della civiltà italiana. Nel mezzo troviamo un caos di partiti democrazia liberale e democrazia sociale. Che cosa vogliono dire? E chi non è democratico al giorno d'oggi? Chi pensa di strappare al popolo tutto il mucchio di concessioni graziose — suffragio universale rappresentanza proporzionale ecc. — che ha avuto e di cui s'infischia? Sopra undici milioni di elettori sei soli vanno a votare e spesso per ragioni alcooliche e pecuniarie. I partiti democratici sono un'accolta di capitani senza soldati che soltanto nelle date fatidiche in mesto e ben ordinato corteo fanno della coreografia ufficiale.
Il Partito popolare prima di fischiarlo studiamolo. Ora questo è indubbiamente un partito potente perché si appoggia a trentamila parrocchie ha un'organizzazione politica disciplinata che scimmiotta il Fascismo. Potente per le banche i giornali e il prestigio che lo fa ritenere espressione del mondo cattolico. Anch'esso è travagliato da crisi interne. Esso raccoglie molti elementi della più fetida neutralità; esso ha molti elementi che hanno sabotata la guerra e sul terreno agrario gareggia col bolscevismo vero e proprio. Abbiamo quindi due bolscevismi: quello rosso e quello migliolino. Contro questo partito noi non possiamo non ingaggiare la lotta. Vi è l'ala destra di esso che cerca riconciliarsi con la Nazione ma la riconciliazione comincia là dove si riconosce prima di tutto Roma capitale d'Italia.
Il popolo italiano ha una grande storia. Basta scendere a Roma per sentire che venti e trenta secoli fa era il centro del mondo e gli italiani nei secoli passati furono grandi nelle arti nelle lettere e nei commerci. Dal loro popolò si espressero il genio di Dante e di Napoleone. L'Italia d'oggi ha vita da soli cinquant'anni. Soltanto attorno al '70 l'Italia ebbe gli uomini della destra che compresero pure errando spesso il suo avvenire. Furono quelli uomini pieni di intelletto e soprattutto di probità politica che non avevano l'abitudine di mistificare le masse. Il fascismo deve volere che dentro i confini non vi siano più veneti romagnoli toscani siciliani e sardi: ma italiani solo italiani. E per questo il Fascismo sarà contro ogni tentativo separatistico e quando le autonomie che oggi si reclamano dovessero portarci al separatismo noi dovremmo essere contro. Noi siamo per un decentramento amministrativo non per la divisione dell'Italia.
Durante gli ultimi decenni di travaglio nazionale l'Italia ebbe un uomo solo che ebbe... voi m'intendete! Parlo di Francesco Crispi. Egli solo seppe proiettare l'Italia nel Mediterraneo con anima e pensiero imperialistico. Ma quando parlo di imperialismo non intendo riferirmi a quello prussiano; intendo un imperialismo economico di espansione commerciale. Quei popoli che un giorno privi di volontà si rinchiudono in casa sono quelli che si avviano alla morte.
Io non voglio essere un Mosè sbarbato che vi dice: «-Ecco le tavole della legge giuratevi sopra!-». No. Intendo dire che il Fascismo si preoccupi del problema della razza; i Fascisti devono preoccuparsi della salute della razza con la quale si fa la storia. Noi partiamo dal concetto di Nazione; che è per noi un fatto né cancellabile né superabile. Siamo quindi in antitesi contro tutti gli internazionalismi.
Il sogno di una grande umanità è fondato sull'utopia e non sulla realtà. Niente ci autorizza ad affermare che il millennio della fratellanza universale sia imminente.
Malgrado i sogni dell'internazionale quando battono le grandi ore quelli che rinnegano la patria muoiono per lei. Partendo dalla Nazione arriviamo allo Stato che è il Governo nella sua espressione tangibile. Ma lo Stato siamo noi: attraverso un processo vogliamo identificare la Nazione con lo Stato. La crisi di autorità degli Stati è universale ed è un prodotto del cataclisma guerresco. È necessario però che lo Stato ritrovi la sua autorità altrimenti si va al caos. Senza il Fascismo il Fante Ignoto oggi non dormirebbe nel sarcofago dell'altare della Patria. Noi non ci vergognamo di essere stati interventisti ma con ciò non intendiamo accomunarci con certi esaltatori della guerra che attorno ad essa fecero della cattiva letteratura. Non esaltiamo la guerra per la guerra come non esaltiamo la pace per la pace. Noi esaltiamo quella guerra che nel 1915 fu voluta dal popolo da noi contro tutti! M'intendete! Il popolo sentiva che quella guerra era il suo battesimo che era la consacrazione della sua esistenza e se oggi l'Italia è a Washington a discutere con poche altre Nazioni della pace del mondo lo deve agli interventisti del 1915. Il popolo disse allora all'Italia: Solo osando tu avrai diritto alla storia di domani!
Il regime! Si disse dopo le elezioni a proposito di una mia dichiarazione e di un avverbio che fece fortuna che io mi ero rovinato la carriera. Mi ricordai in quei giorni che fra i partiti c'era anche quello repubblicano e dissi che il Fascismo era tendenzialmente repubblicano. Così dicendo non intendevo precipitare il paese in un moto rivoluzionario. Con quella dichiarazione io intendevo soltanto aprire un varco verso il futuro. Chi può dire che le attuali istituzioni siano in grado di difendere sempre gli interessi soprattutto ideali del popolo italiano? Nessuno. Oggi un movimento repubblicano sarebbe destinato a un insuccesso. Potrebbe riuscire in un primo momento per essere subissato da un moto successivo. Se una repubblica può essere in Italia non potrebbe mai essere quella che Nitti in combutta con altri ha vagheggiato! Né potrà essere la repubblica vagheggiata dal partito repubblicano ufficiale. Sulla questione del regime il Fascismo deve essere agnostico ciò che significa vigilanza e controllo. Perché per il regime è l'abito che deve adattarsi alla Nazione e non già la Nazione che si deve adattare al regime.
In economia siamo dichiaratamente antisocialisti. Io non mi dolgo di essere stato socialista ho tagliato i ponti col passato. Non ho nostalgia. Non si tratta di entrare nel socialismo ma di uscirne. In materia economica siamo liberali perché riteniamo che l'economia nazionale non possa essere affidata a enti collettivi e burocratici. Dopo l'esperimento russo basta di tutto ciò. Io restituirei le ferrovie e i telegrafi alle aziende private; perché l'attuale congegno è mostruoso e vulnerabile in tutte le sue parti.
Lo Stato etico non è lo Stato monopolistico lo Stato burocratico ma è quello che riduce le sue funzioni allo strettamente necessario. Siamo contro lo Stato economico. Le dottrine socialiste sono crollate: i miti internazionali sono caduti la lotta di classe è una favola perché l'umanità non si può dividere. Proletariato e borghesia non esistono nella storia; sono entrambi anelli della stessa formazione.
Non crediamo in queste fole. Il proletariato anche là dove ha avuto il potere è imprigionato dal capitalismo. Siamo antisocialisti ma non necessariamente antiproletari.
Si dice bisogna conquistare le masse. C'è chi dice anche: la storia è fatta dagli eroi; altri dicono che è fatta dalle masse. La verità è nel mezzo. Che cosa farebbe la massa se non avesse il proprio interprete espresso dallo spirito del popolo e che cosa farebbe il poeta se non avesse il materiale da forgiare? Non siamo antiproletari ma non vogliamo creare un feticismo per sua Maestà la Massa. Noi vogliamo servirla educarla ma quando sbaglia fustigarla. Bisogna prometterle quello che si sa matematicamente di poter mantenere. Noi vogliamo elevarne il livello intellettuale e morale perché vogliamo inserirla nella storia della Nazione. Perché con un proletariato riottoso malarico pellagroso non vi può essere un elevamento dell'economia nazionale. E diciamo alle masse che quando gli interessi della Nazione sono in giuoco tutti gli egoismi così del proletariato come della borghesia devono tacere. Può il Fascismo trovare le sue tavole negli statuti della reggenza del Carnaro? A mio avviso no. D'Annunzio è un uomo di genio. È l'uomo delle ore eccezionali non è l'uomo della pratica quotidiana. Però negli statuti della reggenza del Carnaro c'è uno spirito un imponderabile che possiamo far nostro: l'orgoglio di sentirci italiani il proposito di voler lavorare per la grandezza della Patria comune. Così dicendo esprimiamo un concetto territoriale politico economico e soprattutto spirituale. Ora questo spirito lo si trova se non nelle parole nell'essenza di quegli statuti. Onde noi dobbiamo guardare a quegli statuti come si guarda ad una stella come ci si disseta ad una fonte. Ci sono in essi delle direttive perché il nostro movimento diventando troppo politico o sociale non isterilisca i valori eterni della razza.
Altro è parlare di politica estera.
Ancora vi devo una parola sui rapporti tra l'Italia e il Vaticano. Lo Stato è sovrano in ogni campo dell'attività nazionale. Prima di togliere la legge delle guarentigie occorrono cautele. La diplomazia vaticana è più abile di quella della Consulta. Bisogna imporre il rispetto a ogni fede perché per il Fascismo il fatto religioso rientra nel campo della coscienza individuale. Il cattolicismo può essere utilizzato per l'espansione nazionale. Riguardo all'atteggiamento coi popolari ci regoleremo a seconda del loro atteggiamento. Si dice che questo programma è come gli altri: ma tutti gli uomini sono uguali; i piedi sono tutti di una forma la differenza è nei cervelli. Epperò bisogna guardare allo spirito del programma. Che cosa importa dar fondo all'universo se non ci sono energie necessarie per raggiungere la meta comune? Ritengo che attorno a noi si raggrupperanno i frammenti degli altri partiti costituzionali. Noi assorbiremo i liberali e il liberalismo perché col metodo della violenza abbiamo sepolti tutti i metodi precedenti. Mi permetterete che ci sia in me un sentimento di soddisfazione nel parlare davanti a questa imponente assemblea; forse la più imponente dal '70 ad oggi. Raccolgo il frutto di questi sette anni di dure battaglie. Non dico di non aver commesso errori: ammetto pure di essere un pessimo temperamento. In me lottano due Mussolini uno che non ama le masse individualista l'altro assolutamente disciplinato. Può darsi che abbia lanciato delle parole dure; ma esse non erano dirette contro le milizie fasciste ma erano dirette contro chi intendeva aggiogare il Fascismo ad interessi privati mentre il Fascismo deve essere a guardia della Nazione. Preferisco l'opera del chirurgo che affonda il lucido coltello nella carne cancrenosa al metodo omeopatico che s'indugia nel da fare. Nella nuova organizzazione io voglio sparire perché voi dovete guarire del mio male e camminare da voi. Solo così affrontando le responsabilità e i problemi si vincono le grandi battaglie. Vi raccomando di tener fede al principio animatore del Fascismo. In un canto del Paradiso Dante esalta la figura del poverello di Assisi che dopo aver sposato la povertà «poscia di dì in dì l'amò più forte». Questo o fascisti è il nostro giuramento: amare di dì in dì sempre più forte questa madre adorabile che si chiama: Italia.
(Un'entusiastica ovazione accoglie le ultime parole del Duce: vengono gettati fiori su lui quando scende in platea; è abbracciato e sollevato in trionfo dagli squadristi).
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 22:37 - modificato 10 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Segue - 1921
Roma, 1 dicembre 1921: MUSSOLINI intervenedo alla Camera chiede una vera pacificazione.
Roma, 1 dicembre 1921: MUSSOLINI intervenedo alla Camera chiede una vera pacificazione.
Il Congresso Fascista di Roma fu chiuso violentemente da un'aggressione sovversiva seguita da sciopero generale. In seguito a questo fatto che si aggiungeva ad altri simili veniva denunciato «-il patto di pacificazione-» che non fu mai rispettato dai socialisti - senza contare i comunisti che ad esso non avevano neppure aderito. Nella tornata del 1° dicembre 1921 - Mussolini prese la parola per dimostrare la debolezza del Governo e l'incoerenza dei suoi avversari. Nel tempo stesso Egli riaffermava la necessità d'una più vera pacificazione per ragioni di umanità e anche per presentare all'Europa nel prossimo anno 1922 un'Italia unita e concorde capace d'imporsi nelle future inevitabili revisioni dei Trattali.
Onorevoli colleghi! Ho ascoltato con viva attenzione i discorsi pronunziati in quest'aula dagli onorevoli Ferri Dugoni e in parte dall'onorevole Vacirca. Ho ascoltato pure con vivo interesse il discorso dell'onorevole Graziadei e ho notato che il suo metodo polemico non cambia per volgere di stagione; egli cioè ci presenta due Graziadei: uno che è lo studioso e un altro che è oggi il comunista. Ma ascoltando appunto i discorsi degli onorevoli Ferri e Dugoni io mi sono posto questo quesito se cioè la discussione che dura da tre giorni abbia un'utilità qualsiasi.
Mi aspettavo da quei banchi dei discorsi che fossero per forma e per contenuto in relazione al testo più estremista della mozione. Ma l'onorevole Ferri e l'onorevole Dugoni invece di sparare con le grosse artiglierie dell'intransigenza classista riaffermata nel congresso di Milano hanno a mio avviso fatto delle salve a scopo puramente dimostrativo dei discorsi dai quali trasparivano evidenti delle nostalgie collaborazioniste che la direzione del partito non può non sconfessare. E se così blandi sono stati questi discorsi ciò significa in realtà che manca la materia del contendere.
Quando l'onorevole Ferri rimprovera all'onorevole Bonomi solo una insufficienza di Governo io non voglio qui precedere l'onorevole Bonomi ma egli può trionfalmente rispondere che qualsiasi uomo a quel banco per quanto possa essere saggio o potente più d'ogni altro sarebbe sempre insufficiente davanti a qualche cosa.
E allora discutiamo se è possibile su l'utilità di questa discussione. Una utilità innegabile si può sintetizzare in questa domanda: il Governo dell'onorevole Bonomi ha fatto quanto poteva e doveva per ristabilire il così detto impero della legge e la pacificazione interna del paese?
Mi permetto di rilevare che non c'è assoluta interdipendenza tra il ripristino dell'autorità statale e la pacificazione interna. Il ripristino dell'autorità statale può contribuire alla pacificazione interna ma alla pacificazione interna devono contribuire altre forze a mio avviso e cioè la disciplina e il controllo dei partiti il favore o meno dell'opinione pubblica. L'utilità positiva di questo dibattito può dunque consistere in questa domanda. Può la Camera e deve la Camera dare al Governo di oggi o a quello eventuale di domani una linea direttiva per raggiungere gli obbiettivi che stanno sul labbro di tutti e cioè la restaurazione dell'autorità dello Stato e la pacificazione interna?
Io vorrei che a proposito della crisi italiana non si esagerasse. Prima di tutto gli altri popoli non stanno meglio di noi. Si dice da varie parti che la Germania sta riprendendosi energicamente e può essere vero sotto un certo punto di vista economico ma la Germania è però percorsa da una crisi morale acutissima.
Del resto in Italia questa lotta di fazioni è limitata a delle esigue minoranze di fronte a una massa imponente di popolazione. Ci sono delle provincie dove risse civili non ce ne sono mai state; ci sono delle provincie dove queste ci sono state ma dove si sono ripristinate le condizioni del vivere civile; ci sono provincie dove la lotta infuria ancora. Se fosse concesso tirare due linee per individuare geograficamente la situazione una linea andrebbe da Livorno ad Ancona e l'altra potrebbe essere data dalla Valle del Po. Ora domandiamoci: la situazione dall'agosto ad oggi è migliorata? È peggiorata? È stazionaria?
Ritengo che i punti neri della situazione siano il deficit finanziario la disoccupazione e il caro-viveri; elementi favorevoli della situazione sono da considerare lo stato d'animo delle masse operaie e la situazione dei diversi partiti così detti sovversivi. È innegabile che il proletariato italiano si trova in un periodo che io chiamerei di sbandamento morale non già per l'azione più o meno violenta del fascismo ma per il crollo di tutta la ideologia che aveva alimentato potentemente gli entusiasmi del dopo guerra. D'altra parte i partiti sovversivi sono in fiero contrasto fra di loro ed io che seguo attentamente la letteratura così detta sovversiva ho motivo di rallegrare il mio spirito quando per esempio vedo i comunisti che definiscono il partito socialista come un circo Barnum. Per loro Serrati è un politicante qualunque; ma sono così privi di religione questi comunisti cerebrali di Torino e di Roma che non rispettano nemmeno gli idoli ed i santoni del sovversivismo italiano. Per loro per esempio Enrico Malatesta questo spauracchio di tutta la borghesia è un fanciullino che legge romanzi polizieschi Luigi Fabbri un teologo di villaggio Armando Borghi un buffone che non sa ridere e non fa ridere: dal canto loro gli anarchici definiscono il direttore dell'Ordine Nuovo un finto stupido finto veramente perché si tratta di un sardo gobbo e professore di economia e filosofia di un cervello indubbiamente potente.
In questa situazione la borghesia italiana deve essere straordinariamente intelligente non deve cioè irrigidirsi in posizioni di non necessaria intransigenza classista e meno ancora pensare di respingere le masse laboriose della Nazione in condizioni di vita sorpassate la quale cosa non potrebbe essere mai tollerata dal fascismo italiano.
Quando la Camera aggiornò i suoi lavori mi pare nell'agosto il ministro Bonomi ebbe un duplice viatico un viatico di voti una enorme maggioranza come non si poteva nemmeno sognare e il trattato di pacificazione. Io credo che l'onorevole Bonomi non si sia fatto illusioni sulla reale efficienza di quel voto di maggioranza.
Quanto al trattato di pacificazione io devo farne parola perché molto se n'è discusso in questi giorni. Il trattato di pacificazione fu voluto indubbiamente da uomini di nobile sentire preoccupati delle condizioni nelle quali la Nazione si trovava in quel periodo di tempo. Ma devo riconoscere che il merito precipuo della stipulazione di questo famoso e famigerato trattato deve essere assegnato al Presidente della Camera: egli fu di una abilità portentosa per superare tutti gli ostacoli procedurali e di sostanza perché fino all'ultimo momento quando già si trattava della firma l'onorevole Musatti sollevò le ultime eccezioni; furono trattative lunghissime estenuanti non se ne poteva più; e d'altra parte la coscienza nazionale reclamava energicamente un atto un gesto un qualche cosa che significasse volontà di pace.
Così venne alla luce il famoso trattato. Il quale ha dato quello che poteva dare.
Tutti dobbiamo riconoscere in questa Camera che da allora le spedizioni punitive fasciste in grande stile come quella di Sarzana come quella di Treviso come quella di Viterbo non si sono più verificate.
D'altra parte s'è visto che il Governo con le sue misure di semplice polizia non ha potuto e non ha saputo fronteggiare la situazione.
I comunisti erano al di fuori del trattato ma i socialisti non erano in buona fede quando lo firmarono e lo hanno dimostrato con una similitudine curiosa; paragonando cioè il loro partito al galantuomo assalito da furfanti: il galantuomo consegna la pelliccia salvo l'indomani a far arrestare e fucilare i furfanti stessi!
Non è vero onorevole Ferri che quelle giornate di Roma siano la conseguenza della denunzia del trattato di pacificazione. Non è vero. Non è vero dal punto di vista cronologico perché il trattato di pacificazione è stato formalmente denunziato all'indomani delle giornate di Roma.
Ma a proposito di queste giornate bisogna dire qui una parola di obbiettiva sincerità. Io riconosco subito che il fascismo nelle sue masse nelle sue masse profonde non era preparato politicamente a conquistare le simpatie di Roma e non era preparato nemmeno moralmente. (Commenti rumori).
È ridicolo e significa dar prova d'incomprensione dei fenomeni storici attribuire al fascismo italiano una specie di profanazione della storia e della gloria della capitale.
Noi fascisti unici fra tutti i partiti italiani abbiamo scelto giornata di festa il 21 aprile annuale della fondazione di Roma; noi per tutta la nostra forma mentis per tutto il nostro stile siamo degli esaltatori di tutto ciò che è romano. Non voglio qui esaltare Roma perché poeti filosofi pensatori prima di me e in modo magnifico lo hanno fatto; ma noi fascisti non possiamo dimenticare che Roma questo piccolo territorio è stato una volta il centro il cervello il cuore dell'impero; non possiamo dimenticare nemmeno che a Roma su questo breve spazio di suolo si è realizzato uno dei miracoli religiosi della storia per cui una idea che avrebbe dovuto distruggere la grande forza di Roma è stata da Roma assimilata e convertita in dottrina della sua grandezza.
Per tutto questo noi senza contare le nostre reminiscenze letterarie senza contare Carducci e d'Annunzio noi siamo degli ammiratori degli esaltatori di Roma ed io in particolar modo insorgo e protesto contro certe manie provinciali perché la storia è stata sempre fatta dalle grandi città. Può qualche volta la storia finire in un piccolo villaggio ma è concesso soltanto alle grandi agglomerazioni umane alle grandi città di determinare gli eventi capitali della storia.
C'è stato un fenomeno di incomprensione tra i fascisti e la popolazione romana e sono così sincero da ammettere che la simbologia fascista pittoresca se si vuole (commenti a sinistra) ma ricordante troppo da vicino i simboli della fase estrema della guerra abbia urtato una popolazione come quella di Roma che è fondamentalmente edonistica cioè portata a vivere tranquillamente la propria giornata con una psicologia speciale dovuta al fatto che sulle mura di Roma si sono abbattute orde e civiltà di tutti i tempi.
I fascisti credevano che il popolo di Roma fosse loro contrario; viceversa il popolo romano credeva che i fascisti fossero venuti a Roma per fare chi sa quale mai fantastica spedizione punitiva.
Io ricordo che nel discorso dell'Augusteo dissi ai fascisti parole durissime come forse non ne poteva dire nemmeno un socialista; dissi che era eccessivo il saluto ai gagliardetti; ma vi faccio considerare che le fedi che sorgono sono necessariamente intransigenti mentre sono transigentissime le fedi che declinano e muoiono. (Approvazioni a destra).
Ed anche a proposito dell'Augusteo pareva che esso fosse stato schiantato dalle fondamenta. I danni verificati minuziosamente si riducono a 18.000 lire e quando voi considerate le condizioni eccezionali del momento non sono eccessivi.
Sono così obiettivo da riconoscere che l'atteggiamento del Governo in quell'occasione può essere giustificato fino al giovedì sera. Il Governo tollerando lo sciopero generale non poté infierire sui fascisti e viceversa ma il giovedì sera la situazione era mutata. Giovedì sera partirono i primi cinquecento operai fascisti del grossetano. Il Governo ha portato per quattro giorni sulle sue braccia uno sciopero generale che doveva essere fronteggiato fin dal giovedì sera e solo domenica mattina e lunedì mattina si è ricordato che esiste un famoso articolo 56 che era applicabile ai ferrovieri scioperanti.
Molto si è gridato contro i danni dell'Augusteo che assommano a 18.000 lire ma dei milioni di danni che lo sciopero dei ferrovieri romani e napoletani ha recato alla Nazione intera nessuno ha parlato. (Applausi a destra interruzioni all'estrema sinistra).
È stato denunciato il trattato di pacificazione e qui l'onorevole Dugoni è venuto con voce melodrammatica a gridare: Non si vive più! È verissimo. Io voglio immediatamente associarmi all'affermazione dell'onorevole Dugoni: non si vive più!
Noto che molti dei fascisti uccisi sono proletari. (Commenti). Ricordo che il giorno in cui a Trieste cadeva ucciso il povero Muller a Castel S. Pietro cadeva ucciso Ravaglia Remo che non era un pescecane non era uno sfruttatore del proletariato ma un popolano fascista. E l'altro giorno a Bologna è morta una seconda vittima dell'agguato social-comunista di Castel S. Pietro Barnabei Giuseppe proletario tanto proletario che ha lasciato la moglie e cinque figliuoli.
Ebbene leggendo le parole pronunziate da quell'umile proletario mentre stava per morire ho ripensato ad un periodo di un libro di Maeterlinck il poeta belga sulla saggezza e il destino. Dice il sommo poeta belga che il destino concede a tutti gli uomini siano essi grandi o piccini intelligenti o no di compiere durante la loro vita un gesto di grandezza di pronunziare una parola di grandezza.
Ebbene quell'umile proletario dopo essere stato confortato dalla religione ha chiamato il padre e ha detto: «Hanno fatto male lassù a ferirmi ma perdono loro». Voi sentite nelle parole estreme di questo oscuro bracciante qualche cosa che ricorda l'invocazione del Cristo che crocefisso perdonò i crocefissori. (Commenti). E veniamo ai fatti di Trieste. Io ho deplorato il fatto apertissimamente e lo deploro ancora oggi. Ma mi sono opposto e mi oppongo alla speculazione che su questo cadavere è stata inscenata dai social-comunisti in malafede perché tra l'altro il Muller non era comunista non era socialista. (Commenti). Aveva nelle tasche una tessera della Società generale liberale Triestina una della Società operaia e una della Lega Nazionale. Non solo. E qui la tragedia raggiunge veramente dei confini che stanno fra il sanguinoso e il grottesco: questo ucciso durante le ultime elezioni avrebbe lavorato per il blocco nazionale e avrebbe dato il voto preferenziale all'onorevole Giunta! (Commenti).
Voi vi siete afferrati a questo cadavere e ci avete speculato ed avete dimenticato quello di Castel S. Pietro ed avete negato a noi ogni sincerità di umanità e di partito!
Signori io mi ricordo che quando si metteva in dubbio la vostra sincerità a proposito della vostra deplorazione dopo gli eccidi del Diana voi protestavate con voce indignatissima. Noi vi chiediamo la reciprocità. Dovete credere alla nostra sincerità. Delitti come quelli di Trieste non danneggiano la compagine interna del comunismo che in modo appena percettibile ma non giovano nemmeno al fascismo perché non è nella linea di questa tragica altalena che si può trovare utilità da alcuna parte.
Noi dunque almeno dal punto di vista politico siamo sincerissimi quando deploriamo altamente episodi come quelli di Trieste. (Commenti).
Ma è proprio il caso di dire salus ex inimicis nostris. Voi avete risposto ai fatti di Trieste con uno sciopero tipografico generale. Io ho spazzato il vostro sciopero. Questo vi dimostra che i tipografi non sono tutti con voi. Non solo ma annunzio che tutte le volte che vi sarà uno sciopero politico al quale aderiranno i tipografi il Popolo d'Italia uscirà egualmente! (Applausi all'estrema destra rumori all'estrema sinistra).
Non ricadete nello stesso errore di stancheggiare la massa operaia con una serie di scioperi... (Approvazioni rumori all'estrema sinistra).
I socialisti ufficiali italiani hanno ormai tagliato tutti i rapporti con la Terza Internazionale. Non mi rivolgo a loro quindi in questo momento ma ai comunisti quando contesto loro il diritto di lagnarsi di certi eccessi di certe violenze compiute dai fascisti. Voi comunisti avete nella vostra tattica nella vostra dottrina l'esercizio del terrore. Anche oggi in Russia si continua a fucilare su tutta la linea. Sessanta persone sono state fucilate a Pietrogrado e sessantatré a Odessa. (Applausi a destra commenti rumori all'estrema sinistra).
Voi dite che queste sono opinioni di un giornalista venduto alla vile borghesia; ma allora io vi prego di leggere gli scritti di un noto anarchico di Luigi Fabbri il quale racconta sul suo quotidiano che a Pietrogrado si è fucilato un anarchico reo di avere avuto un momentaneo contatto con un agente provocatore della Ceka che sarebbe la polizia russa attuale. (Rumori all'estrema sinistra commenti).
Del resto quando vi ponete sopra il terreno della forza (e la forza fatalmente ha degli episodi di violenza) non siete più in grado non avete il diritto di lagnarvi se il fascismo vi attacca. (Vivi rumori all'estrema sinistra).
Onorevole Bonomi vi si chiedeva una politica: voi ci avete dato una politica frammentaria incoerente acefala. Io non nego per esempio che l'onorevole Vacirca abbia delle doti per essere un eccellente questore socialista perché egli sa che si poteva impedire l'agglomeramento dei fascisti in Roma sia impedendo la loro partenza sia impedendo il loro arrivo. (Rumori all'estrema sinistra ilarità). Ora l'onorevole Bonomi davanti a questa situazione aveva a mio avviso tre atteggiamenti diversi da prendere.
Tentare di schiacciare le due opposte fazioni. Dichiaro subito che per quello che riguarda noi è assai difficile; ed aggiungo che la cosa non è scevra di pericoli perché domani e fascisti e comunisti sottoposti quotidianamente ad un martellamento di polizia potrebbero finire anche per intendersi... (Ilarità applausi all'estrema sinistra commenti) salvo a conflittare energicamente dopo per la ripartizione del bottino (commenti) anche perché io riconosco che fra noi ed i comunisti non di sono affinità politiche ma ci sono affinità intellettuali. (Commenti).
Noi come voi riteniamo che sia necessario uno Stato accentratore ed unitario che imponga a tutti i singoli una ferrea disciplina; con questa differenza che voi giungete a questa conclusione attraverso il concetto di classe e noi ci giungiamo attraverso il concetto di nazione.
Il Governo dell'onorevole Bonomi poteva appoggiarsi all'una delle frazioni per distruggere l'altra: non ha scelto questo secondo sistema e ha preferito invece di vivacchiare alla giornata di dare ragione un po' a tutti di credere che una crisi politica così profonda come quella che ci travaglia possa essere risoluta attraverso a semplici difformi ed incoerenti misure di polizia.
Ammessa dunque l'esistenza di una crisi che non si è aggravata ma non segna nemmeno un accorciamento del nostro periodo di convalescenza la soluzione quale può essere?
Io qui comincio a parlare più da spettatore che da attore. Ci potrebbe essere una soluzione extra-parlamentare un Gabinetto di funzionari e di tecnici l'aggiornamento della Camera la dittatura militare. (Vivaci commenti all'estrema sinistra).
Io non mi sono mai lasciato convincere da queste sirene non ho mai creduto a queste suggestioni anche se venivano da generali a spasso che credono di avere la ricetta specifica con cui si salva il mondo; ed anche perché la carta della dittatura è una carta grossa che si giuoca una volta sola che impone dei rischi terribili e giuocata una volta non si giuoca più.
C'è un'altra soluzione: l'appello al Paese le nuove elezioni generali. (Si ride commenti).
Io so che voi siete sicuri del vostro corpo elettorale ma non credo di andare errato dicendo che la sola eventualità lanciata così a scopo di polemica di nuove elezioni vi dà un leggiero brivido lungo il filo della schiena. (Commenti interruzioni all'estrema sinistra). Si tratterebbe dunque di provare con un terzo esperimento che il suffragio universale integrato dal sistema proporzionale con scrutinio di lista non può dare Governo diverso dall'attuale che cioè non può essere possibile un Governo di partito ma s'impone un Governo di coalizione. Escluse queste eventualità occorre vedere se il crogiuolo di Montecitorio offra possibilità nuove.
Vi dico subito che non c'è nulla nel paese che denoti la volontà in questo momento di crisi ministeriale. (Commenti). Il Paese nei suoi strati profondi nelle sue moltitudini laboriose quelle che infine formano la base della Nazione è stanco ha bisogno di quiete e tranquillità. (Commenti).
Questa Camera può prendere una iniziativa del genere? Prima di tutto con quali uomini?
Si fa il nome dell'onorevole Nitti. Noi siamo avversari tenacissimi di quest'uomo. Siamo contrari a tutta la sua politica e soprattutto ad una sua mentalità che lo induce a misurare tutto il complesso fenomeno della storia umana sotto la specie del lato economista. (Commenti). Nitti dunque è da escludere in questo momento. D'altra parte dopo le sassate che l'onorevole Labriola tirò nella piccionaia della democrazia unitaria ci si domanda se questa non dovrà avere un primo esodo degli elementi nittiani perché l'uomo che l'onorevole Labriola voleva colpire era l'onorevole Nitti.
L'onorevole Giolitti? Verso questo statista convergono sempre delle grandi simpatie. Del resto la storia è una successione di posizioni logiche e sentimentali; non si rimane sempre fissi nell'eterno amore o nell'eterno rancore. La vita è un continuo riconquistarsi. Gli amici di ieri diventano i nemici del domani e viceversa: questa è la vita. (Commenti). E voi dovete pensare al portato del relativismo o delle teorie di moda. Ciò è vero anche prescindendo da Einstein che è un'intelligenza superiore.
Non è mia volontà parlare dell'onorevole De Nicola. Quest'uomo piacendo a tutti corre il rischio di dispiacere a tutti domani. (Ilarità commenti).
La situazione politica non è veramente cambiata. Si aspettavano i congressi dei grandi partiti e ci sono stati. La situazione poteva esser data da un atteggiamento transigente di collaborazione del partito socialista; ha trionfato invece la tesi della intransigenza sia pure formale.
La novità poteva essere data da un atteggiamento del partito popolare cioè da un atteggiamento anticollaborazionista. Ma il partito popolare è un partito di pragmatisti fenomenali che fanno la storia giorno per giorno: relativisti avant les lettres che non hanno nemmeno lo scrupolo di collaborare con la massoneria che non hanno nemmeno lo scrupolo di collaborare coi socialisti e forse nemmeno con noi purché sia dato a loro una quota parte abbondante del bottino ministeriale. (Ilarità).
Dopo le elezioni io lanciai la candidatura dell'onorevole Meda obbedendo a una logica di buon senso. Io dicevo l'unico partito forte non solo nel Parlamento ma nel Paese forte per tradizioni politiche morali religiose e anche per la sua costituzione organica di partito è il partito popolare. È il più numeroso che ci sia alla Camera: ha 107 deputati. Siccome il partito popolare non si ritira mai sull'Aventino ed è collaborazionista per definizione è naturale che all'onorevole Meda tocchi logicamente il posto di presidente del Consiglio. Ma anche l'onorevole Meda pare che non voglia saperne ragione per cui noi siamo ridotti al Ministero dell'onorevole Bonomi il quale non è un Ministero di forza ma è un Ministero di comodo (commenti) cioè il Ministero che tutti accettano apertamente ma che intimamente tutti sopportano.
L'iniziativa di una crisi non viene dunque dal Paese e non può venire per la situazione immutata dei partiti nemmeno dei partiti più forti che siano alla Camera. Il partito socialista continua a rimanere sull'Aventino. C'è la democrazia sociale-liberale che chiameremo unitaria a scopo di brevità dei nostri nominalismi politici. La democrazia unitaria non può prendere essa stessa l'iniziativa di una crisi perché rivelerebbe troppo apertamente il suo giuoco. Il pubblico direbbe: siete appena nati avete appena messi i denti e avete un appetito così formidabile? (Commenti ilarità).
La novità poteva essere data da un atteggiamento del partito popolare cioè da un atteggiamento anticollaborazionista. Ma il partito popolare è un partito di pragmatisti fenomenali che fanno la storia giorno per giorno: relativisti avant les lettres che non hanno nemmeno lo scrupolo di collaborare con la massoneria che non hanno nemmeno lo scrupolo di collaborare coi socialisti e forse nemmeno con noi purché sia dato a loro una quota parte abbondante del bottino ministeriale. (Ilarità).
Dopo le elezioni io lanciai la candidatura dell'onorevole Meda obbedendo a una logica di buon senso. Io dicevo l'unico partito forte non solo nel Parlamento ma nel Paese forte per tradizioni politiche morali religiose e anche per la sua costituzione organica di partito è il partito popolare. È il più numeroso che ci sia alla Camera: ha 107 deputati. Siccome il partito popolare non si ritira mai sull'Aventino ed è collaborazionista per definizione è naturale che all'onorevole Meda tocchi logicamente il posto di presidente del Consiglio. Ma anche l'onorevole Meda pare che non voglia saperne ragione per cui noi siamo ridotti al Ministero dell'onorevole Bonomi il quale non è un Ministero di forza ma è un Ministero di comodo (commenti) cioè il Ministero che tutti accettano apertamente ma che intimamente tutti sopportano.
L'iniziativa di una crisi non viene dunque dal Paese e non può venire per la situazione immutata dei partiti nemmeno dei partiti più forti che siano alla Camera. Il partito socialista continua a rimanere sull'Aventino. C'è la democrazia sociale-liberale che chiameremo unitaria a scopo di brevità dei nostri nominalismi politici. La democrazia unitaria non può prendere essa stessa l'iniziativa di una crisi perché rivelerebbe troppo apertamente il suo giuoco. Il pubblico direbbe: siete appena nati avete appena messi i denti e avete un appetito così formidabile? (Commenti ilarità).
E allora signori per uno di quei paradossi che non sono nuovi nella storia degli individui e dei popoli e specialmente nella storia dei parlamenti l'iniziativa di una crisi potrebbe partire dal Ministero stesso o meglio dai ministri democratici del Gabinetto Bonomi i quali parodiando Leopardi potrebbero dire alla loro democrazia: «-il seggio che mi desti ecco ti rendo!-». (Ilarità). Ma non credo e me ne appello al mio amico onorevole Gasparotto non credo ci siano tra i componenti del Gabinetto attuale delle intenzioni così manifestamente suicide. (Ilarità).
E allora la situazione come vi dicevo è per se stessa per sua definizione statica. Non ci potrà essere una nuova combinazione ministeriale se non quando i socialisti si decideranno a spezzare il cerchio della loro intransigenza puramente formale; sino a quando la democrazia unitaria non avrà dato a se stessa un contenuto programmatico e una disciplina che sino a oggi è totalmente mancata.
Noi votiamo contro il Ministero non per determinare delle crisi perché noi siamo estranei a questo giuoco per la nostra stessa posizione politica. Lo faremo per dovere di coscienza. E avrei finito onorevoli colleghi se non dovessi rispondere qualcosa all'onorevole Ferri che è stato assai temperato nel suo discorso.
Veramente non è il caso di intraprendere una discussione sul positivismo e sullo spiritualismo e io non presumo di essere depositario di una verità qualsiasi; ma quando l'onorevole Enrico Ferri parlava di trapassi di civiltà enunciava una proposizione esclusiva mi pareva di sentire la voce dei tempi lontani come talvolta accade che il rombo dell'onda marina si oda ancora nel cavo di una vecchia conchiglia abbandonata sopra un vecchio mobile di casa. (Ilarità).
Noi non ci intendiamo su questo terreno; voi socialisti siete testimoni che io non sono mai stato positivista mai nemmeno quando ero nel vostro partito. Non solo per noi non esiste un dualismo fra materia e spirito ma noi abbiamo annullato questa antitesi nella sintesi dello spirito. Lo spirito solo esiste nient'altro esiste; né voi né quest'aula né le cose e gli oggetti che passano nella cinematografia fantastica dell'universo il quale esiste in quanto io lo penso e solo nel mio pensiero non indipendentemente dal mio pensiero. (Rumori). È l'anima signori che è ritornata.
Ora se voi partite da queste premesse spirituali allora vi sono di quelli i quali non vogliono capire che il fascismo non è più un fenomeno passeggero ma è un fenomeno che durerà si trasformerà. Io lotto per trasformarlo.
Perché qualche volta voi utilizzate quello che io vado dicendo contro gli stessi amici come io utilizzo quello che dicono i comunisti contro gli anarchici e gli anarchici contro i comunisti.
E voi non volendo comprendere questo fenomeno ed essendo incapaci di battervi sul terreno pratico per una ragione che io ho già esposto perché il vostro materiale umano è inefficiente sul terreno della violenza allora voi con una contraddizione palese formidabile dite: dateci un Governo che sarebbe un Governo borghese ristabilite l'impero della legge voi vi spiegherete certi aspetti apparentemente paradossali del fascismo italiano.
Vi si può dividere in due categorie di fronte al fascismo: alcuni di voi sono nella posizione del perfetto misoneista. (Bravo!). Tutte le mattine vi alzate e domandate: è finito? Non è finito! Passa questo ciclone? Non passa! E allora negate ostinatamente come il medico aristotelico nel «Dialogo dei massimi sistemi» che negava la circolazione del sangue pure dovendola ammettere perché la prova la ammetteva.
Ma pur senza disturbare le grandi ombre dei trapassati c'è qualche cosa di recente che può darci qualche spiegazione di questa vostra cecità.
Quando nel 1873 sorse il partito operaio a Milano lo stesso identico atteggiamento che voi tenete di fronte al fascismo fu tenuto dagli uomini della democrazia. Ettore Croce Cavallotti Romussi che erano dei grandi ingegni non potevano concepire il sorgere di questa nuova forza destinata a spostare l'asse della lotta civile a mutare la posizione di predominio politico e morale della democrazia.
Ripeto voi ricorrete all'ausilio del Governo chiedete protezione alla forza di un Governo che è Governo borghese e non sapete uscire da questa contraddizione in cui si annulla tutto il vostro programma. (Interruzioni all'estrema sinistra vivi commenti).
Giunto al fine del mio discorso io pongo il dilemma: o pacificazione o guerra civile. L'onorevole Dugoni deve scegliere uno dei corni di questo dilemma e deve dire se sceglie il primo o il secondo.
Noi ci sentiamo così forti che non abbiamo esitazione su questo terreno. Io vi rispondo subito che noi accettiamo il primo corno del dilemma la pacificazione (commenti) per delle ragioni umane o signori perché i morti sono pesanti per tutti (approvazioni) e anche per ragioni politiche.
Io ho l'impressione notate potrei sbagliarmi che la coscienza europea vada ritrovando faticosamente se stessa dopo i lunghi erramenti del dopo guerra e che ritorni sulla strada della saggezza. I sintomi abbondano. Ho l'impressione che il 1922 possa essere un anno fatidico come lo fu il 1914 che segnò lo scoppio della guerra mondiale come lo fu il 1918 che segnò la fine delle ostilità. Forse il 1922 vedrà l'altra fine con la revisione di tutti i trattati di pace che non hanno dato e non potevano dare sotto la mentalità di guerra la pace al mondo. (Commenti).
L'Italia ha già una parte assai grande nella determinazione dei nuovi destini del mondo. È necessario che cessi il nostro guerreggiare interno in modo che l'attenzione dei nostri circoli dirigenti e dell'opinione pubblica del popolo italiano nel suo complesso sia portata oltre le frontiere e concentrata su quegli avvenimenti che maturano e che sono destinati a trasformare ancora una volta la carta europea.
Perché il dilemma è questo: o una nuova guerra o la revisione dei trattati! (Benissimo! Rumori commenti).
Io ricordo che nel 1919 fra i postulati del programma dei Fasci di Combattimento era detto chiaramente che si dovessero rivedere tutti quei trattati che contenessero in sé il fomite di nuove guerre.
Ora siccome le popolazioni esaurite stremate sfinite che vogliono vivere (oramai a mio avviso il pericolo della catastrofe per la nostra civiltà è superato) non possono pensare alla guerra e devono premunirsi dalle guerre ciò potrà essere dato solo dalla revisione dei trattati di pace.
È necessario allora che l'Italia si presenti nell'arringo delle Nazioni unita compatta libera dai fastidi d'ordine interno in modo che possa dimostrare al mondo che ci guarda perché ormai la nostra vita non è nazionale e nemmeno europea ma mondiale che l'Italia ha splendidamente superato la prova della guerra che vuole la pace e che dimostra con ciò di essere in grado di iniziare il quarto e più luminoso periodo della sua storia. (Vivissimi applausi a destra rumori all'estrema sinistra commenti molte congratulazioni).
Onorevoli colleghi! Ho ascoltato con viva attenzione i discorsi pronunziati in quest'aula dagli onorevoli Ferri Dugoni e in parte dall'onorevole Vacirca. Ho ascoltato pure con vivo interesse il discorso dell'onorevole Graziadei e ho notato che il suo metodo polemico non cambia per volgere di stagione; egli cioè ci presenta due Graziadei: uno che è lo studioso e un altro che è oggi il comunista. Ma ascoltando appunto i discorsi degli onorevoli Ferri e Dugoni io mi sono posto questo quesito se cioè la discussione che dura da tre giorni abbia un'utilità qualsiasi.
Mi aspettavo da quei banchi dei discorsi che fossero per forma e per contenuto in relazione al testo più estremista della mozione. Ma l'onorevole Ferri e l'onorevole Dugoni invece di sparare con le grosse artiglierie dell'intransigenza classista riaffermata nel congresso di Milano hanno a mio avviso fatto delle salve a scopo puramente dimostrativo dei discorsi dai quali trasparivano evidenti delle nostalgie collaborazioniste che la direzione del partito non può non sconfessare. E se così blandi sono stati questi discorsi ciò significa in realtà che manca la materia del contendere.
Quando l'onorevole Ferri rimprovera all'onorevole Bonomi solo una insufficienza di Governo io non voglio qui precedere l'onorevole Bonomi ma egli può trionfalmente rispondere che qualsiasi uomo a quel banco per quanto possa essere saggio o potente più d'ogni altro sarebbe sempre insufficiente davanti a qualche cosa.
E allora discutiamo se è possibile su l'utilità di questa discussione. Una utilità innegabile si può sintetizzare in questa domanda: il Governo dell'onorevole Bonomi ha fatto quanto poteva e doveva per ristabilire il così detto impero della legge e la pacificazione interna del paese?
Mi permetto di rilevare che non c'è assoluta interdipendenza tra il ripristino dell'autorità statale e la pacificazione interna. Il ripristino dell'autorità statale può contribuire alla pacificazione interna ma alla pacificazione interna devono contribuire altre forze a mio avviso e cioè la disciplina e il controllo dei partiti il favore o meno dell'opinione pubblica. L'utilità positiva di questo dibattito può dunque consistere in questa domanda. Può la Camera e deve la Camera dare al Governo di oggi o a quello eventuale di domani una linea direttiva per raggiungere gli obbiettivi che stanno sul labbro di tutti e cioè la restaurazione dell'autorità dello Stato e la pacificazione interna?
Io vorrei che a proposito della crisi italiana non si esagerasse. Prima di tutto gli altri popoli non stanno meglio di noi. Si dice da varie parti che la Germania sta riprendendosi energicamente e può essere vero sotto un certo punto di vista economico ma la Germania è però percorsa da una crisi morale acutissima.
Del resto in Italia questa lotta di fazioni è limitata a delle esigue minoranze di fronte a una massa imponente di popolazione. Ci sono delle provincie dove risse civili non ce ne sono mai state; ci sono delle provincie dove queste ci sono state ma dove si sono ripristinate le condizioni del vivere civile; ci sono provincie dove la lotta infuria ancora. Se fosse concesso tirare due linee per individuare geograficamente la situazione una linea andrebbe da Livorno ad Ancona e l'altra potrebbe essere data dalla Valle del Po. Ora domandiamoci: la situazione dall'agosto ad oggi è migliorata? È peggiorata? È stazionaria?
Ritengo che i punti neri della situazione siano il deficit finanziario la disoccupazione e il caro-viveri; elementi favorevoli della situazione sono da considerare lo stato d'animo delle masse operaie e la situazione dei diversi partiti così detti sovversivi. È innegabile che il proletariato italiano si trova in un periodo che io chiamerei di sbandamento morale non già per l'azione più o meno violenta del fascismo ma per il crollo di tutta la ideologia che aveva alimentato potentemente gli entusiasmi del dopo guerra. D'altra parte i partiti sovversivi sono in fiero contrasto fra di loro ed io che seguo attentamente la letteratura così detta sovversiva ho motivo di rallegrare il mio spirito quando per esempio vedo i comunisti che definiscono il partito socialista come un circo Barnum. Per loro Serrati è un politicante qualunque; ma sono così privi di religione questi comunisti cerebrali di Torino e di Roma che non rispettano nemmeno gli idoli ed i santoni del sovversivismo italiano. Per loro per esempio Enrico Malatesta questo spauracchio di tutta la borghesia è un fanciullino che legge romanzi polizieschi Luigi Fabbri un teologo di villaggio Armando Borghi un buffone che non sa ridere e non fa ridere: dal canto loro gli anarchici definiscono il direttore dell'Ordine Nuovo un finto stupido finto veramente perché si tratta di un sardo gobbo e professore di economia e filosofia di un cervello indubbiamente potente.
In questa situazione la borghesia italiana deve essere straordinariamente intelligente non deve cioè irrigidirsi in posizioni di non necessaria intransigenza classista e meno ancora pensare di respingere le masse laboriose della Nazione in condizioni di vita sorpassate la quale cosa non potrebbe essere mai tollerata dal fascismo italiano.
Quando la Camera aggiornò i suoi lavori mi pare nell'agosto il ministro Bonomi ebbe un duplice viatico un viatico di voti una enorme maggioranza come non si poteva nemmeno sognare e il trattato di pacificazione. Io credo che l'onorevole Bonomi non si sia fatto illusioni sulla reale efficienza di quel voto di maggioranza.
Quanto al trattato di pacificazione io devo farne parola perché molto se n'è discusso in questi giorni. Il trattato di pacificazione fu voluto indubbiamente da uomini di nobile sentire preoccupati delle condizioni nelle quali la Nazione si trovava in quel periodo di tempo. Ma devo riconoscere che il merito precipuo della stipulazione di questo famoso e famigerato trattato deve essere assegnato al Presidente della Camera: egli fu di una abilità portentosa per superare tutti gli ostacoli procedurali e di sostanza perché fino all'ultimo momento quando già si trattava della firma l'onorevole Musatti sollevò le ultime eccezioni; furono trattative lunghissime estenuanti non se ne poteva più; e d'altra parte la coscienza nazionale reclamava energicamente un atto un gesto un qualche cosa che significasse volontà di pace.
Così venne alla luce il famoso trattato. Il quale ha dato quello che poteva dare.
Tutti dobbiamo riconoscere in questa Camera che da allora le spedizioni punitive fasciste in grande stile come quella di Sarzana come quella di Treviso come quella di Viterbo non si sono più verificate.
D'altra parte s'è visto che il Governo con le sue misure di semplice polizia non ha potuto e non ha saputo fronteggiare la situazione.
I comunisti erano al di fuori del trattato ma i socialisti non erano in buona fede quando lo firmarono e lo hanno dimostrato con una similitudine curiosa; paragonando cioè il loro partito al galantuomo assalito da furfanti: il galantuomo consegna la pelliccia salvo l'indomani a far arrestare e fucilare i furfanti stessi!
Non è vero onorevole Ferri che quelle giornate di Roma siano la conseguenza della denunzia del trattato di pacificazione. Non è vero. Non è vero dal punto di vista cronologico perché il trattato di pacificazione è stato formalmente denunziato all'indomani delle giornate di Roma.
Ma a proposito di queste giornate bisogna dire qui una parola di obbiettiva sincerità. Io riconosco subito che il fascismo nelle sue masse nelle sue masse profonde non era preparato politicamente a conquistare le simpatie di Roma e non era preparato nemmeno moralmente. (Commenti rumori).
È ridicolo e significa dar prova d'incomprensione dei fenomeni storici attribuire al fascismo italiano una specie di profanazione della storia e della gloria della capitale.
Noi fascisti unici fra tutti i partiti italiani abbiamo scelto giornata di festa il 21 aprile annuale della fondazione di Roma; noi per tutta la nostra forma mentis per tutto il nostro stile siamo degli esaltatori di tutto ciò che è romano. Non voglio qui esaltare Roma perché poeti filosofi pensatori prima di me e in modo magnifico lo hanno fatto; ma noi fascisti non possiamo dimenticare che Roma questo piccolo territorio è stato una volta il centro il cervello il cuore dell'impero; non possiamo dimenticare nemmeno che a Roma su questo breve spazio di suolo si è realizzato uno dei miracoli religiosi della storia per cui una idea che avrebbe dovuto distruggere la grande forza di Roma è stata da Roma assimilata e convertita in dottrina della sua grandezza.
Per tutto questo noi senza contare le nostre reminiscenze letterarie senza contare Carducci e d'Annunzio noi siamo degli ammiratori degli esaltatori di Roma ed io in particolar modo insorgo e protesto contro certe manie provinciali perché la storia è stata sempre fatta dalle grandi città. Può qualche volta la storia finire in un piccolo villaggio ma è concesso soltanto alle grandi agglomerazioni umane alle grandi città di determinare gli eventi capitali della storia.
C'è stato un fenomeno di incomprensione tra i fascisti e la popolazione romana e sono così sincero da ammettere che la simbologia fascista pittoresca se si vuole (commenti a sinistra) ma ricordante troppo da vicino i simboli della fase estrema della guerra abbia urtato una popolazione come quella di Roma che è fondamentalmente edonistica cioè portata a vivere tranquillamente la propria giornata con una psicologia speciale dovuta al fatto che sulle mura di Roma si sono abbattute orde e civiltà di tutti i tempi.
I fascisti credevano che il popolo di Roma fosse loro contrario; viceversa il popolo romano credeva che i fascisti fossero venuti a Roma per fare chi sa quale mai fantastica spedizione punitiva.
Io ricordo che nel discorso dell'Augusteo dissi ai fascisti parole durissime come forse non ne poteva dire nemmeno un socialista; dissi che era eccessivo il saluto ai gagliardetti; ma vi faccio considerare che le fedi che sorgono sono necessariamente intransigenti mentre sono transigentissime le fedi che declinano e muoiono. (Approvazioni a destra).
Ed anche a proposito dell'Augusteo pareva che esso fosse stato schiantato dalle fondamenta. I danni verificati minuziosamente si riducono a 18.000 lire e quando voi considerate le condizioni eccezionali del momento non sono eccessivi.
Sono così obiettivo da riconoscere che l'atteggiamento del Governo in quell'occasione può essere giustificato fino al giovedì sera. Il Governo tollerando lo sciopero generale non poté infierire sui fascisti e viceversa ma il giovedì sera la situazione era mutata. Giovedì sera partirono i primi cinquecento operai fascisti del grossetano. Il Governo ha portato per quattro giorni sulle sue braccia uno sciopero generale che doveva essere fronteggiato fin dal giovedì sera e solo domenica mattina e lunedì mattina si è ricordato che esiste un famoso articolo 56 che era applicabile ai ferrovieri scioperanti.
Molto si è gridato contro i danni dell'Augusteo che assommano a 18.000 lire ma dei milioni di danni che lo sciopero dei ferrovieri romani e napoletani ha recato alla Nazione intera nessuno ha parlato. (Applausi a destra interruzioni all'estrema sinistra).
È stato denunciato il trattato di pacificazione e qui l'onorevole Dugoni è venuto con voce melodrammatica a gridare: Non si vive più! È verissimo. Io voglio immediatamente associarmi all'affermazione dell'onorevole Dugoni: non si vive più!
Noto che molti dei fascisti uccisi sono proletari. (Commenti). Ricordo che il giorno in cui a Trieste cadeva ucciso il povero Muller a Castel S. Pietro cadeva ucciso Ravaglia Remo che non era un pescecane non era uno sfruttatore del proletariato ma un popolano fascista. E l'altro giorno a Bologna è morta una seconda vittima dell'agguato social-comunista di Castel S. Pietro Barnabei Giuseppe proletario tanto proletario che ha lasciato la moglie e cinque figliuoli.
Ebbene leggendo le parole pronunziate da quell'umile proletario mentre stava per morire ho ripensato ad un periodo di un libro di Maeterlinck il poeta belga sulla saggezza e il destino. Dice il sommo poeta belga che il destino concede a tutti gli uomini siano essi grandi o piccini intelligenti o no di compiere durante la loro vita un gesto di grandezza di pronunziare una parola di grandezza.
Ebbene quell'umile proletario dopo essere stato confortato dalla religione ha chiamato il padre e ha detto: «Hanno fatto male lassù a ferirmi ma perdono loro». Voi sentite nelle parole estreme di questo oscuro bracciante qualche cosa che ricorda l'invocazione del Cristo che crocefisso perdonò i crocefissori. (Commenti). E veniamo ai fatti di Trieste. Io ho deplorato il fatto apertissimamente e lo deploro ancora oggi. Ma mi sono opposto e mi oppongo alla speculazione che su questo cadavere è stata inscenata dai social-comunisti in malafede perché tra l'altro il Muller non era comunista non era socialista. (Commenti). Aveva nelle tasche una tessera della Società generale liberale Triestina una della Società operaia e una della Lega Nazionale. Non solo. E qui la tragedia raggiunge veramente dei confini che stanno fra il sanguinoso e il grottesco: questo ucciso durante le ultime elezioni avrebbe lavorato per il blocco nazionale e avrebbe dato il voto preferenziale all'onorevole Giunta! (Commenti).
Voi vi siete afferrati a questo cadavere e ci avete speculato ed avete dimenticato quello di Castel S. Pietro ed avete negato a noi ogni sincerità di umanità e di partito!
Signori io mi ricordo che quando si metteva in dubbio la vostra sincerità a proposito della vostra deplorazione dopo gli eccidi del Diana voi protestavate con voce indignatissima. Noi vi chiediamo la reciprocità. Dovete credere alla nostra sincerità. Delitti come quelli di Trieste non danneggiano la compagine interna del comunismo che in modo appena percettibile ma non giovano nemmeno al fascismo perché non è nella linea di questa tragica altalena che si può trovare utilità da alcuna parte.
Noi dunque almeno dal punto di vista politico siamo sincerissimi quando deploriamo altamente episodi come quelli di Trieste. (Commenti).
Ma è proprio il caso di dire salus ex inimicis nostris. Voi avete risposto ai fatti di Trieste con uno sciopero tipografico generale. Io ho spazzato il vostro sciopero. Questo vi dimostra che i tipografi non sono tutti con voi. Non solo ma annunzio che tutte le volte che vi sarà uno sciopero politico al quale aderiranno i tipografi il Popolo d'Italia uscirà egualmente! (Applausi all'estrema destra rumori all'estrema sinistra).
Non ricadete nello stesso errore di stancheggiare la massa operaia con una serie di scioperi... (Approvazioni rumori all'estrema sinistra).
I socialisti ufficiali italiani hanno ormai tagliato tutti i rapporti con la Terza Internazionale. Non mi rivolgo a loro quindi in questo momento ma ai comunisti quando contesto loro il diritto di lagnarsi di certi eccessi di certe violenze compiute dai fascisti. Voi comunisti avete nella vostra tattica nella vostra dottrina l'esercizio del terrore. Anche oggi in Russia si continua a fucilare su tutta la linea. Sessanta persone sono state fucilate a Pietrogrado e sessantatré a Odessa. (Applausi a destra commenti rumori all'estrema sinistra).
Voi dite che queste sono opinioni di un giornalista venduto alla vile borghesia; ma allora io vi prego di leggere gli scritti di un noto anarchico di Luigi Fabbri il quale racconta sul suo quotidiano che a Pietrogrado si è fucilato un anarchico reo di avere avuto un momentaneo contatto con un agente provocatore della Ceka che sarebbe la polizia russa attuale. (Rumori all'estrema sinistra commenti).
Del resto quando vi ponete sopra il terreno della forza (e la forza fatalmente ha degli episodi di violenza) non siete più in grado non avete il diritto di lagnarvi se il fascismo vi attacca. (Vivi rumori all'estrema sinistra).
Onorevole Bonomi vi si chiedeva una politica: voi ci avete dato una politica frammentaria incoerente acefala. Io non nego per esempio che l'onorevole Vacirca abbia delle doti per essere un eccellente questore socialista perché egli sa che si poteva impedire l'agglomeramento dei fascisti in Roma sia impedendo la loro partenza sia impedendo il loro arrivo. (Rumori all'estrema sinistra ilarità). Ora l'onorevole Bonomi davanti a questa situazione aveva a mio avviso tre atteggiamenti diversi da prendere.
Tentare di schiacciare le due opposte fazioni. Dichiaro subito che per quello che riguarda noi è assai difficile; ed aggiungo che la cosa non è scevra di pericoli perché domani e fascisti e comunisti sottoposti quotidianamente ad un martellamento di polizia potrebbero finire anche per intendersi... (Ilarità applausi all'estrema sinistra commenti) salvo a conflittare energicamente dopo per la ripartizione del bottino (commenti) anche perché io riconosco che fra noi ed i comunisti non di sono affinità politiche ma ci sono affinità intellettuali. (Commenti).
Noi come voi riteniamo che sia necessario uno Stato accentratore ed unitario che imponga a tutti i singoli una ferrea disciplina; con questa differenza che voi giungete a questa conclusione attraverso il concetto di classe e noi ci giungiamo attraverso il concetto di nazione.
Il Governo dell'onorevole Bonomi poteva appoggiarsi all'una delle frazioni per distruggere l'altra: non ha scelto questo secondo sistema e ha preferito invece di vivacchiare alla giornata di dare ragione un po' a tutti di credere che una crisi politica così profonda come quella che ci travaglia possa essere risoluta attraverso a semplici difformi ed incoerenti misure di polizia.
Ammessa dunque l'esistenza di una crisi che non si è aggravata ma non segna nemmeno un accorciamento del nostro periodo di convalescenza la soluzione quale può essere?
Io qui comincio a parlare più da spettatore che da attore. Ci potrebbe essere una soluzione extra-parlamentare un Gabinetto di funzionari e di tecnici l'aggiornamento della Camera la dittatura militare. (Vivaci commenti all'estrema sinistra).
Io non mi sono mai lasciato convincere da queste sirene non ho mai creduto a queste suggestioni anche se venivano da generali a spasso che credono di avere la ricetta specifica con cui si salva il mondo; ed anche perché la carta della dittatura è una carta grossa che si giuoca una volta sola che impone dei rischi terribili e giuocata una volta non si giuoca più.
C'è un'altra soluzione: l'appello al Paese le nuove elezioni generali. (Si ride commenti).
Io so che voi siete sicuri del vostro corpo elettorale ma non credo di andare errato dicendo che la sola eventualità lanciata così a scopo di polemica di nuove elezioni vi dà un leggiero brivido lungo il filo della schiena. (Commenti interruzioni all'estrema sinistra). Si tratterebbe dunque di provare con un terzo esperimento che il suffragio universale integrato dal sistema proporzionale con scrutinio di lista non può dare Governo diverso dall'attuale che cioè non può essere possibile un Governo di partito ma s'impone un Governo di coalizione. Escluse queste eventualità occorre vedere se il crogiuolo di Montecitorio offra possibilità nuove.
Vi dico subito che non c'è nulla nel paese che denoti la volontà in questo momento di crisi ministeriale. (Commenti). Il Paese nei suoi strati profondi nelle sue moltitudini laboriose quelle che infine formano la base della Nazione è stanco ha bisogno di quiete e tranquillità. (Commenti).
Questa Camera può prendere una iniziativa del genere? Prima di tutto con quali uomini?
Si fa il nome dell'onorevole Nitti. Noi siamo avversari tenacissimi di quest'uomo. Siamo contrari a tutta la sua politica e soprattutto ad una sua mentalità che lo induce a misurare tutto il complesso fenomeno della storia umana sotto la specie del lato economista. (Commenti). Nitti dunque è da escludere in questo momento. D'altra parte dopo le sassate che l'onorevole Labriola tirò nella piccionaia della democrazia unitaria ci si domanda se questa non dovrà avere un primo esodo degli elementi nittiani perché l'uomo che l'onorevole Labriola voleva colpire era l'onorevole Nitti.
L'onorevole Giolitti? Verso questo statista convergono sempre delle grandi simpatie. Del resto la storia è una successione di posizioni logiche e sentimentali; non si rimane sempre fissi nell'eterno amore o nell'eterno rancore. La vita è un continuo riconquistarsi. Gli amici di ieri diventano i nemici del domani e viceversa: questa è la vita. (Commenti). E voi dovete pensare al portato del relativismo o delle teorie di moda. Ciò è vero anche prescindendo da Einstein che è un'intelligenza superiore.
Non è mia volontà parlare dell'onorevole De Nicola. Quest'uomo piacendo a tutti corre il rischio di dispiacere a tutti domani. (Ilarità commenti).
La situazione politica non è veramente cambiata. Si aspettavano i congressi dei grandi partiti e ci sono stati. La situazione poteva esser data da un atteggiamento transigente di collaborazione del partito socialista; ha trionfato invece la tesi della intransigenza sia pure formale.
La novità poteva essere data da un atteggiamento del partito popolare cioè da un atteggiamento anticollaborazionista. Ma il partito popolare è un partito di pragmatisti fenomenali che fanno la storia giorno per giorno: relativisti avant les lettres che non hanno nemmeno lo scrupolo di collaborare con la massoneria che non hanno nemmeno lo scrupolo di collaborare coi socialisti e forse nemmeno con noi purché sia dato a loro una quota parte abbondante del bottino ministeriale. (Ilarità).
Dopo le elezioni io lanciai la candidatura dell'onorevole Meda obbedendo a una logica di buon senso. Io dicevo l'unico partito forte non solo nel Parlamento ma nel Paese forte per tradizioni politiche morali religiose e anche per la sua costituzione organica di partito è il partito popolare. È il più numeroso che ci sia alla Camera: ha 107 deputati. Siccome il partito popolare non si ritira mai sull'Aventino ed è collaborazionista per definizione è naturale che all'onorevole Meda tocchi logicamente il posto di presidente del Consiglio. Ma anche l'onorevole Meda pare che non voglia saperne ragione per cui noi siamo ridotti al Ministero dell'onorevole Bonomi il quale non è un Ministero di forza ma è un Ministero di comodo (commenti) cioè il Ministero che tutti accettano apertamente ma che intimamente tutti sopportano.
L'iniziativa di una crisi non viene dunque dal Paese e non può venire per la situazione immutata dei partiti nemmeno dei partiti più forti che siano alla Camera. Il partito socialista continua a rimanere sull'Aventino. C'è la democrazia sociale-liberale che chiameremo unitaria a scopo di brevità dei nostri nominalismi politici. La democrazia unitaria non può prendere essa stessa l'iniziativa di una crisi perché rivelerebbe troppo apertamente il suo giuoco. Il pubblico direbbe: siete appena nati avete appena messi i denti e avete un appetito così formidabile? (Commenti ilarità).
La novità poteva essere data da un atteggiamento del partito popolare cioè da un atteggiamento anticollaborazionista. Ma il partito popolare è un partito di pragmatisti fenomenali che fanno la storia giorno per giorno: relativisti avant les lettres che non hanno nemmeno lo scrupolo di collaborare con la massoneria che non hanno nemmeno lo scrupolo di collaborare coi socialisti e forse nemmeno con noi purché sia dato a loro una quota parte abbondante del bottino ministeriale. (Ilarità).
Dopo le elezioni io lanciai la candidatura dell'onorevole Meda obbedendo a una logica di buon senso. Io dicevo l'unico partito forte non solo nel Parlamento ma nel Paese forte per tradizioni politiche morali religiose e anche per la sua costituzione organica di partito è il partito popolare. È il più numeroso che ci sia alla Camera: ha 107 deputati. Siccome il partito popolare non si ritira mai sull'Aventino ed è collaborazionista per definizione è naturale che all'onorevole Meda tocchi logicamente il posto di presidente del Consiglio. Ma anche l'onorevole Meda pare che non voglia saperne ragione per cui noi siamo ridotti al Ministero dell'onorevole Bonomi il quale non è un Ministero di forza ma è un Ministero di comodo (commenti) cioè il Ministero che tutti accettano apertamente ma che intimamente tutti sopportano.
L'iniziativa di una crisi non viene dunque dal Paese e non può venire per la situazione immutata dei partiti nemmeno dei partiti più forti che siano alla Camera. Il partito socialista continua a rimanere sull'Aventino. C'è la democrazia sociale-liberale che chiameremo unitaria a scopo di brevità dei nostri nominalismi politici. La democrazia unitaria non può prendere essa stessa l'iniziativa di una crisi perché rivelerebbe troppo apertamente il suo giuoco. Il pubblico direbbe: siete appena nati avete appena messi i denti e avete un appetito così formidabile? (Commenti ilarità).
E allora signori per uno di quei paradossi che non sono nuovi nella storia degli individui e dei popoli e specialmente nella storia dei parlamenti l'iniziativa di una crisi potrebbe partire dal Ministero stesso o meglio dai ministri democratici del Gabinetto Bonomi i quali parodiando Leopardi potrebbero dire alla loro democrazia: «-il seggio che mi desti ecco ti rendo!-». (Ilarità). Ma non credo e me ne appello al mio amico onorevole Gasparotto non credo ci siano tra i componenti del Gabinetto attuale delle intenzioni così manifestamente suicide. (Ilarità).
E allora la situazione come vi dicevo è per se stessa per sua definizione statica. Non ci potrà essere una nuova combinazione ministeriale se non quando i socialisti si decideranno a spezzare il cerchio della loro intransigenza puramente formale; sino a quando la democrazia unitaria non avrà dato a se stessa un contenuto programmatico e una disciplina che sino a oggi è totalmente mancata.
Noi votiamo contro il Ministero non per determinare delle crisi perché noi siamo estranei a questo giuoco per la nostra stessa posizione politica. Lo faremo per dovere di coscienza. E avrei finito onorevoli colleghi se non dovessi rispondere qualcosa all'onorevole Ferri che è stato assai temperato nel suo discorso.
Veramente non è il caso di intraprendere una discussione sul positivismo e sullo spiritualismo e io non presumo di essere depositario di una verità qualsiasi; ma quando l'onorevole Enrico Ferri parlava di trapassi di civiltà enunciava una proposizione esclusiva mi pareva di sentire la voce dei tempi lontani come talvolta accade che il rombo dell'onda marina si oda ancora nel cavo di una vecchia conchiglia abbandonata sopra un vecchio mobile di casa. (Ilarità).
Noi non ci intendiamo su questo terreno; voi socialisti siete testimoni che io non sono mai stato positivista mai nemmeno quando ero nel vostro partito. Non solo per noi non esiste un dualismo fra materia e spirito ma noi abbiamo annullato questa antitesi nella sintesi dello spirito. Lo spirito solo esiste nient'altro esiste; né voi né quest'aula né le cose e gli oggetti che passano nella cinematografia fantastica dell'universo il quale esiste in quanto io lo penso e solo nel mio pensiero non indipendentemente dal mio pensiero. (Rumori). È l'anima signori che è ritornata.
Ora se voi partite da queste premesse spirituali allora vi sono di quelli i quali non vogliono capire che il fascismo non è più un fenomeno passeggero ma è un fenomeno che durerà si trasformerà. Io lotto per trasformarlo.
Perché qualche volta voi utilizzate quello che io vado dicendo contro gli stessi amici come io utilizzo quello che dicono i comunisti contro gli anarchici e gli anarchici contro i comunisti.
E voi non volendo comprendere questo fenomeno ed essendo incapaci di battervi sul terreno pratico per una ragione che io ho già esposto perché il vostro materiale umano è inefficiente sul terreno della violenza allora voi con una contraddizione palese formidabile dite: dateci un Governo che sarebbe un Governo borghese ristabilite l'impero della legge voi vi spiegherete certi aspetti apparentemente paradossali del fascismo italiano.
Vi si può dividere in due categorie di fronte al fascismo: alcuni di voi sono nella posizione del perfetto misoneista. (Bravo!). Tutte le mattine vi alzate e domandate: è finito? Non è finito! Passa questo ciclone? Non passa! E allora negate ostinatamente come il medico aristotelico nel «Dialogo dei massimi sistemi» che negava la circolazione del sangue pure dovendola ammettere perché la prova la ammetteva.
Ma pur senza disturbare le grandi ombre dei trapassati c'è qualche cosa di recente che può darci qualche spiegazione di questa vostra cecità.
Quando nel 1873 sorse il partito operaio a Milano lo stesso identico atteggiamento che voi tenete di fronte al fascismo fu tenuto dagli uomini della democrazia. Ettore Croce Cavallotti Romussi che erano dei grandi ingegni non potevano concepire il sorgere di questa nuova forza destinata a spostare l'asse della lotta civile a mutare la posizione di predominio politico e morale della democrazia.
Ripeto voi ricorrete all'ausilio del Governo chiedete protezione alla forza di un Governo che è Governo borghese e non sapete uscire da questa contraddizione in cui si annulla tutto il vostro programma. (Interruzioni all'estrema sinistra vivi commenti).
Giunto al fine del mio discorso io pongo il dilemma: o pacificazione o guerra civile. L'onorevole Dugoni deve scegliere uno dei corni di questo dilemma e deve dire se sceglie il primo o il secondo.
Noi ci sentiamo così forti che non abbiamo esitazione su questo terreno. Io vi rispondo subito che noi accettiamo il primo corno del dilemma la pacificazione (commenti) per delle ragioni umane o signori perché i morti sono pesanti per tutti (approvazioni) e anche per ragioni politiche.
Io ho l'impressione notate potrei sbagliarmi che la coscienza europea vada ritrovando faticosamente se stessa dopo i lunghi erramenti del dopo guerra e che ritorni sulla strada della saggezza. I sintomi abbondano. Ho l'impressione che il 1922 possa essere un anno fatidico come lo fu il 1914 che segnò lo scoppio della guerra mondiale come lo fu il 1918 che segnò la fine delle ostilità. Forse il 1922 vedrà l'altra fine con la revisione di tutti i trattati di pace che non hanno dato e non potevano dare sotto la mentalità di guerra la pace al mondo. (Commenti).
L'Italia ha già una parte assai grande nella determinazione dei nuovi destini del mondo. È necessario che cessi il nostro guerreggiare interno in modo che l'attenzione dei nostri circoli dirigenti e dell'opinione pubblica del popolo italiano nel suo complesso sia portata oltre le frontiere e concentrata su quegli avvenimenti che maturano e che sono destinati a trasformare ancora una volta la carta europea.
Perché il dilemma è questo: o una nuova guerra o la revisione dei trattati! (Benissimo! Rumori commenti).
Io ricordo che nel 1919 fra i postulati del programma dei Fasci di Combattimento era detto chiaramente che si dovessero rivedere tutti quei trattati che contenessero in sé il fomite di nuove guerre.
Ora siccome le popolazioni esaurite stremate sfinite che vogliono vivere (oramai a mio avviso il pericolo della catastrofe per la nostra civiltà è superato) non possono pensare alla guerra e devono premunirsi dalle guerre ciò potrà essere dato solo dalla revisione dei trattati di pace.
È necessario allora che l'Italia si presenti nell'arringo delle Nazioni unita compatta libera dai fastidi d'ordine interno in modo che possa dimostrare al mondo che ci guarda perché ormai la nostra vita non è nazionale e nemmeno europea ma mondiale che l'Italia ha splendidamente superato la prova della guerra che vuole la pace e che dimostra con ciò di essere in grado di iniziare il quarto e più luminoso periodo della sua storia. (Vivissimi applausi a destra rumori all'estrema sinistra commenti molte congratulazioni).
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 22:44 - modificato 2 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Anno - 1922
Roma, 17 febbraio 1922: Mussolini alla Camera interviene sulla mozione presentata dall'on. Celli
Roma, 17 febbraio 1922: Mussolini alla Camera interviene sulla mozione presentata dall'on. Celli
L'on. Celli, un deputato riformista che meschinamente si presto alla manovra parlamentare , preparata in oltre due mesi dagli antifascisti. Tre componenti del parlamento (riformisti, democratici e popolari) avrebbero votato compatti la mozione e il gruppo dei socialisti si sarebbe astenuto. Cosi facendo averebbero isolato le destre avrebbero votato contro la mozione. L'obbiettivo, formare un esecutivo antifascista con in programma un unico punto distruggere il Partito Fascista, prendendo a pretesto il rispetto allo Stato Leggi. Ma la manovra fu prevista e sventata da Mussolini: Egli approvò quelle parti della mozione Celli che parlando d'autorità stataria erano accettabili anche dalle destre. I voti si suddivisero le destre non caddero nel agguato e la mozione ebbe solo il risultato di dare il colpo di grazia al già dimissionario Ministero Bonomi.
Per intendere il discorso pronunciato in quest'occasione alla Camera da Mussolini - nella tornata del 17 febbraio 1922 - è necessario tener presente il testo della mozione Celli che è il seguente:
«-La Camera
«-considerata la necessità di restituire al paese le condizioni indispensabili per la pacifica convivenza delle classi nel rispetto alla libertà di lavoro e di organizzazione nell'obbedienza alla legge;
«-di mettere le classi lavoratrici in grado di assumere sempre più elevata partecipazione e responsabilità nell'andamento delle aziende ed in grado di concorrere con le proprie rappresentanze allo sviluppo della legislazione del lavoro;
«-ritenuto essere la inscindibile unità dei problemi economici dell'Europa assoluta premessa alla sistemazione della vita di tutte le Nazioni ora tormentate e depresse da intransigenti egoismi e da crudeli spogliazioni;
«-approva le dichiarazioni del Governo e passa all'ordine del giorno-».
Bisogna poi tener presente che l'on. Cavazzoni popolare aveva chiesto che le destre si pronunciassero con tre distinte dichiarazioni di voto corrispondenti ai tre gruppi di destra: fascista nazionalista liberale. In seguito a questa richiesta Mussolini prese la parola per il suo gruppo:
Onorevoli colleghi io non so se al termine di questa giornata si possa realmente dire con coscienza tranquilla che le situazioni politiche siano perfettamente chiarite. Ma dal momento che l'onorevole Cavazzoni mi ha quasi personalmente chiamato in causa mi sono deciso a prendere la parola per contribuire a chiarire questa situazione per vedere se è possibile di chiarirla per esaminare se sia possibile non di dare un Ministero alla nazione ma un Governo.
Evidentemente l'onorevole Modigliani afferma sempre più in modo brillante le sue attitudini di stratega del gruppo parlamentare socialista. Siete arrivati all'astensionismo: siete già sulla via della perdizione! (Ilarità).
Ma io richiamo i democratici e i popolari a valutare nella sua concretezza l'apporto collaborazionista del gruppo parlamentare socialista. Non vi porto centoventidue astensioni perché in quel gruppo fanno capo a Maffì Velia ed altri una quarantina che io chiamo — senza intenzione di offendere — selvaggi i quali sono ancora fermi nella posizione della vecchia intransigenza più o meno elettorale e non seguirebbero io credo l'altra parte del gruppo sulla strada del collaborazionismo.
L'ordine del giorno Celli è un ordine del giorno insidioso e contraddittorio: solo attraverso dichiarazioni di voto si possono determinare le posizioni reciproche di fronte a questo ordine del giorno. Noi di quest'ordine del giorno non accettiamo la conclusione cioè non approviamo le dichiarazioni del Governo quindi neghiamo la fiducia al Governo dell'onorevole Bonomi.
Quanto alle premesse conviene intenderci e spiegarci. Dice quest'ordine del giorno: «-La Camera considera la necessità di restituire al Paese le condizioni indispensabili per la pacifica convivenza delle classi». Questo significa se le parole hanno un senso che le classi esistono e nessuno pensa a violentemente sopprimerle; di più che è augurabile che fra queste classi vi sia un regime di pacifica convivenza....
Modigliani. Quindi non la dittatura! (Ilarità commenti).
Mussolini. Vengo anche alla dittatura. Ora io dico ai socialisti: queste parole significano che voi anche attraverso la vostra semplice astensione siete convinti che le classi devono esistere e che fra di esse ci debba essere un regime di pacifica convivenza. (Commenti). Quindi non più tentativi di occupazione delle fabbriche. (Approvazioni a destra commenti a sinistra).
Non più scioperi generali politici; poiché tutto ciò turberebbe quel regime di pacifica convivenza al quale voi stessi date... (Interruzioni commenti).
La libertà del lavoro e delle organizzazioni è un principio che noi accettiamo perché voi sapete — lo sapete benissimo — che a lato del movimento fascista è sorto un movimento sindacale (commenti all'estrema sinistra) e non è possibile reclutare 250.000 organizzati con la violenza. (Rumori vivissimi all'estrema sinistra). Ma c'è di più in quest'ordine del giorno; c'è la necessità dell'obbedienza alla legge di questo Stato di queste istituzioni; alla legge esistente che voi oggi implicitamente riconoscete ed alla quale vi impegnate di obbedire. (Applausi all'estrema destra). È quindi pacifico che almeno 70 dei 122 deputati socialisti pur semplicemente astenendosi entrano con quest'ordine nelle rotaie della legalità monarchica. (Applausi a destra rumori vivissimi all'estrema sinistra).
Noi dichiariamo — e parlo in nome di tutti i gruppi della destra — che voteremo questa prima parte dell'ordine del giorno. (Commenti).
Respingiamo invece la seconda parte dell'ordine del giorno non tanto per quello che dice quanto per ciò che può non dire o sottintendere. Voi sapete che il fascismo già da tre anni ha nel suo programma la costituzione dei Consigli tecnici nazionali; ragione per cui noi non ci opponiamo al secondo capoverso di questa parte dell'ordine del giorno cioè non ci opponiamo a che le rappresentanze dirette del lavoro facciano sentire la loro voce nei consessi del lavoro.
La terza parte dell'ordine del giorno è assai vaga. Qui si rivela veramente la mentalità del riformista Celli e dei riformisti in genere. Noi non abbiamo difficoltà di votare anche questa terza parte dell'ordine del giorno perché là dove si parla di «-nazioni depresse da intransigenti egoismi e da crudeli sperequazioni-» noi comprendiamo in primo luogo la nazione italiana. (Applausi a destra). Ecco perché noi fascisti non ci facciamo illusioni soverchie sui risultati della Conferenza di Genova.
Io non avevo mai assistito a Conferenze internazionali; ma mi è bastata l'esperienza di Cannes per diventare assai scettico sui risultati di queste accademie. Si tratta di vedere con quali mezzi attraverso quali sistemi si può arrivare a ricostruire economicamente l'Europa. Ad ogni modo il Governo che verrà dovrà tener conto che una delle nazioni che soffre di più per queste sperequazioni è l'Italia e per le materie prime e per i cambi.
E anche per le conseguenze politiche di una pace che come quella di Rapallo non ci poteva e non ci doveva accontentare.
Dopo di che io vi dico tranquillamente che dal punto di vista degli interessi della Nazione un esperimento collaborazionista mi atterrisce perché il socialismo dovrebbe largheggiare con la famiglia innumerevole dei suoi clienti; ma quando le casse sono vuote e l'erario è esausto non si può largheggiare se non facendo funzionare la rotativa dei biglietti con l'accrescere quindi la circolazione monetaria e la miseria generale. (Approvazioni a destra interruzioni a sinistra). Ma dal punto di vista dell'interesse del mio partito io non tre vorrei vedere di ministri socialisti in quei banchi ma cinque perché il giorno in cui voi sarete là non potrete mantenere nessuna delle vostre mirabolanti promesse. (Approvazioni a destra interruzioni all'estrema sinistra). E mentre voi fallirete a questo compito avrete alla vostra sinistra i comunisti e gli anarchici i quali approfitteranno largamente del vostro esperimento collaborazionista. Non ritornerete in 122 alla Camera (interruzioni e rumori all'estrema sinistra) se avrete il coraggio di spingere il vostro astensionismo fino alla partecipazione diretta al potere. (Interruzioni e rumori all'estrema sinistra).
Dopo di che io ripeto l'interruzione che ho fatto al discorso dell'onorevole Modigliani: infine tutte queste combinazioni parlamentari ci interessano mediocremente. (Interruzioni a sinistra). Noi siamo pochi qui dentro ma abbiamo delle forze grandissime nel Paese. (Interruzioni e rumori all'estrema sinistra scambio di apostrofi). Ma soprattutto convincetevi che sarebbe la vostra totale rovina una reazione antifascista che partisse dai banchi del Governo.
(Voci all'estrema sinistra). Non vogliamo farla. (Rumori commenti).
Mussolini. Voi non la volete fare adesso ma in pieno Congresso di Milano uno dei vostri dichiarava che avrebbe vestito volentieri la divisa di Guardia regia pur di debellare il fascismo. (Commenti). E il vostro segreto pensiero è questo: valervi dei mezzi delle forze armate che il Governo ha nelle sue mani per schiantare il movimento fascista. Disilludetevi: è tempo che mettiate in applicazione quella famosa mentalità marxista che non vi sorregge più evidentemente! (Rumori interruzioni) Se questa mentalità marxista vi sorreggesse ancora voi capireste che un movimento come quello fascista non è nato nel mio cervello e non si domina con misure di polizia. Tra poco vi convincerete che il movimento fascista corrisponde a una profonda trasformazione economica che si sta verificando nel paese e che tra poco sarà chiara attraverso le luci della statistica.
E giacché indicate la democrazia sappiatelo e lo sappiano anche i democratici che se per democrazia si intende facilonismo irresponsabilità tendenza al compromesso e alla transazione noi siamo recisamente antidemocratici (rumori commenti) e sin da questo momento vi annunciamo che non faremo più blocchi. (Commenti). Anche se la fine dei blocchi dovesse rappresentare una fiera disgrazia elettorale per la democrazia nell'attesa che la democrazia diventi partito. Se la democrazia non è capace di darsi una organizzazione storica nel paese in un paese signori come il nostro fin troppo democratico vuol dire che in Italia la democrazia non [...]
Non c'è da stupirsi se il processo di chiarificazione ha più niente da dire e da fare. (Commenti). politica è così difficile e lento. La situazione politica non è che il riflesso necessario di una situazione mondiale assai confusa ed assai incerta. Ma io penso però che se ognuno qui e fuori di qui avrà il coraggio di essere quello che deve essere se qui e fuori di qui il borghese avrà il coraggio di essere borghese e non falso democratico o falso riformista (applausi a destra rumori a sinistra commenti) le cose andranno molto meglio. Una delle cause di quello che si potrebbe chiamare il malcostume politico italiano sta nel fatto che nessuno ha mai il coraggio di mostrarsi con i suoi propri ed inconfondibili connotati politici. (Ilarità commenti approvazioni).
Vi risparmio data l'ora ogni e qualsiasi perorazione. Combinate o non combinate il Ministero fatelo o non fatelo di sinistra; questo però sia chiaro ad evitare un pericoloso salto nel buio: che non si va contro il fascismo e che non si schiaccia il fascismo. (Applausi a destra congratulazioni rumori all'estrema sinistra commenti).
Roma, 19 luglio 1922: MUSSOLINI pronuncia il suo ultimo discorso dal banco di deputato
Lo scacco subito alla Camera in occasione della mozione Celli non disarmò il gruppo socialista che continuò ad illudersi di poter costituire un ministero di sinistra con un programma esclusivamente antifascista. Al debole ministero Bonomi era succeduto il ministero Facta più debole ancora e senza un programma.
Verso la metà di luglio il ministero Facta è già in crisi; il gruppo socialista torna a propugnare un ministero di sinistra. Nella tornata del 19 luglio l'on. Facta si presenta al giudizio della Camera - e in questa occasione Mussolini pronuncia quello che dovrà essere l'ultimo suo discorso dal banco di deputato. Si è oramai all'ultima fase della lunga e travagliata crisi che prelude alla Marcia su Roma. Nello stesso giorno 19 luglio 1922 cadeva il ministero Facta ma nessuno voleva accettarne l'eredità e - dopo una faticosa serie di vani tentativi - l'on. Facta era costretto a riaccettare l'incarico: il 1° agosto 1922 il suo nuovo ministero malfermo e mal costituito otteneva alla Camera 126 voti di maggioranza.
Onorevoli colleghi! La direzione del partito nazionale fascista ha invitato il gruppo parlamentare fascista a passare all'opposizione cioè a votare contro il Ministero Facta. Io sono sicuro che tutti i miei colleghi deputati fascisti ottempereranno a quest'ordine tassativo. (Commenti).
Le ragioni che ci spingono a questa decisione la quale può avere anche delle ripercussioni in seno a quella che si costuma chiamare la destra nazionale sono ragioni d'ordine squisitamente politico e che prescindono in un certo senso dalla situazione prettamente parlamentare.
In fondo onorevoli colleghi mi pare che sia l'ora di diradare tutti gli equivoci e in questa Camera di equi voci a mio avviso ce ne sono quattro: l'equivoco collaborazionista l'equivoco popolare l'equivoco Facta e l'equivoco fascista. (Commenti).
Cominciamo dall'equivoco collaborazionista. Si tratta di vedere se questa famosa collaborazione sia una vescica piena di vento o un apporto concreto al Governo di domani. Dalle statistiche parlamentari da quel che già si vede si può arguire che la collaborazione socialista oramai può essere definita le nozze con i fichi secchi. (Commenti).
Non sono più di 60 i deputati socialisti disposti a votare per un Ministero che nasca con programmi di antifascismo. Ma questo Ministero onorevoli colleghi si troverebbe domani di fronte non solo alla opposizione fascista ma anche alla opposizione di quel terzo partito socialista che sorgerebbe inevitabilmente dalle assisi di Roma quando i collaborazionisti si presentassero col fatto compiuto.
Ora vi dico brutalmente che abbiamo tutto l'interesse giacché oramai il corso delle cose è fatale e inevitabile che il socialismo si divida sempre più che ne sorgano tre o trenta di partiti socialisti perché dopo essere stato religione dopo essere divenuto chiesa e setta e bottega sarà più facile batterlo diviso che non unito. (Commenti).
Bisogna anche chiarire la posizione del partito popolare il quale è travagliato da una crisi che ha già avuto delle manifestazioni significative anche se non importanti dal punto di vista numerico.
Io non credo che tutto il partito popolare italiano possa seguire il comunismo che è stato definito nero dell'onorevole Miglioli. Io non credo che il mondo cattolico italiano da distinguersi dal partito popolare che è massone (commenti rumori al centro) possa abbracciarsi con quei socialisti che sino a ieri e anche oggi avevano sulla loro bandiera: né Dio né padrone! E poi il partito popolare non può rimanere continuamente nella posizione di fortuna in cui si è trovato fino ad oggi. Il partito popolare fa delle pressioni continue sul Governo che si possono chiamare ricatti. (Interruzioni e commenti al centro). Non ama il partito popolare non ha mai amato e non ha mai sostenuto efficacemente il Gabinetto Facta. Scusate se l'immagine è un poco ordinaria: voi siete dei topi dai denti aguzzi che state nel formaggio ministeriale per divorarcelo. (Applausi a destra ilarità commenti).
Quanto alla democrazia altro equivoco che ho incontrato per la strada si deve dire che anch'essa non è animata dai più accesi entusiasmi per il Governo dell'onorevole Facta.
Finalmente onorevole Facta io vi dico che il vostro Ministero non può vivere perché ciò è indecoroso anche dal semplice punto di vista umano; il vostro Ministero non può vivere o meglio vegetare o meglio ancora trascinare la sua vita in grazia della elemosina di tutti coloro che vi sostengono come la tradizionale corda sostiene il non meno tradizionale impiccato. Del resto le vostre origini sono là ad attestare il carattere del vostro Ministero. Io scommetto che il primo ad essere sorpreso di diventare Presidente del Consiglio siete stato precisamente voi. (Si ride commenti).
Tutti ricordano che alla vigilia della Conferenza di Genova occorreva che l'Italia avesse un Governo qualsiasi: così è sorto il Gabinetto Facta il quale si è messo in una situazione di necessità. Ma noi on. Facta almeno teoricamente abbiamo cercato di superare la contraddizione che ci tormenta tra il volere l'autorità dello Stato e il compiere spesso delle azioni che certamente non aumentano la forza di questa autorità.
Ed io deploro onorevole Facta le misure che avete prese contro i funzionari che rappresentavano il Governo a Cremona; perché quei funzionari hanno seguito le vostre direttive. (Commenti all'estrema sinistra). Se non hanno ordinato di fare fuoco contro i dimostranti fascisti evidentemente è perché voi e giustamente siete contrario ad ogni effusione di sangue. (Approvazioni). Non dovevate soprattutto punire il rappresentante del potere giudiziario a Cremona quando quei funzionari meritavano il vostro plauso.
Ed anche il vostro discorso non può piacere agli uomini che siedono da questa parte della Camera. Il punto centrale del vostro discorso è stato un aspro richiamo alla magistratura un aspro richiamo ai funzionari in genere; con ciò avete dato l'impressione che gli organi esecutivi dell'autorità dello Stato siano insufficienti deficienti o complici di una delle fazioni che lottano attualmente nel Paese. Io devo dire invece che la magistratura italiana è ancora una delle poche gerarchie statali contro le quali sia assai difficile elevare critiche fondate e che non partano da presupposti di ordine personale o di partito. (Approvazioni a destra commenti). E poi il Governo ha l'obbligo di coprire i suoi funzionari di assumere esso le sue responsabilità. Il generale non punisce l'ultimo caporale. (Approvazioni commenti). Ci sono altri elementi di critica contro il Governo Facta da parte nostra e per la politica finanziaria e per la politica estera. D'altra parte la Camera deve prendere atto che il fascismo parlamentare uscendo come fa in questo momento dalla maggioranza compie un gesto di alto pudore politico e morale. Non si può essere parte della maggioranza e nello stesso tempo agire nel paese come il fascismo è costretto per ora ad agire. (Commenti).
Il fascismo risolverà questo suo intimo tormento dirà forse fra poco se vuole essere un partito legalitario cioè un partito di Governo o se vorrà invece essere un partito insurrezionale nel qual caso non potrà più far parte di una qualsiasi maggioranza di Governo ma probabilmente non avrà neppure l'obbligo di sedere in questa Camera. (Vivissimi commenti). Questo che io ho chiamato equivoco fascista sarà risolto dagli organi competenti del nostro partito.
Ora date queste mie dichiarazioni voi comprendete subito che il problema della successione ci preoccupa fino ad un certo punto. Io vi dichiaro con molta schiettezza che nessun Governo si potrà reggere in Italia quando abbia nel suo programma le mitragliatrici contro il fascismo. (Interruzioni commenti applausi a destra). Io non so neanche se questo sarà possibile perché potrebbe darsi anche per uno di quei paradossi assai frequenti nella politica e nella storia che il Gabinetto il quale sorgesse sotto auspici e con origini nettamente antifasciste fosse costretto a fare verso di noi una politica di grande liberalismo (commenti) perché il non farla gli procurerebbe assai maggiori noie. (Commenti).
D'altra parte noi nel paese abbiamo forze molto numerose molto disciplinate molto organizzate. Se da questa crisi uscirà un Governo che risolva il problema assillante angoscioso nell'ora attuale cioè il problema della pacificazione inteso come una normalizzazione dei rapporti fra i diversi partiti noi lo accetteremo con animo lieto e cercheremo di adeguare tutti i nostri gregari alla necessità sentita del resto intimamente da parte della nazione alla necessità di ordine di lavoro e di disciplina. Ma se per avventura da questa crisi che ormai è in atto dovesse uscire un Governo di violenta reazione antifascista prendete atto onorevoli colleghi che noi reagiremo con la massima energia e con la massima inflessibilità. (Commenti). Noi alla reazione risponderemo insorgendo. (Applausi a destra commenti rumori).
Io debbo per debito di lealtà dirvi che dei due casi che vi ho testé prospettati preferisco il primo e per ragioni nazionali e per ragioni umane. Preferisco cioè che il fascismo che è una forza o socialisti che non dovete più ignorare e non dovete nemmeno pensare di distruggere arrivi a partecipare alla vita dello Stato attraverso una saturazione legale attraverso una preparazione alla conquista legale. Ma è anche l'altra eventualità che io dovevo per obbligo di coscienza prospettare perché ognuno di voi nella crisi di domani discutendo nei gruppi preparando la soluzione della crisi tenga conto di queste mie dichiarazioni che affido alla vostra meditazione e alla vostra coscienza. Ho finito. (Vivi applausi all'estrema destra commenti prolungati).
Per intendere il discorso pronunciato in quest'occasione alla Camera da Mussolini - nella tornata del 17 febbraio 1922 - è necessario tener presente il testo della mozione Celli che è il seguente:
«-La Camera
«-considerata la necessità di restituire al paese le condizioni indispensabili per la pacifica convivenza delle classi nel rispetto alla libertà di lavoro e di organizzazione nell'obbedienza alla legge;
«-di mettere le classi lavoratrici in grado di assumere sempre più elevata partecipazione e responsabilità nell'andamento delle aziende ed in grado di concorrere con le proprie rappresentanze allo sviluppo della legislazione del lavoro;
«-ritenuto essere la inscindibile unità dei problemi economici dell'Europa assoluta premessa alla sistemazione della vita di tutte le Nazioni ora tormentate e depresse da intransigenti egoismi e da crudeli spogliazioni;
«-approva le dichiarazioni del Governo e passa all'ordine del giorno-».
Bisogna poi tener presente che l'on. Cavazzoni popolare aveva chiesto che le destre si pronunciassero con tre distinte dichiarazioni di voto corrispondenti ai tre gruppi di destra: fascista nazionalista liberale. In seguito a questa richiesta Mussolini prese la parola per il suo gruppo:
Onorevoli colleghi io non so se al termine di questa giornata si possa realmente dire con coscienza tranquilla che le situazioni politiche siano perfettamente chiarite. Ma dal momento che l'onorevole Cavazzoni mi ha quasi personalmente chiamato in causa mi sono deciso a prendere la parola per contribuire a chiarire questa situazione per vedere se è possibile di chiarirla per esaminare se sia possibile non di dare un Ministero alla nazione ma un Governo.
Evidentemente l'onorevole Modigliani afferma sempre più in modo brillante le sue attitudini di stratega del gruppo parlamentare socialista. Siete arrivati all'astensionismo: siete già sulla via della perdizione! (Ilarità).
Ma io richiamo i democratici e i popolari a valutare nella sua concretezza l'apporto collaborazionista del gruppo parlamentare socialista. Non vi porto centoventidue astensioni perché in quel gruppo fanno capo a Maffì Velia ed altri una quarantina che io chiamo — senza intenzione di offendere — selvaggi i quali sono ancora fermi nella posizione della vecchia intransigenza più o meno elettorale e non seguirebbero io credo l'altra parte del gruppo sulla strada del collaborazionismo.
L'ordine del giorno Celli è un ordine del giorno insidioso e contraddittorio: solo attraverso dichiarazioni di voto si possono determinare le posizioni reciproche di fronte a questo ordine del giorno. Noi di quest'ordine del giorno non accettiamo la conclusione cioè non approviamo le dichiarazioni del Governo quindi neghiamo la fiducia al Governo dell'onorevole Bonomi.
Quanto alle premesse conviene intenderci e spiegarci. Dice quest'ordine del giorno: «-La Camera considera la necessità di restituire al Paese le condizioni indispensabili per la pacifica convivenza delle classi». Questo significa se le parole hanno un senso che le classi esistono e nessuno pensa a violentemente sopprimerle; di più che è augurabile che fra queste classi vi sia un regime di pacifica convivenza....
Modigliani. Quindi non la dittatura! (Ilarità commenti).
Mussolini. Vengo anche alla dittatura. Ora io dico ai socialisti: queste parole significano che voi anche attraverso la vostra semplice astensione siete convinti che le classi devono esistere e che fra di esse ci debba essere un regime di pacifica convivenza. (Commenti). Quindi non più tentativi di occupazione delle fabbriche. (Approvazioni a destra commenti a sinistra).
Non più scioperi generali politici; poiché tutto ciò turberebbe quel regime di pacifica convivenza al quale voi stessi date... (Interruzioni commenti).
La libertà del lavoro e delle organizzazioni è un principio che noi accettiamo perché voi sapete — lo sapete benissimo — che a lato del movimento fascista è sorto un movimento sindacale (commenti all'estrema sinistra) e non è possibile reclutare 250.000 organizzati con la violenza. (Rumori vivissimi all'estrema sinistra). Ma c'è di più in quest'ordine del giorno; c'è la necessità dell'obbedienza alla legge di questo Stato di queste istituzioni; alla legge esistente che voi oggi implicitamente riconoscete ed alla quale vi impegnate di obbedire. (Applausi all'estrema destra). È quindi pacifico che almeno 70 dei 122 deputati socialisti pur semplicemente astenendosi entrano con quest'ordine nelle rotaie della legalità monarchica. (Applausi a destra rumori vivissimi all'estrema sinistra).
Noi dichiariamo — e parlo in nome di tutti i gruppi della destra — che voteremo questa prima parte dell'ordine del giorno. (Commenti).
Respingiamo invece la seconda parte dell'ordine del giorno non tanto per quello che dice quanto per ciò che può non dire o sottintendere. Voi sapete che il fascismo già da tre anni ha nel suo programma la costituzione dei Consigli tecnici nazionali; ragione per cui noi non ci opponiamo al secondo capoverso di questa parte dell'ordine del giorno cioè non ci opponiamo a che le rappresentanze dirette del lavoro facciano sentire la loro voce nei consessi del lavoro.
La terza parte dell'ordine del giorno è assai vaga. Qui si rivela veramente la mentalità del riformista Celli e dei riformisti in genere. Noi non abbiamo difficoltà di votare anche questa terza parte dell'ordine del giorno perché là dove si parla di «-nazioni depresse da intransigenti egoismi e da crudeli sperequazioni-» noi comprendiamo in primo luogo la nazione italiana. (Applausi a destra). Ecco perché noi fascisti non ci facciamo illusioni soverchie sui risultati della Conferenza di Genova.
Io non avevo mai assistito a Conferenze internazionali; ma mi è bastata l'esperienza di Cannes per diventare assai scettico sui risultati di queste accademie. Si tratta di vedere con quali mezzi attraverso quali sistemi si può arrivare a ricostruire economicamente l'Europa. Ad ogni modo il Governo che verrà dovrà tener conto che una delle nazioni che soffre di più per queste sperequazioni è l'Italia e per le materie prime e per i cambi.
E anche per le conseguenze politiche di una pace che come quella di Rapallo non ci poteva e non ci doveva accontentare.
Dopo di che io vi dico tranquillamente che dal punto di vista degli interessi della Nazione un esperimento collaborazionista mi atterrisce perché il socialismo dovrebbe largheggiare con la famiglia innumerevole dei suoi clienti; ma quando le casse sono vuote e l'erario è esausto non si può largheggiare se non facendo funzionare la rotativa dei biglietti con l'accrescere quindi la circolazione monetaria e la miseria generale. (Approvazioni a destra interruzioni a sinistra). Ma dal punto di vista dell'interesse del mio partito io non tre vorrei vedere di ministri socialisti in quei banchi ma cinque perché il giorno in cui voi sarete là non potrete mantenere nessuna delle vostre mirabolanti promesse. (Approvazioni a destra interruzioni all'estrema sinistra). E mentre voi fallirete a questo compito avrete alla vostra sinistra i comunisti e gli anarchici i quali approfitteranno largamente del vostro esperimento collaborazionista. Non ritornerete in 122 alla Camera (interruzioni e rumori all'estrema sinistra) se avrete il coraggio di spingere il vostro astensionismo fino alla partecipazione diretta al potere. (Interruzioni e rumori all'estrema sinistra).
Dopo di che io ripeto l'interruzione che ho fatto al discorso dell'onorevole Modigliani: infine tutte queste combinazioni parlamentari ci interessano mediocremente. (Interruzioni a sinistra). Noi siamo pochi qui dentro ma abbiamo delle forze grandissime nel Paese. (Interruzioni e rumori all'estrema sinistra scambio di apostrofi). Ma soprattutto convincetevi che sarebbe la vostra totale rovina una reazione antifascista che partisse dai banchi del Governo.
(Voci all'estrema sinistra). Non vogliamo farla. (Rumori commenti).
Mussolini. Voi non la volete fare adesso ma in pieno Congresso di Milano uno dei vostri dichiarava che avrebbe vestito volentieri la divisa di Guardia regia pur di debellare il fascismo. (Commenti). E il vostro segreto pensiero è questo: valervi dei mezzi delle forze armate che il Governo ha nelle sue mani per schiantare il movimento fascista. Disilludetevi: è tempo che mettiate in applicazione quella famosa mentalità marxista che non vi sorregge più evidentemente! (Rumori interruzioni) Se questa mentalità marxista vi sorreggesse ancora voi capireste che un movimento come quello fascista non è nato nel mio cervello e non si domina con misure di polizia. Tra poco vi convincerete che il movimento fascista corrisponde a una profonda trasformazione economica che si sta verificando nel paese e che tra poco sarà chiara attraverso le luci della statistica.
E giacché indicate la democrazia sappiatelo e lo sappiano anche i democratici che se per democrazia si intende facilonismo irresponsabilità tendenza al compromesso e alla transazione noi siamo recisamente antidemocratici (rumori commenti) e sin da questo momento vi annunciamo che non faremo più blocchi. (Commenti). Anche se la fine dei blocchi dovesse rappresentare una fiera disgrazia elettorale per la democrazia nell'attesa che la democrazia diventi partito. Se la democrazia non è capace di darsi una organizzazione storica nel paese in un paese signori come il nostro fin troppo democratico vuol dire che in Italia la democrazia non [...]
Non c'è da stupirsi se il processo di chiarificazione ha più niente da dire e da fare. (Commenti). politica è così difficile e lento. La situazione politica non è che il riflesso necessario di una situazione mondiale assai confusa ed assai incerta. Ma io penso però che se ognuno qui e fuori di qui avrà il coraggio di essere quello che deve essere se qui e fuori di qui il borghese avrà il coraggio di essere borghese e non falso democratico o falso riformista (applausi a destra rumori a sinistra commenti) le cose andranno molto meglio. Una delle cause di quello che si potrebbe chiamare il malcostume politico italiano sta nel fatto che nessuno ha mai il coraggio di mostrarsi con i suoi propri ed inconfondibili connotati politici. (Ilarità commenti approvazioni).
Vi risparmio data l'ora ogni e qualsiasi perorazione. Combinate o non combinate il Ministero fatelo o non fatelo di sinistra; questo però sia chiaro ad evitare un pericoloso salto nel buio: che non si va contro il fascismo e che non si schiaccia il fascismo. (Applausi a destra congratulazioni rumori all'estrema sinistra commenti).
Roma, 19 luglio 1922: MUSSOLINI pronuncia il suo ultimo discorso dal banco di deputato
Lo scacco subito alla Camera in occasione della mozione Celli non disarmò il gruppo socialista che continuò ad illudersi di poter costituire un ministero di sinistra con un programma esclusivamente antifascista. Al debole ministero Bonomi era succeduto il ministero Facta più debole ancora e senza un programma.
Verso la metà di luglio il ministero Facta è già in crisi; il gruppo socialista torna a propugnare un ministero di sinistra. Nella tornata del 19 luglio l'on. Facta si presenta al giudizio della Camera - e in questa occasione Mussolini pronuncia quello che dovrà essere l'ultimo suo discorso dal banco di deputato. Si è oramai all'ultima fase della lunga e travagliata crisi che prelude alla Marcia su Roma. Nello stesso giorno 19 luglio 1922 cadeva il ministero Facta ma nessuno voleva accettarne l'eredità e - dopo una faticosa serie di vani tentativi - l'on. Facta era costretto a riaccettare l'incarico: il 1° agosto 1922 il suo nuovo ministero malfermo e mal costituito otteneva alla Camera 126 voti di maggioranza.
Onorevoli colleghi! La direzione del partito nazionale fascista ha invitato il gruppo parlamentare fascista a passare all'opposizione cioè a votare contro il Ministero Facta. Io sono sicuro che tutti i miei colleghi deputati fascisti ottempereranno a quest'ordine tassativo. (Commenti).
Le ragioni che ci spingono a questa decisione la quale può avere anche delle ripercussioni in seno a quella che si costuma chiamare la destra nazionale sono ragioni d'ordine squisitamente politico e che prescindono in un certo senso dalla situazione prettamente parlamentare.
In fondo onorevoli colleghi mi pare che sia l'ora di diradare tutti gli equivoci e in questa Camera di equi voci a mio avviso ce ne sono quattro: l'equivoco collaborazionista l'equivoco popolare l'equivoco Facta e l'equivoco fascista. (Commenti).
Cominciamo dall'equivoco collaborazionista. Si tratta di vedere se questa famosa collaborazione sia una vescica piena di vento o un apporto concreto al Governo di domani. Dalle statistiche parlamentari da quel che già si vede si può arguire che la collaborazione socialista oramai può essere definita le nozze con i fichi secchi. (Commenti).
Non sono più di 60 i deputati socialisti disposti a votare per un Ministero che nasca con programmi di antifascismo. Ma questo Ministero onorevoli colleghi si troverebbe domani di fronte non solo alla opposizione fascista ma anche alla opposizione di quel terzo partito socialista che sorgerebbe inevitabilmente dalle assisi di Roma quando i collaborazionisti si presentassero col fatto compiuto.
Ora vi dico brutalmente che abbiamo tutto l'interesse giacché oramai il corso delle cose è fatale e inevitabile che il socialismo si divida sempre più che ne sorgano tre o trenta di partiti socialisti perché dopo essere stato religione dopo essere divenuto chiesa e setta e bottega sarà più facile batterlo diviso che non unito. (Commenti).
Bisogna anche chiarire la posizione del partito popolare il quale è travagliato da una crisi che ha già avuto delle manifestazioni significative anche se non importanti dal punto di vista numerico.
Io non credo che tutto il partito popolare italiano possa seguire il comunismo che è stato definito nero dell'onorevole Miglioli. Io non credo che il mondo cattolico italiano da distinguersi dal partito popolare che è massone (commenti rumori al centro) possa abbracciarsi con quei socialisti che sino a ieri e anche oggi avevano sulla loro bandiera: né Dio né padrone! E poi il partito popolare non può rimanere continuamente nella posizione di fortuna in cui si è trovato fino ad oggi. Il partito popolare fa delle pressioni continue sul Governo che si possono chiamare ricatti. (Interruzioni e commenti al centro). Non ama il partito popolare non ha mai amato e non ha mai sostenuto efficacemente il Gabinetto Facta. Scusate se l'immagine è un poco ordinaria: voi siete dei topi dai denti aguzzi che state nel formaggio ministeriale per divorarcelo. (Applausi a destra ilarità commenti).
Quanto alla democrazia altro equivoco che ho incontrato per la strada si deve dire che anch'essa non è animata dai più accesi entusiasmi per il Governo dell'onorevole Facta.
Finalmente onorevole Facta io vi dico che il vostro Ministero non può vivere perché ciò è indecoroso anche dal semplice punto di vista umano; il vostro Ministero non può vivere o meglio vegetare o meglio ancora trascinare la sua vita in grazia della elemosina di tutti coloro che vi sostengono come la tradizionale corda sostiene il non meno tradizionale impiccato. Del resto le vostre origini sono là ad attestare il carattere del vostro Ministero. Io scommetto che il primo ad essere sorpreso di diventare Presidente del Consiglio siete stato precisamente voi. (Si ride commenti).
Tutti ricordano che alla vigilia della Conferenza di Genova occorreva che l'Italia avesse un Governo qualsiasi: così è sorto il Gabinetto Facta il quale si è messo in una situazione di necessità. Ma noi on. Facta almeno teoricamente abbiamo cercato di superare la contraddizione che ci tormenta tra il volere l'autorità dello Stato e il compiere spesso delle azioni che certamente non aumentano la forza di questa autorità.
Ed io deploro onorevole Facta le misure che avete prese contro i funzionari che rappresentavano il Governo a Cremona; perché quei funzionari hanno seguito le vostre direttive. (Commenti all'estrema sinistra). Se non hanno ordinato di fare fuoco contro i dimostranti fascisti evidentemente è perché voi e giustamente siete contrario ad ogni effusione di sangue. (Approvazioni). Non dovevate soprattutto punire il rappresentante del potere giudiziario a Cremona quando quei funzionari meritavano il vostro plauso.
Ed anche il vostro discorso non può piacere agli uomini che siedono da questa parte della Camera. Il punto centrale del vostro discorso è stato un aspro richiamo alla magistratura un aspro richiamo ai funzionari in genere; con ciò avete dato l'impressione che gli organi esecutivi dell'autorità dello Stato siano insufficienti deficienti o complici di una delle fazioni che lottano attualmente nel Paese. Io devo dire invece che la magistratura italiana è ancora una delle poche gerarchie statali contro le quali sia assai difficile elevare critiche fondate e che non partano da presupposti di ordine personale o di partito. (Approvazioni a destra commenti). E poi il Governo ha l'obbligo di coprire i suoi funzionari di assumere esso le sue responsabilità. Il generale non punisce l'ultimo caporale. (Approvazioni commenti). Ci sono altri elementi di critica contro il Governo Facta da parte nostra e per la politica finanziaria e per la politica estera. D'altra parte la Camera deve prendere atto che il fascismo parlamentare uscendo come fa in questo momento dalla maggioranza compie un gesto di alto pudore politico e morale. Non si può essere parte della maggioranza e nello stesso tempo agire nel paese come il fascismo è costretto per ora ad agire. (Commenti).
Il fascismo risolverà questo suo intimo tormento dirà forse fra poco se vuole essere un partito legalitario cioè un partito di Governo o se vorrà invece essere un partito insurrezionale nel qual caso non potrà più far parte di una qualsiasi maggioranza di Governo ma probabilmente non avrà neppure l'obbligo di sedere in questa Camera. (Vivissimi commenti). Questo che io ho chiamato equivoco fascista sarà risolto dagli organi competenti del nostro partito.
Ora date queste mie dichiarazioni voi comprendete subito che il problema della successione ci preoccupa fino ad un certo punto. Io vi dichiaro con molta schiettezza che nessun Governo si potrà reggere in Italia quando abbia nel suo programma le mitragliatrici contro il fascismo. (Interruzioni commenti applausi a destra). Io non so neanche se questo sarà possibile perché potrebbe darsi anche per uno di quei paradossi assai frequenti nella politica e nella storia che il Gabinetto il quale sorgesse sotto auspici e con origini nettamente antifasciste fosse costretto a fare verso di noi una politica di grande liberalismo (commenti) perché il non farla gli procurerebbe assai maggiori noie. (Commenti).
D'altra parte noi nel paese abbiamo forze molto numerose molto disciplinate molto organizzate. Se da questa crisi uscirà un Governo che risolva il problema assillante angoscioso nell'ora attuale cioè il problema della pacificazione inteso come una normalizzazione dei rapporti fra i diversi partiti noi lo accetteremo con animo lieto e cercheremo di adeguare tutti i nostri gregari alla necessità sentita del resto intimamente da parte della nazione alla necessità di ordine di lavoro e di disciplina. Ma se per avventura da questa crisi che ormai è in atto dovesse uscire un Governo di violenta reazione antifascista prendete atto onorevoli colleghi che noi reagiremo con la massima energia e con la massima inflessibilità. (Commenti). Noi alla reazione risponderemo insorgendo. (Applausi a destra commenti rumori).
Io debbo per debito di lealtà dirvi che dei due casi che vi ho testé prospettati preferisco il primo e per ragioni nazionali e per ragioni umane. Preferisco cioè che il fascismo che è una forza o socialisti che non dovete più ignorare e non dovete nemmeno pensare di distruggere arrivi a partecipare alla vita dello Stato attraverso una saturazione legale attraverso una preparazione alla conquista legale. Ma è anche l'altra eventualità che io dovevo per obbligo di coscienza prospettare perché ognuno di voi nella crisi di domani discutendo nei gruppi preparando la soluzione della crisi tenga conto di queste mie dichiarazioni che affido alla vostra meditazione e alla vostra coscienza. Ho finito. (Vivi applausi all'estrema destra commenti prolungati).
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 22:54 - modificato 3 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Anno - 1922
26 settembre 1922: Mussolini parla a Cremona
Questo discorso fu pronunziato da MUSSOLINI davanti a un'adunata di trentamila camicie nere. Le denominazioni di principi e triari in uso nel primo periodo della Marcia su Roma servivano a distinguere gli squadristi destinati all'azione (principi) dai fascisti più anziani non appartenenti alle Squadre considerati come una milizia ausiliaria (triari). Dopo la Marcia su Roma con la costituzione della M.V.S.N. tale denominazione fu abbandonata.
Principi! Triari! Avanguardisti! Balilla! Donne fasciste! Popolo lavoratore di Cremona e provincia!
La realtà ha superato come spesso accade le lusinghiere aspettative. La vostra adunata o fascisti cremonesi è la più solenne fra tutte quelle alle quali ho assistito. Sono venuto fra voi non per pronunziare un discorso poiché la eloquenza mi dà un senso irresistibile di fastidio; sono venuto ad esprimervi di persona la mia solidarietà che va dal vostro magnifico capo Roberto Farinacci all'ultimo squadrista. Qui in tempi che ormai possono dirsi remoti furono agitate delle grandi idee: qui sorse una democrazia che ebbe il suo periodo di splendore prima di diventare slombata e rammollita ai piedi del social-pussismo. E malgrado il fierissimo dissidio che ci separò dopo la guerra io non posso non ricordare un'altra nobile figura espressa dalla vostra terra feconda di messi e di spiriti: parlo di Leonida Bissolati.
Coloro che sulla falsariga di informazioni tendenziose e bugiarde parlano di uno schiavismo agrario dovrebbero venire a vedere coi propri occhi questa folla di autentici lavoratori di gente del popolo con le spalle i garretti le braccia abbastanza solidi per portare le fortune sempre maggiori della Patria.
Solo da canaglie e da criminali noi possiamo essere tacciati di nemici delle classi lavoratrici; noi che siamo figli di popolo; noi che abbiamo conosciuto la rude fatica delle braccia; noi che abbiamo sempre vissuto fra la gente del lavoro che è infinitamente superiore a tutti i falsi profeti che pretendono di rappresentarla! Ma appunto perché siamo figli di popolo non vogliamo ingannare il popolo non vogliamo mistificarlo promettendogli cose irraggiungibili pure prendendo solenne formale impegno di tutelarlo nella rivendicazione dei suoi giusti diritti e dei suoi legittimi interessi.
Vedendo passare le vostre squadre disciplinate fervide di energia di passione; vedendo passare i piccoli Balilla che rappresentano la primavera ancora acerba della vita; poi gli squadristi che sono nel pieno della giovinezza; finalmente gli uomini dalla solida virilità non esclusi i vecchi io mi dicevo che la gamma della razza è perfetta in quanto abbraccia la fase prima e la fase ultima della vita.
Ebbene o fascisti principi e triari! Grandi compiti ci aspettano. Quello che abbiamo fatto è poco a paragone di quello che dobbiamo fare. C'è già un contrasto vivo drammatico sempre più palpitante di attualità fra una Italia di politicanti imbelli e l'Italia sana forte vigorosa che si prepara a dare il colpo di scopa definitivo a tutti gli insufficienti a tutti i ribaldi a tutti i mestieranti a tutta la schiuma infetta della società italiana.
Né si illudano gli avversari. Supponevano nell'infausto '19 quando noi qui in Cremona ed in tutta Italia eravamo un manipolo di uomini supponevano per lusingare la loro immensa viltà che il Fascismo sarebbe stato un fenomeno passeggero. Orbene il Fascismo vive da quattro anni ed ha dinanzi a sé il compito necessario per riempire un secolo. Né si illudano — gli avversari — di poter fiaccare la nostra compagine perché noi vogliamo sempre più renderla compatta disciplinata militare affiatata attrezzata per tutte le eventualità perché o amici se sarà necessario un colpo risolutivo tutti dal primo all'ultimo — e guai al disertore od al traditore ché sarà colpito! — tutti dal primo all'ultimo faranno il loro preciso dovere. Insomma noi vogliamo che l'Italia diventi fascista!
Ciò è semplice. Ciò è chiaro. Noi vogliamo che l'Italia diventi fascista poiché siamo stanchi di vederla all'interno governata con principi e con uomini che oscillano continuamente fra la negligenza e la viltà; e siamo soprattutto stanchi di vederla considerata all'estero come una quantità trascurabile.
Che cosa è quel brivido sottile che vi percorre le membra quando sentite le note della Canzone del Piave? Gli è che il Piave non segna una fine: segna un principio! È dal Piave; è da Vittorio Veneto; è dalla Vittoria — sia pure mutilata dalla diplomazia imbelle ma gloriosissima —; è da Vittorio Veneto che si dipartono i nostri gagliardetti. È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziata la marcia che non può fermarsi fino a quando non abbia raggiunto la meta suprema: Roma! E non ci saranno ostacoli né di uomini né di cose che potranno fermarci!
Ed ora popolo fascista di Cremona io voglio ringraziarti per le accoglienze che mi hai tributato. Io so e mi piace di pensare che non a me andavano gli onori ma all'idea alla nostra causa che è stata consacrata da tanto sangue purpureo della migliore gioventù italiana Abbiti o popolo di Cremona il mio ringraziamento cordiale e fraterno ed abbracciando il mio vecchio e fedele amico Farinacci io abbraccio tutto il Fascismo cremonese al grido di «-Viva il Fascismo! Viva l'Italia!-».
Milano, 4 ottobre 1922: MUSSOLINI interviene alla “Sciesa”
Commemorando al Gruppo Fascista «-Sciesa-» di Milano i camerati Melloni e Tonali caduti all'assalto dell'Avanti! il 4 agosto 1922 pronunciò il seguente discorso:
Ho accettato di venire a parlare questa sera al Gruppo «-Sciesa-» per un triplice ordine di motivi; un motivo sentimentale un motivo personale ed un motivo politico. Un motivo sentimentale perché volevo tributare il mio attestato di ammirazione e di devozione profonda ai nostri indimenticabili magnifici Caduti Melloni Tonoli e Crespi: i primi due della vostra squadra; il terzo della i Sauro-». Io li ricordo perfettamente. Poi ho accettato di parlare per il carattere che il Gruppo ha voluto dare a questa celebrazione. Finalmente data l'attesa generale che tiene sospesi gli animi di tutti gli italiani nel presagio di qualche avvenimento che dovrà arrivare non volevo mancare l'occasione di precisare alcuni punti di vista; precisazione necessaria nel tormentoso periodo che attraversiamo.
Voi sentite a giudicare dal vostro atteggiamento austero e silenzioso che se la materia è corrompibile lo spirito è immortale.
Voi sentite stasera che in questo piccolo ambiente aleggia ancora lo spirito dei nostri Caduti. Sono presenti. Noi sentiamo la loro presenza. Poiché l'anima non può morire. E sono caduti nell'azione più eroica compiuta dal Fascismo italiano nei quattro anni della sua storia.
Poiché molte volte quando i fascisti si sono precipitati a distruggere col ferro e col fuoco i covi della ribalda e vile delinquenza social-comunista non hanno visto che le schiene in fuga; ma gli squadristi della «Sciesa» ed i due Caduti che qui ricordiamo e tutti gli squadristi del Fascio milanese sono andati all'assalto dell'Avanti! come sarebbero andati all'assalto di una trincea austriaca. Hanno dovuto varcare dei muri spezzare dei reticolati sfondare delle porte affrontare del piombo rovente che gli assaliti gettavano con le loro armi. Questo è eroismo. Questa è violenza. Questa è la violenza che io approvo che io esalto. Questa è la violenza del Fascismo milanese. Ed il Fascismo italiano — io parlo ai fascisti di tutta Italia — dovrebbe farla sua.
Non la piccola violenza individuale sporadica spesso inutile ma la grande la bella la inesorabile violenza delle ore decisive.
È necessario quando il momento arriva di colpir con la massima decisione e con la massima inesorabilità. Non dovete credere che qui mi facciano velo i sentimenti di simpatia fortissima che io ho per il Fascismo milanese: ma è soprattutto l'amore che io porto alla nostra causa.
Quando una causa è santificata da tanto sangue purissimo di giovani questa causa non deve venire in nessun modo ed a nessun costo infangata.
Eroi sono stati i nostri amici! La loro gesta è stata guerriera. La loro violenza santa e morale. Noi li esaltiamo. Noi li ricordiamo; noi li vendicheremo. Non possiamo accettare la morale umanitaria la morale tolstoiana la morale degli schiavi. Noi in tempi di guerra adottiamo la formula socratica: Superare nel bene gli amici superare nel male i nemici!
La nostra linea di condotta è correttissima. Chi ci fa del bene avrà del bene; chi ci fa del male avrà del male. I nostri nemici non potranno lagnarsi se essendo nemici saranno trattati duramente come duramente devono essere trattati i nemici. Siamo in un periodo storico di crisi che accelera ogni giorno i suoi tempi. Lo sciopero generale che fu stroncato dal sacrificio di sangue dei fascisti è un episodio che si inquadra nella crisi generale.
Il dissidio è fra Nazione e Stato. L'Italia è una Nazione. L'Italia non è uno Stato. L'Italia è una Nazione poiché dalle Alpi alla Sicilia c'è una unità fondamentale dei nostri costumi; c'è una unità fondamentale del nostro linguaggio della nostra religione. La guerra combattuta dal '15 al '18 consacra tutte queste unità e se queste unità formidabili bastano a caratterizzare la Nazione la Nazione italiana esiste: piena di risorse potentissima lanciata verso un glorioso destino.
Ma alla Nazione deve darsi lo Stato. E lo Stato non c'è. Oggi il giornale che rappresenta il liberalismo in Italia — il giornale più diffuso in Italia e che perciò qualche volta ha fatto molto male agli italiani sostenendo tesi assurde — constatava che in Italia ci sono due Governi e quando ce ne sono due ce n'è uno di più. Lo Stato di ieri e lo Stato di domani. «-Occorre un Governo-» diceva oggi il Corriere della Sera. Siamo d'accordo. Occorre un Governo.
Ma ci sono in questi giorni due episodi sintomatici che dimostrano che lo Stato fascista è infinitamente migliore dello Stato liberale e che perciò lo Stato fascista è degno di ricevere l'eredità dello Stato liberale. Due episodi: uno in cui entra la pietà ed un altro in cui entra la legge.
A San Terenzio di Spezia se i morti sono stati sepolti tutti se i feriti sono stati portati tutti all'ospedale se il paese è stato ripulito dalle macerie se i mobili ed i beni sono stati salvaguardati dagli sciacalli umani se San Terenzio potrà rivivere se il rancio è stato distribuito ai soldati in tempo utile lo si deve allo Stato fascista. Ed il sindaco di Lerici — che non risulta essere fascista — non manda un telegramma a Facta ma ne manda uno traboccante di riconoscenza a Mussolini come avrete appreso dal Popolo d'Italia.
Qui siamo nel campo della pietà della solidarietà nazionale ed umana.
Saltiamo a Bolzano. Siamo nel campo della legge e del diritto italiano. Chi li ha tutelati? Il Fascismo. Chi ha imposto l'italianità in una città che deve essere italiana? Il Fascismo! Chi ha bandito quel Perathoner che per quattro anni ha tenuto in iscacco cinque Ministeri italiani? È stato il Fascismo che ha dato una scuola agli italiani una chiesa agli italiani un senso di dignità agli italiani nell'Alto Adige! Chi ha collocato il busto del Re nell'aula consigliare? (Il Re passando da Bolzano se n'era dimenticato: evidentemente non ci teneva!) Il Fascismo!
I tedeschi sono meravigliati e stupiti di vedersi dinanzi la gioventù fascista che è bella fisicamente ed è magnifica moralmente. Hanno l'aria di domandarsi questi tedeschi che popolano abusivamente il territorio italiano: «-Che Italia è questa? Noi rispondiamo: «-Voi tedeschi attraverso i Ministeri della disfatta e della mala pace eravate abituati all'Italia di Abba Garima: dovete famigliarizzarvi con l'Italia di Vittorio Veneto che è una Italia di qualità di forza di energia che dice: Al Brennero ci siamo e ci resteremo! Non vogliamo andare ad Innsbruck; ma non pensate affatto che Germania ed Austria possano ritornare mai più a Bolzano!-».
Questo è lo Stato fascista quale si rivela agli occhi degli italiani in due momenti tipici della cronaca attuale; il disastro di San Terenzio e la occupazione fascista di Bolzano.
I cittadini si domandano: «Quale Stato finirà per dettare la sua legge agli italiani?» Noi non abbiamo nessun dubbio a rispondere: «-Lo Stato fascista!-»
Il Corriere della Sera dice: «-Bisogna far presto!-» Siamo d'accordo! Una Nazione non può vivere tenendo nel suo seno due Stati due Governi uno in atto uno in potenza. Ma quali sono le vie per arrivare a dare un Governo alla Nazione? Diciamo Governo; ma quando noi diciamo Stato intendiamo qualche cosa di più. Intendiamo lo spirito non soltanto la materia inerte ed effimera! Ci sono due mezzi o signori: se a Roma non sono diventati tutti rammolliti dovrebbero convocare la Camera ai primi di novembre fare votare la legge elettorale riformata convocare il popolo a comizio entro dicembre. Poiché la crisi Facta come invoca il Corriere non potrebbe spostare la situazione.
Fate trenta crisi al Parlamento italiano così come è oggi ed avrete trenta reincarnazioni del signor Facta. Se il Governo o signori non accetta questa strada allora noi siamo costretti ad imboccare l'altra. Vedete che il nostro giuoco ormai è chiaro. D'altra parte non è pensabile più quando si tratta di dare l'assalto ad uno Stato la piccola congiura che rimane segreta sì e no fino al momento dell'attacco. Noi dobbiamo dare degli ordini a centinaia di migliaia di persone e pretendere di conservare il segreto sarebbe la più assurda delle pretese e delle speranze. Noi giochiamo a carte scoperte fino al punto in cui è necessario di tenerle scoperte. E diciamo: «-C'è un'Italia che voi governanti liberali non comprendete più. Non la comprendete per la vostra mentalità arretrata non la comprendete per il vostro temperamento statico non la comprendete perché la politica parlamentare vi ha inaridito lo spirito. L'Italia che è venuta dalle trincee è un'Italia forte un'Italia piena di impulsi di vita-».
È un'Italia che vuole iniziare un nuovo periodo di storia. Il contrasto è quindi plastico drammatico fra l'Italia di ieri e la nostra Italia.
L'urto appare inevitabile. Si tratta ora di elaborare le nostre forze i nostri valori di preparare le nostre energie di coordinare i nostri sforzi perché l'urto sia vittorioso per noi. E del resto su di ciò non può esservi dubbio.
Ormai lo Stato liberale è una maschera dietro la quale non c'è nessuna faccia. È una impalcatura; ma dietro non c'è nessun edificio. Ci sono delle forze; ma dietro di esse non c'è più lo spirito. Tutti quelli che dovrebbero essere a sostegno di questo Stato sentono che esso sta toccando gli estremi limiti della vergogna della impotenza e del ridicolo. D'altra parte come dissi ad Udine noi non vogliamo mettere tutto in giuoco perché non ci presentiamo come i redentori del genere umano né promettiamo niente di speciale agli italiani. Anzi può essere che noi imporremo una più dura disciplina agli italiani e dei sacrifici. Può darsi che noi li imporremo tanfo alla borghesia quanto al proletariato perché c'è un proletariato infetto come c'è una borghesia più infetta ancora. C'è un proletariato che merita di essere castigato per poi dargli la possibilità di redenzione e c'è una borghesia che ci detesta che tenta di gettare la confusione nelle nostre file che paga tutti i fogli che fanno opera di calunnia antifascista; una borghesia che si è gettata fino a ieri ignobilmente ai piedi delle forze antinazionali; una borghesia verso la quale noi non avremo un brivido di pietà.
Siamo circondati da nemici: ci sono i nemici palesi e quelli occulti. I nemici palesi vivono nei cosiddetti partiti sovversivi che ormai si sono specializzati nell'agguato e nella imboscata assassina.
Ma ci sono dei nemici ambigui che sotto il tricolore e sotto bandiere analoghe cercano di ferire il movimento fascista di insinuarsi nelle nostre file di creare dei simulacri di organismi per indebolire il movimento nostro proprio nella fase in cui è necessario di tenerlo maggiormente compatto ed unito.
Ora bisogna dire che se non avremo remissione per coloro che ci attaccano dietro le siepi non avremo nemmeno remissione per coloro che ci attaccano con ambiguità. Quando al quadrante della storia battono le grandi ore bisogna parlare da contadini: semplicemente duramente schiettamente e lealmente.
Non abbiamo grandi ostacoli da superare perché la Nazione attende la Nazione spera in noi. La Nazione si sente rappresentata da noi. Certamente non possiamo promettere l'albero della libertà sulle pubbliche piazze: non possiamo dare la libertà a coloro che ne profitterebbero per assassinarci. Qui è la stoltezza dello Stato liberale: che dà la libertà a tutti anche a coloro che se ne servono per abbatterlo. Noi non daremo questa libertà. Nemmeno se la richiesta di questa libertà fosse avvolta nella vecchia carta stinta degli immortali principi!
Infine quello che ci divide dalla democrazia non sono gli ammennicoli elettorali. La gente vuole votare? Ma voti! Votiamo tutti fino alla noia e fino alla imbecillità! Nessuno vuol sopprimere il suffragio universale.
Ma faremo una politica di severità e reazione. Questi termini non ci fanno paura. Se si dirà dagli organi rappresentativi della democrazia che noi siamo reazionari non ci adonteremo affatto. Perché quel che ci divide dalla democrazia è la mentalità è lo spirito La storia non è un itinerario obbligato: la storia è tutta contrasti è tutta vicende; non ci sono secoli di tutta luce e secoli di tutte tenebre. Non si può trasportare il Fascismo fuori d'Italia come non si è potuto trasportare il bolscevismo fuori della Russia.
Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani indifferenti che rimarranno nelle loro case ad attendere i simpatizzanti che potranno circolare e finalmente gli italiani nemici e questi non circoleranno.
Non prometteremo nulla di speciale. Non assumeremo atteggiamenti di missionari che portano la verità rivelata. Non credo che i nemici ci opporranno ostacoli seri. Il sovversivismo è a terra. Voi vedete il congresso di Roma. Quale cosa pietosa è stata! Quando leader di un congresso diventa un Buffoni qualunque come quell'avvocato di Busto o di altro paese che sia voi capite che siamo già all'ultimo gradino della scala. C'era un socialismo? Oggi ce ne sono quattro con tendenza ad aumentare. E quel che più conta ognuno di costoro intende di essere il rappresentante dell'autentico socialismo. Il proletariato non può che sbandarsi. È sfiduciato schifato del contegno dei socialisti. Ho già detto del resto che il socialismo non è soltanto tramontato nel partito: è tramontato nella filosofia e nella dottrina. Ci vogliono gli italiani ed in genere gli occidentali a bucare con gli spilli della loro logica le grottesche vesciche del socialismo internazionale.
Forse vista la cosa sotto l'aspetto storico è una lotta fra l'Oriente e l'Occidente: fra l'Oriente famoso caotico rassegnato (vedi la Russia) e noi popolo occidentale che non ci lasciamo trasportare eccessivamente dai voli della metafisica e che siamo assetati di concrete dure realtà.
Gli italiani non possono essere a lungo mistificati da dottrine asiatiche assurde e criminose nella loro applicazione pratica e concreta. Questo è il senso del Fascismo italiano il quale rappresenta una reazione all'andazzo democratico per cui tutto doveva essere grigio mediocre uniforme livellatore; in cui dal capo supremo dello Stato all'ultimo usciere di Pretura si faceva di tutto per attenuare nascondere rendere fugace e transitoria l'autorità dello Stato. Dal Re troppo democratico all'ultimo funzionario noi abbiamo subito le conseguenze di questa concezione falsa della vita. La democrazia credeva di rendersi preziosa presso le masse popolari e non comprendeva che le masse popolari disprezzano coloro che non hanno il coraggio di essere quello che devono essere. Tutto questo la democrazia non ha capito. La democrazia ha tolto lo «stile» alla vita del popolo. Il Fascismo riporta lo «stile» nella vita del popolo: cioè una linea di condotta; cioè il colore la forza il pittoresco l'inaspettato il mistico; insomma tutto quello che conta nell'animo delle moltitudini. Noi suoniamo la lira su tutte le corde: da quella della violenza a quella della religione da quella dell'arte a quella della politica. Siamo politici e siamo guerrieri. Facciamo del sindacalismo e facciamo anche delle battaglie nelle piazze e nelle strade. Questo è il Fascismo così come fu concepito e come fu attuato e come è attuato soprattutto a Milano.
Bisogna o amici mantenere questo privilegio. Tenere sempre il Fascismo magnifico in questa linea meravigliosa di forza e di saggezza. Non abbandonarsi alla imitazione; poiché quello che è possibile in una data plaga agricola in un dato momento in un dato ambiente non è possibile a Milano. Qui la situazione è stata capovolta più per maturazione spontanea di eventi che per violenza di uomini o di cose. Qui il nostro dominio si afferma sempre più solido sicuro effettivo. Ed allora o amici noi dobbiamo prepararci con animo puro forte sgombro di preoccupazioni ai compiti che ci aspettano.
Domani è assai probabile è quasi certo tutta la impalcatura formidabile di uno Stato moderno sarà sulle nostre spalle. Non sarà soltanto sulle spalle di pochi uomini: sarà sulle spalle di tutto il Fascismo italiano.
E milioni di occhi spesso malevoli e milioni di uomini anche oltre le frontiere ci guarderanno. E vorranno vedere come funzionano le nostre gerarchie: vorranno vedere come si amministrerà la giustizia nello Stato fascista come si tutelano i galantuomini come si fa la politica
Ed allora governando bene la Nazione indirizzandola verso i suoi destini gloriosi conciliando gli interessi delle classi senza esasperare gli odii degli uni e gli egoismi degli altri proiettando gli italiani come una forza unica verso i compiti mondiali facendo del Mediterraneo il lago nostro alleandoci cioè con quelli che nel Mediterraneo vivono ed espellendo coloro che del Mediterraneo sono i parassiti; compiendo questa opera dura paziente di linee ciclopiche noi inaugureremo veramente un periodo grandioso della storia italiana.
Così ricorderemo i nostri Morti; così onoreremo i nostri Morti così li iscriveremo nel libro d'oro dell'Aristocrazia fascista.
Indicheremo i Loro nomi alle nuove generazioni ai bambini che vengono su e rappresentano la primavera eterna della vita che si rinnova. Diremo: «-Grande fu lo sforzo duro il sacrificio e purissimo il sangue che fu versato: e non fu versato per salvaguardare interessi di individui o di caste o di classi: non fu versato in nome della materia; ma fu versato in nome di una idea: in nome dello spirito in nome di quanto di più nobile di più bello di più generoso di più folgorante può contenere un'anima umana. Vi domandiamo di ricordare ogni giorno con l'esempio i nostri Morti: di essere degni del Loro sacrificio: di compiere quotidianamente il vostro esame di coscienza-».
Amici io ho fiducia in voi! Voi avete fiducia in me! In questo mutuo leale patto è la garanzia è la certezza della nostra vittoria! Viva l'Italia! Viva il Fascismo! Onore e gloria ai nostri Martiri!
estera come si risolvono i problemi della scuola della espansione dell'esercito. Ed ognuno che sia colto in fallo riverbererà il suo fallo e la sua vergogna su tutta la gerarchia dello Stato e necessariamente del Fascismo.
Avete voi o amici la sensazione esatta di questo compito formidabile che ci attende? Siete voi preparati spiritualmente a questo trapasso? Credete voi che basti soltanto l'entusiasmo? Non basta! È necessario però perché l'entusiasmò è una forza primitiva e fondamentale dello spirito umano. Non si può compiere nulla di grande se non si è in istato di amorosa passione in istato di misticismo religioso. Ma non basta. Accanto al sentimento ci sono le forze raziocinanti del cervello. Io credo che il Fascismo nella crisi generale di tutte le forze della Nazione abbia i requisiti necessari per imporsi e per governare. Non secondo la demagogia ma secondo la giustizia.
Napoli, 24 ottobre 1922: MUSSOLINI parla al Popolo di Napoli, pochi giorni prima di dare il via alla Marcia su Roma.
Mancano quattro giorni alla Marcia su Roma: la rivoluzione è già in cammino verso la vittoria finale. A Napoli il 24 ottobre 1922 si raccolgono quarantamila fascisti e ventimila operai fra l'entusiasmo della popolazione. In quella giornata preannunziatrice di vittoria MUSSOLINI pronuncia il seguente discorso rivolto al popolo napoletano e alla Nazione:
Fascisti! Cittadini!
Può darsi anzi è quasi certo che il mio genere di eloquenza determini in voi un senso di delusione in voi che siete abituati alla foga immaginosa e ricca della vostra oratoria. Ma io da quando mi sono accorto che era impossibile torcere il collo alla eloquenza mi sono detto che era necessario ridurla alle sue linee schematiche ed essenziali.
Siamo venuti a Napoli da ogni parte d'Italia a compiere un rito di fraternità e di amore. Sono qui con noi i fratelli della sponda dalmatica tradita ma che non intende arrendersi; sono qui i fascisti di Trieste dell'Istria della Venezia Tridentina di tutta l'Italia settentrionale; sono qui anche i fascisti delle isole della Sicilia e della Sardegna tutti qui ad affermare serenamente categoricamente la nostra indistruttibile fede unitaria che intende respingere ogni più o meno larvato tentativo di autonomismo e di separatismo.
Quattro anni fa le fanterie d'Italia maturata a grandezza in un ventennio di travaglio faticoso le fanterie d'Italia fra le quali erano vastamente rappresentati i figli delle vostre terre scattavano dal Piave e dopo avere battuto gli austriaci con l'ausilio assolutamente irrisorio di altre forze si slanciavano verso l'Isonzo; e solo la concezione assurdamente e falsamente democratica della guerra poté impedire che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero sul ring di Vienna e per le arterie di Budapest!
Un anno fa a Roma ci siamo trovati in un momento avviluppati da un'ostilità sorda e sotterranea che traeva le sue origini dagli equivoci e dalle infamie che caratterizzano l'indeterminato mondo politico della capitale. Noi non abbiamo dimenticato tutto ciò. Oggi siamo lieti che tutta Napoli questa città che io chiamo la grande riserva di salvezza della Nazione ci accolga con un entusiasmo fresco schietto sincero che fa bene al nostro cuore di uomini e di italiani; ragione per cui esigo che nessun incidente neppure minimo turbi la nostra adunata poiché oltre che delittuoso sarebbe anche enormemente stupido: esigo che ad adunata finita tutti i fascisti che non sono di Napoli abbandonino in ordine perfetto la città. L'Italia intera guarda a questo nostro convegno perché — lasciatemelo dire senza quella vana modestia che qualche volta è il paravento degli imbecilli — non c'è nel dopo guerra europeo e mondiale un fenomeno più interessante più originale più potente del Fascismo italiano.
Voi certamente non potete pretendere da me quello che si costuma chiamare il grande discorso politico. Ne ho fatto uno a Udine un altro a Cremona un terzo a Milano. Ho quasi vergogna di parlare ancora.
Ma data la situazione straordinariamente grave in cui ci troviamo ritengo opportuno fissare con la massima precisione i termini del problema perché siano altrettanto nettamente chiarite le singole responsabilità.
Insomma noi siamo al punto in cui la freccia si parte dall'arco o la corda troppo tesa dell'arco si spezza!
Voi ricordate che alla Camera italiana il mio amico Lupi ed io ponemmo i termini del dilemma che non è soltanto fascista ma italiano: legalità o illegalità? Conquiste parlamentari o insurrezione? Attraverso quali strade il Fascismo diventerà Stato? Perché noi vogliamo diventare Stato! Perché il giorno 3 ottobre io avevo già risolto il dilemma.
Quando io chiedo le elezioni quando le chiedo a breve scadenza quando le chiedo con una legge elettorale riformata è evidente a chiunque che io ho già scelta una strada. La stessa urgenza della mia richiesta denota che il travaglio del mio spirito è giunto al suo estremo possibile. Avere capito questo significava avere o non avere la chiave in mano per risolvere tutta la crisi politica italiana.
La richiesta partiva da me ma partiva anche da un partito che ha masse organizzate in modo formidabile e che raccoglie tutte le generazioni nuove dell'Italia tutti i giovani più belli fisicamente e spiritualmente che ha un vasto seguito nella vaga ed indeterminata opinione pubblica.
Ma c'è di più o signori. Questa richiesta avveniva all'indomani dei fatti di Bolzano e di Trento che avevano svelato ad oculos la paralisi completa dello Stato italiano e che avevano rivelato d'altra parte la efficienza non meno completa dello Stato fascista. Occorreva o signori affrettarsi verso di me perché io non fossi più ancora agitato dal dilemma interno.
Ebbene: con tutto ciò il deficiente Governo che siede a Roma ove accanto al galantomismo bonario ed inutile dell'on. Facta stanno tre anime nere della reazione antifascista — alludo ai signori Taddei Amendola ed Alessio — questo Governo mette il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell'ordine pubblico!
L'impostazione del problema è fatalmente errato. Degli uomini politici domandano che cosa desideriamo. Noi non siamo degli spiriti tortuosi e concitati. Noi parliamo schiettamente facciamo del bene a chi ci fa del bene del male a chi ci fa del male. Che cosa volete o fascisti? Noi abbiamo risposto molto semplicemente: lo scioglimento di questa Camera la riforma elettorale le elezioni a breve scadenza. Abbiamo chiesto che lo Stato esca dalla sua neutralità grottesca conservata tra le forze della Nazione e le forze dell'animazione. Abbiamo chiesto dei severi provvedimenti di indole finanziaria abbiamo chiesto un rinvio dello sgombero della zona dalmata ed abbiamo chiesto cinque portafogli più il Commissariato dell'aviazione.
Abbiamo chiesto precisamente il Ministero degli Esteri quello della Guerra quello della Marina quello del Lavoro e quello dei Lavori Pubblici. Io sono sicuro che nessuno di voi troverà eccessive queste nostre richieste. Ed a completarvi il quadro aggiungerò che in questa soluzione legalitaria era esclusa la mia diretta partecipazione al Governo e dirò anche le ragioni che sono chiare alla mente quando pensiate che per mantenere ancora nel pugno il Fascismo io debbo avere una vasta elasticità di movimento anche ai fini dirò così giornalistici e polemici.
Che cosa si è risposto? Nulla! Peggio ancora si è risposto in un modo ridicolo. Malgrado tutto nessuno degli uomini politici d'Italia ha saputo varcare le soglie di Montecitorio per vedere il problema del Paese. Si è fatto un computo meschino delle nostre forze si è parlato di ministri senza portafogli come se ciò dopo le prove più o meno miserevoli della guerra non fosse il colmo di ogni umano e politico assurdo. Si è parlato di sottoportafogli: ma tutto ciò è irrisorio.
Noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi fascisti non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali! Perché noi abbiamo la visione che si può chiamare storica del problema di fronte all'altra visione che si può chiamare politica e parlamentare.
Non si tratta di combinare ancora un Governo purchessia più o meno vitale: si tratta di immettere nello Stato liberale — che ha assolti i suoi compiti che sono stati grandiosi e che noi non dimentichiamo — di immettere nello Stato liberale tutta la forza delle nuove generazioni italiane che sono uscite dalla guerra e dalla vittoria.
Questo è essenziale ai fini dello Stato non solo ma ai fini della Storia della Nazione. Ed allora?
Allora o signori il problema non compreso nei suoi termini storici si imposta e diventa un problema di forza. Del resto tutte le volte che nella storia si determinano dei forti contrasti d'Interessi e d'idee è la forza che all'ultimo decide. Ecco perché noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni: perché se l'urto dovesse decidersi sul terreno della forza la vittoria tocchi a noi. Noi ne siamo degni; tocchi al popolo italiano che ne ha il diritto che ne ha il dovere di liberare la sua vita politica e spirituale da tutte quelle incrostazioni parassitarie del passato che non può prolungarsi perennemente nel presente perché ucciderebbe l'avvenire.
E allora si comprende perfettamente che i governanti di Roma cerchino di creare degli equivoci e dei diversivi; che cerchino di turbare la compagine del Fascismo e cerchino di formare una soluzione di continuità tra l'anima del Fascismo e l'anima nazionale; che ci pongano di fronte a dei problemi. Questi problemi hanno il nome di monarchia di esercito di pacificazione.
Credetemi non è per rendere un omaggio al lealismo assai quadrato del popolo meridionale se io torno a precisare ancora una volta la posizione storica e politica del Fascismo nei confronti della monarchia.
Ho già detto che discutere sulla bontà o sulla malvagità in assoluto ed in astratto è perfettamente assurdo. Ogni popolo in ogni epoca della sua storia in determinate condizioni di tempo di luogo e di ambiente ha il suo regime.
Nessun dubbio che il regime unitario della vita italiana si appoggia saldamente alla monarchia di Savoia. Nessun dubbio anche che la monarchia italiana per le sue origini per gli sviluppi della sua storia non può opporsi a quelle che sono le tendenze della nuova forza «azionale. Non si oppose quando concesse lo Statuto non si oppose quando il popolo italiano — sia pure in minoranza una minoranza intelligente e volitiva — chiese e volle la guerra. Avrebbe ragione di opporsi oggi che il Fascismo non intende di attaccare il regime nelle sue manifestazioni immanenti ma piuttosto intende liberarlo da tutte le super-strutture che aduggiano la posizione storica di questo istituto e nello stesso tempo comprimono tutte le tendenze del nostro animo?
Inutilmente i nostri avversari cercano di perpetuare l'equivoco.
Il Parlamento o signori e tutto l'armamentario della democrazia non hanno niente a che vedere con l'istituto monarchico. Non solo ma si aggiunga che noi non vogliamo togliere al popolo il suo giocattolo (il Parlamento). Diciamo «-giocattolo-» perché gran parte del popolo italiano lo stima per tale. Mi sapete voi dire per esempio perché su undici milioni di elettori ce ne sono sei che se ne infischiano di votare? Potrebbe darsi però che se domani si strappasse loro il giocattolo se ne mostrassero dispiacenti. Ma noi non lo strapperemo. In fondo ciò che ci divide dalla democrazia è la nostra mentalità è il nostro metodo. La democrazia crede che i principi siano immutabili in quanto siano applicabili in ogni tempo in ogni luogo in ogni evenienza.
Noi non crediamo che la storia si ripeta noi non crediamo che la storia sia un itinerario obbligato noi non crediamo che dopo la democrazia debba venire la super-democrazia!
Se la democrazia è stata utile ed efficace per la Nazione nel secolo XIX può darsi che nel secolo XX sia qualche altra forma politica che potenzi di più la comunione della società nazionale. Nemmeno adunque lo spauracchio della nostra antidemocrazia può giovare a determinare quella soluzione di continuità di cui vi parlavo dianzi.
Quanto poi alle altre istituzioni in cui si impersona il regime in cui si esalta la Nazione — parlo dell'Esercito — l'Esercito sappia che noi manipolo di pochi e di audaci lo abbiamo difeso quando i ministri consigliavano gli ufficiali di andare in borghese per evitare conflitti!
Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo che è una speranza che è fede che è coraggio. Il nostro mito è la Nazione il nostro mito è la grandezza della Nazione! E a questo mito a questa grandezza che noi vogliamo tradurre in una realtà completa noi subordiniamo tutto il resto.
Per noi la Nazione è soprattutto spirito e non è soltanto territorio. Ci sono Stati che hanno avuto immensi territori e che non lasciarono traccia alcuna nella storia umana. Non è soltanto numero perché si ebbero nella storia degli Stati piccolissimi microscopici che hanno lasciato documenti memorabili imperituri nell'arte e nella filosofia.
La grandezza della Nazione è il complesso di tutte queste virtù di tutte queste condizioni. Una Nazione è grande quando traduce nella realtà la forza del suo spirito. Roma è grande quando da piccola democrazia rurale a poco a poco allaga del ritmo del suo spirito tutta l'Italia poi si incontra con i guerrieri di Cartagine e deve battersi contro di loro. È la prima guerra della storia una delle prime. Poi a poco a poco porta le aquile agli estremi confini della terra ma ancora e sempre l'Impero Romano è una creazione dello spirito poiché le armi prima che dalle braccia erano puntate dallo spirito dei legionari romani.
Ora dunque noi vogliamo la grandezza della Nazione nel senso materiale e spirituale. Ecco perché noi facciamo del sindacalismo.
Noi non lo facciamo perché crediamo che la massa in quanto numero in quanto quantità possa creare qualche cosa di duraturo nella storia. Questa mitologia della bassa letteratura socialista noi la respingiamo. Ma le masse laboriose esistono nella Nazione. Sono gran parte della Nazione sono necessarie alla vita della Nazione ed in pace ed in guerra. Respingerle non si può e non si deve. Educarle si può e si deve; proteggere i loro giusti interessi si può e si deve!
Si dice: «-Volete dunque perpetuare questo stato di guerriglia civile che travaglia la Nazione?-». No. In fondo i primi a soffrire di questo stillicidio rissoso domenicale con morti e feriti siamo noi. Io sono stato il primo a tentare di buttare delle passerelle pacificatrici tra noi ed il cosiddetto mondo sovversivo italiano.
Anzi ultimamente ho firmato un concordato con lieto animo: prima di tutto perché mi veniva richiesto da Gabriele d'Annunzio; in secondo luogo perché era un'altra tappa o ritengo che sia un'altra tappa verso la pacificazione nazionale.
Ma noi non siamo d'altra parte delle piccole femmine isteriche che vogliono ad ogni minuto allarmarsi di quello che succede.
Noi non abbiamo una visione apocalittica catastrofica della storia. Il problema finanziario dello Stato di cui molto si parla è un problema di volontà politica. I milioni e i miliardi li risparmierete se avrete al Governo degli uomini che abbiano il coraggio di dire no ad ogni richiesta. Ma finché non porterete sul terreno politico anche il problema finanziario il problema non potrà essere risolto.
Così per la pacificazione. Noi siamo per la pacificazione noi vorremmo vedere tutti gli italiani adottare il minimo comune denominatore che rende possibile la convivenza civile; ma d'altra parte non possiamo sacrificare i nostri diritti gli interessi della Nazione l'avvenire della Nazione a dei criteri soltanto di pacificazione che noi proponiamo con lealtà ma che non sono accettati con altrettanta lealtà dalla parte avversa. Pace con coloro che vogliono veramente pace; ma con coloro che insidiano noi e soprattutto insidiano la Nazione non ci può essere pace se non dopo la vittoria!
Ed ora fascisti e cittadini di Napoli io vi ringrazio dell'attenzione con la quale avete seguito questo mio discorso. Napoli dà un bello e forte spettacolo di forza di disciplina di austerità. È bene che siamo venuti da tutte le parti a conoscervi a vedervi come siete a vedere il vostro popolo il popolo coraggioso che affronta romanamente la lotta per la vita che non crea un argine per il fiume ed il fiume per un argine ma vuole rifarsi la vita per conquistare la ricchezza lavorando e sudando e portando sempre nell'animo accorato la potente nostalgia di questa vostra meravigliosa terra che è destinata ad un grande avvenire specialmente se il Fascismo non tralignerà.
Né dicano i democratici che il Fascismo non ha ragione di essere qui perché non c'è stato il bolscevismo. Qui vi sono altri fenomeni di tristizia politica che non sono meno pericolosi del bolscevismo meno nocivi allo sviluppo della coscienza politica della Nazione.
Io vedo la grandissima Napoli futura la vera metropoli del Mediterraneo nostro — il Mediterraneo ai mediterranei — e la vedo insieme con Bari (che aveva 16 mila abitanti nel 1805 e ne ha 150 mila attualmente) e con Palermo costituire un triangolo potente di forza di energia di capacità e vedo il Fascismo che raccoglie e coordina tutte queste energie che disinfetta certi ambienti che toglie dalla circolazione certi uomini che ne raccoglie altri sotto i suoi gagliardetti.
Ebbene o alfieri di tutti i Fasci d'Italia alzate i vostri gagliardetti e salutate Napoli metropoli del Mezzogiorno regina del Mediterraneo!
26 settembre 1922: Mussolini parla a Cremona
Questo discorso fu pronunziato da MUSSOLINI davanti a un'adunata di trentamila camicie nere. Le denominazioni di principi e triari in uso nel primo periodo della Marcia su Roma servivano a distinguere gli squadristi destinati all'azione (principi) dai fascisti più anziani non appartenenti alle Squadre considerati come una milizia ausiliaria (triari). Dopo la Marcia su Roma con la costituzione della M.V.S.N. tale denominazione fu abbandonata.
Principi! Triari! Avanguardisti! Balilla! Donne fasciste! Popolo lavoratore di Cremona e provincia!
La realtà ha superato come spesso accade le lusinghiere aspettative. La vostra adunata o fascisti cremonesi è la più solenne fra tutte quelle alle quali ho assistito. Sono venuto fra voi non per pronunziare un discorso poiché la eloquenza mi dà un senso irresistibile di fastidio; sono venuto ad esprimervi di persona la mia solidarietà che va dal vostro magnifico capo Roberto Farinacci all'ultimo squadrista. Qui in tempi che ormai possono dirsi remoti furono agitate delle grandi idee: qui sorse una democrazia che ebbe il suo periodo di splendore prima di diventare slombata e rammollita ai piedi del social-pussismo. E malgrado il fierissimo dissidio che ci separò dopo la guerra io non posso non ricordare un'altra nobile figura espressa dalla vostra terra feconda di messi e di spiriti: parlo di Leonida Bissolati.
Coloro che sulla falsariga di informazioni tendenziose e bugiarde parlano di uno schiavismo agrario dovrebbero venire a vedere coi propri occhi questa folla di autentici lavoratori di gente del popolo con le spalle i garretti le braccia abbastanza solidi per portare le fortune sempre maggiori della Patria.
Solo da canaglie e da criminali noi possiamo essere tacciati di nemici delle classi lavoratrici; noi che siamo figli di popolo; noi che abbiamo conosciuto la rude fatica delle braccia; noi che abbiamo sempre vissuto fra la gente del lavoro che è infinitamente superiore a tutti i falsi profeti che pretendono di rappresentarla! Ma appunto perché siamo figli di popolo non vogliamo ingannare il popolo non vogliamo mistificarlo promettendogli cose irraggiungibili pure prendendo solenne formale impegno di tutelarlo nella rivendicazione dei suoi giusti diritti e dei suoi legittimi interessi.
Vedendo passare le vostre squadre disciplinate fervide di energia di passione; vedendo passare i piccoli Balilla che rappresentano la primavera ancora acerba della vita; poi gli squadristi che sono nel pieno della giovinezza; finalmente gli uomini dalla solida virilità non esclusi i vecchi io mi dicevo che la gamma della razza è perfetta in quanto abbraccia la fase prima e la fase ultima della vita.
Ebbene o fascisti principi e triari! Grandi compiti ci aspettano. Quello che abbiamo fatto è poco a paragone di quello che dobbiamo fare. C'è già un contrasto vivo drammatico sempre più palpitante di attualità fra una Italia di politicanti imbelli e l'Italia sana forte vigorosa che si prepara a dare il colpo di scopa definitivo a tutti gli insufficienti a tutti i ribaldi a tutti i mestieranti a tutta la schiuma infetta della società italiana.
Né si illudano gli avversari. Supponevano nell'infausto '19 quando noi qui in Cremona ed in tutta Italia eravamo un manipolo di uomini supponevano per lusingare la loro immensa viltà che il Fascismo sarebbe stato un fenomeno passeggero. Orbene il Fascismo vive da quattro anni ed ha dinanzi a sé il compito necessario per riempire un secolo. Né si illudano — gli avversari — di poter fiaccare la nostra compagine perché noi vogliamo sempre più renderla compatta disciplinata militare affiatata attrezzata per tutte le eventualità perché o amici se sarà necessario un colpo risolutivo tutti dal primo all'ultimo — e guai al disertore od al traditore ché sarà colpito! — tutti dal primo all'ultimo faranno il loro preciso dovere. Insomma noi vogliamo che l'Italia diventi fascista!
Ciò è semplice. Ciò è chiaro. Noi vogliamo che l'Italia diventi fascista poiché siamo stanchi di vederla all'interno governata con principi e con uomini che oscillano continuamente fra la negligenza e la viltà; e siamo soprattutto stanchi di vederla considerata all'estero come una quantità trascurabile.
Che cosa è quel brivido sottile che vi percorre le membra quando sentite le note della Canzone del Piave? Gli è che il Piave non segna una fine: segna un principio! È dal Piave; è da Vittorio Veneto; è dalla Vittoria — sia pure mutilata dalla diplomazia imbelle ma gloriosissima —; è da Vittorio Veneto che si dipartono i nostri gagliardetti. È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziata la marcia che non può fermarsi fino a quando non abbia raggiunto la meta suprema: Roma! E non ci saranno ostacoli né di uomini né di cose che potranno fermarci!
Ed ora popolo fascista di Cremona io voglio ringraziarti per le accoglienze che mi hai tributato. Io so e mi piace di pensare che non a me andavano gli onori ma all'idea alla nostra causa che è stata consacrata da tanto sangue purpureo della migliore gioventù italiana Abbiti o popolo di Cremona il mio ringraziamento cordiale e fraterno ed abbracciando il mio vecchio e fedele amico Farinacci io abbraccio tutto il Fascismo cremonese al grido di «-Viva il Fascismo! Viva l'Italia!-».
Milano, 4 ottobre 1922: MUSSOLINI interviene alla “Sciesa”
Commemorando al Gruppo Fascista «-Sciesa-» di Milano i camerati Melloni e Tonali caduti all'assalto dell'Avanti! il 4 agosto 1922 pronunciò il seguente discorso:
Ho accettato di venire a parlare questa sera al Gruppo «-Sciesa-» per un triplice ordine di motivi; un motivo sentimentale un motivo personale ed un motivo politico. Un motivo sentimentale perché volevo tributare il mio attestato di ammirazione e di devozione profonda ai nostri indimenticabili magnifici Caduti Melloni Tonoli e Crespi: i primi due della vostra squadra; il terzo della i Sauro-». Io li ricordo perfettamente. Poi ho accettato di parlare per il carattere che il Gruppo ha voluto dare a questa celebrazione. Finalmente data l'attesa generale che tiene sospesi gli animi di tutti gli italiani nel presagio di qualche avvenimento che dovrà arrivare non volevo mancare l'occasione di precisare alcuni punti di vista; precisazione necessaria nel tormentoso periodo che attraversiamo.
Voi sentite a giudicare dal vostro atteggiamento austero e silenzioso che se la materia è corrompibile lo spirito è immortale.
Voi sentite stasera che in questo piccolo ambiente aleggia ancora lo spirito dei nostri Caduti. Sono presenti. Noi sentiamo la loro presenza. Poiché l'anima non può morire. E sono caduti nell'azione più eroica compiuta dal Fascismo italiano nei quattro anni della sua storia.
Poiché molte volte quando i fascisti si sono precipitati a distruggere col ferro e col fuoco i covi della ribalda e vile delinquenza social-comunista non hanno visto che le schiene in fuga; ma gli squadristi della «Sciesa» ed i due Caduti che qui ricordiamo e tutti gli squadristi del Fascio milanese sono andati all'assalto dell'Avanti! come sarebbero andati all'assalto di una trincea austriaca. Hanno dovuto varcare dei muri spezzare dei reticolati sfondare delle porte affrontare del piombo rovente che gli assaliti gettavano con le loro armi. Questo è eroismo. Questa è violenza. Questa è la violenza che io approvo che io esalto. Questa è la violenza del Fascismo milanese. Ed il Fascismo italiano — io parlo ai fascisti di tutta Italia — dovrebbe farla sua.
Non la piccola violenza individuale sporadica spesso inutile ma la grande la bella la inesorabile violenza delle ore decisive.
È necessario quando il momento arriva di colpir con la massima decisione e con la massima inesorabilità. Non dovete credere che qui mi facciano velo i sentimenti di simpatia fortissima che io ho per il Fascismo milanese: ma è soprattutto l'amore che io porto alla nostra causa.
Quando una causa è santificata da tanto sangue purissimo di giovani questa causa non deve venire in nessun modo ed a nessun costo infangata.
Eroi sono stati i nostri amici! La loro gesta è stata guerriera. La loro violenza santa e morale. Noi li esaltiamo. Noi li ricordiamo; noi li vendicheremo. Non possiamo accettare la morale umanitaria la morale tolstoiana la morale degli schiavi. Noi in tempi di guerra adottiamo la formula socratica: Superare nel bene gli amici superare nel male i nemici!
La nostra linea di condotta è correttissima. Chi ci fa del bene avrà del bene; chi ci fa del male avrà del male. I nostri nemici non potranno lagnarsi se essendo nemici saranno trattati duramente come duramente devono essere trattati i nemici. Siamo in un periodo storico di crisi che accelera ogni giorno i suoi tempi. Lo sciopero generale che fu stroncato dal sacrificio di sangue dei fascisti è un episodio che si inquadra nella crisi generale.
Il dissidio è fra Nazione e Stato. L'Italia è una Nazione. L'Italia non è uno Stato. L'Italia è una Nazione poiché dalle Alpi alla Sicilia c'è una unità fondamentale dei nostri costumi; c'è una unità fondamentale del nostro linguaggio della nostra religione. La guerra combattuta dal '15 al '18 consacra tutte queste unità e se queste unità formidabili bastano a caratterizzare la Nazione la Nazione italiana esiste: piena di risorse potentissima lanciata verso un glorioso destino.
Ma alla Nazione deve darsi lo Stato. E lo Stato non c'è. Oggi il giornale che rappresenta il liberalismo in Italia — il giornale più diffuso in Italia e che perciò qualche volta ha fatto molto male agli italiani sostenendo tesi assurde — constatava che in Italia ci sono due Governi e quando ce ne sono due ce n'è uno di più. Lo Stato di ieri e lo Stato di domani. «-Occorre un Governo-» diceva oggi il Corriere della Sera. Siamo d'accordo. Occorre un Governo.
Ma ci sono in questi giorni due episodi sintomatici che dimostrano che lo Stato fascista è infinitamente migliore dello Stato liberale e che perciò lo Stato fascista è degno di ricevere l'eredità dello Stato liberale. Due episodi: uno in cui entra la pietà ed un altro in cui entra la legge.
A San Terenzio di Spezia se i morti sono stati sepolti tutti se i feriti sono stati portati tutti all'ospedale se il paese è stato ripulito dalle macerie se i mobili ed i beni sono stati salvaguardati dagli sciacalli umani se San Terenzio potrà rivivere se il rancio è stato distribuito ai soldati in tempo utile lo si deve allo Stato fascista. Ed il sindaco di Lerici — che non risulta essere fascista — non manda un telegramma a Facta ma ne manda uno traboccante di riconoscenza a Mussolini come avrete appreso dal Popolo d'Italia.
Qui siamo nel campo della pietà della solidarietà nazionale ed umana.
Saltiamo a Bolzano. Siamo nel campo della legge e del diritto italiano. Chi li ha tutelati? Il Fascismo. Chi ha imposto l'italianità in una città che deve essere italiana? Il Fascismo! Chi ha bandito quel Perathoner che per quattro anni ha tenuto in iscacco cinque Ministeri italiani? È stato il Fascismo che ha dato una scuola agli italiani una chiesa agli italiani un senso di dignità agli italiani nell'Alto Adige! Chi ha collocato il busto del Re nell'aula consigliare? (Il Re passando da Bolzano se n'era dimenticato: evidentemente non ci teneva!) Il Fascismo!
I tedeschi sono meravigliati e stupiti di vedersi dinanzi la gioventù fascista che è bella fisicamente ed è magnifica moralmente. Hanno l'aria di domandarsi questi tedeschi che popolano abusivamente il territorio italiano: «-Che Italia è questa? Noi rispondiamo: «-Voi tedeschi attraverso i Ministeri della disfatta e della mala pace eravate abituati all'Italia di Abba Garima: dovete famigliarizzarvi con l'Italia di Vittorio Veneto che è una Italia di qualità di forza di energia che dice: Al Brennero ci siamo e ci resteremo! Non vogliamo andare ad Innsbruck; ma non pensate affatto che Germania ed Austria possano ritornare mai più a Bolzano!-».
Questo è lo Stato fascista quale si rivela agli occhi degli italiani in due momenti tipici della cronaca attuale; il disastro di San Terenzio e la occupazione fascista di Bolzano.
I cittadini si domandano: «Quale Stato finirà per dettare la sua legge agli italiani?» Noi non abbiamo nessun dubbio a rispondere: «-Lo Stato fascista!-»
Il Corriere della Sera dice: «-Bisogna far presto!-» Siamo d'accordo! Una Nazione non può vivere tenendo nel suo seno due Stati due Governi uno in atto uno in potenza. Ma quali sono le vie per arrivare a dare un Governo alla Nazione? Diciamo Governo; ma quando noi diciamo Stato intendiamo qualche cosa di più. Intendiamo lo spirito non soltanto la materia inerte ed effimera! Ci sono due mezzi o signori: se a Roma non sono diventati tutti rammolliti dovrebbero convocare la Camera ai primi di novembre fare votare la legge elettorale riformata convocare il popolo a comizio entro dicembre. Poiché la crisi Facta come invoca il Corriere non potrebbe spostare la situazione.
Fate trenta crisi al Parlamento italiano così come è oggi ed avrete trenta reincarnazioni del signor Facta. Se il Governo o signori non accetta questa strada allora noi siamo costretti ad imboccare l'altra. Vedete che il nostro giuoco ormai è chiaro. D'altra parte non è pensabile più quando si tratta di dare l'assalto ad uno Stato la piccola congiura che rimane segreta sì e no fino al momento dell'attacco. Noi dobbiamo dare degli ordini a centinaia di migliaia di persone e pretendere di conservare il segreto sarebbe la più assurda delle pretese e delle speranze. Noi giochiamo a carte scoperte fino al punto in cui è necessario di tenerle scoperte. E diciamo: «-C'è un'Italia che voi governanti liberali non comprendete più. Non la comprendete per la vostra mentalità arretrata non la comprendete per il vostro temperamento statico non la comprendete perché la politica parlamentare vi ha inaridito lo spirito. L'Italia che è venuta dalle trincee è un'Italia forte un'Italia piena di impulsi di vita-».
È un'Italia che vuole iniziare un nuovo periodo di storia. Il contrasto è quindi plastico drammatico fra l'Italia di ieri e la nostra Italia.
L'urto appare inevitabile. Si tratta ora di elaborare le nostre forze i nostri valori di preparare le nostre energie di coordinare i nostri sforzi perché l'urto sia vittorioso per noi. E del resto su di ciò non può esservi dubbio.
Ormai lo Stato liberale è una maschera dietro la quale non c'è nessuna faccia. È una impalcatura; ma dietro non c'è nessun edificio. Ci sono delle forze; ma dietro di esse non c'è più lo spirito. Tutti quelli che dovrebbero essere a sostegno di questo Stato sentono che esso sta toccando gli estremi limiti della vergogna della impotenza e del ridicolo. D'altra parte come dissi ad Udine noi non vogliamo mettere tutto in giuoco perché non ci presentiamo come i redentori del genere umano né promettiamo niente di speciale agli italiani. Anzi può essere che noi imporremo una più dura disciplina agli italiani e dei sacrifici. Può darsi che noi li imporremo tanfo alla borghesia quanto al proletariato perché c'è un proletariato infetto come c'è una borghesia più infetta ancora. C'è un proletariato che merita di essere castigato per poi dargli la possibilità di redenzione e c'è una borghesia che ci detesta che tenta di gettare la confusione nelle nostre file che paga tutti i fogli che fanno opera di calunnia antifascista; una borghesia che si è gettata fino a ieri ignobilmente ai piedi delle forze antinazionali; una borghesia verso la quale noi non avremo un brivido di pietà.
Siamo circondati da nemici: ci sono i nemici palesi e quelli occulti. I nemici palesi vivono nei cosiddetti partiti sovversivi che ormai si sono specializzati nell'agguato e nella imboscata assassina.
Ma ci sono dei nemici ambigui che sotto il tricolore e sotto bandiere analoghe cercano di ferire il movimento fascista di insinuarsi nelle nostre file di creare dei simulacri di organismi per indebolire il movimento nostro proprio nella fase in cui è necessario di tenerlo maggiormente compatto ed unito.
Ora bisogna dire che se non avremo remissione per coloro che ci attaccano dietro le siepi non avremo nemmeno remissione per coloro che ci attaccano con ambiguità. Quando al quadrante della storia battono le grandi ore bisogna parlare da contadini: semplicemente duramente schiettamente e lealmente.
Non abbiamo grandi ostacoli da superare perché la Nazione attende la Nazione spera in noi. La Nazione si sente rappresentata da noi. Certamente non possiamo promettere l'albero della libertà sulle pubbliche piazze: non possiamo dare la libertà a coloro che ne profitterebbero per assassinarci. Qui è la stoltezza dello Stato liberale: che dà la libertà a tutti anche a coloro che se ne servono per abbatterlo. Noi non daremo questa libertà. Nemmeno se la richiesta di questa libertà fosse avvolta nella vecchia carta stinta degli immortali principi!
Infine quello che ci divide dalla democrazia non sono gli ammennicoli elettorali. La gente vuole votare? Ma voti! Votiamo tutti fino alla noia e fino alla imbecillità! Nessuno vuol sopprimere il suffragio universale.
Ma faremo una politica di severità e reazione. Questi termini non ci fanno paura. Se si dirà dagli organi rappresentativi della democrazia che noi siamo reazionari non ci adonteremo affatto. Perché quel che ci divide dalla democrazia è la mentalità è lo spirito La storia non è un itinerario obbligato: la storia è tutta contrasti è tutta vicende; non ci sono secoli di tutta luce e secoli di tutte tenebre. Non si può trasportare il Fascismo fuori d'Italia come non si è potuto trasportare il bolscevismo fuori della Russia.
Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani indifferenti che rimarranno nelle loro case ad attendere i simpatizzanti che potranno circolare e finalmente gli italiani nemici e questi non circoleranno.
Non prometteremo nulla di speciale. Non assumeremo atteggiamenti di missionari che portano la verità rivelata. Non credo che i nemici ci opporranno ostacoli seri. Il sovversivismo è a terra. Voi vedete il congresso di Roma. Quale cosa pietosa è stata! Quando leader di un congresso diventa un Buffoni qualunque come quell'avvocato di Busto o di altro paese che sia voi capite che siamo già all'ultimo gradino della scala. C'era un socialismo? Oggi ce ne sono quattro con tendenza ad aumentare. E quel che più conta ognuno di costoro intende di essere il rappresentante dell'autentico socialismo. Il proletariato non può che sbandarsi. È sfiduciato schifato del contegno dei socialisti. Ho già detto del resto che il socialismo non è soltanto tramontato nel partito: è tramontato nella filosofia e nella dottrina. Ci vogliono gli italiani ed in genere gli occidentali a bucare con gli spilli della loro logica le grottesche vesciche del socialismo internazionale.
Forse vista la cosa sotto l'aspetto storico è una lotta fra l'Oriente e l'Occidente: fra l'Oriente famoso caotico rassegnato (vedi la Russia) e noi popolo occidentale che non ci lasciamo trasportare eccessivamente dai voli della metafisica e che siamo assetati di concrete dure realtà.
Gli italiani non possono essere a lungo mistificati da dottrine asiatiche assurde e criminose nella loro applicazione pratica e concreta. Questo è il senso del Fascismo italiano il quale rappresenta una reazione all'andazzo democratico per cui tutto doveva essere grigio mediocre uniforme livellatore; in cui dal capo supremo dello Stato all'ultimo usciere di Pretura si faceva di tutto per attenuare nascondere rendere fugace e transitoria l'autorità dello Stato. Dal Re troppo democratico all'ultimo funzionario noi abbiamo subito le conseguenze di questa concezione falsa della vita. La democrazia credeva di rendersi preziosa presso le masse popolari e non comprendeva che le masse popolari disprezzano coloro che non hanno il coraggio di essere quello che devono essere. Tutto questo la democrazia non ha capito. La democrazia ha tolto lo «stile» alla vita del popolo. Il Fascismo riporta lo «stile» nella vita del popolo: cioè una linea di condotta; cioè il colore la forza il pittoresco l'inaspettato il mistico; insomma tutto quello che conta nell'animo delle moltitudini. Noi suoniamo la lira su tutte le corde: da quella della violenza a quella della religione da quella dell'arte a quella della politica. Siamo politici e siamo guerrieri. Facciamo del sindacalismo e facciamo anche delle battaglie nelle piazze e nelle strade. Questo è il Fascismo così come fu concepito e come fu attuato e come è attuato soprattutto a Milano.
Bisogna o amici mantenere questo privilegio. Tenere sempre il Fascismo magnifico in questa linea meravigliosa di forza e di saggezza. Non abbandonarsi alla imitazione; poiché quello che è possibile in una data plaga agricola in un dato momento in un dato ambiente non è possibile a Milano. Qui la situazione è stata capovolta più per maturazione spontanea di eventi che per violenza di uomini o di cose. Qui il nostro dominio si afferma sempre più solido sicuro effettivo. Ed allora o amici noi dobbiamo prepararci con animo puro forte sgombro di preoccupazioni ai compiti che ci aspettano.
Domani è assai probabile è quasi certo tutta la impalcatura formidabile di uno Stato moderno sarà sulle nostre spalle. Non sarà soltanto sulle spalle di pochi uomini: sarà sulle spalle di tutto il Fascismo italiano.
E milioni di occhi spesso malevoli e milioni di uomini anche oltre le frontiere ci guarderanno. E vorranno vedere come funzionano le nostre gerarchie: vorranno vedere come si amministrerà la giustizia nello Stato fascista come si tutelano i galantuomini come si fa la politica
Ed allora governando bene la Nazione indirizzandola verso i suoi destini gloriosi conciliando gli interessi delle classi senza esasperare gli odii degli uni e gli egoismi degli altri proiettando gli italiani come una forza unica verso i compiti mondiali facendo del Mediterraneo il lago nostro alleandoci cioè con quelli che nel Mediterraneo vivono ed espellendo coloro che del Mediterraneo sono i parassiti; compiendo questa opera dura paziente di linee ciclopiche noi inaugureremo veramente un periodo grandioso della storia italiana.
Così ricorderemo i nostri Morti; così onoreremo i nostri Morti così li iscriveremo nel libro d'oro dell'Aristocrazia fascista.
Indicheremo i Loro nomi alle nuove generazioni ai bambini che vengono su e rappresentano la primavera eterna della vita che si rinnova. Diremo: «-Grande fu lo sforzo duro il sacrificio e purissimo il sangue che fu versato: e non fu versato per salvaguardare interessi di individui o di caste o di classi: non fu versato in nome della materia; ma fu versato in nome di una idea: in nome dello spirito in nome di quanto di più nobile di più bello di più generoso di più folgorante può contenere un'anima umana. Vi domandiamo di ricordare ogni giorno con l'esempio i nostri Morti: di essere degni del Loro sacrificio: di compiere quotidianamente il vostro esame di coscienza-».
Amici io ho fiducia in voi! Voi avete fiducia in me! In questo mutuo leale patto è la garanzia è la certezza della nostra vittoria! Viva l'Italia! Viva il Fascismo! Onore e gloria ai nostri Martiri!
estera come si risolvono i problemi della scuola della espansione dell'esercito. Ed ognuno che sia colto in fallo riverbererà il suo fallo e la sua vergogna su tutta la gerarchia dello Stato e necessariamente del Fascismo.
Avete voi o amici la sensazione esatta di questo compito formidabile che ci attende? Siete voi preparati spiritualmente a questo trapasso? Credete voi che basti soltanto l'entusiasmo? Non basta! È necessario però perché l'entusiasmò è una forza primitiva e fondamentale dello spirito umano. Non si può compiere nulla di grande se non si è in istato di amorosa passione in istato di misticismo religioso. Ma non basta. Accanto al sentimento ci sono le forze raziocinanti del cervello. Io credo che il Fascismo nella crisi generale di tutte le forze della Nazione abbia i requisiti necessari per imporsi e per governare. Non secondo la demagogia ma secondo la giustizia.
Napoli, 24 ottobre 1922: MUSSOLINI parla al Popolo di Napoli, pochi giorni prima di dare il via alla Marcia su Roma.
Mancano quattro giorni alla Marcia su Roma: la rivoluzione è già in cammino verso la vittoria finale. A Napoli il 24 ottobre 1922 si raccolgono quarantamila fascisti e ventimila operai fra l'entusiasmo della popolazione. In quella giornata preannunziatrice di vittoria MUSSOLINI pronuncia il seguente discorso rivolto al popolo napoletano e alla Nazione:
Fascisti! Cittadini!
Può darsi anzi è quasi certo che il mio genere di eloquenza determini in voi un senso di delusione in voi che siete abituati alla foga immaginosa e ricca della vostra oratoria. Ma io da quando mi sono accorto che era impossibile torcere il collo alla eloquenza mi sono detto che era necessario ridurla alle sue linee schematiche ed essenziali.
Siamo venuti a Napoli da ogni parte d'Italia a compiere un rito di fraternità e di amore. Sono qui con noi i fratelli della sponda dalmatica tradita ma che non intende arrendersi; sono qui i fascisti di Trieste dell'Istria della Venezia Tridentina di tutta l'Italia settentrionale; sono qui anche i fascisti delle isole della Sicilia e della Sardegna tutti qui ad affermare serenamente categoricamente la nostra indistruttibile fede unitaria che intende respingere ogni più o meno larvato tentativo di autonomismo e di separatismo.
Quattro anni fa le fanterie d'Italia maturata a grandezza in un ventennio di travaglio faticoso le fanterie d'Italia fra le quali erano vastamente rappresentati i figli delle vostre terre scattavano dal Piave e dopo avere battuto gli austriaci con l'ausilio assolutamente irrisorio di altre forze si slanciavano verso l'Isonzo; e solo la concezione assurdamente e falsamente democratica della guerra poté impedire che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero sul ring di Vienna e per le arterie di Budapest!
Un anno fa a Roma ci siamo trovati in un momento avviluppati da un'ostilità sorda e sotterranea che traeva le sue origini dagli equivoci e dalle infamie che caratterizzano l'indeterminato mondo politico della capitale. Noi non abbiamo dimenticato tutto ciò. Oggi siamo lieti che tutta Napoli questa città che io chiamo la grande riserva di salvezza della Nazione ci accolga con un entusiasmo fresco schietto sincero che fa bene al nostro cuore di uomini e di italiani; ragione per cui esigo che nessun incidente neppure minimo turbi la nostra adunata poiché oltre che delittuoso sarebbe anche enormemente stupido: esigo che ad adunata finita tutti i fascisti che non sono di Napoli abbandonino in ordine perfetto la città. L'Italia intera guarda a questo nostro convegno perché — lasciatemelo dire senza quella vana modestia che qualche volta è il paravento degli imbecilli — non c'è nel dopo guerra europeo e mondiale un fenomeno più interessante più originale più potente del Fascismo italiano.
Voi certamente non potete pretendere da me quello che si costuma chiamare il grande discorso politico. Ne ho fatto uno a Udine un altro a Cremona un terzo a Milano. Ho quasi vergogna di parlare ancora.
Ma data la situazione straordinariamente grave in cui ci troviamo ritengo opportuno fissare con la massima precisione i termini del problema perché siano altrettanto nettamente chiarite le singole responsabilità.
Insomma noi siamo al punto in cui la freccia si parte dall'arco o la corda troppo tesa dell'arco si spezza!
Voi ricordate che alla Camera italiana il mio amico Lupi ed io ponemmo i termini del dilemma che non è soltanto fascista ma italiano: legalità o illegalità? Conquiste parlamentari o insurrezione? Attraverso quali strade il Fascismo diventerà Stato? Perché noi vogliamo diventare Stato! Perché il giorno 3 ottobre io avevo già risolto il dilemma.
Quando io chiedo le elezioni quando le chiedo a breve scadenza quando le chiedo con una legge elettorale riformata è evidente a chiunque che io ho già scelta una strada. La stessa urgenza della mia richiesta denota che il travaglio del mio spirito è giunto al suo estremo possibile. Avere capito questo significava avere o non avere la chiave in mano per risolvere tutta la crisi politica italiana.
La richiesta partiva da me ma partiva anche da un partito che ha masse organizzate in modo formidabile e che raccoglie tutte le generazioni nuove dell'Italia tutti i giovani più belli fisicamente e spiritualmente che ha un vasto seguito nella vaga ed indeterminata opinione pubblica.
Ma c'è di più o signori. Questa richiesta avveniva all'indomani dei fatti di Bolzano e di Trento che avevano svelato ad oculos la paralisi completa dello Stato italiano e che avevano rivelato d'altra parte la efficienza non meno completa dello Stato fascista. Occorreva o signori affrettarsi verso di me perché io non fossi più ancora agitato dal dilemma interno.
Ebbene: con tutto ciò il deficiente Governo che siede a Roma ove accanto al galantomismo bonario ed inutile dell'on. Facta stanno tre anime nere della reazione antifascista — alludo ai signori Taddei Amendola ed Alessio — questo Governo mette il problema sul terreno della pubblica sicurezza e dell'ordine pubblico!
L'impostazione del problema è fatalmente errato. Degli uomini politici domandano che cosa desideriamo. Noi non siamo degli spiriti tortuosi e concitati. Noi parliamo schiettamente facciamo del bene a chi ci fa del bene del male a chi ci fa del male. Che cosa volete o fascisti? Noi abbiamo risposto molto semplicemente: lo scioglimento di questa Camera la riforma elettorale le elezioni a breve scadenza. Abbiamo chiesto che lo Stato esca dalla sua neutralità grottesca conservata tra le forze della Nazione e le forze dell'animazione. Abbiamo chiesto dei severi provvedimenti di indole finanziaria abbiamo chiesto un rinvio dello sgombero della zona dalmata ed abbiamo chiesto cinque portafogli più il Commissariato dell'aviazione.
Abbiamo chiesto precisamente il Ministero degli Esteri quello della Guerra quello della Marina quello del Lavoro e quello dei Lavori Pubblici. Io sono sicuro che nessuno di voi troverà eccessive queste nostre richieste. Ed a completarvi il quadro aggiungerò che in questa soluzione legalitaria era esclusa la mia diretta partecipazione al Governo e dirò anche le ragioni che sono chiare alla mente quando pensiate che per mantenere ancora nel pugno il Fascismo io debbo avere una vasta elasticità di movimento anche ai fini dirò così giornalistici e polemici.
Che cosa si è risposto? Nulla! Peggio ancora si è risposto in un modo ridicolo. Malgrado tutto nessuno degli uomini politici d'Italia ha saputo varcare le soglie di Montecitorio per vedere il problema del Paese. Si è fatto un computo meschino delle nostre forze si è parlato di ministri senza portafogli come se ciò dopo le prove più o meno miserevoli della guerra non fosse il colmo di ogni umano e politico assurdo. Si è parlato di sottoportafogli: ma tutto ciò è irrisorio.
Noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi fascisti non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali! Perché noi abbiamo la visione che si può chiamare storica del problema di fronte all'altra visione che si può chiamare politica e parlamentare.
Non si tratta di combinare ancora un Governo purchessia più o meno vitale: si tratta di immettere nello Stato liberale — che ha assolti i suoi compiti che sono stati grandiosi e che noi non dimentichiamo — di immettere nello Stato liberale tutta la forza delle nuove generazioni italiane che sono uscite dalla guerra e dalla vittoria.
Questo è essenziale ai fini dello Stato non solo ma ai fini della Storia della Nazione. Ed allora?
Allora o signori il problema non compreso nei suoi termini storici si imposta e diventa un problema di forza. Del resto tutte le volte che nella storia si determinano dei forti contrasti d'Interessi e d'idee è la forza che all'ultimo decide. Ecco perché noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni: perché se l'urto dovesse decidersi sul terreno della forza la vittoria tocchi a noi. Noi ne siamo degni; tocchi al popolo italiano che ne ha il diritto che ne ha il dovere di liberare la sua vita politica e spirituale da tutte quelle incrostazioni parassitarie del passato che non può prolungarsi perennemente nel presente perché ucciderebbe l'avvenire.
E allora si comprende perfettamente che i governanti di Roma cerchino di creare degli equivoci e dei diversivi; che cerchino di turbare la compagine del Fascismo e cerchino di formare una soluzione di continuità tra l'anima del Fascismo e l'anima nazionale; che ci pongano di fronte a dei problemi. Questi problemi hanno il nome di monarchia di esercito di pacificazione.
Credetemi non è per rendere un omaggio al lealismo assai quadrato del popolo meridionale se io torno a precisare ancora una volta la posizione storica e politica del Fascismo nei confronti della monarchia.
Ho già detto che discutere sulla bontà o sulla malvagità in assoluto ed in astratto è perfettamente assurdo. Ogni popolo in ogni epoca della sua storia in determinate condizioni di tempo di luogo e di ambiente ha il suo regime.
Nessun dubbio che il regime unitario della vita italiana si appoggia saldamente alla monarchia di Savoia. Nessun dubbio anche che la monarchia italiana per le sue origini per gli sviluppi della sua storia non può opporsi a quelle che sono le tendenze della nuova forza «azionale. Non si oppose quando concesse lo Statuto non si oppose quando il popolo italiano — sia pure in minoranza una minoranza intelligente e volitiva — chiese e volle la guerra. Avrebbe ragione di opporsi oggi che il Fascismo non intende di attaccare il regime nelle sue manifestazioni immanenti ma piuttosto intende liberarlo da tutte le super-strutture che aduggiano la posizione storica di questo istituto e nello stesso tempo comprimono tutte le tendenze del nostro animo?
Inutilmente i nostri avversari cercano di perpetuare l'equivoco.
Il Parlamento o signori e tutto l'armamentario della democrazia non hanno niente a che vedere con l'istituto monarchico. Non solo ma si aggiunga che noi non vogliamo togliere al popolo il suo giocattolo (il Parlamento). Diciamo «-giocattolo-» perché gran parte del popolo italiano lo stima per tale. Mi sapete voi dire per esempio perché su undici milioni di elettori ce ne sono sei che se ne infischiano di votare? Potrebbe darsi però che se domani si strappasse loro il giocattolo se ne mostrassero dispiacenti. Ma noi non lo strapperemo. In fondo ciò che ci divide dalla democrazia è la nostra mentalità è il nostro metodo. La democrazia crede che i principi siano immutabili in quanto siano applicabili in ogni tempo in ogni luogo in ogni evenienza.
Noi non crediamo che la storia si ripeta noi non crediamo che la storia sia un itinerario obbligato noi non crediamo che dopo la democrazia debba venire la super-democrazia!
Se la democrazia è stata utile ed efficace per la Nazione nel secolo XIX può darsi che nel secolo XX sia qualche altra forma politica che potenzi di più la comunione della società nazionale. Nemmeno adunque lo spauracchio della nostra antidemocrazia può giovare a determinare quella soluzione di continuità di cui vi parlavo dianzi.
Quanto poi alle altre istituzioni in cui si impersona il regime in cui si esalta la Nazione — parlo dell'Esercito — l'Esercito sappia che noi manipolo di pochi e di audaci lo abbiamo difeso quando i ministri consigliavano gli ufficiali di andare in borghese per evitare conflitti!
Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo che è una speranza che è fede che è coraggio. Il nostro mito è la Nazione il nostro mito è la grandezza della Nazione! E a questo mito a questa grandezza che noi vogliamo tradurre in una realtà completa noi subordiniamo tutto il resto.
Per noi la Nazione è soprattutto spirito e non è soltanto territorio. Ci sono Stati che hanno avuto immensi territori e che non lasciarono traccia alcuna nella storia umana. Non è soltanto numero perché si ebbero nella storia degli Stati piccolissimi microscopici che hanno lasciato documenti memorabili imperituri nell'arte e nella filosofia.
La grandezza della Nazione è il complesso di tutte queste virtù di tutte queste condizioni. Una Nazione è grande quando traduce nella realtà la forza del suo spirito. Roma è grande quando da piccola democrazia rurale a poco a poco allaga del ritmo del suo spirito tutta l'Italia poi si incontra con i guerrieri di Cartagine e deve battersi contro di loro. È la prima guerra della storia una delle prime. Poi a poco a poco porta le aquile agli estremi confini della terra ma ancora e sempre l'Impero Romano è una creazione dello spirito poiché le armi prima che dalle braccia erano puntate dallo spirito dei legionari romani.
Ora dunque noi vogliamo la grandezza della Nazione nel senso materiale e spirituale. Ecco perché noi facciamo del sindacalismo.
Noi non lo facciamo perché crediamo che la massa in quanto numero in quanto quantità possa creare qualche cosa di duraturo nella storia. Questa mitologia della bassa letteratura socialista noi la respingiamo. Ma le masse laboriose esistono nella Nazione. Sono gran parte della Nazione sono necessarie alla vita della Nazione ed in pace ed in guerra. Respingerle non si può e non si deve. Educarle si può e si deve; proteggere i loro giusti interessi si può e si deve!
Si dice: «-Volete dunque perpetuare questo stato di guerriglia civile che travaglia la Nazione?-». No. In fondo i primi a soffrire di questo stillicidio rissoso domenicale con morti e feriti siamo noi. Io sono stato il primo a tentare di buttare delle passerelle pacificatrici tra noi ed il cosiddetto mondo sovversivo italiano.
Anzi ultimamente ho firmato un concordato con lieto animo: prima di tutto perché mi veniva richiesto da Gabriele d'Annunzio; in secondo luogo perché era un'altra tappa o ritengo che sia un'altra tappa verso la pacificazione nazionale.
Ma noi non siamo d'altra parte delle piccole femmine isteriche che vogliono ad ogni minuto allarmarsi di quello che succede.
Noi non abbiamo una visione apocalittica catastrofica della storia. Il problema finanziario dello Stato di cui molto si parla è un problema di volontà politica. I milioni e i miliardi li risparmierete se avrete al Governo degli uomini che abbiano il coraggio di dire no ad ogni richiesta. Ma finché non porterete sul terreno politico anche il problema finanziario il problema non potrà essere risolto.
Così per la pacificazione. Noi siamo per la pacificazione noi vorremmo vedere tutti gli italiani adottare il minimo comune denominatore che rende possibile la convivenza civile; ma d'altra parte non possiamo sacrificare i nostri diritti gli interessi della Nazione l'avvenire della Nazione a dei criteri soltanto di pacificazione che noi proponiamo con lealtà ma che non sono accettati con altrettanta lealtà dalla parte avversa. Pace con coloro che vogliono veramente pace; ma con coloro che insidiano noi e soprattutto insidiano la Nazione non ci può essere pace se non dopo la vittoria!
Ed ora fascisti e cittadini di Napoli io vi ringrazio dell'attenzione con la quale avete seguito questo mio discorso. Napoli dà un bello e forte spettacolo di forza di disciplina di austerità. È bene che siamo venuti da tutte le parti a conoscervi a vedervi come siete a vedere il vostro popolo il popolo coraggioso che affronta romanamente la lotta per la vita che non crea un argine per il fiume ed il fiume per un argine ma vuole rifarsi la vita per conquistare la ricchezza lavorando e sudando e portando sempre nell'animo accorato la potente nostalgia di questa vostra meravigliosa terra che è destinata ad un grande avvenire specialmente se il Fascismo non tralignerà.
Né dicano i democratici che il Fascismo non ha ragione di essere qui perché non c'è stato il bolscevismo. Qui vi sono altri fenomeni di tristizia politica che non sono meno pericolosi del bolscevismo meno nocivi allo sviluppo della coscienza politica della Nazione.
Io vedo la grandissima Napoli futura la vera metropoli del Mediterraneo nostro — il Mediterraneo ai mediterranei — e la vedo insieme con Bari (che aveva 16 mila abitanti nel 1805 e ne ha 150 mila attualmente) e con Palermo costituire un triangolo potente di forza di energia di capacità e vedo il Fascismo che raccoglie e coordina tutte queste energie che disinfetta certi ambienti che toglie dalla circolazione certi uomini che ne raccoglie altri sotto i suoi gagliardetti.
Ebbene o alfieri di tutti i Fasci d'Italia alzate i vostri gagliardetti e salutate Napoli metropoli del Mezzogiorno regina del Mediterraneo!
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 23:10 - modificato 1 volta.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Roma, 16 novembre 1922: MUSSOLINI pronuncia il primo discorso presidenziale
Subito dopo la Marcia su Roma MUSSOLINI presenta alla Camera dei Deputati il Governo pronunciando in tale occasione il suo primo discorso dal banco del Governo, parlando ai deputati e all'intera Nazione come già aveva fatto dal banco di deputato.
Mi onoro di annunziare alla Camera che Sua Maestà il Re con decreto 31 scorso ottobre ha accettato le dimissioni rassegnate dall'onorevole avvocato Luigi Facta deputato al Parlamento dalla carica di presidente del Consiglio dei ministri e quelle dei suoi colleghi ministri segretari di Stato nonché quelle dei sottosegretari di Stato e mi ha dato incarico di comporre il nuovo Ministero.
Signori!
Quello che io compio oggi in quest'aula è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza.
Da molti anzi da troppi anni le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata un assalto ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale.
Ora è accaduto per la seconda volta nel breve volgere di un decennio che il popolo italiano — nella sua parte migliore — ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento.
Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922.
Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo perché ognuno lo sappia che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere» inserendola intimamente come forza di sviluppo di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione.
Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo.
Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli; potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho almeno in questo primo tempo voluto.
Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi; ne sono tranquillamente usciti ed hanno ottenuto la libera circolazione: del che approfittano già per risputare veleno e tendere agguati come a Carate ed a Bergamo a Udine ed a Muggia.
Ho costituito un Governo di coalizione e non già con l'intento di avere una maggioranza parlamentare della quale posso oggi fare benissimo a meno; ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti al di sopra delle sfumature dei partiti la stessa Nazione vogliono salvare.
Ringrazio dal profondo del cuore i miei collaboratori ministri e sottosegretari; ringrazio i miei colleghi di Governo che hanno voluto assumere con me le pesanti responsabilità di quest'ora: e non posso non ricordare con simpatia l'atteggiamento delle masse lavoratrici italiane che hanno confortato il moto fascista con la loro attiva o passiva solidarietà.
Credo anche di interpretare il pensiero di gran parte di questa Assemblea e certamente della maggioranza del popolo italiano tributando un caldo omaggio al Sovrano il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima ora ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria.
Prima di giungere a questo posto da ogni parte ci chiedevano un programma. Non sono ahimé! i programmi che difettano in Italia: sibbene gli uomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti i problemi della vita italiana tutti dico sono già stati risolti sulla carta: ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta oggi questa ferma e decisa volontà.
La politica estera è quella che specie in questo momento più particolarmente ci occupa e preoccupa.
Ne parlo subito perché credo con quello che dirò di dissipare molte apprensioni. Non tratterò tutti gli argomenti perché anche in questo campo preferisco l'azione alle parole.
Gli orientamenti fondamentali della nostra politica estera sono i seguenti: i Trattati di pace buoni o cattivi che siano una volta che sono stati firmati e ratificati vanno eseguiti. Uno Stato che si rispetti non può avere altra dottrina.
I Trattati non sono eterni non sono irreparabili: sono capitoli della storia non epilogo della storia. Eseguirli significa provarli.
Se attraverso la esecuzione si appalesa il loro assurdo ciò può costituire il fatto nuovo che apre la possibilità di un ulteriore esame delle rispettive posizioni. Come il Trattato di Rapallo così gli accordi di Santa Margherita che da quello derivano vengono da me portati dinanzi al Parlamento.
Stabilito che quando siano perfetti cioè ratificati i trattati debbono essere lealmente eseguiti passo a stabilire un altro fondamento della nostra politica estera: cioè il ripudio di tutta la fumosa ideologia «-ricostruzionistica-».
Noi ammettiamo che ci sia una specie di unità o meglio di interdipendenza della vita economica europea. Ammettiamo che si debba riedificare questa economia ma escludiamo che i metodi fin qui adottati giovino allo scopo.
Valgono più ai fini della ricostruzione economica europea i Trattati di commercio a due base delle più vaste relazioni economiche fra i popoli che le macchinose e confuse conferenze plenarie la cui lacrimevole istoria ognuno conosce. Per ciò che riguarda l'Italia noi intendiamo di seguire una politica di dignità e di utilità nazionale.
Non possiamo permetterci il lusso di una politica di altruismo insensato o di dedizione completa ai disegni altrui. Do ut des.
L'Italia di oggi conta e deve adeguatamente contare. Lo si incomincia a riconoscere anche oltre i confini. Non abbiamo il cattivo gusto di esagerare la nostra potenza ma non vogliamo nemmeno per eccessiva ed inutile modestia diminuirla.
La mia formula è semplice: niente per niente.
Chi vuole avere da noi prove concrete di amicizia tali prove di concreta amicizia ci dia.
L'Italia fascista come non intende stracciare i Trattati così per molte ragioni di ordine politico economico e morale non intende abbandonare gli alleati di guerra.
Roma sta in linea con Parigi e con Londra ma l'Italia deve imporsi e deve porre agli alleati quel coraggioso e severo esame di coscienza che essi non hanno affrontato dall'armistizio ad oggi.
Esiste ancora una Intesa nel senso sostanziale della parola? Quale è la posizione di questa Intesa di fronte alla Germania di fronte alla Russia di fronte ad una alleanza russo-tedesca? Qual'è la posizione dell'Italia nell'Intesa dell'Italia che non soltanto per debolezze dei suoi Governi ha perduto forti posizioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo mentre si ripongono in discussione taluni dei suoi diritti fondamentali; dell'Italia che non ha avuto colonie né materie prime ed è schiacciata letteralmente dai debiti fatti per raggiungere la vittoria comune?
Mi propongo nei colloqui che avrò coi primi ministri di Francia e di Inghilterra di affrontare con tutta chiarezza nella sua complessità il problema dell'Intesa ed il problema conseguente della posizione dell'Italia in seno dell'Intesa.
Da questo esame due ipotesi scaturiranno: o l'Intesa sanando le sue angustie interne le sue contraddizioni diventerà veramente un blocco omogeneo equilibrato egualitario di forze — con eguali diritti ed eguali doveri — oppure sarà suonata la sua ora e l'Italia riprendendo la sua libertà di azione provvederà lealmente con altra politica alla tutela dei suoi interessi.
Mi auguro che la prima eventualità si verifichi: anche in considerazione del ribollire di tutto il mondo orientale e della crescente intimità russo-turco-tedesca.
Ma perché ciò sia è necessario uscire una buona volta dal terreno delle frasi convenzionali: è tempo insomma di uscire dal semplice terreno dello spediente diplomatico che si rinnova e si ripete ad ogni conferenza per entrare in quello dei fatti storici sul terreno cioè in cui è possibile determinare in un senso o nell'altro un corso degli avvenimenti.
Una politica estera come la nostra una politica di utilità nazionale una politica di rispetto ai Trattati una politica di equa chiarificazione della posizione dell'Italia nell'Intesa non può essere gabellata come una politica avventurosa o imperialistica nel senso volgare della parola.
Noi vogliamo seguire una politica di pace: non però una politica di suicidio. A confondere i pessimisti i quali attendevano risultati catastrofici dall'avvento del Fascismo al potere basterà ricordare che i nostri rapporti sono assolutamente amichevoli con la Svizzera ed un Trattato di commercio che sta in cantiere gioverà quando sarà ultimato a fortificarli; corretti con la Jugoslavia e con la Grecia buoni con la Spagna la Cecoslovacchia la Polonia la Romania con tutti gli Stati baltici dove l'Italia ha guadagnato in questi ultimi tempi grandissime simpatie e coi quali stiamo trattando per addivenire ad accordi commerciali; ed egualmente buoni con tutti gli altri Stati.
Per quello che riguarda l'Austria l'Italia manterrà fede ai suoi impegni e non trascurerà di spiegare azione di ordine economico anche nei confronti dell'Ungheria e della Bulgaria.
Riteniamo che per quanto riguarda la Turchia si debba a Losanna riconoscere quello che è ormai un fatto compiuto con le necessarie garanzie per il traffico negli Stretti per gli interessi europei e per quelli delle minoranze cristiane.
La situazione che si è determinata nei Balcani e nell'Islam va attentamente vigilata. Quando la Turchia abbia avuto quel che le spetta non deve pretendere altro. Ad un dato momento bisogna avere il coraggio di dire alla Turchia: «sin qui ma non oltre». A nessun costo.
Solo con un fermo linguaggio tanto più fermo quanto più leale sarà stata la condotta degli alleati si può evitare il pericolo di complicazioni balcaniche e quindi necessariamente europee.
Non dimentichiamo che ci sono 44.000 mussulmani in Romania 600.000 in Bulgaria 400.000 in Albania 1.500.000 nella Jugoslavia: un mondo che la vittoria della Mezzaluna ha esaltato almeno sotterraneamente.
Per quanto riguarda la Russia l'Italia ritiene che sia giunta ormai l'ora di considerare nella loro attuale realtà i nostri rapporti con quello Stato prescindendo dalle sue condizioni interne nelle quali come Governo non vogliamo entrare come non ammettiamo interventi estranei nelle cose nostre e siamo quindi disposti ad esaminare la possibilità di una soluzione definitiva.
Circa la partecipazione della Russia a Losanna l'Italia ha sostenuto la tesi più liberale e non dispera di farla trionfare quantunque fino ad oggi la Russia sia stata invitata per discutere limitatamente alla questione degli Stretti.
I nostri rapporti con gli Stati Uniti sono ottimi e sarà mia cura di perfezionarli soprattutto nel campo di una desiderabile infima collaborazione d'ordine economico.
Col Canada sta per essere firmato un Trattato di commercio. Cordiali sono i nostri rapporti con le Repubbliche del Centro e Sud America e specialmente col Brasile e con l'Argentina dove vivono milioni di Italiani ai quali non devono essere negate le possibilità di partecipare alla vita locale il che valorizzandoli non li allontanerà ma li legherà più vivamente alla Madre Patria.
Quanto al problema economico finanziario l'Italia sosterrà nel prossimo convegno di Bruxelles che debiti e riparazioni formino un binomio inscindibile. Per questa politica di dignità e di utilità nazionale occorrono alla Consulta organi centrali e periferici adeguati alle nuove necessità della coscienza nazionale e all'accresciuto prestigio dell'Italia nel mondo.
Le direttive di politica interna si riassumono in queste parole: economia lavoro disciplina. Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare con la maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale. Regime della lesina: utilizzazione intelligente delle spese: aiuto a tutte le forze produttive della Nazione: fine di tutte le residuali bardature di guerra.
Sulla situazione finanziaria che pure essendo grave è suscettibile di rapido miglioramento vi riferirà ampiamente il mio collega Tangorra in sede di richiesta dell'esercizio provvisorio. Chi dice lavoro dice borghesia produttiva e classi lavoratrici della città e dei campi. Non privilegi alla prima non privilegi alle ultime ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzano con quelli della produzione e della Nazione.
Il proletariato che lavora e della cui sorte ci preoccupiamo ma senza colpevoli demagogiche indulgenze non ha nulla da temere e nulla da perdere ma certamente tutto da guadagnare da una politica finanziaria che salvi il bilancio dello Stato ed eviti quella bancarotta che si farebbe sentire in disastroso modo specialmente sulle classi più umili della popolazione. La nostra politica emigratoria deve svincolarsi da un eccessivo paternalismo ma il cittadino italiano che emigra sappia che sarà saldamente tutelato dai rappresentanti della Nazione all'estero.
L'aumento del prestigio di una nazione nel mondo è proporzionato alla disciplina di cui dà prova all'interno. Non vi è dubbio che la situazione all'interno è migliorata ma non ancora come vorrei.
Non intendo cullarmi nei facili ottimismi. Non amo Pangloss.
Le grandi città ed in genere tutte le città sono tranquille: gli episodi di violenza sono sporadici e periferici ma dovranno finire.
I cittadini a qualunque partito siano iscritti potranno circolare; tutte le fedi religiose saranno rispettate con particolare riguardo a quella dominante che è il cattolicismo; le libertà statutarie non saranno vulnerate; la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo.
Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti anche contro l'eventuale illegalismo fascista poiché sarebbe un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe più alcuna giustificazione.
Debbo però aggiungere che la quasi totalità dei fascisti ha aderito perfettamente al nuovo ordine di cose. Lo Stato non intende abdicare davanti a chicchessia.
Chiunque si erga contro lo Stato sarà punito. Questo esplicito richiamo va a tutti i cittadini ed io so che deve suonare particolarmente gradito alle orecchie dei fascisti i quali hanno lottato e vinto per avere uno Stato che si imponga a tutti dico a tutti con la necessaria inesorabile energia.
Non bisogna dimenticare che al di fuori delle minoranze che fanno della politica militante ci sono 40.000.000 di ottimi Italiani i quali lavorano si riproducono perpetuano gli strati profondi della razza chiedono ed hanno il diritto di non essere gettati nel disordine cronico preludio sicuro della generale rovina.
Poiché i sermoni — evidentemente — non bastano lo Stato provvederà a selezionare e a perfezionare le forze armate che lo presidiano: lo Stato fascista costituirà forse una polizia unica perfettamente attrezzata di grande mobilità e di elevato spirito morale: mentre l'esercito e marina — gloriosissimi e cari ad ogni italiano — sottratti alle mutazioni della politica parlamentare riorganizzati e potenziati rappresenteranno la riserva suprema della Nazione all'interno ed all'estero.
Signori!
Da ulteriori comunicazioni apprenderete il programma fascista nei suoi dettagli e per ogni singolo dicastero. Io non voglio finché mi sarà possibile governare contro la Camera: ma la Camera deve sentire la sua particolare posizione che la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni.
Chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira — dico una lira — di economia. Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di volonterose collaborazioni che accetteremo cordialmente partano esse da deputati da senatori o da singoli cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito. Il paese ci conforta ed attende.
Non gli daremo ulteriori parole ma fatti. Prendiamo impegno formale e solenne di risanare il bilancio e lo risaneremo. Vogliamo fare una politica estera di pace ma nel contempo di dignità e di fermezza: e la faremo. Ci siamo proposti di dare una disciplina alla Nazione e la daremo. Nessuno degli avversari di ieri di oggi di domani si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere.
Illusione puerile e stolta come quella di ieri. Il nostro Governo ha basi formidabili nella coscienza della Nazione ed è sostenuto dalle migliori dalle fresche generazioni italiane.
Non v'è dubbio che in questi ultimi giorni un passo gigantesco verso la unificazione degli spiriti è stato compiuto. La Patria italiana si è ritrovata ancora una volta dal nord al sud dal continente alle isole generose che non saranno più dimenticate dalla metropoli alle colonie operose del Mediterraneo e dell'Atlantico. Non gettate signori altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue inscritti a parlare sulle mie comunicazioni sono troppi.
Lavoriamo piuttosto con cuore puro e con mente alacre per assicurare la prosperità e la grandezza della Patria.
Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica.
Roma, 16 novembre 1922: MUSSOLINI ripete le sue dichiarazioni presidenziali al Senato.
Nello stesso giorno il Capo del Governo ripeteva al Senato il medesimo discorso tenuto alla Camera premettendo le seguenti dichiarazioni:
Signori Senatori!
Tutta la prima parte delle dichiarazioni che poco fa ho letto alla Camera dei Deputati non riguarda minimamente il Senato. Non devo usare nei confronti del Senato il linguaggio necessariamente duro che ho dovuto tenere nel confronto dei signori deputati. Non solo da oggi ma da parecchi anni ho la sicura coscienza di potere affermare che considero il Senato come uno dei punti fermi della Nazione. Considero il Senato non come un'istituzione superflua secondo certe vedute fantastiche di una piccola democrazia; considero invece il Senato come un organo necessario per la giusta e oculata amministrazione dello Stato.
Gli ultimi anni di storia parlamentare hanno dato al contrasto delle due Camere un carattere che si potrebbe dire plastico e drammatico. La gioventù italiana che io interpreto e rappresento e che intendo di rappresentare guarda al Senato con molta viva patriottica simpatia.
Ripeto che la prima parte del discorso è diretta solo alla Camera dei deputati.
Roma, 17 novembre 1922: MUSSOLINI replica agli interventi dei deputati
Nella tornata del giorno seguente 17 novembre alla Camera dei Deputati il Duce replicò con il seguente discorso agli oratori che avevano parlato su le dichiarazioni del Governo:
Esaminerò con la massima attenzione gli ordini del giorno riguardanti problemi concreti. Data l'ora non posso prendere impegni precisi. Respingo gli ordini del giorno d'ordine politico.
Non faccio alcun discorso. Mi limito a dichiarare all'on. D'Aragona che il mio atteggiamento verso la Confederazione del lavoro è chiaramente definito nella mia linea di condotta nei confronti dei diversi partiti. L'onorevole D'Aragona sa e ricorda che io ho sempre sostenuto la necessità per la Confederazione del lavoro di affrancarsi dalla tutela politica dei diversi partiti che hanno sempre cercato di trarla per vie traverse.
L'on. D'Aragona stia tranquillo. Lui viene dal proletariato; io vengo dal proletariato. L'on. D'Aragona ha conosciuto la dura vita degli emigranti italiani all'estero il sottoscritto l'ha vissuta. Noi riteniamo che non ci possa essere grandezza materiale e morale di nazione dove le masse operaie sono incivili riottose in continua lite tra loro.
Del resto il fatto che uno dei leaders della Confederazione del lavoro non era assolutamente alieno dal partecipare al mio Governo mostra che non ci sono pregiudiziali assolute da nessuna parte. E io vorrei ricordare a quei settori che se gli avvenimenti si sono svolti come si sono svolti la colpa è in grande parte loro. Sedici mesi fa lanciai in quest'aula un'idea che poteva parere paradossale ma alla quale però se voi foste stati previdenti dovevate afferrarvi come il naufrago alla tavola della salvezza. Non l'avete fatto. Gli avvenimenti vi hanno dato torto.
Noi faremo una politica di necessaria severità. Cominceremo da noi stessi. Solo così potremo esercitarla verso gli altri. Del resto il proletariato ha assistito al nostro movimento senza neppure tentare uno sciopero generale che innegabilmente ci avrebbe dato fastidio. Ha capito che bisognava spalancare le finestre perché l'aria di un certo ambiente era appestata. L'intuito profondo che guida le masse e spesso manca ai capi ha consigliato al proletariato un atteggiamento di benevola aspettativa.
Non dite che noi faremo del servilismo verso la classe capitalistica. Siamo stati noi i primi a distinguere tra borghesia e borghesia. C'è una borghesia che voi stessi rimettete nel piano della sua storica necessità tecnica; c'è una borghesia intelligente e produttiva che crea e dirige le industrie di cui non si può fare a meno. Se le classi capitalistiche sperano di avere da noi privilegi speciali tali privilegi non avranno mai. D'altra parte se alcuni ceti di operai già sufficientemente imborghesiti volessero ricattare il Governo per averne favori elettorali si disingannino. Questo non otterranno mai.
Sono in certo senso lieto che la Camera abbia compreso che il mio duro linguaggio di ieri non si riferiva alla generalità e che ho distinto il giudizio da quello dato sul Senato. Il mio linguaggio aveva riferimenti precisi e concreti nettamente individuali. Si trattava di questa Camera di tutto quello che ognuno di noi ha tante volte rilevato con disgusto. Era logico che io dicessi a questa Camera: o ti adatti alla coscienza della nazione o devi scomparire!
On. Cao le sue dichiarazioni non mi toccano. Adesso il Partito Sardo d'Azione va correggendo la sua linea di condotta; adesso sente che veramente ha esagerato. Ma io coi miei propri occhi ho letto su certi giornali. I giornali non sono i partiti!
Mussolini. Li rappresentano però. Si parlava in essi di una vaga federazione mediterranea di cui dovevano far parte la Sardegna la Corsica eccetera.
Sono lieto delle sue dichiarazioni on. Cao. Sono lieto che la Sardegna abbia riconfermato la sua volontà di vivere con noi perché qualche cosa nella storia di oggi ha dimostrato che i piccoli Stati non possono vivere soli.
Dico all'on. Cao che ci occuperemo amorosamente della situazione sarda.
Debbo anche rispondere all'on. Rosadi che mi rimproverava per non aver io volutamente individuato quella città dell'Adriatico la cui passione è viva nei nostri cuori.
Ma poi che il mondo balcanico è in fermento intendo mantenere su quest'argomento il massimo riserbo. Tuttavia l'on. Rosadi deve sapere che per Fiume sono stati adottati molti provvedimenti benefici a quella città.
Non posso ammettere che l'on. Wilfan venga alla Camera italiana a tenere un discorso che potrei chiamare sconveniente e mi limiterò a chiamare eccessivo.
Noi possiamo fare nei confronti delle piccole minoranze allogene una politica di equità e di giustizia ma non dobbiamo con questo dimenticare i diritti della grande massa degli italiani. Non dovete dimenticare che se siamo al Nevoso vi siamo per una dura necessità. E se siamo al Brennero vi siamo per un'altra dura necessità.
Vorrei concludere pregando il nostro Presidente di ritirare le sue dimissioni e suggellare con questo gesto il passato per iniziare l'era che noi vogliamo inaugurare.
Non siamo dei miracolisti e nessuno può pretendere da noi che la situazione si capovolga immediatamente. Sarebbe quello che Lenin chiama «infantilismo».
L'azione è complessa ed ha infinite interferenze d'indole economica politica morale.
Noi non respingiamo nessuna collaborazione e se domani per esempio fosse tratto in ballo un competente adatto a trattare una determinata questione commerciale da quella parte (indica la sinistra) non avrei nessuna difficoltà ad accettarlo.
Noi pensiamo che se la tempesta non avesse avuto lo svolgimento che ha avuto molti che oggi ci fanno il viso dell'armi non avrebbero esitato a prendere posto nella nostra barca.
La quale barca terrà fieramente il mare e vuole giungere al suo porto: la pace la grandezza la prosperità della Nazione!
Roma, 24 novembre 1922: MUSSOLINI commemora Sonnino
Poco più di un mese dopo la Marcia su Roma la notte del 24 novembre si spegneva Sidney Sonnino l'insigne statista che aveva «legato indissolubilmente il suo nome» all'intervento dell'Italia in guerra. Il Duce lo commemorò alla Camera nella tornata del 24 novembre con il seguente discorso:
La Camera con voci che si sono levate da tutti i settori ha tributato al disopra delle divisioni politiche il suo alto omaggio alla memoria e alle opere di Sidney Sonnino ed ha manifestato il suo profondo cordoglio per la morte improvvisa dell'eminente uomo di Stato. Poco quindi mi resta a dire come capo del Governo. Del resto più che i discorsi sono i fatti e le vicende di una vita interamente dedicata al bene della Patria la migliore apologia di Sidney Sonnino.
Io non lo conobbi personalmente né mai ebbi dimestichezza di rapporti con lui. Egli apparteneva più che a questo all'altro secolo. Cinquanta anni dividono la sua dalla mia generazione. Ciò malgrado pur vedendolo da lontano io fui portato ad ammirarlo specie in questi ultimi tempi.
Mi piaceva il suo stile di vita aspro e disdegnoso quindi poco parlamentare nel senso che si può dire basso della parola; trovavo fra la concezione fascista dello Stato e quella che rappresentò la concezione fondamentale della politica di Sidney Sonnino una evidente identità. Anche egli come il Fascismo non ebbe paura di proclamarsi conservatore quando erano in giuoco e in pericolo i valori essenziali e basilari della nostra società nazionale.
Il fatto dominante della sua quarantennale attività di statista è stato l'intervento dell'Italia in guerra intervento al quale è legato indissolubilmente il suo nome. Il Libro Verde rimane l'alta giustificazione politica diplomatica e morale della nostra guerra contro gli Imperi centrali.
Sidney Sonnino volle la guerra e la volle poi fino alla vittoria.
Forse con un'Italia più conosciuta ed apprezzata si sarebbe potuto negoziare cogli Alleati un patto d'intervento più razionale e più completo: ma io credo che il barone Sonnino abbia trovato difficoltà superiori alle sue stesse forze che pure erano grandissime.
Difficoltà che si ripeterono durante la guerra attraverso subdoli tentativi di pace separata che avrebbero annullato completamente i nostri sacrifici. Difficoltà che si aggravarono durante le trattative di pace quando gli Alleati sembrarono dimenticare l'importanza dell'intervento italiano e il nostro paese all'interno dava l'impressione di un paese in convulsione perenne e destinato allo sfacelo.
Non si può fare una politica estera con un paese in disordine. Dopo quattro anni è forse la prima volta che un ministro degli esteri italiano può recarsi all'estero per discutere — da eguale a eguale — cogli Alleati senza essere turbato dal pensiero della situazione interna. Do lode di ciò a tutto il popolo italiano.
Non si può certo imputare all'onorevole Sonnino il mancato riconoscimento di quel Patto di Londra che pure recava le firme degli Alleati. Non vi è dubbio che l'onorevole Sonnino deve aver indicibilmente sofferto per quanto si fece o non si fece a Versailles. Qui forse sta la ragione del suo ritiro dalla vita politica militante.
Dopo l'avvento del Fascismo la nostra politica raccolse quanto rimane di vitale nella politica estera sonniniana e precisamente il senso e l'orgoglio della dignità nazionale il rispetto dei trattati la valutazione pregiudiziale degli interessi della nostra Nazione.
A nostro avviso il mezzo migliore per onorare la memoria di Sidney Sonnino è quello di raccogliere e praticare l'insegnamento della sua lunga vita di statista: gli interessi della Patria innanzi tutto. Possa giungere in un giorno che speriamo non lontano allo spirito insonne aleggiante sull'aspro solitario Romito la buona novella: la Nazione tutta disciplinata laboriosa e concorde è in marcia verso i suoi alti destini!
Roma, 27 novembre 1922: MUSSOLINI replica ai senatori.
MUSSOLINI ritorna al Senato del Regno replicando con il seguente discorso ai Senatori che avevano parlato su le dichiarazioni del Governo:
Onorevoli Senatori!
Ho ascoltato con vivo interesse e meditata attenzione tutti i discorsi che sono stati pronunciati in quest'aula i quali discorsi hanno prospettato diversi argomenti; i ministri chiamati direttamente in causa potranno rispondere sulle singole questioni; io mi limiterò a ribattere alcune affermazioni che si possono chiamare di ordine generale.
Certamente se il voto del Senato sarà unanime la cosa mi farà piacere ma non dovete credere che l'unanimità mi lusinghi eccessivamente. Molti di coloro che in questi ultimi giorni solidarizzano più o meno clamorosamente con me li ho in vivo dispetto. Si tratta spesso di anime o animule che vanno dalla parte dove spira il vento favorevole salvo poi a precipitarsi dalla parte opposta quando il vento cambi direzione. Agli amici ambigui preferisco avversari vivi e sinceri.
Di tutti i discorsi pronunciati in quest'aula alcuni assumono particolare rilievo; ad esempio il discorso del senatore Conti a fondo ottimista mi ha ricordato l'analogo discorso a fondo ottimista pronunciato nell'altro ramo del Parlamento dall'onorevole Buozzi. È singolare e certamente di buon auspicio questa valutazione che chiamo ottimista delle condizioni economiche italiane che parte da un capo del proletariato e da un capitano della grande industria italiana.
Debbo una risposta particolare al senatore Albertini. Io ammiro la sua ferma fede di liberale puro; ma mi permetto di ricordare al senatore Albertini che il liberalismo è figlio di ben due rivoluzioni; mi permetto di ricordare al senatore Albertini che il costituzionalismo in Inghilterra il liberalismo in Francia insomma tutto il complesso di idee e di dottrine che prendono il nome di liberalismo e che di loro informano il secolo XIX escono da un Serissimo travaglio rivoluzionario dei popoli e senza questo Serissimo travaglio probabilmente oggi il senatore Albertini non avrebbe potuto tessere l'elogio del liberalismo puro.
Come si poteva uscire da questa crisi interna che diventava ogni giorno più angosciosa e preoccupante?
Un Ministero di transazione o di transizione non era più possibile non risolveva il problema lo dilazionava appena. Di lì a due o tre mesi o sei mesi con quella mutevolezza di sentimenti di appetiti che caratterizza certi ambienti parlamentari ci saremmo trovati al punto di prima con un'esperienza fallita che avrebbe aggravato la crisi. Allora io dopo aver lungamente meditato dopo aver constatato il paradosso ironico sempre più evidente di due Stati uno dei quali era l'attuale mentre l'altro era uno Stato che nessuno riusciva più a definire mi sono detto ad un certo momento che solo il taglio chirurgico netto e nettamente osato poteva fare di due Stati uno Stato solo e salvare le fortune della Nazione.
Il senatore Albertini non deve credere che tutto ciò non sia stato oggetto di lunga meditazione; non deve credere che io non mi sia in anticipo rappresentati tutti i pericoli tutti i rischi di questa azione illegale. E l'ho voluta io deliberatamente: oso dire di più l'ho imposta.
Non c'era a mio avviso altro mezzo per immettere forze nuove in una classe politica che pareva enormemente stanca e sfiduciata in tutte le sue gerarchie se non il mezzo rivoluzionario; e siccome l'esperienza insegna qualche cosa o dovrebbe insegnare qualche cosa agli uomini intelligenti io posi subito dei confini dei limiti delle regole.
Non sono andato oltre ad un certo segno non mi sono ubriacato minimamente della vittoria non ne ho abusato.
Chi mi impediva di chiudere il Parlamento? Chi mi impediva di proclamare una dittatura di due tre o cinque persone? Dove era qualcuno che mi avesse potuto resistere che avesse potuto resistere ad un movimento che non era di 300.000 tessere ma era in quel momento di 300.000 fucili? Nessuno.
Sono stato io che per carità di Patria ho detto che bisognava subordinare e impulsi e sentimenti ed egoismi agli interessi supremi della Nazione ed ho subito immesso questo movimento sui binari della costituzione.
Ho fatto un Ministero con uomini di tutte le parti della Camera non ho avuto scrupolo di metterci dentro un membro del vecchio Ministero; guardavo ai valori tecnici non mi interessavano tanto le etichette politiche.
Ho fatto un Ministero di coalizione l'ho presentato alla Camera ho chiesto il voto il giudizio della Camera. Ho pensato che la Camera quella Camera fosse un poco cambiata. Quando mi sono accorto che 38 oratori avevano presentato 36 ordini del giorno allora mi sono detto che non è forse necessario abolire il Parlamento ma che il Paese gradirebbe assai un certo periodo di astinenza parlamentare. Non ho dunque intenzione di abolire la Camera di abolire tutto ciò che è il risultato ed il frutto della rivoluzione liberale.
Io posso valutare tutto ciò filosoficamente da un punto di vista che si potrebbe chiamare negativo; ma la filosofia deve tacere di fronte alle necessità politiche. Ma intendiamoci che cosa è questo liberalismo questa pratica del liberalismo? Perché se c'è qualcuno che ritiene che per essere perfetti liberali occorre dare la libertà a qualche centinaio di incoscienti di fanatici di canaglie la libertà di rovinare 40.000.000 di italiani io mi rifiuto energicamente di dar questa libertà.
Signori non ho feticci e quando si tratta degli interessi della Nazione non ho nemmeno il feticcio della libertà. Ecco perché quando mi si è parlato della libertà di stampa io che son giornalista ho detto che la libertà non è solo un diritto ma è un dovere; e quello che è successo dopo in certi giornali romani mi dimostra esattamente che qualche volta si dimentica che la libertà è un dovere; ragione per cui il Governo ha diritto di intervenire; se non lo facesse sarebbe insufficiente la prima volta ed in seguito sarebbe suicida.
Non intendo uscire dalle leggi non intendo uscire dalla costituzione non intendo di improvvisare del nuovo: l'esempio delle altre rivoluzioni mi insegna appunto che non si può dar fondo all'universo e che ci sono dei punti fondamentali nella vita dei popoli che conviene rispettare. Ma io intendo che la disciplina nazionale non sia più una parola intendo che la legge non sia più un'arma spuntata intendo che la libertà non degeneri in licenza e non intendo nemmeno di essere al disopra della mischia fra coloro che amano che lavorano e che sono pronti a sacrificarsi per la Nazione e coloro che invece sono pronti a far tutto il contrario.
È di questo rollandismo di questo insulso rollandismo che il Governo di ieri è perito; non si può stare al disopra della mischia quando sono in giuoco i valori morali fondamentali della società nazionale; e nessuno può dire che una politica nazionale siffattamente intesa sia reazionaria.
Io non ho paura delle parole; se domani è necessario mi proclamo il principe dei reazionari; per me tutte queste terminologie di destra di sinistra di conservatori di aristocrazia o democrazia sono vacue terminologie scolastiche; servono per distinguerci qualche volta o per confonderci spesso.
Non vi sarà una politica antiproletaria e non vi sarà per ragioni nazionali né per ragioni di altro ordine. Noi non vogliamo opprimere il proletariato ricacciarlo verso condizioni di vita arretrate e mortificanti; anzi vogliamo elevarlo materialmente e spiritualmente ma non già perché noi pensiamo che il numero la massa la quantità possa creare dei tipi speciali di civiltà nell'avvenire; lasciamo questa ideologia a coloro che si professano sacerdoti di questa misteriosa religione.
Le ragioni per cui vogliamo fare una politica di benessere del proletariato sono affatto diverse e ricadono nell'ambito della Nazione; ci sono dettate dalla realtà dei fatti dal convincimento che non ci può essere una Nazione unita tranquilla e concorde se i nostri tre o quattro milioni di operai sono condannati a condizioni di vita disgraziata insufficienti; e può darsi anzi è certo che la nostra politica operaia antidemagogica perché non possiamo promettere i paradisi che non possediamo riuscirà in definitiva assai più utile alla massa lavoratrice dell'altra politica che l'ha incantata e mistificata nell'attesa inutile e vana dei miraggi orientali.
Cosa farete mi si domanda dell'organizzazione militare del fascismo? Questa organizzazione militare ha dato a Roma uno spettacolo meraviglioso. Vi erano esattamente 52.000 camicie nere che hanno lasciato Roma nel termine da me prescritto di 24 ore. Obbediscono; oserei dire che hanno il misticismo dell'obbedienza. Non intendo di dissolvere e di vaporizzare queste forze vive non solo ai fini del Fascismo ma ai fini della Nazione.
Quello che io imporrò al Fascismo sarà la fine di tutte quelle azioni che non hanno più ragione di essere la fine di tutte le piccole violenze individuali e collettive che mortificano un po' tutti che sono spesso il risultato di situazioni locali che malamente si potrebbero inquadrare nelle grandi linee dei grandi partiti e sono sicuro che quello che si potrebbe chiamare illegalismo fascista che oggi è in grandissima confortante diminuzione finirà completamente. Qui è una delle condizioni di quella pacificazione cui alludeva il mio amico sen. Bellini. Ma bisogna perché questa pacificazione avvenga che anche dall'altra parte si rinunci agli agguati ed alle imboscate.
Io ringrazio il Senato di non aver molto insistito sulla politica estera. Io sono particolarmente lieto che il Fascismo tutto abbia accettato con entusiasmo il mio fermo proposito quello che riguarda l'applicazione dei trattati perché se io non ammetto l'illegalismo nella politica interna meno ancora lo ammetterò nella politica estera; ciò sia ben chiaro per tutti dentro e fuori di quest'aula.
La politica estera sarà fatta da un solo Stato quello che ho l'onore di rappresentare e di dirigere io perché non ci può essere diffusione e dilatazione di responsabilità all'infinito e la politica estera è cosa troppo gelosa troppo delicata e formidabile perché possa essere gettata in pascolo a tutti quelli che non hanno niente di meglio da fare.
Posso dire all'on. Barzilai che io conserverò il ministero degli esteri; in fondo il ministero dell'interno è un ministero di polizia; sono lieto di essere il capo della polizia non me ne vergogno affatto anzi spero che tutti i cittadini italiani dimenticando certi atavismi inutili riconosceranno nella polizia una delle forze più necessarie alla convivenza sociale.
Ma soprattutto intendo di fare della politica estera che non sarà avventurosa ma non sarà nemmeno rinunciataria; certo in questo campo non c'è da aspettare il prodigio perché non si può cancellare in un colloquio sia pur drammatico di mezz'ora una politica che è il risultato di altri elementi e di un altro periodo di tempo. Io credo che nella politica estera si debba avere come ideale il mantenimento della pace; ideale bellissimo specie dopo una guerra durata quattro anni.
Quindi la nostra politica non sarà la politica degli imperialisti che cercano le cose impossibili; ma sarà una politica che non partirà sempre necessariamente dalla pregiudiziale negativa per cui non si dovrebbe mai ricorrere all'uso della forza. È bene tener presente questa possibilità: non si può scartarla a priori perché allora voi sareste disarmati dinanzi alle altre nazioni.
Ma non mi faccio illusioni perché per il mio temperamento disdegno tutti gli ottimismi facili; tutti quelli che vedono sempre il mondo in rosa qualche volta mi fanno ridere spesso mi fanno pietà. Io credo però di essere riuscito già a qualche cosa e credo che non sia poco che non sia scarso risultato: sono cioè riuscito a far capire agli Alleati e forse anche ad altri popoli di Europa i quali erano evidentemente rimasti ad un'Italia che ci appare alquanto vagamente preistorica all'Italia dei musei e delle biblioteche — tutte cose rispettabilissime — i quali non avevano forse ancora l'esatta visione di un'Italia quale è quella che io vedo nascere sotto i miei occhi: un'Italia gonfia di vita che si prepara a darsi uno stile di serenità e di bellezza; un'Italia che non vive di rendita sul passato come un parassita ma intende di costituire con le sue proprie forze col suo intimo travaglio col suo martirio e colla sua passione le sue fortune avvenire.
Questa è l'Italia che è balenata ma forse non tanto vagamente davanti a coloro che rappresentavano le altre nazioni e che d'ora innanzi dovranno convincersi lo vogliano o non lo vogliano che l'Italia non intende di seguire il carro degli altri ma intende rivendicare dignitosamente tutti i suoi diritti e intende non meno dignitosamente difendere tutti i suoi interessi.
Tutti coloro che hanno parlato in quest'aula mi hanno ammonito e mi hanno detto: la responsabilità che voi vi prendete è certamente grave è enorme. Sì lo so lo sento; qualche volta il senso di questa responsabilità aggravata da una attesa così profonda e vibrante mi dà un senso di asfissia e di schiacciamento; allora io debbo evocare tutte le mie forze richiamare tutta la mia volontà tenere presenti al mio spirito i bisogni e gli interessi e l'avvenire della Patria.
Ebbene lo so non è la mia persona che è in giuoco. Certo se io non riesco sono un uomo finito; non sono esperimenti che si possano tentare due volte nella stessa vita; ma la mia persona vale pochissimo. Il non riuscire non sarebbe grave per me ma potrebbe essere infinitamente grave per la Nazione e allora io intendo di dirigere il timone della barca — e non lo cedo a nessuno — ma non mi rifiuterò di caricare tutti coloro che vorranno costituire la mia bellissima ciurma tutti coloro che vorranno lavorare con me che mi vorranno dare consigli e suggerimenti che vorranno insomma fornirmi un'utile necessaria collaborazione.
Nell'altro ramo del Parlamento ho invocato Iddio; in questo — non sembri un contrasto cercato dall'oratoria — invoco il popolo italiano. Qui potrei riaccostarmi a Mazzini che di Dio e del popolo aveva fatto un binomio ma se il popolo sarà come io lo spero e come io lo vorrò disciplinato laborioso fiero di questa sua terza e meravigliosa rinascita io sento che non fallirò alla mia meta.
Milano, 5 dicembre 1922: MUSSOLINI parla ai metallurgici lombardi.
In questo periodo MUSSOLINI assorbito dall'intensissimo inizio della nuova era fascista fu sobrio di parole anche più del consueto. Fra il 22 ottobre e il 31 dicembre 1922 non si hanno che le dichiarazioni del Governo alle due branche del Parlamento con le rispettive repliche le parole commemorative per Sidney Sonnino e questo discorso agli operai che conclude l'anno della Marcia su Roma con accenti realistici ed umani.
Questo discorso fu tenuto allo Stabilimento metallurgico «-Acciaierie Lombarde-» al Reparto Gamboloita. Esso ebbe larga eco perché fu la prima precisazione dell'atteggiamento del nuovo Governo verso le classi operaie.
Sono particolarmente lieto di aver visitato queste officine che conosco attraverso la storia di questi ultimi cinque anni agitati. Io non vi terrò un discorso. Vi dirò solo che il Governo che ho l'onore di presiedere non è e non può e non deve essere un Governo anti-operaio. Gli operai sono parte viva e integrante della Nazione sono degli italiani che come tutti gli italiani devono essere tutelati rispettati e difesi.
Il mio governo è fortissimo e non ha bisogno di cercare troppe larghe adesioni. Non le cerca e non le respinge; se adesioni verranno anche da parte operaia io non le respingerò. Ma dovremo intenderci bene e stabilire patti chiari per evitare delusioni in seguito.
Visitando poc'anzi questa bella e grande officina io mi sono sentito preso da un profondo senso di commozione e ho rivissuto in un attimo i giorni lontani della mia giovinezza. Poiché io non scendo da antenati aristocratici e illustri. I miei antenati erano contadini che lavoravano la terra e mio padre era un fabbro che piegava sull'incudine il ferro rovente. Talvolta io da piccino aiutavo il padre mio nel suo duro umile lavoro; e ora ho il compito ben più aspro e più duro di piegare le anime. A venti anni ho lavorato «con le mani»; ho fatto il manovale e il muratore. Ciò io vi dico non per sollecitare la vostra simpatia ma per dimostrarvi che non sono e non posso essere nemico della gente che lavora. Sono però bene un nemico di coloro che in nome di ideologie false e grottesche vogliono mistificare gli operai e condurli alla rovina.
Voi avrete modo di constatare più che dalle mie parole dai fatti del mio Governo che nella sua azione esso intende ispirarsi e vuole tener sempre presenti tre elementi fondamentali: «nazione» — che esiste anche se si vuole negare e che è una realtà insopprimibile; «-produzione-» — poiché l'interesse a produrre molto e bene non è soltanto dei capitalisti ma anche dell'operaio il quale col capitalista perde e va in miseria se la produzione si arresta e se i manufatti nazionali non trovano sbocco sui mercati mondiali; «la tutela degli interessi giusti della classe lavoratrice». Tenendo presenti questi tre elementi essenziali io intendo di dare all'Italia la pace all'interno e all'estero.
Nessuno di noi vuole andare verso avventure nelle quali siano da impegnare il sangue e i beni dei cittadini. Ma nemmeno vogliamo fare delle rinunce; e vogliamo che l'Italia nel mondo non sia più la nazione «ritardatala». Perché la nostra voce possa essere ascoltata nei consigli internazionali — consigli o operai che altamente vi interessano — occorre che all'interno sia la più rigida disciplina; nessuno ci ascolterà se dietro di noi sarà un paese irrequieto torbido insoddisfatto. Voi operai sentite che in me non vi parla in questo momento un capo di Governo ma un uomo che vi pesa e che sa quello che potete fare e quello che non potete fare. Ma come capo del Governo io vi dico che quello che io presiedo è un Governo sul serio forte sicuro e non un'amministrazione burocratica: un Governo che vuole agire anche per gli interessi delle classi lavoratrici interessi che il Governo riconoscerà sempre quando siano giusti.
Gli operai hanno creduto di doversi e di potersi rendere estranei alla vita nazionale. Questo è stato un grande errore. Voi dovete essere invece anima dell'anima della Nazione in modo che tutto il nostro travaglio non vada miserevolmente perduto. Questo è il comandamento che ci viene dai nostri morti lo spirito dei quali aleggia certo in questo salone e vi ripete il medesimo comandamento. Occorre che gli italiani ritrovino quel minimo di concordia che è necessario per rendere possibile il riordino e lo sviluppo della vita civile; e se vi saranno minoranze che tenteranno opporsi esse saranno inesorabilmente colpite. Fate tesoro di queste parole e ricordate il motto dei Sindacati fascisti: «La patria non si rinnega ma si conquista!».
Mi onoro di annunziare alla Camera che Sua Maestà il Re con decreto 31 scorso ottobre ha accettato le dimissioni rassegnate dall'onorevole avvocato Luigi Facta deputato al Parlamento dalla carica di presidente del Consiglio dei ministri e quelle dei suoi colleghi ministri segretari di Stato nonché quelle dei sottosegretari di Stato e mi ha dato incarico di comporre il nuovo Ministero.
Signori!
Quello che io compio oggi in quest'aula è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza.
Da molti anzi da troppi anni le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata un assalto ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale.
Ora è accaduto per la seconda volta nel breve volgere di un decennio che il popolo italiano — nella sua parte migliore — ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento.
Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922.
Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo perché ognuno lo sappia che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere» inserendola intimamente come forza di sviluppo di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione.
Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo.
Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli; potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho almeno in questo primo tempo voluto.
Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi; ne sono tranquillamente usciti ed hanno ottenuto la libera circolazione: del che approfittano già per risputare veleno e tendere agguati come a Carate ed a Bergamo a Udine ed a Muggia.
Ho costituito un Governo di coalizione e non già con l'intento di avere una maggioranza parlamentare della quale posso oggi fare benissimo a meno; ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti al di sopra delle sfumature dei partiti la stessa Nazione vogliono salvare.
Ringrazio dal profondo del cuore i miei collaboratori ministri e sottosegretari; ringrazio i miei colleghi di Governo che hanno voluto assumere con me le pesanti responsabilità di quest'ora: e non posso non ricordare con simpatia l'atteggiamento delle masse lavoratrici italiane che hanno confortato il moto fascista con la loro attiva o passiva solidarietà.
Credo anche di interpretare il pensiero di gran parte di questa Assemblea e certamente della maggioranza del popolo italiano tributando un caldo omaggio al Sovrano il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima ora ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria.
Prima di giungere a questo posto da ogni parte ci chiedevano un programma. Non sono ahimé! i programmi che difettano in Italia: sibbene gli uomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti i problemi della vita italiana tutti dico sono già stati risolti sulla carta: ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta oggi questa ferma e decisa volontà.
La politica estera è quella che specie in questo momento più particolarmente ci occupa e preoccupa.
Ne parlo subito perché credo con quello che dirò di dissipare molte apprensioni. Non tratterò tutti gli argomenti perché anche in questo campo preferisco l'azione alle parole.
Gli orientamenti fondamentali della nostra politica estera sono i seguenti: i Trattati di pace buoni o cattivi che siano una volta che sono stati firmati e ratificati vanno eseguiti. Uno Stato che si rispetti non può avere altra dottrina.
I Trattati non sono eterni non sono irreparabili: sono capitoli della storia non epilogo della storia. Eseguirli significa provarli.
Se attraverso la esecuzione si appalesa il loro assurdo ciò può costituire il fatto nuovo che apre la possibilità di un ulteriore esame delle rispettive posizioni. Come il Trattato di Rapallo così gli accordi di Santa Margherita che da quello derivano vengono da me portati dinanzi al Parlamento.
Stabilito che quando siano perfetti cioè ratificati i trattati debbono essere lealmente eseguiti passo a stabilire un altro fondamento della nostra politica estera: cioè il ripudio di tutta la fumosa ideologia «-ricostruzionistica-».
Noi ammettiamo che ci sia una specie di unità o meglio di interdipendenza della vita economica europea. Ammettiamo che si debba riedificare questa economia ma escludiamo che i metodi fin qui adottati giovino allo scopo.
Valgono più ai fini della ricostruzione economica europea i Trattati di commercio a due base delle più vaste relazioni economiche fra i popoli che le macchinose e confuse conferenze plenarie la cui lacrimevole istoria ognuno conosce. Per ciò che riguarda l'Italia noi intendiamo di seguire una politica di dignità e di utilità nazionale.
Non possiamo permetterci il lusso di una politica di altruismo insensato o di dedizione completa ai disegni altrui. Do ut des.
L'Italia di oggi conta e deve adeguatamente contare. Lo si incomincia a riconoscere anche oltre i confini. Non abbiamo il cattivo gusto di esagerare la nostra potenza ma non vogliamo nemmeno per eccessiva ed inutile modestia diminuirla.
La mia formula è semplice: niente per niente.
Chi vuole avere da noi prove concrete di amicizia tali prove di concreta amicizia ci dia.
L'Italia fascista come non intende stracciare i Trattati così per molte ragioni di ordine politico economico e morale non intende abbandonare gli alleati di guerra.
Roma sta in linea con Parigi e con Londra ma l'Italia deve imporsi e deve porre agli alleati quel coraggioso e severo esame di coscienza che essi non hanno affrontato dall'armistizio ad oggi.
Esiste ancora una Intesa nel senso sostanziale della parola? Quale è la posizione di questa Intesa di fronte alla Germania di fronte alla Russia di fronte ad una alleanza russo-tedesca? Qual'è la posizione dell'Italia nell'Intesa dell'Italia che non soltanto per debolezze dei suoi Governi ha perduto forti posizioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo mentre si ripongono in discussione taluni dei suoi diritti fondamentali; dell'Italia che non ha avuto colonie né materie prime ed è schiacciata letteralmente dai debiti fatti per raggiungere la vittoria comune?
Mi propongo nei colloqui che avrò coi primi ministri di Francia e di Inghilterra di affrontare con tutta chiarezza nella sua complessità il problema dell'Intesa ed il problema conseguente della posizione dell'Italia in seno dell'Intesa.
Da questo esame due ipotesi scaturiranno: o l'Intesa sanando le sue angustie interne le sue contraddizioni diventerà veramente un blocco omogeneo equilibrato egualitario di forze — con eguali diritti ed eguali doveri — oppure sarà suonata la sua ora e l'Italia riprendendo la sua libertà di azione provvederà lealmente con altra politica alla tutela dei suoi interessi.
Mi auguro che la prima eventualità si verifichi: anche in considerazione del ribollire di tutto il mondo orientale e della crescente intimità russo-turco-tedesca.
Ma perché ciò sia è necessario uscire una buona volta dal terreno delle frasi convenzionali: è tempo insomma di uscire dal semplice terreno dello spediente diplomatico che si rinnova e si ripete ad ogni conferenza per entrare in quello dei fatti storici sul terreno cioè in cui è possibile determinare in un senso o nell'altro un corso degli avvenimenti.
Una politica estera come la nostra una politica di utilità nazionale una politica di rispetto ai Trattati una politica di equa chiarificazione della posizione dell'Italia nell'Intesa non può essere gabellata come una politica avventurosa o imperialistica nel senso volgare della parola.
Noi vogliamo seguire una politica di pace: non però una politica di suicidio. A confondere i pessimisti i quali attendevano risultati catastrofici dall'avvento del Fascismo al potere basterà ricordare che i nostri rapporti sono assolutamente amichevoli con la Svizzera ed un Trattato di commercio che sta in cantiere gioverà quando sarà ultimato a fortificarli; corretti con la Jugoslavia e con la Grecia buoni con la Spagna la Cecoslovacchia la Polonia la Romania con tutti gli Stati baltici dove l'Italia ha guadagnato in questi ultimi tempi grandissime simpatie e coi quali stiamo trattando per addivenire ad accordi commerciali; ed egualmente buoni con tutti gli altri Stati.
Per quello che riguarda l'Austria l'Italia manterrà fede ai suoi impegni e non trascurerà di spiegare azione di ordine economico anche nei confronti dell'Ungheria e della Bulgaria.
Riteniamo che per quanto riguarda la Turchia si debba a Losanna riconoscere quello che è ormai un fatto compiuto con le necessarie garanzie per il traffico negli Stretti per gli interessi europei e per quelli delle minoranze cristiane.
La situazione che si è determinata nei Balcani e nell'Islam va attentamente vigilata. Quando la Turchia abbia avuto quel che le spetta non deve pretendere altro. Ad un dato momento bisogna avere il coraggio di dire alla Turchia: «sin qui ma non oltre». A nessun costo.
Solo con un fermo linguaggio tanto più fermo quanto più leale sarà stata la condotta degli alleati si può evitare il pericolo di complicazioni balcaniche e quindi necessariamente europee.
Non dimentichiamo che ci sono 44.000 mussulmani in Romania 600.000 in Bulgaria 400.000 in Albania 1.500.000 nella Jugoslavia: un mondo che la vittoria della Mezzaluna ha esaltato almeno sotterraneamente.
Per quanto riguarda la Russia l'Italia ritiene che sia giunta ormai l'ora di considerare nella loro attuale realtà i nostri rapporti con quello Stato prescindendo dalle sue condizioni interne nelle quali come Governo non vogliamo entrare come non ammettiamo interventi estranei nelle cose nostre e siamo quindi disposti ad esaminare la possibilità di una soluzione definitiva.
Circa la partecipazione della Russia a Losanna l'Italia ha sostenuto la tesi più liberale e non dispera di farla trionfare quantunque fino ad oggi la Russia sia stata invitata per discutere limitatamente alla questione degli Stretti.
I nostri rapporti con gli Stati Uniti sono ottimi e sarà mia cura di perfezionarli soprattutto nel campo di una desiderabile infima collaborazione d'ordine economico.
Col Canada sta per essere firmato un Trattato di commercio. Cordiali sono i nostri rapporti con le Repubbliche del Centro e Sud America e specialmente col Brasile e con l'Argentina dove vivono milioni di Italiani ai quali non devono essere negate le possibilità di partecipare alla vita locale il che valorizzandoli non li allontanerà ma li legherà più vivamente alla Madre Patria.
Quanto al problema economico finanziario l'Italia sosterrà nel prossimo convegno di Bruxelles che debiti e riparazioni formino un binomio inscindibile. Per questa politica di dignità e di utilità nazionale occorrono alla Consulta organi centrali e periferici adeguati alle nuove necessità della coscienza nazionale e all'accresciuto prestigio dell'Italia nel mondo.
Le direttive di politica interna si riassumono in queste parole: economia lavoro disciplina. Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare con la maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale. Regime della lesina: utilizzazione intelligente delle spese: aiuto a tutte le forze produttive della Nazione: fine di tutte le residuali bardature di guerra.
Sulla situazione finanziaria che pure essendo grave è suscettibile di rapido miglioramento vi riferirà ampiamente il mio collega Tangorra in sede di richiesta dell'esercizio provvisorio. Chi dice lavoro dice borghesia produttiva e classi lavoratrici della città e dei campi. Non privilegi alla prima non privilegi alle ultime ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzano con quelli della produzione e della Nazione.
Il proletariato che lavora e della cui sorte ci preoccupiamo ma senza colpevoli demagogiche indulgenze non ha nulla da temere e nulla da perdere ma certamente tutto da guadagnare da una politica finanziaria che salvi il bilancio dello Stato ed eviti quella bancarotta che si farebbe sentire in disastroso modo specialmente sulle classi più umili della popolazione. La nostra politica emigratoria deve svincolarsi da un eccessivo paternalismo ma il cittadino italiano che emigra sappia che sarà saldamente tutelato dai rappresentanti della Nazione all'estero.
L'aumento del prestigio di una nazione nel mondo è proporzionato alla disciplina di cui dà prova all'interno. Non vi è dubbio che la situazione all'interno è migliorata ma non ancora come vorrei.
Non intendo cullarmi nei facili ottimismi. Non amo Pangloss.
Le grandi città ed in genere tutte le città sono tranquille: gli episodi di violenza sono sporadici e periferici ma dovranno finire.
I cittadini a qualunque partito siano iscritti potranno circolare; tutte le fedi religiose saranno rispettate con particolare riguardo a quella dominante che è il cattolicismo; le libertà statutarie non saranno vulnerate; la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo.
Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti anche contro l'eventuale illegalismo fascista poiché sarebbe un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe più alcuna giustificazione.
Debbo però aggiungere che la quasi totalità dei fascisti ha aderito perfettamente al nuovo ordine di cose. Lo Stato non intende abdicare davanti a chicchessia.
Chiunque si erga contro lo Stato sarà punito. Questo esplicito richiamo va a tutti i cittadini ed io so che deve suonare particolarmente gradito alle orecchie dei fascisti i quali hanno lottato e vinto per avere uno Stato che si imponga a tutti dico a tutti con la necessaria inesorabile energia.
Non bisogna dimenticare che al di fuori delle minoranze che fanno della politica militante ci sono 40.000.000 di ottimi Italiani i quali lavorano si riproducono perpetuano gli strati profondi della razza chiedono ed hanno il diritto di non essere gettati nel disordine cronico preludio sicuro della generale rovina.
Poiché i sermoni — evidentemente — non bastano lo Stato provvederà a selezionare e a perfezionare le forze armate che lo presidiano: lo Stato fascista costituirà forse una polizia unica perfettamente attrezzata di grande mobilità e di elevato spirito morale: mentre l'esercito e marina — gloriosissimi e cari ad ogni italiano — sottratti alle mutazioni della politica parlamentare riorganizzati e potenziati rappresenteranno la riserva suprema della Nazione all'interno ed all'estero.
Signori!
Da ulteriori comunicazioni apprenderete il programma fascista nei suoi dettagli e per ogni singolo dicastero. Io non voglio finché mi sarà possibile governare contro la Camera: ma la Camera deve sentire la sua particolare posizione che la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni.
Chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira — dico una lira — di economia. Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di volonterose collaborazioni che accetteremo cordialmente partano esse da deputati da senatori o da singoli cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito. Il paese ci conforta ed attende.
Non gli daremo ulteriori parole ma fatti. Prendiamo impegno formale e solenne di risanare il bilancio e lo risaneremo. Vogliamo fare una politica estera di pace ma nel contempo di dignità e di fermezza: e la faremo. Ci siamo proposti di dare una disciplina alla Nazione e la daremo. Nessuno degli avversari di ieri di oggi di domani si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere.
Illusione puerile e stolta come quella di ieri. Il nostro Governo ha basi formidabili nella coscienza della Nazione ed è sostenuto dalle migliori dalle fresche generazioni italiane.
Non v'è dubbio che in questi ultimi giorni un passo gigantesco verso la unificazione degli spiriti è stato compiuto. La Patria italiana si è ritrovata ancora una volta dal nord al sud dal continente alle isole generose che non saranno più dimenticate dalla metropoli alle colonie operose del Mediterraneo e dell'Atlantico. Non gettate signori altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue inscritti a parlare sulle mie comunicazioni sono troppi.
Lavoriamo piuttosto con cuore puro e con mente alacre per assicurare la prosperità e la grandezza della Patria.
Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica.
Roma, 16 novembre 1922: MUSSOLINI ripete le sue dichiarazioni presidenziali al Senato.
Nello stesso giorno il Capo del Governo ripeteva al Senato il medesimo discorso tenuto alla Camera premettendo le seguenti dichiarazioni:
Signori Senatori!
Tutta la prima parte delle dichiarazioni che poco fa ho letto alla Camera dei Deputati non riguarda minimamente il Senato. Non devo usare nei confronti del Senato il linguaggio necessariamente duro che ho dovuto tenere nel confronto dei signori deputati. Non solo da oggi ma da parecchi anni ho la sicura coscienza di potere affermare che considero il Senato come uno dei punti fermi della Nazione. Considero il Senato non come un'istituzione superflua secondo certe vedute fantastiche di una piccola democrazia; considero invece il Senato come un organo necessario per la giusta e oculata amministrazione dello Stato.
Gli ultimi anni di storia parlamentare hanno dato al contrasto delle due Camere un carattere che si potrebbe dire plastico e drammatico. La gioventù italiana che io interpreto e rappresento e che intendo di rappresentare guarda al Senato con molta viva patriottica simpatia.
Ripeto che la prima parte del discorso è diretta solo alla Camera dei deputati.
Roma, 17 novembre 1922: MUSSOLINI replica agli interventi dei deputati
Nella tornata del giorno seguente 17 novembre alla Camera dei Deputati il Duce replicò con il seguente discorso agli oratori che avevano parlato su le dichiarazioni del Governo:
Esaminerò con la massima attenzione gli ordini del giorno riguardanti problemi concreti. Data l'ora non posso prendere impegni precisi. Respingo gli ordini del giorno d'ordine politico.
Non faccio alcun discorso. Mi limito a dichiarare all'on. D'Aragona che il mio atteggiamento verso la Confederazione del lavoro è chiaramente definito nella mia linea di condotta nei confronti dei diversi partiti. L'onorevole D'Aragona sa e ricorda che io ho sempre sostenuto la necessità per la Confederazione del lavoro di affrancarsi dalla tutela politica dei diversi partiti che hanno sempre cercato di trarla per vie traverse.
L'on. D'Aragona stia tranquillo. Lui viene dal proletariato; io vengo dal proletariato. L'on. D'Aragona ha conosciuto la dura vita degli emigranti italiani all'estero il sottoscritto l'ha vissuta. Noi riteniamo che non ci possa essere grandezza materiale e morale di nazione dove le masse operaie sono incivili riottose in continua lite tra loro.
Del resto il fatto che uno dei leaders della Confederazione del lavoro non era assolutamente alieno dal partecipare al mio Governo mostra che non ci sono pregiudiziali assolute da nessuna parte. E io vorrei ricordare a quei settori che se gli avvenimenti si sono svolti come si sono svolti la colpa è in grande parte loro. Sedici mesi fa lanciai in quest'aula un'idea che poteva parere paradossale ma alla quale però se voi foste stati previdenti dovevate afferrarvi come il naufrago alla tavola della salvezza. Non l'avete fatto. Gli avvenimenti vi hanno dato torto.
Noi faremo una politica di necessaria severità. Cominceremo da noi stessi. Solo così potremo esercitarla verso gli altri. Del resto il proletariato ha assistito al nostro movimento senza neppure tentare uno sciopero generale che innegabilmente ci avrebbe dato fastidio. Ha capito che bisognava spalancare le finestre perché l'aria di un certo ambiente era appestata. L'intuito profondo che guida le masse e spesso manca ai capi ha consigliato al proletariato un atteggiamento di benevola aspettativa.
Non dite che noi faremo del servilismo verso la classe capitalistica. Siamo stati noi i primi a distinguere tra borghesia e borghesia. C'è una borghesia che voi stessi rimettete nel piano della sua storica necessità tecnica; c'è una borghesia intelligente e produttiva che crea e dirige le industrie di cui non si può fare a meno. Se le classi capitalistiche sperano di avere da noi privilegi speciali tali privilegi non avranno mai. D'altra parte se alcuni ceti di operai già sufficientemente imborghesiti volessero ricattare il Governo per averne favori elettorali si disingannino. Questo non otterranno mai.
Sono in certo senso lieto che la Camera abbia compreso che il mio duro linguaggio di ieri non si riferiva alla generalità e che ho distinto il giudizio da quello dato sul Senato. Il mio linguaggio aveva riferimenti precisi e concreti nettamente individuali. Si trattava di questa Camera di tutto quello che ognuno di noi ha tante volte rilevato con disgusto. Era logico che io dicessi a questa Camera: o ti adatti alla coscienza della nazione o devi scomparire!
On. Cao le sue dichiarazioni non mi toccano. Adesso il Partito Sardo d'Azione va correggendo la sua linea di condotta; adesso sente che veramente ha esagerato. Ma io coi miei propri occhi ho letto su certi giornali. I giornali non sono i partiti!
Mussolini. Li rappresentano però. Si parlava in essi di una vaga federazione mediterranea di cui dovevano far parte la Sardegna la Corsica eccetera.
Sono lieto delle sue dichiarazioni on. Cao. Sono lieto che la Sardegna abbia riconfermato la sua volontà di vivere con noi perché qualche cosa nella storia di oggi ha dimostrato che i piccoli Stati non possono vivere soli.
Dico all'on. Cao che ci occuperemo amorosamente della situazione sarda.
Debbo anche rispondere all'on. Rosadi che mi rimproverava per non aver io volutamente individuato quella città dell'Adriatico la cui passione è viva nei nostri cuori.
Ma poi che il mondo balcanico è in fermento intendo mantenere su quest'argomento il massimo riserbo. Tuttavia l'on. Rosadi deve sapere che per Fiume sono stati adottati molti provvedimenti benefici a quella città.
Non posso ammettere che l'on. Wilfan venga alla Camera italiana a tenere un discorso che potrei chiamare sconveniente e mi limiterò a chiamare eccessivo.
Noi possiamo fare nei confronti delle piccole minoranze allogene una politica di equità e di giustizia ma non dobbiamo con questo dimenticare i diritti della grande massa degli italiani. Non dovete dimenticare che se siamo al Nevoso vi siamo per una dura necessità. E se siamo al Brennero vi siamo per un'altra dura necessità.
Vorrei concludere pregando il nostro Presidente di ritirare le sue dimissioni e suggellare con questo gesto il passato per iniziare l'era che noi vogliamo inaugurare.
Non siamo dei miracolisti e nessuno può pretendere da noi che la situazione si capovolga immediatamente. Sarebbe quello che Lenin chiama «infantilismo».
L'azione è complessa ed ha infinite interferenze d'indole economica politica morale.
Noi non respingiamo nessuna collaborazione e se domani per esempio fosse tratto in ballo un competente adatto a trattare una determinata questione commerciale da quella parte (indica la sinistra) non avrei nessuna difficoltà ad accettarlo.
Noi pensiamo che se la tempesta non avesse avuto lo svolgimento che ha avuto molti che oggi ci fanno il viso dell'armi non avrebbero esitato a prendere posto nella nostra barca.
La quale barca terrà fieramente il mare e vuole giungere al suo porto: la pace la grandezza la prosperità della Nazione!
Roma, 24 novembre 1922: MUSSOLINI commemora Sonnino
Poco più di un mese dopo la Marcia su Roma la notte del 24 novembre si spegneva Sidney Sonnino l'insigne statista che aveva «legato indissolubilmente il suo nome» all'intervento dell'Italia in guerra. Il Duce lo commemorò alla Camera nella tornata del 24 novembre con il seguente discorso:
La Camera con voci che si sono levate da tutti i settori ha tributato al disopra delle divisioni politiche il suo alto omaggio alla memoria e alle opere di Sidney Sonnino ed ha manifestato il suo profondo cordoglio per la morte improvvisa dell'eminente uomo di Stato. Poco quindi mi resta a dire come capo del Governo. Del resto più che i discorsi sono i fatti e le vicende di una vita interamente dedicata al bene della Patria la migliore apologia di Sidney Sonnino.
Io non lo conobbi personalmente né mai ebbi dimestichezza di rapporti con lui. Egli apparteneva più che a questo all'altro secolo. Cinquanta anni dividono la sua dalla mia generazione. Ciò malgrado pur vedendolo da lontano io fui portato ad ammirarlo specie in questi ultimi tempi.
Mi piaceva il suo stile di vita aspro e disdegnoso quindi poco parlamentare nel senso che si può dire basso della parola; trovavo fra la concezione fascista dello Stato e quella che rappresentò la concezione fondamentale della politica di Sidney Sonnino una evidente identità. Anche egli come il Fascismo non ebbe paura di proclamarsi conservatore quando erano in giuoco e in pericolo i valori essenziali e basilari della nostra società nazionale.
Il fatto dominante della sua quarantennale attività di statista è stato l'intervento dell'Italia in guerra intervento al quale è legato indissolubilmente il suo nome. Il Libro Verde rimane l'alta giustificazione politica diplomatica e morale della nostra guerra contro gli Imperi centrali.
Sidney Sonnino volle la guerra e la volle poi fino alla vittoria.
Forse con un'Italia più conosciuta ed apprezzata si sarebbe potuto negoziare cogli Alleati un patto d'intervento più razionale e più completo: ma io credo che il barone Sonnino abbia trovato difficoltà superiori alle sue stesse forze che pure erano grandissime.
Difficoltà che si ripeterono durante la guerra attraverso subdoli tentativi di pace separata che avrebbero annullato completamente i nostri sacrifici. Difficoltà che si aggravarono durante le trattative di pace quando gli Alleati sembrarono dimenticare l'importanza dell'intervento italiano e il nostro paese all'interno dava l'impressione di un paese in convulsione perenne e destinato allo sfacelo.
Non si può fare una politica estera con un paese in disordine. Dopo quattro anni è forse la prima volta che un ministro degli esteri italiano può recarsi all'estero per discutere — da eguale a eguale — cogli Alleati senza essere turbato dal pensiero della situazione interna. Do lode di ciò a tutto il popolo italiano.
Non si può certo imputare all'onorevole Sonnino il mancato riconoscimento di quel Patto di Londra che pure recava le firme degli Alleati. Non vi è dubbio che l'onorevole Sonnino deve aver indicibilmente sofferto per quanto si fece o non si fece a Versailles. Qui forse sta la ragione del suo ritiro dalla vita politica militante.
Dopo l'avvento del Fascismo la nostra politica raccolse quanto rimane di vitale nella politica estera sonniniana e precisamente il senso e l'orgoglio della dignità nazionale il rispetto dei trattati la valutazione pregiudiziale degli interessi della nostra Nazione.
A nostro avviso il mezzo migliore per onorare la memoria di Sidney Sonnino è quello di raccogliere e praticare l'insegnamento della sua lunga vita di statista: gli interessi della Patria innanzi tutto. Possa giungere in un giorno che speriamo non lontano allo spirito insonne aleggiante sull'aspro solitario Romito la buona novella: la Nazione tutta disciplinata laboriosa e concorde è in marcia verso i suoi alti destini!
Roma, 27 novembre 1922: MUSSOLINI replica ai senatori.
MUSSOLINI ritorna al Senato del Regno replicando con il seguente discorso ai Senatori che avevano parlato su le dichiarazioni del Governo:
Onorevoli Senatori!
Ho ascoltato con vivo interesse e meditata attenzione tutti i discorsi che sono stati pronunciati in quest'aula i quali discorsi hanno prospettato diversi argomenti; i ministri chiamati direttamente in causa potranno rispondere sulle singole questioni; io mi limiterò a ribattere alcune affermazioni che si possono chiamare di ordine generale.
Certamente se il voto del Senato sarà unanime la cosa mi farà piacere ma non dovete credere che l'unanimità mi lusinghi eccessivamente. Molti di coloro che in questi ultimi giorni solidarizzano più o meno clamorosamente con me li ho in vivo dispetto. Si tratta spesso di anime o animule che vanno dalla parte dove spira il vento favorevole salvo poi a precipitarsi dalla parte opposta quando il vento cambi direzione. Agli amici ambigui preferisco avversari vivi e sinceri.
Di tutti i discorsi pronunciati in quest'aula alcuni assumono particolare rilievo; ad esempio il discorso del senatore Conti a fondo ottimista mi ha ricordato l'analogo discorso a fondo ottimista pronunciato nell'altro ramo del Parlamento dall'onorevole Buozzi. È singolare e certamente di buon auspicio questa valutazione che chiamo ottimista delle condizioni economiche italiane che parte da un capo del proletariato e da un capitano della grande industria italiana.
Debbo una risposta particolare al senatore Albertini. Io ammiro la sua ferma fede di liberale puro; ma mi permetto di ricordare al senatore Albertini che il liberalismo è figlio di ben due rivoluzioni; mi permetto di ricordare al senatore Albertini che il costituzionalismo in Inghilterra il liberalismo in Francia insomma tutto il complesso di idee e di dottrine che prendono il nome di liberalismo e che di loro informano il secolo XIX escono da un Serissimo travaglio rivoluzionario dei popoli e senza questo Serissimo travaglio probabilmente oggi il senatore Albertini non avrebbe potuto tessere l'elogio del liberalismo puro.
Come si poteva uscire da questa crisi interna che diventava ogni giorno più angosciosa e preoccupante?
Un Ministero di transazione o di transizione non era più possibile non risolveva il problema lo dilazionava appena. Di lì a due o tre mesi o sei mesi con quella mutevolezza di sentimenti di appetiti che caratterizza certi ambienti parlamentari ci saremmo trovati al punto di prima con un'esperienza fallita che avrebbe aggravato la crisi. Allora io dopo aver lungamente meditato dopo aver constatato il paradosso ironico sempre più evidente di due Stati uno dei quali era l'attuale mentre l'altro era uno Stato che nessuno riusciva più a definire mi sono detto ad un certo momento che solo il taglio chirurgico netto e nettamente osato poteva fare di due Stati uno Stato solo e salvare le fortune della Nazione.
Il senatore Albertini non deve credere che tutto ciò non sia stato oggetto di lunga meditazione; non deve credere che io non mi sia in anticipo rappresentati tutti i pericoli tutti i rischi di questa azione illegale. E l'ho voluta io deliberatamente: oso dire di più l'ho imposta.
Non c'era a mio avviso altro mezzo per immettere forze nuove in una classe politica che pareva enormemente stanca e sfiduciata in tutte le sue gerarchie se non il mezzo rivoluzionario; e siccome l'esperienza insegna qualche cosa o dovrebbe insegnare qualche cosa agli uomini intelligenti io posi subito dei confini dei limiti delle regole.
Non sono andato oltre ad un certo segno non mi sono ubriacato minimamente della vittoria non ne ho abusato.
Chi mi impediva di chiudere il Parlamento? Chi mi impediva di proclamare una dittatura di due tre o cinque persone? Dove era qualcuno che mi avesse potuto resistere che avesse potuto resistere ad un movimento che non era di 300.000 tessere ma era in quel momento di 300.000 fucili? Nessuno.
Sono stato io che per carità di Patria ho detto che bisognava subordinare e impulsi e sentimenti ed egoismi agli interessi supremi della Nazione ed ho subito immesso questo movimento sui binari della costituzione.
Ho fatto un Ministero con uomini di tutte le parti della Camera non ho avuto scrupolo di metterci dentro un membro del vecchio Ministero; guardavo ai valori tecnici non mi interessavano tanto le etichette politiche.
Ho fatto un Ministero di coalizione l'ho presentato alla Camera ho chiesto il voto il giudizio della Camera. Ho pensato che la Camera quella Camera fosse un poco cambiata. Quando mi sono accorto che 38 oratori avevano presentato 36 ordini del giorno allora mi sono detto che non è forse necessario abolire il Parlamento ma che il Paese gradirebbe assai un certo periodo di astinenza parlamentare. Non ho dunque intenzione di abolire la Camera di abolire tutto ciò che è il risultato ed il frutto della rivoluzione liberale.
Io posso valutare tutto ciò filosoficamente da un punto di vista che si potrebbe chiamare negativo; ma la filosofia deve tacere di fronte alle necessità politiche. Ma intendiamoci che cosa è questo liberalismo questa pratica del liberalismo? Perché se c'è qualcuno che ritiene che per essere perfetti liberali occorre dare la libertà a qualche centinaio di incoscienti di fanatici di canaglie la libertà di rovinare 40.000.000 di italiani io mi rifiuto energicamente di dar questa libertà.
Signori non ho feticci e quando si tratta degli interessi della Nazione non ho nemmeno il feticcio della libertà. Ecco perché quando mi si è parlato della libertà di stampa io che son giornalista ho detto che la libertà non è solo un diritto ma è un dovere; e quello che è successo dopo in certi giornali romani mi dimostra esattamente che qualche volta si dimentica che la libertà è un dovere; ragione per cui il Governo ha diritto di intervenire; se non lo facesse sarebbe insufficiente la prima volta ed in seguito sarebbe suicida.
Non intendo uscire dalle leggi non intendo uscire dalla costituzione non intendo di improvvisare del nuovo: l'esempio delle altre rivoluzioni mi insegna appunto che non si può dar fondo all'universo e che ci sono dei punti fondamentali nella vita dei popoli che conviene rispettare. Ma io intendo che la disciplina nazionale non sia più una parola intendo che la legge non sia più un'arma spuntata intendo che la libertà non degeneri in licenza e non intendo nemmeno di essere al disopra della mischia fra coloro che amano che lavorano e che sono pronti a sacrificarsi per la Nazione e coloro che invece sono pronti a far tutto il contrario.
È di questo rollandismo di questo insulso rollandismo che il Governo di ieri è perito; non si può stare al disopra della mischia quando sono in giuoco i valori morali fondamentali della società nazionale; e nessuno può dire che una politica nazionale siffattamente intesa sia reazionaria.
Io non ho paura delle parole; se domani è necessario mi proclamo il principe dei reazionari; per me tutte queste terminologie di destra di sinistra di conservatori di aristocrazia o democrazia sono vacue terminologie scolastiche; servono per distinguerci qualche volta o per confonderci spesso.
Non vi sarà una politica antiproletaria e non vi sarà per ragioni nazionali né per ragioni di altro ordine. Noi non vogliamo opprimere il proletariato ricacciarlo verso condizioni di vita arretrate e mortificanti; anzi vogliamo elevarlo materialmente e spiritualmente ma non già perché noi pensiamo che il numero la massa la quantità possa creare dei tipi speciali di civiltà nell'avvenire; lasciamo questa ideologia a coloro che si professano sacerdoti di questa misteriosa religione.
Le ragioni per cui vogliamo fare una politica di benessere del proletariato sono affatto diverse e ricadono nell'ambito della Nazione; ci sono dettate dalla realtà dei fatti dal convincimento che non ci può essere una Nazione unita tranquilla e concorde se i nostri tre o quattro milioni di operai sono condannati a condizioni di vita disgraziata insufficienti; e può darsi anzi è certo che la nostra politica operaia antidemagogica perché non possiamo promettere i paradisi che non possediamo riuscirà in definitiva assai più utile alla massa lavoratrice dell'altra politica che l'ha incantata e mistificata nell'attesa inutile e vana dei miraggi orientali.
Cosa farete mi si domanda dell'organizzazione militare del fascismo? Questa organizzazione militare ha dato a Roma uno spettacolo meraviglioso. Vi erano esattamente 52.000 camicie nere che hanno lasciato Roma nel termine da me prescritto di 24 ore. Obbediscono; oserei dire che hanno il misticismo dell'obbedienza. Non intendo di dissolvere e di vaporizzare queste forze vive non solo ai fini del Fascismo ma ai fini della Nazione.
Quello che io imporrò al Fascismo sarà la fine di tutte quelle azioni che non hanno più ragione di essere la fine di tutte le piccole violenze individuali e collettive che mortificano un po' tutti che sono spesso il risultato di situazioni locali che malamente si potrebbero inquadrare nelle grandi linee dei grandi partiti e sono sicuro che quello che si potrebbe chiamare illegalismo fascista che oggi è in grandissima confortante diminuzione finirà completamente. Qui è una delle condizioni di quella pacificazione cui alludeva il mio amico sen. Bellini. Ma bisogna perché questa pacificazione avvenga che anche dall'altra parte si rinunci agli agguati ed alle imboscate.
Io ringrazio il Senato di non aver molto insistito sulla politica estera. Io sono particolarmente lieto che il Fascismo tutto abbia accettato con entusiasmo il mio fermo proposito quello che riguarda l'applicazione dei trattati perché se io non ammetto l'illegalismo nella politica interna meno ancora lo ammetterò nella politica estera; ciò sia ben chiaro per tutti dentro e fuori di quest'aula.
La politica estera sarà fatta da un solo Stato quello che ho l'onore di rappresentare e di dirigere io perché non ci può essere diffusione e dilatazione di responsabilità all'infinito e la politica estera è cosa troppo gelosa troppo delicata e formidabile perché possa essere gettata in pascolo a tutti quelli che non hanno niente di meglio da fare.
Posso dire all'on. Barzilai che io conserverò il ministero degli esteri; in fondo il ministero dell'interno è un ministero di polizia; sono lieto di essere il capo della polizia non me ne vergogno affatto anzi spero che tutti i cittadini italiani dimenticando certi atavismi inutili riconosceranno nella polizia una delle forze più necessarie alla convivenza sociale.
Ma soprattutto intendo di fare della politica estera che non sarà avventurosa ma non sarà nemmeno rinunciataria; certo in questo campo non c'è da aspettare il prodigio perché non si può cancellare in un colloquio sia pur drammatico di mezz'ora una politica che è il risultato di altri elementi e di un altro periodo di tempo. Io credo che nella politica estera si debba avere come ideale il mantenimento della pace; ideale bellissimo specie dopo una guerra durata quattro anni.
Quindi la nostra politica non sarà la politica degli imperialisti che cercano le cose impossibili; ma sarà una politica che non partirà sempre necessariamente dalla pregiudiziale negativa per cui non si dovrebbe mai ricorrere all'uso della forza. È bene tener presente questa possibilità: non si può scartarla a priori perché allora voi sareste disarmati dinanzi alle altre nazioni.
Ma non mi faccio illusioni perché per il mio temperamento disdegno tutti gli ottimismi facili; tutti quelli che vedono sempre il mondo in rosa qualche volta mi fanno ridere spesso mi fanno pietà. Io credo però di essere riuscito già a qualche cosa e credo che non sia poco che non sia scarso risultato: sono cioè riuscito a far capire agli Alleati e forse anche ad altri popoli di Europa i quali erano evidentemente rimasti ad un'Italia che ci appare alquanto vagamente preistorica all'Italia dei musei e delle biblioteche — tutte cose rispettabilissime — i quali non avevano forse ancora l'esatta visione di un'Italia quale è quella che io vedo nascere sotto i miei occhi: un'Italia gonfia di vita che si prepara a darsi uno stile di serenità e di bellezza; un'Italia che non vive di rendita sul passato come un parassita ma intende di costituire con le sue proprie forze col suo intimo travaglio col suo martirio e colla sua passione le sue fortune avvenire.
Questa è l'Italia che è balenata ma forse non tanto vagamente davanti a coloro che rappresentavano le altre nazioni e che d'ora innanzi dovranno convincersi lo vogliano o non lo vogliano che l'Italia non intende di seguire il carro degli altri ma intende rivendicare dignitosamente tutti i suoi diritti e intende non meno dignitosamente difendere tutti i suoi interessi.
Tutti coloro che hanno parlato in quest'aula mi hanno ammonito e mi hanno detto: la responsabilità che voi vi prendete è certamente grave è enorme. Sì lo so lo sento; qualche volta il senso di questa responsabilità aggravata da una attesa così profonda e vibrante mi dà un senso di asfissia e di schiacciamento; allora io debbo evocare tutte le mie forze richiamare tutta la mia volontà tenere presenti al mio spirito i bisogni e gli interessi e l'avvenire della Patria.
Ebbene lo so non è la mia persona che è in giuoco. Certo se io non riesco sono un uomo finito; non sono esperimenti che si possano tentare due volte nella stessa vita; ma la mia persona vale pochissimo. Il non riuscire non sarebbe grave per me ma potrebbe essere infinitamente grave per la Nazione e allora io intendo di dirigere il timone della barca — e non lo cedo a nessuno — ma non mi rifiuterò di caricare tutti coloro che vorranno costituire la mia bellissima ciurma tutti coloro che vorranno lavorare con me che mi vorranno dare consigli e suggerimenti che vorranno insomma fornirmi un'utile necessaria collaborazione.
Nell'altro ramo del Parlamento ho invocato Iddio; in questo — non sembri un contrasto cercato dall'oratoria — invoco il popolo italiano. Qui potrei riaccostarmi a Mazzini che di Dio e del popolo aveva fatto un binomio ma se il popolo sarà come io lo spero e come io lo vorrò disciplinato laborioso fiero di questa sua terza e meravigliosa rinascita io sento che non fallirò alla mia meta.
Milano, 5 dicembre 1922: MUSSOLINI parla ai metallurgici lombardi.
In questo periodo MUSSOLINI assorbito dall'intensissimo inizio della nuova era fascista fu sobrio di parole anche più del consueto. Fra il 22 ottobre e il 31 dicembre 1922 non si hanno che le dichiarazioni del Governo alle due branche del Parlamento con le rispettive repliche le parole commemorative per Sidney Sonnino e questo discorso agli operai che conclude l'anno della Marcia su Roma con accenti realistici ed umani.
Questo discorso fu tenuto allo Stabilimento metallurgico «-Acciaierie Lombarde-» al Reparto Gamboloita. Esso ebbe larga eco perché fu la prima precisazione dell'atteggiamento del nuovo Governo verso le classi operaie.
Sono particolarmente lieto di aver visitato queste officine che conosco attraverso la storia di questi ultimi cinque anni agitati. Io non vi terrò un discorso. Vi dirò solo che il Governo che ho l'onore di presiedere non è e non può e non deve essere un Governo anti-operaio. Gli operai sono parte viva e integrante della Nazione sono degli italiani che come tutti gli italiani devono essere tutelati rispettati e difesi.
Il mio governo è fortissimo e non ha bisogno di cercare troppe larghe adesioni. Non le cerca e non le respinge; se adesioni verranno anche da parte operaia io non le respingerò. Ma dovremo intenderci bene e stabilire patti chiari per evitare delusioni in seguito.
Visitando poc'anzi questa bella e grande officina io mi sono sentito preso da un profondo senso di commozione e ho rivissuto in un attimo i giorni lontani della mia giovinezza. Poiché io non scendo da antenati aristocratici e illustri. I miei antenati erano contadini che lavoravano la terra e mio padre era un fabbro che piegava sull'incudine il ferro rovente. Talvolta io da piccino aiutavo il padre mio nel suo duro umile lavoro; e ora ho il compito ben più aspro e più duro di piegare le anime. A venti anni ho lavorato «con le mani»; ho fatto il manovale e il muratore. Ciò io vi dico non per sollecitare la vostra simpatia ma per dimostrarvi che non sono e non posso essere nemico della gente che lavora. Sono però bene un nemico di coloro che in nome di ideologie false e grottesche vogliono mistificare gli operai e condurli alla rovina.
Voi avrete modo di constatare più che dalle mie parole dai fatti del mio Governo che nella sua azione esso intende ispirarsi e vuole tener sempre presenti tre elementi fondamentali: «nazione» — che esiste anche se si vuole negare e che è una realtà insopprimibile; «-produzione-» — poiché l'interesse a produrre molto e bene non è soltanto dei capitalisti ma anche dell'operaio il quale col capitalista perde e va in miseria se la produzione si arresta e se i manufatti nazionali non trovano sbocco sui mercati mondiali; «la tutela degli interessi giusti della classe lavoratrice». Tenendo presenti questi tre elementi essenziali io intendo di dare all'Italia la pace all'interno e all'estero.
Nessuno di noi vuole andare verso avventure nelle quali siano da impegnare il sangue e i beni dei cittadini. Ma nemmeno vogliamo fare delle rinunce; e vogliamo che l'Italia nel mondo non sia più la nazione «ritardatala». Perché la nostra voce possa essere ascoltata nei consigli internazionali — consigli o operai che altamente vi interessano — occorre che all'interno sia la più rigida disciplina; nessuno ci ascolterà se dietro di noi sarà un paese irrequieto torbido insoddisfatto. Voi operai sentite che in me non vi parla in questo momento un capo di Governo ma un uomo che vi pesa e che sa quello che potete fare e quello che non potete fare. Ma come capo del Governo io vi dico che quello che io presiedo è un Governo sul serio forte sicuro e non un'amministrazione burocratica: un Governo che vuole agire anche per gli interessi delle classi lavoratrici interessi che il Governo riconoscerà sempre quando siano giusti.
Gli operai hanno creduto di doversi e di potersi rendere estranei alla vita nazionale. Questo è stato un grande errore. Voi dovete essere invece anima dell'anima della Nazione in modo che tutto il nostro travaglio non vada miserevolmente perduto. Questo è il comandamento che ci viene dai nostri morti lo spirito dei quali aleggia certo in questo salone e vi ripete il medesimo comandamento. Occorre che gli italiani ritrovino quel minimo di concordia che è necessario per rendere possibile il riordino e lo sviluppo della vita civile; e se vi saranno minoranze che tenteranno opporsi esse saranno inesorabilmente colpite. Fate tesoro di queste parole e ricordate il motto dei Sindacati fascisti: «La patria non si rinnega ma si conquista!».
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 23:24 - modificato 1 volta.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
ANNO -1923
Discorso tenuto all'inaugurazione della nuova sede dell'Associazione Nazionale dei Mutilati di Guerra, in risposta alle parole dell'avv. Ruggero Romano, Segretario generale dell'Associarne, e dell'on. Carlo Delcroix.
Miei cari commilitoni!
Confesso che io sono alquanto esitante e confuso per le vostre accoglienze fraterne, e soprattutto per i discorsi che ho ascoltati in questo momento, quello dell'avv. Romano così vibrante e quello meraviglioso come sempre del vostro grande Delcroix, Sono venuto qui non soltanto come capo del Governo, come Presidente del Consiglio: sono venuto qui soprattutto come vostro compagno di trincea e di sacrificio. Quando io sono dinanzi a voi mi riconosco in voi e rivivo quelle che sono certamente le pagine della mia vita alle quali tengo di più: le pagine della trincea, quando ho potuto vedere col mio occhio il travaglio sanguinoso della stirpe italiana, constatare lo spirito di devozione, vedere come sbocciava dai suoi sedimenti, che parevano millenari e perduti, il fiore stupendo della nostra magnifica storia. Ci riconosciamo tutti.
Ognuno di noi è certamente stato infangato da quella terribile terra rossa del Carso, ognuno di noi ha sofferto i geli ed i venti delle altitudini alpine, ognuno di noi ha vissuto in dimestichezza quotidiana colla vita e la morte.
Vi ammiro, o miei commilitoni, e vi rispetto. Intendo di aiutarvi fraternamente: quando avete temuto che si portasse ferita o diminuzione ai vostri imprescrittibili diritti, ho dichiarato che i diritti del sangue e del sacrificio non potevano essere toccati; voi avete visto che la mia parola è stata mantenuta. Sarebbe enorme colpire coloro che hanno fatto la grandezza della Patria, mentre molti lestofanti e filibustieri sono ancora a piede libero, ma non è detto che vi resteranno per molto tempo ancora. Io considero i combattenti, i mutilati, le famiglie dei caduti, come l'aristocrazia grande, pura e intangibile della nuova Italia. Questa è la bussola che mi guida nella dura e difficile navigazione.
Sono sicuro che nessuno di voi mi invidia per il posto che occupo. Voi sentite che governare una nazione, reggere il destino di quaranta milioni di uomini, avviare la Nazione verso periodi di libertà, di giustizia, di prosperità e di grandezza è impresa ardua, che fa tremare le vene e i polsi. Ma mi considero al mio tavolo di capo di Governo come quando sullo Javorcek o a quota 144 ero comandato di vedetta o di pattuglia. Obbedivo come obbedisco oggi alla coscienza della Nazione, in quest'opera assidua, aspra e quotidiana, nella quale si assommano problemi che i Governi di prima non hanno mai osato di affrontare e, rinviandoli, li hanno incancreniti. In quest'opera mi è sommo conforto il pensare che non mi manca la solidarietà dei miei compagni di pensiero.
È quasi automaticamente — per una necessità profonda — che, superando la volontà più o meno meschina degli uomini, si è determinata in Italia una netta unione di forze e di spiriti. Da una parte la vecchia Italia, che si attarda ancora a bamboleggiare formule, che rimpiange certi miti che la realtà storica si è incaricata essa stessa di frantumare irreparabilmente, obliqui personaggi che hanno sempre una lacrima per il loro passato o per i loro sedicenti mali, politicanti che quando danno qualche scarso segno di vita, mi fanno l'impressione di larve che escano dai cimiteri della preistoria. Dall'altra parte tutte le forze della gioventù, tutte le forze sane e pure della Patria, tutti i combattenti, i milioni e milioni di cittadini che hanno fatto la guerra, che hanno oggi l'orgoglio di averla sostenuta sino alla vittoria, che sentono di appartenere a una nuova generazione, che vogliono difendere quello che nobilmente il vostro eroico Delcroix chiamava la santità del sacrificio.
Sebbene tutte queste generazioni si orientino necessariamente verso il Governo Nazionale e in ciò è il sigillo di nobiltà e di forza del mio Governo, io non vi nascondo che è un Governo duro, perché i compiti sono duri e io non sono un medico eccessivamente pietoso. Vedo la realtà come si presenta sotto ai miei occhi, non posso ingannare me stesso e i miei cittadini dipingendo una realtà fittizia e artificiosa. La realtà è questa: che la Nazione ha bisogno di disciplina, di calma. La realtà è questa: che i vecchi partiti non hanno più parole e più vangelo da predicare alle moltitudini; quanto di giusto, di pratico, di effettuabile, le vecchie dottrine contenevano è applicato coraggiosamente dal mio Governo.
Quel postulato delle otto ore di lavoro, pel quale si sono versati fiumi d'inchiostro e di chiacchiere, è oggi legge dello Stato fascista. È assai difficile quindi voler dipingere questo come un Governo di biechi reazionari, di gente che vuole comprimere i diritti del popolo che lavora. Tutto ciò, anche prima di essere delittuoso, è ridicolo. È perfettamente comprensibile, logico e umano, che io colpisca coloro che mentiscono sapendo di mentire.
Come del resto io potrei essere un nemico del popolo che lavora, dico che «lavora»? Il Delcroix ha ricordato le mie origini, delle quali ho l'orgoglio. Essere contro il popolo, che ha fatto la guerra? Quando dico «popolo» intendo comprendere anche quella media borghesia che è l'ossatura salda della Nazione. Questa piccola borghesia che ha dato i plotonisti, gli aspiranti, i meravigliosi giovanetti, che ho visto combattere nelle trincee e sfidare intrepidamente il pericolo e la morte, questo popolo è il sale della Patria. Questo popolo cifra i suoi membri a milioni. Non sarebbe stolto e rovinoso un Governo, che non tenesse conto delle giuste aspirazioni di questo popolo? Come si può pensare di costituire la grandezza della Patria, se si ignora questa parte preponderante ed integrante, che forma la Nazione stessa?
Ma, detto questo, io distinguo; e quando vedo i falsi pastori, che vogliono ancora mistificare il popolo, che vogliono ancora fargli credere ad utopie, nelle quali essi non credono più, quando questi mestieranti della dottrina, questi pseudoscientifici della teoria pretendono avere la libertà di sabotare la Nazione, io dichiaro che questa libertà non l'avranno mai.
Il Governo fascista non imita i vecchi Governi, i quali avevano sempre paura di essere un poco coraggiosi. Il Governo che dirigo, miei cari commilitoni, non dovete credere che sia un Governo venuto e nato nell'ottobre del 1922. Vista a cinque mesi di distanza, la marcia su Roma ha già l'aspetto mirabile, grandioso della leggenda. Molti di voi, certamente, erano in quelle colonne, che marciavano su Roma. Roma testimonianza e documento imperituro della vitalità della nostra razza. Ed a Roma queste colonne confluivano con un sentimento che io conoscevo, con un sentimento assai affine a quello che dovevano avere certi popoli di altre epoche, che si precipitavano verso la città eterna. Un sentimento di rancore e di infinito amore; di rancore, perché vedevano in Roma non soltanto la Roma dei secoli, ma una Roma di abbietti politicanti, di burocrati tardigradi, di mestieranti e di affaristi. Accanto tuttavia a questo sdegno, era anche l'infinito amore per questa Città dalle origini lontane e misteriose, uno dei centri dello spirito in tutte le epoche della storia, popolata di quattro milioni di uomini al tempo di Augusto, da poche migliaia nei tempi oscuri del medioevo, mentre oggi si avvia a diventare il cuore potentissimo della nostra vita mediterranea.
Abbiamo afferrato il Governo in quella occasione, ma il fiume che sboccò a Roma a travolgere con la sua irresistibile fiumana i ripari, nei quali si intorpidiva una classe di politicanti miserabili, è un fiume dalle origini più lontane. Le origini rimontano al maggio del 1915: le sue origini rimontano a Vittorio Veneto. Tutte queste forze, tutti questi torrenti della nostra vita nazionale, a un dato momento, si sono ingrossati di tutte le fedi, di tutte le speranze, di tutte le passioni, di tutti i sacrifici ed hanno conquistato Roma e l'Italia. Oggi noi la teniamo saldamente e la terremo a qualunque costo contro chiunque.
Ci sono dei problemi che devono essere risolti, abbiamo sulle braccia un'eredità pesante da liquidare. In fondo, tutto ciò che il Governo fa oggi è lavoro arretrato, è spazzamento di tutte le scorie e detriti, che ingombravano la coscienza nazionale. Poi verrà il lavoro gioioso, grande e solenne della ricostruzione. Non falliremo al nostro compito, se io e gli artieri che dividono le mie fatiche e la mia responsabilità saremo sostenuti dalla vostra solidarietà, se sentiremo di non essere soli, se avremo in voi dei fiduciosi collaboratori. La Patria conta ancora su di voi ed io, capo del Governo, sento che questa speranza non è fallace, sento che, se domani fosse necessario, tutte le nostre schiere si stringerebbero ancora, tutti i vostri spiriti si esalterebbero ancora e basterebbe questo per gridare, con spirito di assoluta passione, una sola parola: Italia!
Roma, 18 marzo 1923: MUSSOLINI detta le nuove direttive economiche.
Discorso pronunziato il 18 marzo, inaugurandosi in Roma il secondo Congresso internazionale delle Camere di Commercio.
Signori!
Il Governo che ho l'onore di presiedere e di rappresentare è lieto di accogliervi a Roma e vi porge, a mezzo mio, un cordiale e deferente saluto, che estendo anche ai rappresentanti esteri che hanno voluto onorarci con la loro presenza.
Il fatto che il vostro importantissimo congresso si tenga nella Capitale d'Italia a cinque mesi soli di distanza dal movimento che portò le forze giovani della guerra e della Vittoria al dominio della cosa pubblica, è la migliore affermazione in faccia al mondo che la Nazione Italiana va tornando rapidamente alla piena normalità della sua vita politica ed economica.
Non accenno in questo ambiente alla prima. Mi soffermerò brevemente sulla seconda. Le direttive economiche del nuovo Governo italiano sono semplici. Io penso che lo Stato debba rinunciare alle sue funzioni economiche, specialmente a carattere monopolistico, per le quali è insufficiente. Penso che un Governo, il quale voglia rapidamente sollevare le popolazioni dalla crisi del dopoguerra, debba lasciare all'iniziativa privata il suo libero giuoco, debba rinunziare ad ogni legislazione interventistica o vincolistica che può appagare la demagogia delle sinistre, ma alla fine riesce, come la esperienza dimostra, assolutamente esiziale agli interessi ed allo sviluppo della economia. È tempo quindi di levare dalle spalle delle forze produttrici delle singole nazioni gli ultimi residui di quella che fu chiamata «bardatura di guerra»: ed è tempo di esaminare i problemi economici non più con quello stato d'animo velato di passioni con cui era necessario esaminarli durante la guerra.
Io non credo che quel complesso di forze che nelle industrie, nell'agricoltura, nei commerci, nelle banche, nei trasporti può essere chiamato col nome globale di capitalismo, sia prossimo al tramonto, come si è per lungo tempo asseverato da certi dottrinari dell'estremismo sociale. Una delle più grandi esperienze storiche, che si è svolta sotto i nostri occhi, sta a dimostrare che tutti i sistemi di economia associata, i quali prescindano dalla libera iniziativa e dagli impulsi individuali, falliscono più o meno pietosamente in un rapido volger di tempo. Ma la libera iniziativa non esclude l'accordo dei gruppi, tanto più facili, quanto più è leale la difesa dei singoli interessi. La vostra Camera di Commercio persegue appunto questo programma di indagine, di equilibrio, di coordinazione, di conciliazione.
Voi siete qui a Roma per discutere sui mezzi migliori onde ravvivare quella grande corrente dei traffici che prima della guerra aveva aumentato il benessere e portato tutte le popolazioni ad un alto livello di vita. Sono problemi ponderosi e delicati che spesso presentano delle interferenze di ordine politico e morale: per risolverli bisogna essere guidati dalla convinzione che non c'è solo l'economia dell'Europa da rimettere in piena efficienza, ma ci sono anche paesi e continenti i quali possono formare il campo di una maggiore attività economica in un prossimo domani. Non è privo di significato il fatto che la potente repubblica degli Stati Uniti, abbia mandato una così numerosa rappresentanza a Roma. Segno è che se la politica ufficiale si tiene ancora riservata, l'economia sente che non può disinteressarsi di quanto si può fare o non fare in Europa.
Non vi è dubbio che i Governi, a cominciare dal mio, esamineranno con la massima attenzione e terranno nel debito conto le decisioni che risulteranno dai lavori del vostro imponente ed importante congresso.
Roma, 7 gennaio 1923: MUSSOLINI parla agli operai del porto.
Una Commissione di rappresentanti di tutte le organizzazioni del porto di Genova aveva offerto a MUSSOLINI a palazzo del Viminale un'artistica pergamena con la seguente dedica:
«-A Benito Mussolini - Primo Ministro della Nuova Italia - I lavoratori del porto di Genova - Dal Fascismo redenti a nuova vita - 1° gennaio 1923-».
In tale occasione, Egli pronunziò le seguenti dichiarazioni:
Certamente voi sapete che io ho molte simpatie per Genova; simpatie che risalgono al 1915, quando Genova, insieme con Milano e con Roma, costituì una delle forze che iniziarono la rivoluzione; poiché la rivoluzione che ha condotto il Fascismo al potere è cominciata nel maggio 1915, è continuata nell'ottobre 1922 e continuerà per un pezzo. Sono molto lieto di accogliere il vostro messaggio e vi ringrazio con tutta la mia sincera cordialità. Debbo dirvi che il Governo che ho l'onore di presiedere non ha mai inteso, non intende e non può intendere una politica cosiddetta antioperaia, anzi io vorrei fare un elogio del popolo lavoratore che non crea imbarazzi al Governo, lavora ed ha abolito praticamente gli scioperi. Si è rendento perché non crede alle utopie asiatiche che ci venivano dalla Russia; crede in se stesso, nel suo lavoro: crede nella possibilità, che per me è certezza, di una Nazione italiana prosperosa, libera e grande.
A questa grandezza voi siete direttamente interessati, e voi che venite da un centro di vita così fervido, come Genova, siete i più indicati a sentire tutto questo fermento di vita nuova, tutta questa preparazione alacre del nuovo destino.
Il Governo, voi lo vedete, governa; governa per tutti, al di sopra di tutti e se è necessario contro tutti. Governa per tutti perché tiene conto degli interessi generali; governa contro tutti quando categorie, siano di borghesi, siano di proletari, vogliono anteporre i loro interessi a quelli che sono gli interessi generali della Nazione. Io sono sicuro che se il popolo lavoratore, di cui voi siete la minoranza aristocratica, continuerà a dar questo spettacolo nobilissimo di calma, di disciplina, la Nazione che era sull'orlo dell'abisso si riscatterà pienamente.
Non dico frasi che non siano pensate e meditate: dopo due mesi di Governo vi dico che se la rivoluzione fascista avesse tardato ancora qualche mese, e forse soltanto qualche settimana, la Nazione sarebbe piombata nel caos. Tutto quello che facciamo è in fondo lavoro arretrato: liberiamo i cittadini dal peso delle leggi che erano il frutto di una politica di demagogia insulsa, liberiamo lo Stato da tutte le superstrutture che lo soffocavano, da tutte le sue funzioni economiche per le quali non è adatto; lavoriamo per andare al pareggio; il che significa rivalutare la lira; il che significa prendere una posizione di dignità e di forza nel mondo internazionale.
L'Italia che noi vogliamo fare, che costruiamo giorno per giorno, che noi faremo, perché questa è la fede e la nostra volontà incrollabile, sarà una creatura magnifica di forza e di saggezza. E potete essere certi che in questa Italia, il lavoro, tutto il lavoro, quello dello spirito e quello del braccio terrà come deve tenere il primo posto.
Roma, 8 gennaio 1923: MUSSOLINI parla alle Medaglie d'Oro
Uno dei primi ricevimenti ufficiali concessi da MUSSOLINI fu per le Medaglie d'Oro. In nome loro, parlò, l'otto gennaio, fon. Raffaele Paolucci, al quale il Capo del Governo rispose con il seguente discorso:
In questo momento, più che il capo del Governo è il camerata che vi parla, il soldato che si onora di avere «mangiato» la trincea, di avere fatto la guerra dopo averla voluta. Voi rappresentate la nuova, la più alta aristocrazia della Nazione. I vostri nomi dovrebbero formare, e formeranno, il libro d'oro della stirpe italiana. Voi siete la testimonianza vivente del prodigio compiuto da un popolo che non si batteva più come popolo unito da parecchi secoli. L'eclissi della nostra stirpe si squarcia nel 1915 e tutte le virtù sopite, ma non spente, della razza balzano al primo piano e ci danno la vittoria immortale. Una vittoria militare! Noi ora lavoriamo potentemente per conquistare la seconda vittoria. La prima deve essere come un passo verso la seconda: come un episodio che prepara la seconda. Avevamo due imperi che ci schiacciavano: ecco che questi imperi sono scomparsi; ecco che il panorama politico si è infinitamente allargato; ecco che si sono create delle possibilità per la nostra espansione nel mondo! Voi sarete gli artefici di questa seconda missione italiana. Il Governo conta soprattutto su di voi; il Governo conta su di voi, perché siete il fior fiore dei combattenti, e conta sui combattenti tutti i quali non possono volere che essa, la Vittoria, sia sabotata o mutilata, ma vogliono invece che essa sia una delle fiamme immortali che bastano ad illuminare per secoli il cammino della nostra storia.
Rappresentate quanto di più glorioso ha dato l'esercito italiano. A voi io devo dire una parola di fede e di certezza che si riassume in questo proposito: la vittoria sia esaltata e potenziata dal Governo che ho l'onore di rappresentare. Non si torna più indietro! Ciò che è stato è irrevocabile! Tutte le vecchie classi, i vecchi partiti, i vecchi uomini e le più o meno antiquate cariatidi sono state spezzate dalla rivoluzione fascista e nessun prodigio potrà ricomporre questi cocci che devono passare al museo delle cose più o meno venerabili. Questo sia ben chiaro alla vostra coscienza: che indietro non si torna e che tutti noi con la disciplina, col lavoro, con la passione nutrita ora per ora, giorno per giorno, anno per anno, vogliamo, dico vogliamo, creare la grande Italia di domani. Viva le medaglie d'oro!
Roma, 28 gennaio 1923: MUSSOLINI parla agli operai del poligrafico
MUSSOLINI si recò a visitare lo Stabilimento Poligrafico del Ministero della Guerra fuori Porta San Giovanni a Roma. Fu accolto da un vibrante saluto, pronunziato dall'operaio Mauri, cieco di guerra. Il Duce, dopo aver abbracciato l'operaio cieco, pronunziò il seguente discorso:
Mi avevano detto meraviglie di questo vostro stabilimento: confesso che la visita non mi ha deluso. Credo che questo sia il primo stabilimento d'Italia.
Se vi dico che le vostre accoglienze mi hanno commosso, dovete credermi poiché io ho l'abitudine — è sistema della mia vita — di dire sempre e dovunque la verità. Sono commosso per le vostre accoglienze. Per il discorso magnifico di fede italiana e di sentimento pronunciato da un vostro compagno di lavoro. Commosso perché io considero i tipografi come facenti parte della aristocrazia del lavoro.
Durante venti anni di giornalismo io ho sempre considerato i tipografi non come dei compagni, ma come dei fratelli. Non ho mai avuto una questione con le mie maestranze.
Ci siamo sempre trovati d'accordo. Anche in questo momento in cui io sono lontano dai miei tipografi di Milano, essi, di quando in quando, mi mandano il loro saluto fraterno e pieno di devota simpatia.
Mi vanto di essere un figlio di lavoratori. Mi vanto di aver lavorato con le mie braccia. Ho conosciuto le umili fatiche della gente che lavora. Quando io lavoravo la giornata era di dodici ore. Oggi è di otto. Questa vostra conquista è intangibile: se qualcuno vi dice il contrario mentisce sapendo di mentire.
Il Governo che ho l'onore di presiedere, Governo nato da una grande rivoluzione che si svilupperà durante tutto il secolo in corso, non intende di fare, non può fare, non vuole fare una politica anti-operaia.
In primo luogo voi siete degli italiani. Io dichiaro che prima di amare i francesi, gli inglesi, gli ottentotti amo gli italiani, amo cioè coloro che sono della mia stessa razza, che parlano la mia stessa lingua, che hanno i miei costumi, che hanno la mia medesima storia; poi, mentre detesto i parassiti di tutte le specie e di tutti i colori, amo gli operai che sono una parte integrante della vita della Nazione.
Gli operai, quando non siano illusi o mistificati dai falsi pastori di professione, benefattori di un ipotetico genere umano, sono ottimi padri di famiglia che amano i loro figli, che cercano di vivere una vita tranquilla, che sentono assai profondo il senso del dovere e della civica responsabilità.
Vedo sui vostri petti in gran parte i segni del valore, del valore italiano. C'è stato un momento che io chiamerò di eclissi, in cui pochi osavano di portare sul petto i nastrini che sono la consacrazione di un dovere nobilmente compiuto. Oggi questo orgoglio rinasce.
È logico: ed è giusto: ed è legittimo che le categorie dei lavoratori si difendano per migliorare le loro condizioni di vita, non solo materialmente ma anche moralmente. Ma per ciò fare non è necessario di seguire le chimere internazionalistiche, per ciò fare non è necessario di rinnegare la Patria e la Nazione, perché è assurdo, prima ancora di essere criminoso, rinnegare la propria madre.
I vostri applausi sono troppo caldi per essere applausi di convenienza o di cortesia. Voi sentite che le mie parole portano, cioè che le mie parole entrano nei vostri animi, che le mie parole sono l'eco di stati di spirito da voi sentiti da qualche tempo. Io vi esorto a continuare a lavorare con assoluta tranquillità e con perfetta disciplina.
Voi non avete nulla da temere dal mio Governo. C'è qualcuno che deve temere i rigori necessari del mio Governo.
Ci sono degli uomini che evidentemente non si rendono ancora conto di quanto è successo in Italia da tre mesi a questa parte. Ci sono per fortuna centinaia e migliaia di lavoratori, potrei dire milioni, se non volessi andare alle cifre cospicue, ci sono, dicevo, enormi masse di lavoratori che cominciano ad accostarsi allo Stato nazionale, che concilia in se stesso gli interessi di tutte le categorie, che vuole, fermissimamente vuole, la grandezza della Nazione attraverso il benessere dei singoli cittadini e la loro liberazione soprattutto dai mistificatori che hanno fatto lauti profitti sul vostro sudore e qualche volta anche sul vostro sangue.
Detto ciò io abbraccio ancora una volta il cieco di guerra che mi ha portato il vostro saluto. Ed in lui abbraccio tutti voi combattenti ed operai, ed abbraccio tutti i combattenti ed i produttori d'Italia, che stanno marciando risolutamente verso quel grandioso avvenire che non può mancare ad una Nazione di quaranta milioni di uomini, decisi a conquistarsi il loro legittimo posto nel mondo.
Roma, 6 febbraio 1923: Per le convenzioni di Washington
Gli accordi di Washington concernevano la limitazione dell'armamento navale, l'indipendenza della Cina e la parità di favore per tutte le nazioni, in ordine al commercio e l'industria in Cina, la revisione delle tariffe delle dogane cinesi e la protezione della vita dei neutri e dei non combattenti in mare in tempo di guerra, ecc. Con le seguenti dichiarazioni, fatte alla Camera dei Deputati MUSSOLINI chiariva i motivi dell'adesione del Governo a tali accordi:
Non credo che valga la pena di imbarcarsi in una discussione di ordine generale, affrontare cioè, il problema della bontà o della malvagità degli uomini: sapere se quella del 1914 fu l'ultima o probabilmente la penultima guerra. Tutto ciò condurrebbe la discussione nei giardini dell'Accademia.
Riportiamoci invece, più praticamente e più conclusivamente, al disegno di legge che io ho presentato alla vostra ratifica.
Questa convenzione è stata conclusa esattamente un anno fa.
Il ritardo dell'Italia nella ratifica ha avuto già ripercussioni ambigue, incerte, e si può dire sfavorevoli in tutto il mondo anglo-sassone. Si capisce, per motivi egoistici; ma questa è la realtà che deve stare innanzi ai nostri occhi.
La Conferenza di Washington ha avuto il destino di tutte le Conferenze: si è aperta con delle grandi speranze; il coro dei giornalisti, venuti da tutte le parti del mondo, ha sviolinato all'infinito. Si è fatta balenare la possibilità della pace perpetua. Poi i risultati concreti hanno deluso questa speranza.
Io confesso che non credo alla pace perpetua: penso che nemmeno Kant ci credesse: aveva preso per titolo del suo libro il titolo di una insegna d'osteria, e l'insegna era un cimitero. Si capisce che nei cimiteri è la pace perpetua; ma tra i popoli, nonostante le predicazioni, nonostante gli idealismi, rispettabili, ci sono dei dati di fatto che si chiamano razza, che si chiamano sviluppo, che si chiamano grandezza e decadenza dei popoli, e che conducono a dei contrasti, i quali spesso si risolvono attraverso la forza delle armi.
Non è il caso di valutare ai fini della pace queste convenzioni. Queste convenzioni rappresentano un respiro, un sollievo.
Che gli uni l'abbiano avuto, questo sollievo, o lo abbiano chiesto per egoismo, che gli altri lo abbiano fatto per idealismo, non è qui il caso di indagare. In generale non si arriva mai ad indagare sufficientemente il motivo recondito delle azioni umane, sieno individuali o di popoli.
Ad ogni modo dichiaro che l'Italia ha fatto benissimo ad aderire a questa Convenzione, sarebbe apparsa in faccia a tutto il mondo come una Nazione avventurosa e guerrafondaia, quale non può essere pel nostro temperamento né pei nostri obiettivi.
Ancora il fatto che il Governo fascista chieda alla Camera questa ratifica, caratterizza nelle sue linee generali la politica estera del Fascismo.
Roma, 10 febbraio 1923: MUSSOLINI torna sulla questione della Ruhr
Dichiarazioni fatte alla Camera dei Deputati, nella tornata del 10 febbraio 1923, in risposta ad una interrogazione degli on. Basso e Canepa.
Mentre mi riservo di parlare in seguito, quando la Camera discuterà sull'approvazione dell'accordo di Santa Margherita, ho accettato di buon grado di rispondere a questa interrogazione.
Si sa come, a seguito degli avvenimenti che si stanno svolgendo nella Ruhr, si sia verificata una larga disorganizzazione, oltre che nei lavori per lo sfruttamento delle miniere di carbone, anche nei servizi ferroviari e in quelli fluviali del Reno, che servono al trasporto del carbone, da cui dipende quindi il rifornimento dei carboni all'Italia in conto riparazioni.
Si sa pure come, fin dall'inizio degli avvenimenti, il Regio Governo abbia inviato ad Essen alcuni ingegneri minerari coll'incarico di partecipare ai lavori della Commissione di controllo sulla produzione del carbone. Le forniture del carbone tedesco all'Italia, dal territorio occupato dalla Francia, hanno potuto essere continuate senza interruzioni, ma non potevano non subire diminuzioni. Gli arrivi dal 15 gennaio all'8 di febbraio ammontano esattamente a 134.336 tonnellate.
La disposizione, che proibiva ogni invio di carbone della Ruhr nella Germania non occupata, poteva arrecare come conseguenza un aggravamento della situazione nei riguardi delle forniture all'Italia.
Di questa possibilità si preoccupò subito il Regio Governo: e si proponeva di svolgere azione appropriata per assicurarsi che le autorità franco-belghe avrebbero consentito egualmente l'ingresso nella Germania non occupata dei treni di carbone diretti in Italia.
Ma esplicite assicurazioni in questo senso furono spontaneamente fornite dal Governo francese, come pure dalle autorità militari della Ruhr ai nostri ingegneri.
Ogni voce secondo la quale la Francia avrebbe sospeso le spedizioni di carbone dirette in Italia, deve quindi essere smentita recisamente.
L'ultimo dei rapporti quotidiani telegrafici dei nostri ingegneri da Essen, in data di ieri, dice testualmente:
«Le notizie pubblicate da vari giornali che soltanto i treni di carbone destinati all'Olanda possono transitare, che sono invece arrestate le spedizioni destinate alla Svizzera e all'Italia, sono infondate. I carri carichi per l'Italia sono lasciati partire dalle stazioni di blocco, e anche i trasporti fluviali procedono senza impedimento».
Il Governo tedesco da parte sua ha provveduto alla formazione di treni giornalieri ad est di Dortmund, fuori della zona occupata, avviandoli in Italia per Innsbruck e per la Svizzera.
È stata del pari intensificata la spedizione di carbone per la via di Rotterdam.
Questo per il carbone.
Per il coke, le consegne della Bassa Slesia, dall'inizio della crisi nella Ruhr, si sono mantenute pressoché uguali a quelle del periodo precedente, salvo in questi ultimi giorni; quelle della Westfalia hanno subito una notevole diminuzione.
Fin dall'inizio degli avvenimenti il Regio Governo ha seguito colla massima cura l'andamento della situazione e delle forniture di carbone, mantenendosi costantemente in rapporto cogli ingegneri che si trovano ad Essen. Esso è pienamente convinto dell'importanza che la fornitura dei combustibili riveste per l'economia nazionale e può dirsi che questa convinzione sia stata uno dei criteri direttivi della linea da esso seguita e dei provvedimenti adottati.
Il Regio Governo può fornire affidamenti espliciti alla Camera che le più ampie misure sono già state prese anche in altri bacini carboniferi, perché gli avvenimenti, nel caso deprecabile di un peggioramento della situazione, non ci colgano impreparati.
Non ritiene di entrare in maggiori dettagli di cifre, per ragioni di riserbo, facili a comprendersi nella presente delicata situazione, e in considerazione delle ripercussioni economiche-finanziarie che tali notizie non mancano mai di avere nelle borse e nei mercati.
Roma, 16 febbraio 1923: MUSSOLINI parla alla Camera dei Deputati, dopo la discussione degli accordi internazionali.
Con l'approvazione degli accordi di Santa Margherita si chiude quella che si potrebbe chiamare la settimana di politica estera del Parlamento italiano: settimana che si potrebbe chiamare anche pacifica, perché si è cominciato con la ratifica delle convenzioni di Washington, che rappresentano una sosta nei grandi armamenti navali e si finisce con l'approvazione degli accordi di Santa Margherita, conseguenza del già ratificato ed in massima parte eseguito Trattato di Rapallo.
Chiudendo questa settimana di lavoro, mi permetto di constatare che la Camera ha fatto del buon lavoro e che in questa Sessione ha rialzato indubbiamente di qualche punto il suo prestigio di fronte al Paese.
Sono grandi le questioni sulle quali si è intrattenuta la Camera, non già trattatelli o leggine inconcludenti, come taluno ha detto.
Mi sono rifiutato d'imbarcarmi, come si tentava di fare dalla Sinistra, in una delle solite discussioni di indole generale che non concludono nulla. Fin che starò io a questo banco, la Camera non si tramuterà in un comizio. Non c'è niente da discutere in materia di politica interna: quello che accade, accade per mia precisa e diretta volontà e dietro miei ordini tassativi, dei quali assumo naturalmente piena e personale responsabilità.
È inutile quindi battere sui funzionari delle singole Amministrazioni: gli ordini sono miei. Non mi importa di sapere se esista un complotto nel senso che si dava a questa parola: ciò sarà stabilito dagli organi competenti. Esistono viceversa dei signori, i quali si illudevano di poter fare impunemente la guerra allo Stato ed al Fascismo. A quest'ora devono essere disillusi e più si disilluderanno in seguito.
La differenza fra Stato liberale e lo Stato fascista consiste precisamente in ciò: che lo Stato fascista non solo si difende, ma attacca. E coloro che intendono di diffamarlo all'estero o di minarlo all'interno devono sapere che il loro mestiere comporta incerti durissimi.
I nemici dello Stato fascista non si meraviglieranno se io li tratterò severamente come tali.
E a proposito del discorso di Filippo Turati, il mio fiuto di vecchio combattitore non mi ha ingannato quando ho respinto alcuni giorni fa le avances che venivano da quella parte, anche in suo nome, a mezzo di Gregorio Nofri, che, essendo stato in Russia, ha sentito immediatamente il prepotente bisogno di scrivere contro la Russia e di diventare antibolscevico. Le pecore rognose non entreranno nel mio ovile. Sono ancora fedele alla mia tattica. Non cerco nessuno. Non respingo nessuno. Ma fido soltanto sulle mie forze.
Ecco perché in questi ultimi tempi ho voluto che si stringessero contatti, dopo la riunione del Gran Consiglio Fascista, con quei partiti che, lottando sul terreno nazionale, possono stabilire con noi buoni rapporti per un lavoro in comune.
Ma tutto ciò sia detto subito, non è stato fatto ai fini parlamentari, bensì ai fini della coesione, dell'unità e della pacificazione del Paese.
Concordo pienamente con quanto ieri sera ha detto l'onorevole Cavazzoni a proposito delle otto ore.
Ho dichiarato, davanti ad un'assemblea di ottocento tipografi, che le otto ore rappresentavano una conquista intangibile delle classi operaie.
Non c'è bisogno di intavolare una lunga discussione, perché si attribuiscano, all'una o all'altra parte della Camera, meriti insigni, perché il Governo, in uno dei suoi prossimi Consigli dei ministri, deciderà, una buona volta per sempre, la questione delle otto ore.
Ciò detto, e spero che tutti intendano anche il senso delle parole che non ho pronunciato, passo alla politica estera.
Intanto dichiaro che non posso accettare la tesi dell'onorevole Lucci, il quale pretende che io sia originale.
Prima di tutto, l'onorevole Lucci deve darmene il tempo. In secondo luogo non c'è nessuna originalità in materia di politica estera; ed io mi rifiuterei energicamente di fare l'originale, se questa originalità dovesse procurare qualche linea soltanto di danno al mio Paese.
E non posso nemmeno accettare la sua tesi troppo idealistica. Vedo il mondo come realmente esso è: cioè un mondo di scatenati egoismi. Se il mondo fosse una bianca Arcadia, sarebbe forse bello trastullarsi tra le ninfe e i pastori; ma io non vedo nulla di tutto ciò, e anche quando si alzano le grandi bandiere dei grandi principi, io vedo dietro questi drappi, più o meno venerabili, degli interessi che cercano di affermarsi nel mondo.
Se tutta la politica estera fosse portata su un terreno di squisito e di puro idealismo, non sarebbe certamente l'Italia che si rifiuterebbe di entrare su questo terreno.
In realtà questo non è. Quindi tutto il discorso dell'onorevole Lucci appartiene alla musica del più lontano avvenire.
Quando sono arrivato a questo banco c'è stato un momento di trepidazione in certi ambienti della politica internazionale; si credeva, cioè, che l'avvento del Fascismo al potere avrebbe significato per lo meno la guerra alla Jugoslavia.
Dopo quattro mesi l'opinione pubblica internazionale è pienamente rassicurata.
La politica estera del Fascismo non può essere, specie in questo momento storico, che una politica estera estremamente circospetta e nello stesso tempo fortemente attiva.
La Nazione, uscita dal travaglio mirabile e sanguinoso della guerra, è ora tutta intenta all'opera di rifacimento dei suoi tessuti politici, economici, finanziari e morali: infliggere uno sforzo che non fosse imposto da un caso di estremissima necessità significherebbe fare una politica antinazionale e quindi suicida.
A Londra, come a Losanna, la politica estera dell'Italia si è tenuta su queste direttive. A Losanna soprattutto l'opera della Delegazione Italiana è stata altamente apprezzata. Se la pace non è stata firmata a Losanna, nessuna responsabilità spetta all'Italia.
D'altra parte non conviene parlare con eccessivo pessimismo dello svolgersi degli avvenimenti nel Mediterraneo orientale.
Non bisogna credere che certo innocuo digrignar di denti, effetto talvolta di reciproci nervosismi, possa significare inizio di guerra.
Ho l'impressione che se la Grecia sarà prudente, e che se l'Intesa sarà unita, come è accaduto per le sue navi nel porto di Smirne, anche la Turchia, che ha realizzato gran parte del suo programma nazionale lanciato dalla grande Assemblea di Angora, diventerà ragionevole.
Non vi è ragione quindi di temere complicazioni militari in Europa.
D'altra parte l'Italia ha impedito e impedirà che il turbamento prodotto dagli avvenimenti nella Ruhr possa avere delle ripercussioni catastrofiche nei paesi del bacino danubiano.
La situazione nella Ruhr è stazionaria. Dichiaro ancora una volta che l'Italia non poteva fare una politica diversa. Il tempo dei gesti belli e inutili è passato.
L'atteggiamento che taluni elementi di sinistra in Italia reclamano sarebbe stato inutile. Non avremmo impedito alla Francia di marciare nella Ruhr, mentre avremmo forse aumentata la resistenza tedesca.
Anche l'altro gesto che consisteva nella mediazione non poteva essere compiuto, perché non si fanno mediazioni di nessun genere, se non sono richieste e gradite.
Del resto l'Inghilterra si è limitata alla non partecipazione tecnica nelle operazioni nel bacino della Ruhr, ma non ha spinto il dissenso con la Francia fino a ritirare le sue truppe dalla Renania.
Giova ancora aggiungere del resto che la Francia non ci ha richiesto fino a questo momento una forma di solidarietà più recisa. Se questo avvenisse, è chiaro che l'Italia si riserverebbe di porre sul tappeto tutto il complesso sistema delle relazioni tra i due paesi.
Quanto alle Convenzioni di Santa Margherita, che la Camera è invitata ad approvare, esse rappresentano l'ultima fase del nostro triste e lamentevole dramma adriatico.
Io qui potrei rispondere nei dettagli: potrei, per esempio, dimostrare all'onorevole Chiesa che proprio ieri, in data 8 febbraio, ho ricevuto da Belgrado questo telegramma:
«-Questo ministro Jugoslavo comunica che sono stati impartiti ordini alle autorità di Spalato perché i locali di codesta scuola siano evacuati e messi a disposizione della scuola stessa, nonché sia liberato e restituito l'alloggio annesso a codesta chiesa di San Spirito-».
Potrei correggere altre inesattezze, ma non è mio compito; non vale la pena di discendere a discussioni di dettaglio. Sono sempre d'avviso che bisogna applicare queste Convenzioni per provarle.
Non mi sento di difendere con troppe parole un trattato che non ho approvato quando fu concluso, e che ritengo anche oggi in molte delle sue parti assurdo e lesivo agli interessi italiani. Ma le cose stanno oggi in questi termini: o applicare definitivamente il trattato o denunziarlo. Poiché denunziarlo non si può nelle attuali condizioni e poiché la denunzia significherebbe riaprire tutta la questione, non resta che l'applicazione leale e scrupolosa da parte nostra come leale e scrupolosa dovrà essere dalla parte di Belgrado.
L'attesa indefinita, in vista di avvenimenti che potrebbero verificarsi, è il peggiore dei sistemi in questo momento.
Bisogna avere il coraggio di troncare una situazione che era diventata insostenibile, e che ci dava tutti gli svantaggi senza assicurarci quelli che possono essere gli utili consentiti da relazioni nettamente definite.
Del resto non si capisce perché proprio il Trattato di Rapallo dovrebbe essere, tra tutte le centinaia di Trattati che sono stati stipulati da quando il mondo fa la sua storia, proprio l'unico Trattato irreparabile, tombale, perpetuo. Nessun Trattato ha mai resistito a nuove condizioni di fatto maturatesi nel corso del tempo; l'essenziale è, a mio avviso, di mettersi in condizioni tali che una eventuale revisione ci trovi in grado di poter rivendicare con dignità e con forza il nostro diritto imprescrittibile.
Con l'applicazione degli accordi di Santa Margherita il Governo fascista dà una prova solenne della sua probità, del suo spirito di decisione e del suo spirito di lealtà assoluta. Bisogna che Belgrado faccia altrettanto. Bisogna che la Jugoslavia si renda conto del valore intrinseco di quest'atto; faccia nei confronti degli italiani che restano in Dalmazia una politica di libertà e di saggezza. Una politica che tendesse a sopprimere violentemente l'italianità della Dalmazia, non potrebbe essere tollerata dal Governo fascista.
Con la ratifica di questi accordi il Governo fascista offre alla Jugoslavia la possibilità di intensificare i rapporti economici tra i due paesi.
Il Regio Governo, che ha già fatto molto nei limiti della sua possibilità per Fiume e per Zara, continuerà ad interessarsi con la massima energia e sollecitudine del destino di queste due città.
Effettuato lo sgombero di Sussak, e soltanto di Sussak, poiché Delta e Porto Baros rimarranno ancora occupate dalle nostre truppe fino a quando Fiume non sia diventata Stato giuridicamente perfetto, l'Italia continuerà ad interessarsi della sorte di Fiume in modo da poterla restituire in breve tempo al suo vecchio splendore.
Quanto a Zara, il suo destino è grande e difficile, ed io per il primo comprendo la tragedia di quella città e il travaglio tormentoso di tutti gli italiani diffusi in Dalmazia fino a Cattaro. Ma Zara, sentinella perduta, inflessibile e invincibile dell'italianità della Dalmazia, è disposta a sopportare con spirito di assoluta disciplina nazionale che l'ultimo atto del dramma adriatico si compia.
Il Governo andrà incontro ai suoi bisogni immediatamente, poiché Zara deve vivere, poiché Zara, oltre Adriatico, rappresenta un lembo della carne più viva del popolo italiano.
Zaratini e dalmati sappiano che il Governo vigilerà sulle loro sorti con affettuosa premura.
Queste non sono parole dettate per superare questo momento di tristezza. Alle parole seguiranno i fatti.
Quanto all'opinione pubblica nazionale, essa sente e sa unicamente che bisognava applicare questi accordi, perché l'Italia fosse più libera nel giuoco, sempre più serrato, delle competizioni internazionali, libera per fare una politica di difesa dei suoi interessi, libera per potere influire sempre più attivamente sul corso degli avvenimenti.
Credo che in queste direttive di politica interna e di politica estera sia oggi consenziente la parte migliore del popolo italiano.
Nello stesso giorno, e sul medesimo tema, MUSSOLINI pronunziò al Senato il seguente discorso, a conclusione della discussione sugli accordi internazionali:
Onorevoli Senatori!
Dopo aver scritto le prefazioni e le introduzioni ai disegni di legge e dopo il discorso pronunciato nell'altro ramo del Parlamento, non credo che ci siano ancora troppe cose da dire. La stessa rapidità della discussione sta a testimoniare che tutti questi trattati, che tutti questi accordi, sono in certo senso già ampiamente scontati. Con ciò non voglio negare l'importanza di questi trattati e di questi accordi, ma si tratta di accordi e di convenzioni che risalgono a molto tempo fa e la vita oggi va straordinariamente in fretta.
Non vi nascondo che, continuando la teoria infinita delle conferenze, i popoli hanno ragione di manifestare un certo scetticismo sui risultati delle medesime.
Il senatore Crespi ha cercato di portare la discussione su un terreno d'ordine generale: il terreno scottantissimo dei debiti e delle riparazioni. Il senatore Crespi chiede dei fatti nuovi. Non ce ne sono. E forse non ce ne possono essere. L'appello del senatore americano Borah non ha una eccessiva importanza.
Mi sono informato e ho saputo che si tratta di un capo gruppo di uno dei tanti partiti della Repubblica stellata: questo non gli dà ancora titoli sufficienti perché io debba precipitarmi a raccogliere i suoi più o meno fantastici appelli. Se domani elementi responsabili di Governo, e specialmente dei Governi interessati e impegnati in conflitti, si rivolgessero all'Italia, che è l'unica Nazione del mondo che in questo momento fa una politica di pace, non esiterei un minuto solo a rispondere all'appello.
C'è un fatto nuovo, sul quale conviene di riflettere, ma è un fatto nuovo che gela piuttosto che accendere gli entusiasmi; e il fatto nuovo è questo: che l'Inghilterra e gli Stati Uniti si sono messi d'accordo e l'Inghilterra si è impegnata a pagare il suo debito verso gli Stati Uniti. Non c'è quindi da nutrire soverchia illusione sulla possibilità di avere una cancellazione dei nostri debiti. Sarebbe giustissimo, io penso, da un punto di vista di stretta e assoluta moralità, ma i criteri e i principi dell'assoluta moralità non guidano ancora le relazioni dei popoli.
Si è detto in un Parlamento straniero che l'Italia aveva tentato una mediazione tra la Francia e la Germania: non esiste un tentativo siffatto, il mio dovere era quello di procedere a un sondaggio e a una indagine, e l'ho fatto. Questo era il mio dovere; ma quando dal sondaggio e dall'indagine fatta nelle capitali europee mi sono accorto che in quella direzione non si poteva marciare, non ho insistito: insistendo avrei commesso un gravissimo errore.
D'altra parte, io penso che la crisi è giunta a un punto culminante; si tratta di sapere se c'è e ci sarà ancora un'intesa. Non credo di svelare dei misteriosi arcani se dico quello che balza agli occhi di quanti leggono le semplici cronache dei giornali. Non c'è un solo avvenimento, non c'è una sola questione davanti alla quale non si ponga il problema dell'unità d'azione dell'Intesa. In questa situazione politica di necessità non si possono improvvisare dei gesti, meno ancora delle originalità.
Tutte le diplomazie, non esclusa quella russa, che è di un formalismo e di un procedurismo raccapricciante, tutte le diplomazie sono in questo momento guardinghe e circospette; non c'è ragione perché l'Italia debba fare qualcosa di diverso.
Quando si tratta degli interessi della nostra Nazione, quando si tratta degli interessi di quaranta milioni di abitanti, che hanno diritto di vivere, bisogna andare adagio nelle improvvisazioni, e bisogna tener conto che oltre alla nostra volontà, ci sono le volontà degli altri.
Se noi avessimo dei bacini carboniferi, se noi avessimo in qualche modo risolto il problema delle materie prime, se disponessimo di larghi depositi aurei a sostegno della nostra valuta, potremmo seguire una data politica, magari la politica della generosità verso la Germania; ma noi non ci possiamo permettere il lusso della prodigalità e della generosità quando stentiamo a trar la vita, quando dobbiamo raccogliere tutte le nostre energie per evitare l'abisso. E allora voi convenite, onorevoli senatori, che l'Italia non poteva restare assente dal bacino della Ruhr, non poteva cioè negarsi e negare una partecipazione di ordine economico e tecnico.
È meglio a mio avviso esser sempre presenti, poiché, qualche volta, dei complicati problemi hanno delle soluzioni impensate, e non si poteva correre capricciosamente il rischio di non essere presenti nel caso — tutt'altro che improbabile — di un accordo sul terreno economico — ferro e carbone — tra la Francia e la Germania.
Venendo agli accordi di Santa Margherita, io comprendo perfettamente l'angoscia e il dolere che traspariva dalle parole dei senatori Tamassia e Tivaroni. Certamente il sentimento è una forza spirituale grandissima, e negli individui e nella vita dei popoli, ma non può essere l'unico o l'esclusivo motivo dominante della politica estera. Bisogna avere il coraggio di dire che l'Italia non può eternamente rimanere inchiodata in un solo mare, sia pur esso il mare Adriatico. Oltre il mare Adriatico c'è il Mediterraneo, e ci sono altri mari che possono interessarci.
Il trattato di Rapallo fu, a mio avviso, una lamentevole transazione, che era il risultato essa stessa di una situazione interna difficile, e di una politica estera che non brillava per un eccesso di autonomia.
E qui mi sia concesso di ripetere che non si può fare una politica estera di stile, di dignità e di fermezza, se la Nazione non dà quotidianamente spettacolo di ferrea disciplina.
Io non credo che questi accordi di Santa Margherita segnino la morte di Zara e della Dalmazia. Intanto, con le ultime concessioni, abbiamo salvato l'impiego della lingua italiana per quei nostri fratelli. Ora, mi pare che fosse Gioberti il quale diceva che ove è lingua ivi è nazione; per cui, se quei nostri fratelli potranno parlare e scrivere e imparare nella madre lingua italiana credo che uno degli elementi fondamentali della loro italianità sarà salvo.
L'italianità di Zara e della Dalmazia ha resistito durante decenni a tentativi ferocissimi di snazionalizzazione tentata dall'impero absburgico. Allora l'Italia non poteva dare un soccorso vivo e forte a questi nostri fratelli; oggi — voi lo notate — la Nazione ha un'altra coscienza di se stessa. Quei nostri fratelli che potevano sentirsi dimenticati qualora gli accordi di Santa Margherita fossero stati applicati da un altro Governo, non possono pensare la stessa cosa, quando la definitiva e necessaria esecuzione del trattato di Rapallo venga fatta dal Governo che ho l'onore di presiedere, del quale sono membri gli artefici della vittoria. Noi crediamo fermamente che l'applicazione leale e scrupolosa da parte nostra, come leale e scrupolosa dovrà essere da parte della Jugoslavia, degli accordi di Santa Margherita, salverà l'italianità di Zara e della Dalmazia.
Non ho bisogno di ripetere che i trattati sono delle transazioni che presentano degli accordi, dei punti di equilibrio; nessun trattato è eterno, quello che accade sotto i nostri occhi è altamente ammonitore.
Non vale quindi la pena di seguire il senatore Scialoja nel constatare l'imperfezione giuridica di alcune parti di questi accordi. Io credo che, se l'onorevole Scialoja avesse lui stesso elaborato questi accordi, si sarebbe trovato un altro giurista capace di scoprire che non erano ancora perfetti.
Noi applicheremo dunque lealmente e rapidamente questi accordi.
Non bisogna credere che la terza zona sia una specie di continente vastissimo e che abbiamo in essa delle forze ingentissime; si tratta di un territorio che circonda Zara e di un gruppo di isole; in totale non abbiamo là che 120 carabinieri, 18 guardie di finanza e 20 soldati.
A Sussak abbiamo un battaglione di fanteria. Si tratterà di farlo ripiegare sulla linea dell'Eneo, perché fino a quando non si sappia che cosa sarà Fiume, il Delta e Porto Baros rimangono presidiate da truppe italiane.
Che cos'è questa Commissione paritetica o paritaria che dir si voglia? È il tentativo, starei per dire una specie di forcipe, col quale o attraverso il quale deve uscire, più o meno vitale, quella creatura che si pensò a Rapallo, cioè lo Stato indipendente di Fiume. Certo è questo: che noi abbiamo tre italiani in questa Commissione paritetica. Certo è questo: che non è proprio assolutamente necessario che Fiume diventi la settantacinquesima provincia del Regno, che a Fiume ci sia veramente il prefetto: questo per me è secondario. Per me è importante che Fiume abbia la sua anima italiana, che abbia il suo spirito intatto, che Fiume resti italiana e nello stesso tempo si trovino accorgimenti o transazioni tali che facciano di Fiume una città che viva in se stessa e per se stessa, e non soltanto attraverso le elargizioni dello Stato italiano.
Il Governo, che qualche volta fa precedere i fatti alle parole, ha già preso provvedimenti per Zara; provvedimenti di indole economica, provvedimenti di indole politica e spirituale. Altrettanto ha fatto per la Dalmazia.
Bisogna che riconosca con tutta franchezza che, dall'avvento del Governo fascista, gli jugoslavi sono stati meno intransigenti nei nostri riguardi.
Non è dubbio che la definitiva esecuzione del trattato di Rapallo è motivo di fiero dolore per i fiumani, per i zaratini, per i dalmati e per moltissimi italiani del vecchio Regno.
In un altro momento ci sarebbero state forse delle difficoltà.
Il Governo che ho l'onore di presiedere non evita le difficoltà: le affronta, starei per dire che le cerca.
Io intendo di sistemare nel più rapido tempo possibile tutte le eredità più o meno fortunate della nostra politica estera.
Non bisogna allarmarsi per quello che succede. Io ho della storia e della vita una concezione che oserei chiamare romana. Non bisogna mai credere all'irreparabile. Roma non credette all'irreparabile neppure dopo la battaglia di Canne, quando perdette il fiore delle sue generazioni; anzi ognuno di voi certamente ricorda come il Senato romano movesse incontro a Terenzio Varrone, il quale, pure avendo voluto impegnare la battaglia contro il parere di Paolo Emilio, era certamente uno dei responsabili della disfatta.
Roma cadeva e si rialzava: camminava a tappe, ma camminava; aveva una meta e si proponeva di raggiungerla.
Così dev'essere l'Italia, la nostra Italia, l'Italia che portiamo nei cuori nostri come un sogno orgoglioso e superbo; l'Italia che accetta il destino quando le viene imposto da una situazione di dura necessità mentre prepara gli spiriti e le forze per poterlo un giorno dominare.
Propongo che il Senato, dopo avere esaurito la discussione del disegno di legge sulla caccia, sospesa ieri sera, si aggiorni.
Non so quanto durerà questo aggiornamento; bisognerà che il Governo sia lasciato libero di lavorare, di preparare del lavoro per la Camera dei deputati e per il Senato.
Intanto mi preme di ringraziare S. E. il Presidente che ha retto i lavori di questa Assemblea con quel tatto e quell'alta sapienza che ognuno gli riconosce. Sono lieto che il Senato, approvando tutti i trattati di commercio e tutti i trattati politici, che sono due aspetti di una stessa politica, abbia condotto alla sistemazione di una parte della nostra politica estera.
Prego S. E. il Presidente di gradire l'attestazione della mia più alta simpatia.
Roma, 24 febbraio 1923: MUSSOLINI parla nela nuova sede delle corporazioni
Dopo la Marcia su Roma, la sede delle Corporazioni fu trasferita da Bologna a Roma, compiendosi così il primo passo verso quello sviluppo e quel progressivo incremento statale del Corporativismo che doveva giungere alla sua fase definitiva con il discorso del 14 novembre 1933. Il 24 febbraio del 1923, MUSSOLINI si recò con l'on. Giovanni Giuriati a visitare la nuova sede delle Corporazioni, e fece le seguenti dichiarazioni:
Cari amici,
Il fatto che io sono venuto fra di voi, in forma ufficiale, se mi è concesso di impiegare questa parola un poco ambigua, mi dispensa da un lungo discorso. La mia visita ai vostri locali significa che il Governo fascista che ho l'onore di rappresentare intende di tenere assidui contatti, di stabilire rapporti quotidiani con quella parte eletta delle classi operaie italiane che si raccoglie nelle corporazioni fasciste. Ho la impressione netta che le masse lavoratrici italiane seguano con simpatia il Governo fascista; sentono che il Governo fascista quando impone delle leggi o attua delle riforme obbedisce sempre a criteri di ordine generale e nazionale, non già ad interessi singoli o di categoria.
Posso annunciarvi che nei prossimi Consigli di Ministri diventerà legge dello Stato la giornata lavorativa di otto ore. Altri provvedimenti che torneranno, io penso, di notevole vantaggio alle classi che lavorano, saranno adottati nei prossimi giorni. Il Governo chiede agli operai, ai tecnici, ai datori di lavoro la disciplina, la calma, il lavoro. La gente che lavora è più di ogni altro interessata all'opera di ricostruzione nazionale che il Governo persegue con tenacia inflessibile.
Viva l'Italia del Lavoro! Viva l'Italia fascista!
Roma, 7 marzo 1923: MUSSOLINI Risponde al ministro delle finanze
MUSSOLINI fece la consegna dei bilanci della Presidenza, degli Interni e degli Esteri a S. E. Alberto De Stefani, Ministro delle Finanze, attuando così una nuova deliberazione del Consiglio dei Ministri. Alle parole del Ministro delle Finanze, MUSSOLINI rispose con le seguenti dichiarazioni:
Onorevoli ministri, onorevoli colleghi, signori!
Qualcuno potrebbe domandare: perché tanto clamore, perché tanti armati per una cerimonia che si potrebbe chiamare di ordine puramente amministrativo, quale è la consegna dei miei due bilanci al Ministero delle Finanze? A questo punto interrogativo conviene di rispondere: per diversi motivi, uno più plausibile dell'altro.
La solennità che accompagna questo gesto sta a dimostrare l'importanza enorme che il Governo annette ad un rapido ripristino della normalità finanziaria.
Noi abbiamo solennemente promesso di avviare il bilancio dello Stato verso il pareggio e a questa promessa noi vogliamo tener fede a qualunque costo. Bisogna persuadersi che se il tutto crolla, crolla anche la parte, e che se l'economia della Nazione va al precipizio, tutto quello che è dentro la Nazione: istituzioni, uomini, classi, è destinato a subire l'identica sorte.
E perché questi armati? Per dimostrare che il Governo ha delle forze.
Io dichiaro che voglio governare, se possibile, col consenso del maggior numero di cittadini; ma nell'attesa che questo consenso si formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze disponibili.
Perché può darsi per avventura che la forza faccia ritrovare il consenso e in ogni caso, quando mancasse il consenso, c'è la forza. Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli.
Così io concepisco lo Stato e così comprendo l'arte di governare la Nazione.
Sono lieto di trovarmi dinanzi a voi — (continua il Presidente rivolgendosi ai funzionari del Ministero presenti alla cerimonia) — perché il ministro mi ha parlato bene degli alti funzionari del Ministero delle Finanze, Mi ha detto che qualcuno di voi lavora spesso fino a 16 ore al giorno. Sono molte ed è magnifico esempio. Ma se non fossero sufficienti, bisognerebbe anche lavorare venti ore.
Solo così, o signori, solo così noi usciremo dalle presenti difficoltà per arrivare alla riva. Bisogna portare nel nostro spirito un senso di severità assoluta. Bisogna considerare che il denaro dell'erario è sacro sopra ogni altra cosa. Esso non piove dal cielo e non può essere nemmeno fatto col giro del torchio che, se potessi, io vorrei spezzare. È tratto dal sudore e, si può dire, dal sangue del popolo italiano, che lavora oggi, che lavorerà di più domani. Ogni lira, ogni soldo, ogni centesimo di questo denaro deve essere considerato sacro e non deve essere speso se non quando ragioni di stretta e documentata necessità lo impongano.
La storia dei popoli dice che la severa finanza ha condotto le nazioni alla salvezza. Penso che ognuno di voi sia partecipe di questa verità ampiamente documentata dalla storia. Con questa convinzione vi porgo il mio cordiale e fraterno saluto.
Roma, 11 marzo 1923: MUSSOLINI interviene nella nuova sede dei mutilati.
Discorso tenuto all'inaugurazione della nuova sede dell'Associazione Nazionale dei Mutilati di Guerra, in risposta alle parole dell'avv. Ruggero Romano, Segretario generale dell'Associarne, e dell'on. Carlo Delcroix.
Miei cari commilitoni!
Confesso che io sono alquanto esitante e confuso per le vostre accoglienze fraterne, e soprattutto per i discorsi che ho ascoltati in questo momento, quello dell'avv. Romano così vibrante e quello meraviglioso come sempre del vostro grande Delcroix, Sono venuto qui non soltanto come capo del Governo, come Presidente del Consiglio: sono venuto qui soprattutto come vostro compagno di trincea e di sacrificio. Quando io sono dinanzi a voi mi riconosco in voi e rivivo quelle che sono certamente le pagine della mia vita alle quali tengo di più: le pagine della trincea, quando ho potuto vedere col mio occhio il travaglio sanguinoso della stirpe italiana, constatare lo spirito di devozione, vedere come sbocciava dai suoi sedimenti, che parevano millenari e perduti, il fiore stupendo della nostra magnifica storia. Ci riconosciamo tutti.
Ognuno di noi è certamente stato infangato da quella terribile terra rossa del Carso, ognuno di noi ha sofferto i geli ed i venti delle altitudini alpine, ognuno di noi ha vissuto in dimestichezza quotidiana colla vita e la morte.
Vi ammiro, o miei commilitoni, e vi rispetto. Intendo di aiutarvi fraternamente: quando avete temuto che si portasse ferita o diminuzione ai vostri imprescrittibili diritti, ho dichiarato che i diritti del sangue e del sacrificio non potevano essere toccati; voi avete visto che la mia parola è stata mantenuta. Sarebbe enorme colpire coloro che hanno fatto la grandezza della Patria, mentre molti lestofanti e filibustieri sono ancora a piede libero, ma non è detto che vi resteranno per molto tempo ancora. Io considero i combattenti, i mutilati, le famiglie dei caduti, come l'aristocrazia grande, pura e intangibile della nuova Italia. Questa è la bussola che mi guida nella dura e difficile navigazione.
Sono sicuro che nessuno di voi mi invidia per il posto che occupo. Voi sentite che governare una nazione, reggere il destino di quaranta milioni di uomini, avviare la Nazione verso periodi di libertà, di giustizia, di prosperità e di grandezza è impresa ardua, che fa tremare le vene e i polsi. Ma mi considero al mio tavolo di capo di Governo come quando sullo Javorcek o a quota 144 ero comandato di vedetta o di pattuglia. Obbedivo come obbedisco oggi alla coscienza della Nazione, in quest'opera assidua, aspra e quotidiana, nella quale si assommano problemi che i Governi di prima non hanno mai osato di affrontare e, rinviandoli, li hanno incancreniti. In quest'opera mi è sommo conforto il pensare che non mi manca la solidarietà dei miei compagni di pensiero.
È quasi automaticamente — per una necessità profonda — che, superando la volontà più o meno meschina degli uomini, si è determinata in Italia una netta unione di forze e di spiriti. Da una parte la vecchia Italia, che si attarda ancora a bamboleggiare formule, che rimpiange certi miti che la realtà storica si è incaricata essa stessa di frantumare irreparabilmente, obliqui personaggi che hanno sempre una lacrima per il loro passato o per i loro sedicenti mali, politicanti che quando danno qualche scarso segno di vita, mi fanno l'impressione di larve che escano dai cimiteri della preistoria. Dall'altra parte tutte le forze della gioventù, tutte le forze sane e pure della Patria, tutti i combattenti, i milioni e milioni di cittadini che hanno fatto la guerra, che hanno oggi l'orgoglio di averla sostenuta sino alla vittoria, che sentono di appartenere a una nuova generazione, che vogliono difendere quello che nobilmente il vostro eroico Delcroix chiamava la santità del sacrificio.
Sebbene tutte queste generazioni si orientino necessariamente verso il Governo Nazionale e in ciò è il sigillo di nobiltà e di forza del mio Governo, io non vi nascondo che è un Governo duro, perché i compiti sono duri e io non sono un medico eccessivamente pietoso. Vedo la realtà come si presenta sotto ai miei occhi, non posso ingannare me stesso e i miei cittadini dipingendo una realtà fittizia e artificiosa. La realtà è questa: che la Nazione ha bisogno di disciplina, di calma. La realtà è questa: che i vecchi partiti non hanno più parole e più vangelo da predicare alle moltitudini; quanto di giusto, di pratico, di effettuabile, le vecchie dottrine contenevano è applicato coraggiosamente dal mio Governo.
Quel postulato delle otto ore di lavoro, pel quale si sono versati fiumi d'inchiostro e di chiacchiere, è oggi legge dello Stato fascista. È assai difficile quindi voler dipingere questo come un Governo di biechi reazionari, di gente che vuole comprimere i diritti del popolo che lavora. Tutto ciò, anche prima di essere delittuoso, è ridicolo. È perfettamente comprensibile, logico e umano, che io colpisca coloro che mentiscono sapendo di mentire.
Come del resto io potrei essere un nemico del popolo che lavora, dico che «lavora»? Il Delcroix ha ricordato le mie origini, delle quali ho l'orgoglio. Essere contro il popolo, che ha fatto la guerra? Quando dico «popolo» intendo comprendere anche quella media borghesia che è l'ossatura salda della Nazione. Questa piccola borghesia che ha dato i plotonisti, gli aspiranti, i meravigliosi giovanetti, che ho visto combattere nelle trincee e sfidare intrepidamente il pericolo e la morte, questo popolo è il sale della Patria. Questo popolo cifra i suoi membri a milioni. Non sarebbe stolto e rovinoso un Governo, che non tenesse conto delle giuste aspirazioni di questo popolo? Come si può pensare di costituire la grandezza della Patria, se si ignora questa parte preponderante ed integrante, che forma la Nazione stessa?
Ma, detto questo, io distinguo; e quando vedo i falsi pastori, che vogliono ancora mistificare il popolo, che vogliono ancora fargli credere ad utopie, nelle quali essi non credono più, quando questi mestieranti della dottrina, questi pseudoscientifici della teoria pretendono avere la libertà di sabotare la Nazione, io dichiaro che questa libertà non l'avranno mai.
Il Governo fascista non imita i vecchi Governi, i quali avevano sempre paura di essere un poco coraggiosi. Il Governo che dirigo, miei cari commilitoni, non dovete credere che sia un Governo venuto e nato nell'ottobre del 1922. Vista a cinque mesi di distanza, la marcia su Roma ha già l'aspetto mirabile, grandioso della leggenda. Molti di voi, certamente, erano in quelle colonne, che marciavano su Roma. Roma testimonianza e documento imperituro della vitalità della nostra razza. Ed a Roma queste colonne confluivano con un sentimento che io conoscevo, con un sentimento assai affine a quello che dovevano avere certi popoli di altre epoche, che si precipitavano verso la città eterna. Un sentimento di rancore e di infinito amore; di rancore, perché vedevano in Roma non soltanto la Roma dei secoli, ma una Roma di abbietti politicanti, di burocrati tardigradi, di mestieranti e di affaristi. Accanto tuttavia a questo sdegno, era anche l'infinito amore per questa Città dalle origini lontane e misteriose, uno dei centri dello spirito in tutte le epoche della storia, popolata di quattro milioni di uomini al tempo di Augusto, da poche migliaia nei tempi oscuri del medioevo, mentre oggi si avvia a diventare il cuore potentissimo della nostra vita mediterranea.
Abbiamo afferrato il Governo in quella occasione, ma il fiume che sboccò a Roma a travolgere con la sua irresistibile fiumana i ripari, nei quali si intorpidiva una classe di politicanti miserabili, è un fiume dalle origini più lontane. Le origini rimontano al maggio del 1915: le sue origini rimontano a Vittorio Veneto. Tutte queste forze, tutti questi torrenti della nostra vita nazionale, a un dato momento, si sono ingrossati di tutte le fedi, di tutte le speranze, di tutte le passioni, di tutti i sacrifici ed hanno conquistato Roma e l'Italia. Oggi noi la teniamo saldamente e la terremo a qualunque costo contro chiunque.
Ci sono dei problemi che devono essere risolti, abbiamo sulle braccia un'eredità pesante da liquidare. In fondo, tutto ciò che il Governo fa oggi è lavoro arretrato, è spazzamento di tutte le scorie e detriti, che ingombravano la coscienza nazionale. Poi verrà il lavoro gioioso, grande e solenne della ricostruzione. Non falliremo al nostro compito, se io e gli artieri che dividono le mie fatiche e la mia responsabilità saremo sostenuti dalla vostra solidarietà, se sentiremo di non essere soli, se avremo in voi dei fiduciosi collaboratori. La Patria conta ancora su di voi ed io, capo del Governo, sento che questa speranza non è fallace, sento che, se domani fosse necessario, tutte le nostre schiere si stringerebbero ancora, tutti i vostri spiriti si esalterebbero ancora e basterebbe questo per gridare, con spirito di assoluta passione, una sola parola: Italia!
Roma, 18 marzo 1923: MUSSOLINI detta le nuove direttive economiche.
Discorso pronunziato il 18 marzo, inaugurandosi in Roma il secondo Congresso internazionale delle Camere di Commercio.
Signori!
Il Governo che ho l'onore di presiedere e di rappresentare è lieto di accogliervi a Roma e vi porge, a mezzo mio, un cordiale e deferente saluto, che estendo anche ai rappresentanti esteri che hanno voluto onorarci con la loro presenza.
Il fatto che il vostro importantissimo congresso si tenga nella Capitale d'Italia a cinque mesi soli di distanza dal movimento che portò le forze giovani della guerra e della Vittoria al dominio della cosa pubblica, è la migliore affermazione in faccia al mondo che la Nazione Italiana va tornando rapidamente alla piena normalità della sua vita politica ed economica.
Non accenno in questo ambiente alla prima. Mi soffermerò brevemente sulla seconda. Le direttive economiche del nuovo Governo italiano sono semplici. Io penso che lo Stato debba rinunciare alle sue funzioni economiche, specialmente a carattere monopolistico, per le quali è insufficiente. Penso che un Governo, il quale voglia rapidamente sollevare le popolazioni dalla crisi del dopoguerra, debba lasciare all'iniziativa privata il suo libero giuoco, debba rinunziare ad ogni legislazione interventistica o vincolistica che può appagare la demagogia delle sinistre, ma alla fine riesce, come la esperienza dimostra, assolutamente esiziale agli interessi ed allo sviluppo della economia. È tempo quindi di levare dalle spalle delle forze produttrici delle singole nazioni gli ultimi residui di quella che fu chiamata «bardatura di guerra»: ed è tempo di esaminare i problemi economici non più con quello stato d'animo velato di passioni con cui era necessario esaminarli durante la guerra.
Io non credo che quel complesso di forze che nelle industrie, nell'agricoltura, nei commerci, nelle banche, nei trasporti può essere chiamato col nome globale di capitalismo, sia prossimo al tramonto, come si è per lungo tempo asseverato da certi dottrinari dell'estremismo sociale. Una delle più grandi esperienze storiche, che si è svolta sotto i nostri occhi, sta a dimostrare che tutti i sistemi di economia associata, i quali prescindano dalla libera iniziativa e dagli impulsi individuali, falliscono più o meno pietosamente in un rapido volger di tempo. Ma la libera iniziativa non esclude l'accordo dei gruppi, tanto più facili, quanto più è leale la difesa dei singoli interessi. La vostra Camera di Commercio persegue appunto questo programma di indagine, di equilibrio, di coordinazione, di conciliazione.
Voi siete qui a Roma per discutere sui mezzi migliori onde ravvivare quella grande corrente dei traffici che prima della guerra aveva aumentato il benessere e portato tutte le popolazioni ad un alto livello di vita. Sono problemi ponderosi e delicati che spesso presentano delle interferenze di ordine politico e morale: per risolverli bisogna essere guidati dalla convinzione che non c'è solo l'economia dell'Europa da rimettere in piena efficienza, ma ci sono anche paesi e continenti i quali possono formare il campo di una maggiore attività economica in un prossimo domani. Non è privo di significato il fatto che la potente repubblica degli Stati Uniti, abbia mandato una così numerosa rappresentanza a Roma. Segno è che se la politica ufficiale si tiene ancora riservata, l'economia sente che non può disinteressarsi di quanto si può fare o non fare in Europa.
Non vi è dubbio che i Governi, a cominciare dal mio, esamineranno con la massima attenzione e terranno nel debito conto le decisioni che risulteranno dai lavori del vostro imponente ed importante congresso.
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 23:43 - modificato 2 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Roma, 18 marzo 1923: MUSSOLINI parla ai ciechi di guerra
Discorso pronunziato alla Casa del Lavoro per i Soldati ciechi di Guerra, nella Villa Felicetti, in risposta alle parole del Presidente Comm. Lazze e dei ciechi di Guerra avv. Beccastrini e De Riti.
Voi date un magnifico esempio a tutti gli italiani: voi vi siete sottoposti ad una disciplina volontaria: vivete fra di voi in perfetto e fraterno accordo, applicate le vostre braccia alle macchine, producete ed aumentate in una certa misura la ricchezza nazionale. Quanto voi fate è veramente grande per l'esempio che date alla Nazione. Se lavorate voi che non ne avreste l'obbligo, perché alla Patria avete già dato quanto di più prezioso possa avere una creatura umana; se voi lavorate, date un esempio tale che gli italiani tutti devono imitare. Voi afferrate questa parola d'ordine e la gridate: la salvezza della Patria sta nel lavoro e nella disciplina: nel lavoro che si deve fare per uscire dalla crisi del dopoguerra, e nella disciplina che deve coordinare ed armonizzare tutti i nostri sforzi in vista di un fine comune da raggiungere.
Quel che mi ha più commosso è stato l'udire la parola dei vostri oratori e l'infinito amore per l'Italia che traspariva da questi discorsi. Voi non la vedete più l'Italia nella sua espressione geografica: voi oggi vedete la Patria, non nell'espressione tangibile e materiale, ma la vedete nella sua più alta, più nobile, più pura, più purificata estrinsecazione spirituale. Voi la sentite, voi la portate in voi come un tesoro preziosissimo; voi la sentite come una nuova consolatrice religiosa. Ebbene, voi avete trovato in questo sentimento l'appagamento fondamentale della vostra vita.
Non temete del Governo: esso è quasi tutto di combattenti. Nel Governo ci sono parecchi mutilati ed i due ministri che non hanno potuto fare la guerra, ad essa hanno, però, dato dei figli che sono morti da eroi. Io stesso ho combattuto lungamente e sono stato ferito. Il Governo tutelerà i vostri sacrosanti diritti: verrà incontro ai vostri legittimi desideri: non vi dimenticherà e vi darà un solidarietà rapida, fattiva.
Il Governo vi considera come i migliori ed i più nobili fra gli italiani, come coloro che devono essere esempio e vessillo per tutti gli italiani. Questo oggi vi dico e come capo del Governo e come compagno di trincea.
E come compagno di trincea vi consiglio ad avere fiducia in quello che il Governo farà per voi. In questa fiducia, in questa rinnovata fede di tutti i nostri spiriti gridiamo ancora una volta solennemente: evviva l'Italia.
Pochi giorni dopo, il 29 marzo, il Duce visitava anche a Milano la Casa del Lavoro per i soldati ciechi di guerra, nella Villa Mirabello del Patronato Lombardo, e rispose al saluto del capitano Emilio Canesi con le seguenti parole:
Miei cari compagni!
Quando poco fa uno dei vostri dirigenti mi diceva che voi non vi siete mai lagnati della guerra e dei sacrifici terribili che essa vi ha imposti, anche quando l'Italia sembrava sommersa da un dilagare di istinti e di egoismi antinazionali, io non mi sono stupito perché della guerra si lagnano particolarmente coloro che vi hanno speculato sopra e che non l'hanno fatta se non per imboscarsi.
Ma coloro che hanno molto donato, coloro che hanno fatto all'Italia nostra una suprema dedizione di amore, i mutilati e i combattenti non si lagnano, ma accettano con romana semplicità ed austerità il loro sacrificio. Quando io mi trovo fra di voi — e l'altro giorno sono stato a Roma alla mensa dei vostri compagni di villa Felicetti — io rivivo tutte le grandi giornate della nostra guerra, tutti i sacrifici sostenuti dal popolo, gli atti di eroismi singoli e collettivi, quanto è costata di sangue e di lagrime la nostra superba vittoria.
Allora io vi dichiaro che un Governo che non tenesse conto dei vostri diritti sarebbe un Governo indegno e irriconoscente.
Ma nel Governo che ho l'onore di presiedere sono tutti combattenti, mutilati: tutti hanno vissuto la guerra.
Questi uomini di Governo non possono ignorare il vostro sacrificio e sanno quanto l'Italia vi deve per oggi e per domani.
Vi esprimo tutta la mia più fraterna simpatia di combattente, di uomo politico e di italiano: io vi abbraccio con infinita devozione, con simpatia, con ammirazione: e in questo abbraccio io intendo di onorare e di esaltare tutti coloro che hanno dato contributo di sangue e di opere alla grandezza della Patria.
Milano, 2 aprile 1923: MUSSOLINI parla dell'emigrazione italiana.
Discorso alla Scuola Normale Femminile «Carlo Tenca» in Milano, per la premiazione delle allieve del corso speciale d'emigrazione in risposta alle parole del direttore, Comm. Andrea Franzoni.
Ella, signor direttore, mi ha compromesso: perché ha annunziato un mio discorso: ora quasi tutti gli italiani e le italiane sanno che io non amo i discorsi; ma io accetto con lieto animo stamane e mi rassegno a questa eccezione.
Ella mi ha pure commosso perché ha rievocato con voce calda di passione la storia di questa Scuola, storia superba che tutta Milano conosce ed ammira. Anche in questo campo, che si potrebbe definire attinente al problema dell'emigrazione, la Scuola «Carlo Tenca» lascia di sé una impronta nobilissima. Ella ha detto che lascia impregiudicato il problema se la emigrazione sia un bene o sia un male; ella ha fatto benissimo. Poiché quando si discute in tesi di massima si può discutere all'infinito senza venire mai ad una conclusione. Bene o male che sia, l'emigrazione è una necessità fisiologica del popolo italiano.
Siamo quaranta milioni serrati in questa nostra angusta e adorabile penisola che ha troppe montagne ed un territorio che non può nutrire tutti quanti. Ci sono attorno all'Italia paesi che hanno una popolazione inferiore alla nostra ed un territorio doppio del nostro. Ed allora si comprende come il problema dell'espansione italiana nel mondo, sia un problema di vita o di morte per la razza italiana. Dico espansione: espansione in ogni senso: morale, politico, economico, demografico. Dichiaro qui che il Governo intende di tutelare l'emigrazione italiana; esso non può disinteressarsi di coloro che varcano i monti e vanno al di là dell'Oceano; non può disinteressarsi perché sono uomini, lavoratori e soprattutto italiani. E dovunque è un italiano là è il tricolore, là è la Patria, là è la difesa del Governo per questi italiani.
Io sento tutto il fermento potentissimo di vita che agita la nuova generazione della stirpe italiana. Voi certamente avrete meditato qualche volta su questo che si potrebbe chiamare un prodigio nella storia del genere umano: non si fa della retorica se si dice che il popolo italiano è il popolo immortale che trova sempre una primavera per le sue speranze, per la sua passione, per la sua grandezza. Pensiamo che appena due mila anni or sono Roma era il centro di un Impero che non aveva confini se non nei limiti estremi del deserto: che Roma aveva dato la civiltà, la sua grande civiltà giuridica, solida come i suoi monumenti, a tutto il mondo, che aveva realizzato un prodigio immenso che ancora ci commuove fin nelle più intime fibre.
Poi questo Impero decade e si sgretola. Ma non è vero che tutti i secoli che si sono susseguiti allo sfacelo del mondo romano siano di oscurità e di barbarie. Ad ogni modo ecco che dopo pochi secoli lo spirito italiano che aveva sofferto di questa eclissi e che probabilmente, durante questo periodo di sosta, si era armato potentemente per le nuove conquiste, ecco lo spirito italiano che sboccia attraverso la creazione imperitura di Dante Alighieri.
Noi eravamo grandi nel 1300 quando gli altri popoli erano mal vivi o non erano ancora nati alla storia. Seguono i secoli superbi: il Rinascimento. L'Italia dice ancora una volta la parola della civiltà a tutte le razze, a tutti i popoli.
Un'altra eclissi politica di divisione e di discordie: ma è appena un secolo e il popolo italiano si riprende, riacquista la coscienza della sua unità storica. Roma ritorna ancora a suonare la sua fanfara di gloria per tutti gli italiani, si riprende l'uso delle armi che sono necessarie quando si tratta di salvare la propria libertà, la propria grandezza e il proprio futuro. Piccole guerre; un unico Stato, cospirazioni, rivoluzione di un popolo, martiri, supplizi, galere, esili. E appena dopo un secolo con l'ultima guerra noi realizziamo la nostra unità politica. Accanto a questa unità politica e geografica mancava la unità morale; la coscienza di se stessi e dei propri destini sebbene con la guerra vittoriosa anche questa formazione di coscienza è in atto. Sotto i nostri sguardi a poco a poco l'Italia si fa nella sua unità indistruttibile.
Il mio Governo abolisce i campanili perché gli italiani non vedano che l'immagine augusta della Patria. Questa è l'opera alla quale il mio Governo attende con tutta la sua passione e con un senso religioso e di fede. Io sono ottimista, o signori, sui destini d'Italia! Sono ottimista non per un semplice atto di volontà, perché la volontà è una forza grande nella vita degli individui e nella vita dei popoli. Bisogna volere, fortemente volere! Solo con questa potenza di volontà potremo superare ogni ostacolo. Dobbiamo essere pronti a tutti i sacrifici.
Raccogliamoci adunque in un momento di meditazione dopo questa rapida corsa nel passato. Noi amiamo proiettare la nostra volontà orgogliosa del nostro tempo verso l'avvenire. Questa gioventù italiana aspra, intrepida, irrequieta, ma fortissima, è per me la certissima garanzia che l'Italia marcia verso un avvenire di libertà, di prosperità e di grandezza. Raccogliamoci in questa visione: tendiamo tutti i nostri nervi e tutta la nostra passione verso questo futuro che ci attende e gridiamo con religioso fervore: Viva l'Italia!
Ultima modifica di Admin il Mar 20 Mar 2018, 23:51 - modificato 3 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO 1923
Roma, 10 aprile 1923: MUSSOLINI parla a una rappresentanza di operai del porto di Bari
Parole dette da MUSSOLINI il 10 aprile, ricevendo a Palazzo Chigi una Commissione di operai del porto di Bari, i quali gli offrirono una pergamena con la seguente dedica:
«Al Primo Ministro Benito Mussolini - che all'Italia di Dante, di Colombo e di Galilei — sacrò il braccio, l'ingegno e il cuore - le cooperative portuali di Bari - nella nuova vita di fecondo lavoro e di concordia di voleri - offrono - aprile MCMXXIII».
Sono commosso!
Voi sapete che io ho un debole per Bari e per il suo popolo forte e laborioso. Abbiamo trasferito la Corte d'Appello, ora daremo anche alla vostra città l'Università degli studi...
I convenuti invocano: «-Il porto, Eccellenza!-».
— Sicuro! anche il porto avrà Bari! Bari e Napoli devono essere le metropoli meridionali e a vicenda debbono completarsi. Ammiro la forte gente di Puglia che io ben conosco ed ho già in grande estimazione i vostri compagni e lavoratori.
È stolto pensare che il Governo Fascista sia e possa mai essere contro i lavoratori. Bisogna distinguere i lavoratori dai parassiti a qualunque classe essi appartengano. I lavoratori devono amare la Patria. Come amate vostra madre, dovete, con la stessa purezza di sentimento, amare la madre comune: la Patria nostra. Bisogna lavorare e produrre. Lavorando e producendo voi dimostrerete il vostro amore più tenero per la Patria e contribuirete a ricostruire la ricchezza nazionale. Scomparirà così il caro vita e la lira sarà rivalutata. La nostra Italia, con i suoi quaranta milioni di cittadini, ritroverà solamente in se stessa la forza per vivere e per progredire.
Roma, 21 aprile 1923: MUSSOLINI interviene in occasione della consegna dell'orifiamma del Nastro Azzurro
MUSSOLINI parla il 21 aprile, Natale di Roma, nell'Aula Massima del Campidoglio, per la consegna dell'orifiamma all'Istituto Nazionale del Nastro Azzurro.
Questa cerimonia sarà breve, secondo il perfetto stile fascista, e il mio non sarà un discorso! Il mio compito, del resto, è molto semplice: si tratta di consegnare questo superbo orifiamma all'Istituto Nazionale del Nastro Azzurro.
Signori!
L'Istituto del Nastro Azzurro è la nuova, potente aristocrazia italiana, un'aristocrazia, che è sorta da un travaglio così duro, che potrebbe giustamente essere definito un calvario. Coloro che lo compongono sono i valorosi fra i valorosi; gli ufficiali e i soldati che hanno compiuto gesta memorabili. Vorrei, o signori, richiamare la vostra attenzione sul prodigio di questo rinnovarsi della nostra razza, che balza in piedi, all'annunzio del cimento, si batte e vince!
Se parlassi soltanto a commilitoni e non già a un pubblico più vasto, io vorrei guardare questi prodi, miei compagni di trincea, nel bianco degli occhi: sono sicuro che vi leggerei non solo l'orgoglio dell'opera compiuta, ma un senso di nostalgia. Chi è stato in trincea, vi torna spesso col pensiero, e non dimentica; chi ha fatto la guerra ricorda il periodo glorioso!
Ecco che questo popolo è tutto guerriero! Avete visto sfilare oggi legioni, battaglioni! Era popolo, erano contadini; era tutto un esercito; era la garanzia della rivoluzione fascista!
Passando essi volevano dire che chi si opporrà a questo travaglio del popolo italiano sarà travolto e schiantato! Da qualunque parte venga, sotto qualunque bandiera si presenti! Noi siamo duri e inflessibili! Abbiamo da salvare l'eredità dei nostri seicentomila morti, che si immolarono nel nome della Patria. E accanto a questi morti ci sono i nostri cento e cento giovanetti, che si offrirono in olocausto e caddero perché l'Italia si rinnovellasse, perché lo sforzo della guerra non andasse perduto!
Dove sono le piccole canaglie, che prima della guerra ci sputavano addosso per dire che il popolo italiano non si sarebbe battuto?
In quale antro si sono nascosti con la loro vergogna questi sordidi servi dello straniero?
Il prodigio della guerra è questo: che tutto il popolo si è raccolto in uno spirito solo, in una volontà sola!
Padova, 1 giugno 1923: MUSSOLINI parla all'ateneo di Padova
Il 1° giugno, MUSSOLINI — trovandosi a Padova per inaugurare la Fiera Campionaria — visitò, su invito dei Professori e degli studenti di quell'Ateneo, la sede dell'Università. In tale occasione pronunziò il seguente discorso:
Ecc.mo Rettore, Signori Professori, Miei giovani amici!
Non sono io che onoro il vostro Studio, è il vostro Studio che onora me e vi confesso che, pur essendo da tempo, a causa del faticoso commercio degli uomini, un po' restio alle emozioni, oggi mi sento fra di voi profondamente commosso, tutto pervaso da una sottile emozione.
Noi ci conosciamo da un pezzo. Ci conosciamo fin dal 1915: dalle giornate del maggio, radiose sempre.
Ricordo che gli studenti di Padova impiccarono sulla porta dell'Università un grosso fantoccio che raffigurava un uomo politico sul quale in questo momento non voglio esprimere giudizio alcuno, ma quel gesto voleva dire che la gioventù universitaria di Padova non voleva sentir parlare di ignobili mercati diplomatici, non voleva vendere la sua splendida primogenitura ideale per un piatto di più o meno miserabili lenticchie.
L'Università di Padova, la gioventù studiosa non discendente degenere da quegli studenti toscani che andarono a morire a Curtatone e Montanara, volle allora essere all'avanguardia, prendere il suo posto di combattimento, trascinare i riluttanti, fustigare i pusillanimi, rovesciare un Governo e andare a combattere verso il sacrificio, verso la morte, ma anche verso la grandezza e la gloria.
Il Governo, che ho l'onore di rappresentare — essendo un Governo che ripudia, almeno nella persona del capo, la dottrina del materialismo e le dottrine che pretendono di spiegare la storia complessissima delle società umane soltanto dal punto di vista unicamente materiale: un fenomeno della storia, non tutta la storia, un incidente, non una dottrina — questo Governo che tiene in alto pregio i valori individuali, spirituali e volontaristici, ha in sommo apprezzamento le Università. Io non so se il mio amico De Stefani abbia raccolto l'accenno, che io riconosco assai discreto del vostro magnifico Rettore. Ma, ad ogni modo, il Governo conta sulle Università, perché anche le Università sono dei punti fermi e gloriosi nella vita dei popoli.
Io non esito ad affermare che se la Germania ha potuto resistere alla suggestione del bolscevismo, ciò è dovuto soprattutto alla forte tradizione universitaria di quel popolo.
In fondo, coloro che si avvicinano di frequente alla comunione dello spirito non possono rimanere a lungo infettati da dottrine assurde ed antivitali. Un popolo come il nostro, un popolo di grande ingegno e di grande passione è necessariamente un popolo di equilibrio e di armonia. Il Governo farà tutto il possibile per le Università italiane. Il Governo comprende la loro enorme importanza storica, rispetta le loro nobilissime tradizioni, vuole portarle all'altezza delle necessità moderne.
Tutto ciò non può essere opera di un mese: non si può dare in sei mesi fondo all'Universo. Noi non facciamo che liberare il terreno da tutti i detriti che la vecchia casta politica ci ha lasciato in tristissima eredità.
Come potrebbe un Governo di combattenti avere in dispregio le Università? Ciò sarebbe non solo assurdo ma delittuoso.
Dalle Università sono usciti a migliaia i volontari; sono usciti a diecine di migliaia quei superbi plotonisti che andavano all'assalto delle trincee nemiche con un disprezzo magnifico della morte: sono i compagni la cui memoria noi portiamo profondamente incisa nei nostri cuori. Voi inciderete i loro nomi sulle porte di bronzo, ma ben più imperitura della incisione sulle porte di bronzo è la loro memoria nei nostri spiriti. Non li possiamo dimenticare! Come non dimenticheremo che dalle Università sono usciti a migliaia le giovani camicie nere: quelle che a un dato momento hanno interrotto la vicenda ingloriosa della politica italiana; che hanno preso per il collo, con dita robuste, tutti i vecchi profittatori che apparivano sempre più inadeguati con la loro paralitica decrepitudine alla impazienza esuberante delle nuove generazioni italiane.
Ebbene, finché ci saranno Università in Italia — e ce ne saranno per un pezzo — finché ci saranno dei giovani che frequenteranno queste Università e che si mettono in contatto con la storia di ieri, preparando la storia di domani; finché ci saranno questi giovani, le porte del passato sono solidamente chiuse. Io ne prendo garanzia formale. Ma aggiungo di più: che finché ci saranno questi giovani e queste Università, la Nazione non può perire. La Nazione non può diventare schiava perché le Università infrangono i ceppi, non ne creano di nuovi.
Se domani sarà ancora necessario per l'interno o per oltre le frontiere suonare la grande campana della Storia.
Io sono sicuro che le Università si svuoteranno per tornare a ripopolare le trincee.
Ed ora che mi avete ringiovanito di venti anni, vorrei che intuonassimo tutti insieme il gaudeamus igitur. In fondo aveva ragione Lorenzo de' Medici di cantare. Come è bella giovinezza...
Noi saremmo veramente gli ultimi degli uomini se mancassimo al nostro preciso dovere. Ma non mancheremo. Io che ho il polso della Nazione nelle mani, che ne conto diligentemente i battiti, io che qualche volta tremo dinanzi alle responsabilità che mi sono assunte, io più che una speranza, sento fermentare nel mio spirito la suprema certezza, ed è questa: che per volere di Capi, per volontà di Popolo, per sacrificio delle generazioni che furono e di quelle che saranno, l'Italia Imperiale, l'Italia dei nostri sogni, sarà la realtà del nostro domani.
Padova, 1 giugno 1923: MUSSOLINI interviene al congresso femminile delle Tre Venezie
Nello stesso giorno, 1° giugno, inaugurandosi a Padova il primo Congresso dei Fasci femminili delle Tre Venezie, il MUSSOLINI pronunziò, nella Sala dell'Avanguardia, il seguente discorso:
Se non m'inganno, questo che oggi in questa sala gloriosa si inaugura è il primo Congresso Femminile delle Tre Venezie.
Il titolo e la estensione di questo vostro primo Congresso sono pieni di un profondo significato. Cinquanta anni fa non si poteva parlare di Tre Venezie: Venezia stessa, dopo gli eroismi magnifici del '48 e del '49, era ancora avvinta nei ceppi della schiavitù straniera. Nel '66 riscattammo Venezia, una delle tre Venezie. Cinquanta anni dopo riscattammo le altre due: quella che confina con il sacro ed intangibile Brennero; l'altra che confina con il non meno sacro e non meno intangibile Nevoso.
I fascisti non appartengono alla moltitudine dei vanesi e degli scettici, che intendono di svalutare l'importanza sociale e politica della donna. Che importa il voto? Lo avrete! Ma anche in tempi in cui le donne non votavano e non desideravano di votare, in tempi lontani, remoti o prossimi o vicini, la donna ebbe sempre un'influenza preponderante nel determinare i destini delle società umane. Così il Fascismo femminile che porta bravamente la gloriosa camicia nera e si raccoglie intorno ai nostri gagliardetti, è destinato a scrivere una storia splendida, a lasciare tracce memorabili, a dare un contributo sempre più profondo di passioni e di opere al Fascismo italiano.
Non credete ai piccoli gufi più o meno impagliati; alle scimmie più o meno urlatrici, a tutta la bassa zoologia che crede di fare della politica e che potrebbe chiamarsi con un nome molto più infamante. Non credete a costoro, a quelli che parlano di una crisi del Fascismo: sono dettagli, episodi nel grande movimento. Questioni di uomini e non questioni di massa. Fenomeno già superato, perché i fascisti quando non hanno da picchiare nel mucchio dei nemici possono permettersi il lusso di litigare fra di loro. Ma se i nemici rialzano un po' la testa e il tono della loro più o meno stupida opposizione, i fascisti torneranno immediatamente a fare il blocco. E allora guai ai vinti!
E giacché l'occasione è propizia, mi piace dire a voi donne fasciste e ai fascisti di tutta Italia che il tentativo di separare Mussolini dal Fascismo o il Fascismo da Mussolini è il tentativo più inutile, più grottesco, più ridicolo che possa essere pensato.
Io non sono così orgoglioso da dire che colui che vi parla ed il Fascismo costituiscano una sola identità. Ma quattro anni di storia hanno dimostrato ormai luminosamente che Mussolini ed il Fascismo sono due aspetti della stessa natura: sono due corpi ed un'anima o due anime ed un corpo solo.
Io non posso abbandonare il Fascismo perché l'ho creato, l'ho allevato, l'ho fortificato, l'ho castigato e lo tengo ancora nel mio pugno: sempre! Quindi è perfettamente inutile che le vecchie civette della politica italiana mi facciano la loro corte gaglioffa: sono troppo intelligente perché possa cadere in questo agguato di mediocri mercanti da fiere da villaggio.
Vi assicuro, miei cari amici, che tutte queste piccole vipere, tutti questi politicanti avranno la più acerba delusione.
Credere che io mi possa abbrutire nella pratica parlamentare è credere l'assurdo. Sono, in fondo, un discendente di gente del lavoro, ma uno spirito troppo aristocratico per non sentire il disgusto della bassa cucina parlamentare. Noi continueremo la nostra marcia severamente, perché questo ci è imposto dal destino. Non torneremo indietro, non segneremo nemmeno il passo.
Già dissi che noi non abbiamo voluto proiettare il pendolo all'estremo per non vedercelo dopo ricacciato all'altro estremo. Preferisco, come già dissi in un articolo che sollevò tanto clamore in tutti gli ambienti, preferisco di marciare continuamente, giorno per giorno, alla maniera romana; di Roma che non si rassegna mai a nessuna sconfitta, di Roma che accolse Terenzio Varrone reduce da Canne pur sapendo che aveva impegnato una battaglia contro il parere opposto del Console Paolo Emilio, ed era, in un certo senso, il responsabile della disfatta; di Roma, che proibì alle matrone di uscire dopo Canne perché col loro portamento addolorato non turbassero la forza della cittadinanza — e non ce n'era bisogno —; di questa Roma che riprendeva continuamente i capitoli della sua storia, che trovava in ogni insuccesso i motivi per perdurare, per serrare i denti.
Diceva Giuseppe Mazzini che la potenza non è che la unità; e la costanza di tutti gli sforzi la potenza di tutte le nuove generazioni che sbocciano in questa superba primavera della nostra vita e della nostra storia sarà il risultato della unità dei nostri sforzi, della tenacia del nostro lavoro.
In fondo che cosa domandano i fascisti? Non sono degli ambiziosi, non dei faziosi, hanno il senso dei limiti ed il senso della loro responsabilità.
Io son sicuro di interpretare il vostro pensiero, l'anelito più profondo del vostro spirito, se dico che i fascisti, dal primo all'ultimo, dal sommo dei capi all'estremo dei gregari, chiedono una cosa sola: servire con umiltà, con devozione, con inflessibilità la adorabile nostra Patria: l'Italia.
Rovigo, 2 giugno 1923: MUSSOLINI parla al popolo di Rovigo
Da Padova MUSSOLINI si recò a Rovigo e il 2 giugno, dal balcone del Palazzo Municipale, pronunziò il seguente discorso:
Come trovare le parole necessarie per ringraziarvi di queste magnifiche accoglienze? Pochi istanti fa il vostro Sindaco mi recava il saluto della città e della provincia. Ho attraversato oggi le vostre terre dolci e feconde, solcate da fiumi, riscattate giorno per giorno dalla vostra opera tenace.
L'Italia tutta deve avere il senso di gratitudine per questo solido popolo lavoratore che, essendosi riconciliato con la realtà bella e suprema della Nazione, ha riscattato il diritto di essere trattato con un maggiore spirito di amicizia e di probità.
Io so di parlare ad una folla dove i lavoratori sono certamente la enorme maggioranza. Ebbene, a costoro io dico con tranquilla parola e con coscienza ancora più tranquilla che il Governo che ho l'onore di rappresentare non è, non può essere, non sarà mai nemico della gente che lavora.
Sei mesi di Governo sono ancora troppo pochi perché un programma sia condotto a termine; ma sono sufficienti, a mio avviso, per segnare le direttive di questo Governo. Ora le direttive sono precise, sicure. Il mio non è un Governo che inganna il popolo. Noi non possiamo, non vogliamo fare delle promesse se non siamo matematicamente sicuri di poterle mantenere. Il popolo è stato per troppo tempo ingannato e mistificato perché gli uomini della mia generazione continuino ancora in questo basso mestiere.
La lotta di classe può essere un episodio nella vita di un popolo: non può essere il sistema quotidiano perché significherebbe la distruzione della ricchezza e quindi la miseria universale.
La collaborazione, cittadini, fra chi lavora e chi dà il lavoro, fra chi dà le braccia e chi dà il cervello; tutti gli elementi della produzione hanno le loro gerarchie inevitabili e necessarie; attraverso a questo programma voi arriverete al benessere, la Nazione arriverà alla prosperità ed alla grandezza. Se io non fossi sicuro di tenere fede a queste mie parole io non le pronunzierei dinanzi a voi in una occasione così solenne e memorabile.
(A questo punto del discorso un aeroplano pilotato dal comm. Ferrarin compie arditissime evoluzioni a bassissima quota sopra il palazzo del Municipio. Il Presidente del Consiglio interrompe per qualche istante il suo dire, seguendo le evoluzioni dell'aeroplano, quindi continua):
Fascisti!
L'altro giorno io sono passato con uno di quegli apparecchi sulla vostra città. Quel volo, che certamente ha fatto trepidare qualcuno di voi, era pieno di un profondo significato: esso doveva dimostrare che sei mesi di Governo non mi hanno ancora inchiodato nella comoda poltrona della burocrazia; ha dimostrato anche che io, come voi tutti, siamo ancora pronti a osare, a combattere e, se occorre, a morire perché i frutti della mirabile rivoluzione fascista non siano dispersi.
Viva il Fascismo! Viva l'Italia!
Venezia, 4 giugno 1923: MUSSOLINI parla ai veneziani.
l 4 giugno MUSSOLINI disse a Venezia, nella Sala del Gran Consiglio, le seguenti parole:
Veramente il luogo sacro e memorabile e il discorso alato pronunciato testé dal primo magistrato della Serenissima mi consiglierebbero l'assoluto silenzio.
Ma io non vi infliggerò un discorso. La più profonda eloquenza è oggi nelle cose, nei fatti, in questa sublime e quasi leggendaria realtà, della quale siamo insieme e spettatori e protagonisti. Realtà che si esprime dalla superba parata di stamane; che si esprime dalle truppe del gloriosissimo Esercito di Vittorio Veneto che è stato dal '70 ad oggi il potente crogiolo della razza italiana; che si esprime dal passo energico e ritmico dei marinai che attendono ancora cimenti e glorie.
E si esprime ancora dalle squadre delle Camicie Nere, dalla nuova Milizia, la quale non è ormai più l'espressione di un partito, ma è realmente una creazione della coscienza nazionale, che non ammette ritorni dacché ha aperto innanzi a sé la strada luminosa dell'avvenire.
E si esprime infine dalle migliaia e migliaia di bambini il cui spettacolo poco fa mi commoveva fino alle lacrime. Sono essi la primavera della nostra stirpe, l'aurora della nostra giornata, il segno infallibile della nostra fede.
Altri popoli invidierebbero e invidiano questa Nazione proletaria, prolifica e intelligente, saggia, laboriosa, serrata in una piccola e divina penisola, troppo angusta ormai per la nostra razza.
Tutti gli italiani della mia generazione sentono l'angustia del nostro territorio, in cui tutti ci conosciamo, dalle Alpi alla Sicilia. Per cui se sogniamo talvolta di poterci espandere, ciò è espressione di una realtà storica ed immanente: un popolo che sorge ha dei diritti di fronte ai popoli che declinano. E questi diritti sono incisi a caratteri di fuoco nelle pagine del nostro destino.
Questa terra che i poeti di Roma chiamano sacra agli Dei, è certamente una delle creazioni più straordinarie dello spirito umano e della storia. Noi eravamo già grandi quando in molte parti del mondo i popoli non erano ancora nati. Avevamo agitato fiaccole luminose di meravigliose civiltà quando il mondo conosciuto era immerso nelle tenebre della barbarie.
Parve, dopo i superbi fastigi dell'Impero, che un lungo periodo di tenebre dovesse sommergere la nostra civiltà. Ma in quelle tenebre maturavano i germogli della nuova vita ed ecco, dopo l'eclisse, il Rinascimento glorioso, ecco per la seconda volta l'Italia pronunciare parole di significato universale.
Altri secoli d'eclisse dovranno passare, ma ecco di nuovo prodursi il prodigio della rinascita.
È appena un secolo, dal 1820, che l'Italia ha ripreso a camminare sulle strade segnatele dal destino.
Quanti sacrifici, quanti sogni, quanta passione, quanto calvario, quanto sangue! Dalla sintesi del secolo che abbiamo vissuto possiamo avere l'impressione direi quasi plastica di qualche cosa di soprannaturale che sorge dal profondo, grandeggia, s'impone, trionfa. Trionfa per i morti che abbiamo salutato il 24 maggio sulle pietraie carsiche, nel cimitero di Redipuglia e sul San Michele.
Tutti i popoli che hanno dovuto sostenere e vincere una grande guerra, anche gli inglesi dopo Waterloo, hanno conosciuto una crisi di depressione, di sfiducia, per il naturale rilassamento dei nervi e dei muscoli tesi nello sforzo spasmodico di combattere e vincere. Ma poi si produce il fenomeno contrario, si risente la nostalgia delle grandi giornate che si son vissute, si risente l'orgoglio dell'epopea di cento leggende, e quelli che non vi furono vorrebbero esservi stati, poiché là era il privilegio supremo della morte e della gloria.
Di questi sentimenti è intessuta la nostra opera di partito e di Governo. State sicuri, veneziani, che quest'opera sarà condotta sino alla fine.
Roma, 10 aprile 1923: MUSSOLINI parla a una rappresentanza di operai del porto di Bari
Parole dette da MUSSOLINI il 10 aprile, ricevendo a Palazzo Chigi una Commissione di operai del porto di Bari, i quali gli offrirono una pergamena con la seguente dedica:
«Al Primo Ministro Benito Mussolini - che all'Italia di Dante, di Colombo e di Galilei — sacrò il braccio, l'ingegno e il cuore - le cooperative portuali di Bari - nella nuova vita di fecondo lavoro e di concordia di voleri - offrono - aprile MCMXXIII».
Sono commosso!
Voi sapete che io ho un debole per Bari e per il suo popolo forte e laborioso. Abbiamo trasferito la Corte d'Appello, ora daremo anche alla vostra città l'Università degli studi...
I convenuti invocano: «-Il porto, Eccellenza!-».
— Sicuro! anche il porto avrà Bari! Bari e Napoli devono essere le metropoli meridionali e a vicenda debbono completarsi. Ammiro la forte gente di Puglia che io ben conosco ed ho già in grande estimazione i vostri compagni e lavoratori.
È stolto pensare che il Governo Fascista sia e possa mai essere contro i lavoratori. Bisogna distinguere i lavoratori dai parassiti a qualunque classe essi appartengano. I lavoratori devono amare la Patria. Come amate vostra madre, dovete, con la stessa purezza di sentimento, amare la madre comune: la Patria nostra. Bisogna lavorare e produrre. Lavorando e producendo voi dimostrerete il vostro amore più tenero per la Patria e contribuirete a ricostruire la ricchezza nazionale. Scomparirà così il caro vita e la lira sarà rivalutata. La nostra Italia, con i suoi quaranta milioni di cittadini, ritroverà solamente in se stessa la forza per vivere e per progredire.
Roma, 21 aprile 1923: MUSSOLINI interviene in occasione della consegna dell'orifiamma del Nastro Azzurro
MUSSOLINI parla il 21 aprile, Natale di Roma, nell'Aula Massima del Campidoglio, per la consegna dell'orifiamma all'Istituto Nazionale del Nastro Azzurro.
Questa cerimonia sarà breve, secondo il perfetto stile fascista, e il mio non sarà un discorso! Il mio compito, del resto, è molto semplice: si tratta di consegnare questo superbo orifiamma all'Istituto Nazionale del Nastro Azzurro.
Signori!
L'Istituto del Nastro Azzurro è la nuova, potente aristocrazia italiana, un'aristocrazia, che è sorta da un travaglio così duro, che potrebbe giustamente essere definito un calvario. Coloro che lo compongono sono i valorosi fra i valorosi; gli ufficiali e i soldati che hanno compiuto gesta memorabili. Vorrei, o signori, richiamare la vostra attenzione sul prodigio di questo rinnovarsi della nostra razza, che balza in piedi, all'annunzio del cimento, si batte e vince!
Se parlassi soltanto a commilitoni e non già a un pubblico più vasto, io vorrei guardare questi prodi, miei compagni di trincea, nel bianco degli occhi: sono sicuro che vi leggerei non solo l'orgoglio dell'opera compiuta, ma un senso di nostalgia. Chi è stato in trincea, vi torna spesso col pensiero, e non dimentica; chi ha fatto la guerra ricorda il periodo glorioso!
Ecco che questo popolo è tutto guerriero! Avete visto sfilare oggi legioni, battaglioni! Era popolo, erano contadini; era tutto un esercito; era la garanzia della rivoluzione fascista!
Passando essi volevano dire che chi si opporrà a questo travaglio del popolo italiano sarà travolto e schiantato! Da qualunque parte venga, sotto qualunque bandiera si presenti! Noi siamo duri e inflessibili! Abbiamo da salvare l'eredità dei nostri seicentomila morti, che si immolarono nel nome della Patria. E accanto a questi morti ci sono i nostri cento e cento giovanetti, che si offrirono in olocausto e caddero perché l'Italia si rinnovellasse, perché lo sforzo della guerra non andasse perduto!
Dove sono le piccole canaglie, che prima della guerra ci sputavano addosso per dire che il popolo italiano non si sarebbe battuto?
In quale antro si sono nascosti con la loro vergogna questi sordidi servi dello straniero?
Il prodigio della guerra è questo: che tutto il popolo si è raccolto in uno spirito solo, in una volontà sola!
Padova, 1 giugno 1923: MUSSOLINI parla all'ateneo di Padova
Il 1° giugno, MUSSOLINI — trovandosi a Padova per inaugurare la Fiera Campionaria — visitò, su invito dei Professori e degli studenti di quell'Ateneo, la sede dell'Università. In tale occasione pronunziò il seguente discorso:
Ecc.mo Rettore, Signori Professori, Miei giovani amici!
Non sono io che onoro il vostro Studio, è il vostro Studio che onora me e vi confesso che, pur essendo da tempo, a causa del faticoso commercio degli uomini, un po' restio alle emozioni, oggi mi sento fra di voi profondamente commosso, tutto pervaso da una sottile emozione.
Noi ci conosciamo da un pezzo. Ci conosciamo fin dal 1915: dalle giornate del maggio, radiose sempre.
Ricordo che gli studenti di Padova impiccarono sulla porta dell'Università un grosso fantoccio che raffigurava un uomo politico sul quale in questo momento non voglio esprimere giudizio alcuno, ma quel gesto voleva dire che la gioventù universitaria di Padova non voleva sentir parlare di ignobili mercati diplomatici, non voleva vendere la sua splendida primogenitura ideale per un piatto di più o meno miserabili lenticchie.
L'Università di Padova, la gioventù studiosa non discendente degenere da quegli studenti toscani che andarono a morire a Curtatone e Montanara, volle allora essere all'avanguardia, prendere il suo posto di combattimento, trascinare i riluttanti, fustigare i pusillanimi, rovesciare un Governo e andare a combattere verso il sacrificio, verso la morte, ma anche verso la grandezza e la gloria.
Il Governo, che ho l'onore di rappresentare — essendo un Governo che ripudia, almeno nella persona del capo, la dottrina del materialismo e le dottrine che pretendono di spiegare la storia complessissima delle società umane soltanto dal punto di vista unicamente materiale: un fenomeno della storia, non tutta la storia, un incidente, non una dottrina — questo Governo che tiene in alto pregio i valori individuali, spirituali e volontaristici, ha in sommo apprezzamento le Università. Io non so se il mio amico De Stefani abbia raccolto l'accenno, che io riconosco assai discreto del vostro magnifico Rettore. Ma, ad ogni modo, il Governo conta sulle Università, perché anche le Università sono dei punti fermi e gloriosi nella vita dei popoli.
Io non esito ad affermare che se la Germania ha potuto resistere alla suggestione del bolscevismo, ciò è dovuto soprattutto alla forte tradizione universitaria di quel popolo.
In fondo, coloro che si avvicinano di frequente alla comunione dello spirito non possono rimanere a lungo infettati da dottrine assurde ed antivitali. Un popolo come il nostro, un popolo di grande ingegno e di grande passione è necessariamente un popolo di equilibrio e di armonia. Il Governo farà tutto il possibile per le Università italiane. Il Governo comprende la loro enorme importanza storica, rispetta le loro nobilissime tradizioni, vuole portarle all'altezza delle necessità moderne.
Tutto ciò non può essere opera di un mese: non si può dare in sei mesi fondo all'Universo. Noi non facciamo che liberare il terreno da tutti i detriti che la vecchia casta politica ci ha lasciato in tristissima eredità.
Come potrebbe un Governo di combattenti avere in dispregio le Università? Ciò sarebbe non solo assurdo ma delittuoso.
Dalle Università sono usciti a migliaia i volontari; sono usciti a diecine di migliaia quei superbi plotonisti che andavano all'assalto delle trincee nemiche con un disprezzo magnifico della morte: sono i compagni la cui memoria noi portiamo profondamente incisa nei nostri cuori. Voi inciderete i loro nomi sulle porte di bronzo, ma ben più imperitura della incisione sulle porte di bronzo è la loro memoria nei nostri spiriti. Non li possiamo dimenticare! Come non dimenticheremo che dalle Università sono usciti a migliaia le giovani camicie nere: quelle che a un dato momento hanno interrotto la vicenda ingloriosa della politica italiana; che hanno preso per il collo, con dita robuste, tutti i vecchi profittatori che apparivano sempre più inadeguati con la loro paralitica decrepitudine alla impazienza esuberante delle nuove generazioni italiane.
Ebbene, finché ci saranno Università in Italia — e ce ne saranno per un pezzo — finché ci saranno dei giovani che frequenteranno queste Università e che si mettono in contatto con la storia di ieri, preparando la storia di domani; finché ci saranno questi giovani, le porte del passato sono solidamente chiuse. Io ne prendo garanzia formale. Ma aggiungo di più: che finché ci saranno questi giovani e queste Università, la Nazione non può perire. La Nazione non può diventare schiava perché le Università infrangono i ceppi, non ne creano di nuovi.
Se domani sarà ancora necessario per l'interno o per oltre le frontiere suonare la grande campana della Storia.
Io sono sicuro che le Università si svuoteranno per tornare a ripopolare le trincee.
Ed ora che mi avete ringiovanito di venti anni, vorrei che intuonassimo tutti insieme il gaudeamus igitur. In fondo aveva ragione Lorenzo de' Medici di cantare. Come è bella giovinezza...
Noi saremmo veramente gli ultimi degli uomini se mancassimo al nostro preciso dovere. Ma non mancheremo. Io che ho il polso della Nazione nelle mani, che ne conto diligentemente i battiti, io che qualche volta tremo dinanzi alle responsabilità che mi sono assunte, io più che una speranza, sento fermentare nel mio spirito la suprema certezza, ed è questa: che per volere di Capi, per volontà di Popolo, per sacrificio delle generazioni che furono e di quelle che saranno, l'Italia Imperiale, l'Italia dei nostri sogni, sarà la realtà del nostro domani.
Padova, 1 giugno 1923: MUSSOLINI interviene al congresso femminile delle Tre Venezie
Nello stesso giorno, 1° giugno, inaugurandosi a Padova il primo Congresso dei Fasci femminili delle Tre Venezie, il MUSSOLINI pronunziò, nella Sala dell'Avanguardia, il seguente discorso:
Se non m'inganno, questo che oggi in questa sala gloriosa si inaugura è il primo Congresso Femminile delle Tre Venezie.
Il titolo e la estensione di questo vostro primo Congresso sono pieni di un profondo significato. Cinquanta anni fa non si poteva parlare di Tre Venezie: Venezia stessa, dopo gli eroismi magnifici del '48 e del '49, era ancora avvinta nei ceppi della schiavitù straniera. Nel '66 riscattammo Venezia, una delle tre Venezie. Cinquanta anni dopo riscattammo le altre due: quella che confina con il sacro ed intangibile Brennero; l'altra che confina con il non meno sacro e non meno intangibile Nevoso.
I fascisti non appartengono alla moltitudine dei vanesi e degli scettici, che intendono di svalutare l'importanza sociale e politica della donna. Che importa il voto? Lo avrete! Ma anche in tempi in cui le donne non votavano e non desideravano di votare, in tempi lontani, remoti o prossimi o vicini, la donna ebbe sempre un'influenza preponderante nel determinare i destini delle società umane. Così il Fascismo femminile che porta bravamente la gloriosa camicia nera e si raccoglie intorno ai nostri gagliardetti, è destinato a scrivere una storia splendida, a lasciare tracce memorabili, a dare un contributo sempre più profondo di passioni e di opere al Fascismo italiano.
Non credete ai piccoli gufi più o meno impagliati; alle scimmie più o meno urlatrici, a tutta la bassa zoologia che crede di fare della politica e che potrebbe chiamarsi con un nome molto più infamante. Non credete a costoro, a quelli che parlano di una crisi del Fascismo: sono dettagli, episodi nel grande movimento. Questioni di uomini e non questioni di massa. Fenomeno già superato, perché i fascisti quando non hanno da picchiare nel mucchio dei nemici possono permettersi il lusso di litigare fra di loro. Ma se i nemici rialzano un po' la testa e il tono della loro più o meno stupida opposizione, i fascisti torneranno immediatamente a fare il blocco. E allora guai ai vinti!
E giacché l'occasione è propizia, mi piace dire a voi donne fasciste e ai fascisti di tutta Italia che il tentativo di separare Mussolini dal Fascismo o il Fascismo da Mussolini è il tentativo più inutile, più grottesco, più ridicolo che possa essere pensato.
Io non sono così orgoglioso da dire che colui che vi parla ed il Fascismo costituiscano una sola identità. Ma quattro anni di storia hanno dimostrato ormai luminosamente che Mussolini ed il Fascismo sono due aspetti della stessa natura: sono due corpi ed un'anima o due anime ed un corpo solo.
Io non posso abbandonare il Fascismo perché l'ho creato, l'ho allevato, l'ho fortificato, l'ho castigato e lo tengo ancora nel mio pugno: sempre! Quindi è perfettamente inutile che le vecchie civette della politica italiana mi facciano la loro corte gaglioffa: sono troppo intelligente perché possa cadere in questo agguato di mediocri mercanti da fiere da villaggio.
Vi assicuro, miei cari amici, che tutte queste piccole vipere, tutti questi politicanti avranno la più acerba delusione.
Credere che io mi possa abbrutire nella pratica parlamentare è credere l'assurdo. Sono, in fondo, un discendente di gente del lavoro, ma uno spirito troppo aristocratico per non sentire il disgusto della bassa cucina parlamentare. Noi continueremo la nostra marcia severamente, perché questo ci è imposto dal destino. Non torneremo indietro, non segneremo nemmeno il passo.
Già dissi che noi non abbiamo voluto proiettare il pendolo all'estremo per non vedercelo dopo ricacciato all'altro estremo. Preferisco, come già dissi in un articolo che sollevò tanto clamore in tutti gli ambienti, preferisco di marciare continuamente, giorno per giorno, alla maniera romana; di Roma che non si rassegna mai a nessuna sconfitta, di Roma che accolse Terenzio Varrone reduce da Canne pur sapendo che aveva impegnato una battaglia contro il parere opposto del Console Paolo Emilio, ed era, in un certo senso, il responsabile della disfatta; di Roma, che proibì alle matrone di uscire dopo Canne perché col loro portamento addolorato non turbassero la forza della cittadinanza — e non ce n'era bisogno —; di questa Roma che riprendeva continuamente i capitoli della sua storia, che trovava in ogni insuccesso i motivi per perdurare, per serrare i denti.
Diceva Giuseppe Mazzini che la potenza non è che la unità; e la costanza di tutti gli sforzi la potenza di tutte le nuove generazioni che sbocciano in questa superba primavera della nostra vita e della nostra storia sarà il risultato della unità dei nostri sforzi, della tenacia del nostro lavoro.
In fondo che cosa domandano i fascisti? Non sono degli ambiziosi, non dei faziosi, hanno il senso dei limiti ed il senso della loro responsabilità.
Io son sicuro di interpretare il vostro pensiero, l'anelito più profondo del vostro spirito, se dico che i fascisti, dal primo all'ultimo, dal sommo dei capi all'estremo dei gregari, chiedono una cosa sola: servire con umiltà, con devozione, con inflessibilità la adorabile nostra Patria: l'Italia.
Rovigo, 2 giugno 1923: MUSSOLINI parla al popolo di Rovigo
Da Padova MUSSOLINI si recò a Rovigo e il 2 giugno, dal balcone del Palazzo Municipale, pronunziò il seguente discorso:
Come trovare le parole necessarie per ringraziarvi di queste magnifiche accoglienze? Pochi istanti fa il vostro Sindaco mi recava il saluto della città e della provincia. Ho attraversato oggi le vostre terre dolci e feconde, solcate da fiumi, riscattate giorno per giorno dalla vostra opera tenace.
L'Italia tutta deve avere il senso di gratitudine per questo solido popolo lavoratore che, essendosi riconciliato con la realtà bella e suprema della Nazione, ha riscattato il diritto di essere trattato con un maggiore spirito di amicizia e di probità.
Io so di parlare ad una folla dove i lavoratori sono certamente la enorme maggioranza. Ebbene, a costoro io dico con tranquilla parola e con coscienza ancora più tranquilla che il Governo che ho l'onore di rappresentare non è, non può essere, non sarà mai nemico della gente che lavora.
Sei mesi di Governo sono ancora troppo pochi perché un programma sia condotto a termine; ma sono sufficienti, a mio avviso, per segnare le direttive di questo Governo. Ora le direttive sono precise, sicure. Il mio non è un Governo che inganna il popolo. Noi non possiamo, non vogliamo fare delle promesse se non siamo matematicamente sicuri di poterle mantenere. Il popolo è stato per troppo tempo ingannato e mistificato perché gli uomini della mia generazione continuino ancora in questo basso mestiere.
La lotta di classe può essere un episodio nella vita di un popolo: non può essere il sistema quotidiano perché significherebbe la distruzione della ricchezza e quindi la miseria universale.
La collaborazione, cittadini, fra chi lavora e chi dà il lavoro, fra chi dà le braccia e chi dà il cervello; tutti gli elementi della produzione hanno le loro gerarchie inevitabili e necessarie; attraverso a questo programma voi arriverete al benessere, la Nazione arriverà alla prosperità ed alla grandezza. Se io non fossi sicuro di tenere fede a queste mie parole io non le pronunzierei dinanzi a voi in una occasione così solenne e memorabile.
(A questo punto del discorso un aeroplano pilotato dal comm. Ferrarin compie arditissime evoluzioni a bassissima quota sopra il palazzo del Municipio. Il Presidente del Consiglio interrompe per qualche istante il suo dire, seguendo le evoluzioni dell'aeroplano, quindi continua):
Fascisti!
L'altro giorno io sono passato con uno di quegli apparecchi sulla vostra città. Quel volo, che certamente ha fatto trepidare qualcuno di voi, era pieno di un profondo significato: esso doveva dimostrare che sei mesi di Governo non mi hanno ancora inchiodato nella comoda poltrona della burocrazia; ha dimostrato anche che io, come voi tutti, siamo ancora pronti a osare, a combattere e, se occorre, a morire perché i frutti della mirabile rivoluzione fascista non siano dispersi.
Viva il Fascismo! Viva l'Italia!
Venezia, 4 giugno 1923: MUSSOLINI parla ai veneziani.
l 4 giugno MUSSOLINI disse a Venezia, nella Sala del Gran Consiglio, le seguenti parole:
Veramente il luogo sacro e memorabile e il discorso alato pronunciato testé dal primo magistrato della Serenissima mi consiglierebbero l'assoluto silenzio.
Ma io non vi infliggerò un discorso. La più profonda eloquenza è oggi nelle cose, nei fatti, in questa sublime e quasi leggendaria realtà, della quale siamo insieme e spettatori e protagonisti. Realtà che si esprime dalla superba parata di stamane; che si esprime dalle truppe del gloriosissimo Esercito di Vittorio Veneto che è stato dal '70 ad oggi il potente crogiolo della razza italiana; che si esprime dal passo energico e ritmico dei marinai che attendono ancora cimenti e glorie.
E si esprime ancora dalle squadre delle Camicie Nere, dalla nuova Milizia, la quale non è ormai più l'espressione di un partito, ma è realmente una creazione della coscienza nazionale, che non ammette ritorni dacché ha aperto innanzi a sé la strada luminosa dell'avvenire.
E si esprime infine dalle migliaia e migliaia di bambini il cui spettacolo poco fa mi commoveva fino alle lacrime. Sono essi la primavera della nostra stirpe, l'aurora della nostra giornata, il segno infallibile della nostra fede.
Altri popoli invidierebbero e invidiano questa Nazione proletaria, prolifica e intelligente, saggia, laboriosa, serrata in una piccola e divina penisola, troppo angusta ormai per la nostra razza.
Tutti gli italiani della mia generazione sentono l'angustia del nostro territorio, in cui tutti ci conosciamo, dalle Alpi alla Sicilia. Per cui se sogniamo talvolta di poterci espandere, ciò è espressione di una realtà storica ed immanente: un popolo che sorge ha dei diritti di fronte ai popoli che declinano. E questi diritti sono incisi a caratteri di fuoco nelle pagine del nostro destino.
Questa terra che i poeti di Roma chiamano sacra agli Dei, è certamente una delle creazioni più straordinarie dello spirito umano e della storia. Noi eravamo già grandi quando in molte parti del mondo i popoli non erano ancora nati. Avevamo agitato fiaccole luminose di meravigliose civiltà quando il mondo conosciuto era immerso nelle tenebre della barbarie.
Parve, dopo i superbi fastigi dell'Impero, che un lungo periodo di tenebre dovesse sommergere la nostra civiltà. Ma in quelle tenebre maturavano i germogli della nuova vita ed ecco, dopo l'eclisse, il Rinascimento glorioso, ecco per la seconda volta l'Italia pronunciare parole di significato universale.
Altri secoli d'eclisse dovranno passare, ma ecco di nuovo prodursi il prodigio della rinascita.
È appena un secolo, dal 1820, che l'Italia ha ripreso a camminare sulle strade segnatele dal destino.
Quanti sacrifici, quanti sogni, quanta passione, quanto calvario, quanto sangue! Dalla sintesi del secolo che abbiamo vissuto possiamo avere l'impressione direi quasi plastica di qualche cosa di soprannaturale che sorge dal profondo, grandeggia, s'impone, trionfa. Trionfa per i morti che abbiamo salutato il 24 maggio sulle pietraie carsiche, nel cimitero di Redipuglia e sul San Michele.
Tutti i popoli che hanno dovuto sostenere e vincere una grande guerra, anche gli inglesi dopo Waterloo, hanno conosciuto una crisi di depressione, di sfiducia, per il naturale rilassamento dei nervi e dei muscoli tesi nello sforzo spasmodico di combattere e vincere. Ma poi si produce il fenomeno contrario, si risente la nostalgia delle grandi giornate che si son vissute, si risente l'orgoglio dell'epopea di cento leggende, e quelli che non vi furono vorrebbero esservi stati, poiché là era il privilegio supremo della morte e della gloria.
Di questi sentimenti è intessuta la nostra opera di partito e di Governo. State sicuri, veneziani, che quest'opera sarà condotta sino alla fine.
Ultima modifica di Admin il Gio 22 Mar 2018, 15:25 - modificato 2 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1923
Roma, 8 giugno 1923: MUSSOLINI illustra al Senato i primi sei mesi di governo
Roma, 8 giugno 1923: MUSSOLINI illustra al Senato i primi sei mesi di governo
A seguire, il primo dei discorsi fondamentali del nuovo Governo Fascista. Esso raccoglie, in ampia visione sintetica, l'opera vastissima del Governo Fascista nei primi sei mesi di Governo. Fu pronunziato nella tornata dell'otto giugno, chiudendosi la discussione su l'esercizio provvisorio degli stati di previsione dell'entrata e della spesa per l'anno finanziario 1923 -1924.
Il discorso che ho l'onore di pronunziare dinanzi alla vostra alta assemblea potrà apparire analitico, perché si propone di toccare parecchie questioni, e di dire parole decisive su parecchi problemi, specialmente in materia di politica interna.
Con che non mi illudo di potere convincere quelli che sono gli oppositori di professione o per temperamento personale. Non vi stupirà se io comincio dalla politica estera anche se, per avventura, sia questa la materia in cui una opposizione seria e fondata non esiste, per cui si può legittimamente affermare che questa politica raccoglie la quasi unanimità nazionale.
Come già dissi altra volta, le direttive generali della politica estera dell'attuale Governo sono ispirate dalla necessità di una progressiva rivalutazione della nostra posizione diplomatica e politica nell'Europa e nel mondo. Sta di fatto che, salvo le acquisizioni territoriali con confini al Brennero e al Nevoso, confini strappati dopo una lunga e sanguinosa guerra vittoriosa, l'Italia è stata esclusa, nella pace di Versailles e nelle altre successive dai benefici di ordine economico e coloniale.
Patti solenni firmati durante la guerra passarono in decadenza e non furono sostituiti. La posizione di inferiorità fatta all'Italia ha pesato e pesa ancora molte sulla economia del nostro popolo. Ma è inutile ora insistere sulle recriminazioni del passato: bisogna piuttosto cercare di riguadagnare il terreno ed il tempo perduto. Non vi è dubbio che dall'ottobre ad oggi, malgrado le vecchie nuove difficoltà, la situazione è notevolmente migliorata.
Le altre Potenze, alleate o non, sanno che l'Italia intende seguire una politica di energica, assidua tutela dei suoi interessi nazionali: intende essere presente dovunque siano direttamente o indirettamente in giuoco i suoi vitali interessi, perché questo è il suo diritto e il suo preciso dovere. Ma nello stesso tempo è favorevole a quella azione politica di ordine generale che tende a normalizzare il più sollecitamente possibile la situazione economica del nostro continente.
L'Italia, che pure cammina alacremente verso il suo riassetto, vede continuamente turbata questa rinascita da elementi estranei di ordine generale. Giudico che ci sia un preciso interesse italiano nell'affrettare la soluzione pacifica della crisi europea. Ora tale crisi dal Trattato di Versailles in poi è dominata dal fatto riparazioni.
Innanzi a tale problema la posizione fondamentale dell'Italia è la seguente:
1°) La Germania può e deve pagare una somma, che ormai appare universalmente precisata, e che è assai lontana dalle molte centinaia di miliardi, di cui si parlò all'indomani dell'armistizio.
2°) L'Italia non potrebbe tollerare spostamenti o rivolgimenti di ordine territoriale che conducessero ad una egemonia di ordine politico economico e militare.
3°) L'Italia è disposta a sopportare la sua quota parte di sacrificio, se ciò si renderà necessario ai fini di quella che, ordinariamente, si chiama la ricostruzione della economia europea.
4°) Il Governo italiano sostiene oggi più che mai, soprattutto di fronte all'ultima nota tedesca, che il problema delle riparazioni e quello dei debiti interalleati europei sono intimamente connessi ed in certo senso interdipendenti.
Non vi è dubbio che la occupazione della Ruhr ha portato alla acutizzazione estrema la crisi delle riparazioni e quindi in un certo senso ne ha affrettata la soluzione.
Vale certamente la pena di precisare nelle loro linee essenziali i termini del progetto italiano, inglese e tedesco per avere il quadro della situazione nelle sue coincidenze, nelle sue diversità e trarre qualche previsione circa la possibilità di un accordo.
Ciò varrà anche a spiegare come a Parigi l'Italia non abbia potuto accettare il progetto Bonar Law, e come abbia dovuto respingere il recente memorandum Cuno-Rosemberg.
Il progetto italiano di Londra riduceva il debito tedesco a cinquanta miliardi di marchi oro. Proponeva una moratoria di due anni, durante la quale sarebbe continuata la consegna di riparazioni in natura da parte della Germania. Accettava la ripartizione dei pagamenti tedeschi, secondo le quote di Spa, per cui la quota italiana sarebbe stata di cinque miliardi di marchi oro. Stabiliva il pagamento di una parte dei buoni C, mediante i valori corrispondenti, dagli altri Stati ex-nemici o mediante l'annullamento di una parte dei detti buoni, uguale all'importo del debito verso l'Inghilterra che sarebbe rimasto così annullato. La restante trancia dei buoni C sarebbe stata impiegata nei riguardi del debito verso l'America. Ammetteva la presa di pegni economici a garanzia dei pagamenti tedeschi.
Il progetto inglese, presentato da Bonar Law a Parigi, manteneva i cinquanta miliardi di riduzione del debito tedesco: ma ne ripartiva fra gli alleati solo quaranta, gli altri dieci dovevano servire al pagamento delle spese per le armate di occupazione e per il rimborso alla Francia, agli Stati Uniti ed all'Inghilterra del debito di guerra belga.
Lo stesso progetto cancellava il debito italiano verso il Tesoro inglese, ma domandava all'Italia un miliardo e mezzo di marchi oro di riparazioni sui quattro assegnatile e la rinunzia del mezzo miliardo di lire oro che si trovava in deposito a Londra.
Concedeva alla Germania una moratoria di quattro anni e riduceva le forniture in natura a limitatissime quantità di carbone.
Prospettava un debito supplementare tedesco, capitalizzando al 1923, in una cifra di altri diciassette miliardi, gli interessi non pagati sui cinquanta durante i quattro anni di moratoria, ma sottoponeva la possibilità di questo debito supplementare al giudizio di una Commissione internazionale, di guisa che la sua consistenza appariva assai dubbia. Domandava infine l'impegno, per ciò che si riferisce al pagamento delle riparazioni dovute dall'Austria, dalla Bulgaria e dall'Ungheria, di accettare le proposte che l'Inghilterra si riservava di avanzare, proposte, cioè, di annullamento di quei debiti, come è risultato dalle dichiarazioni successive.
La quota italiana di riparazioni che il progetto italiano fissava in cinque miliardi di marchi oro, si riduceva così nel progetto inglese a meno della metà; mentre annullando i buoni C si aboliva con nostro danno, da un lato, la solidarietà tedesca sui debiti minori ex-nemici, e si rendeva, dall'altro, impossibile l'esecuzione dell'accordo del marzo 1921, che assicura seri vantaggi all'Italia, sulla base dei buoni C. La maggiore percentuale sui diciassette miliardi, rappresentanti gli interessi di moratoria capitalizzati al 1923, non poteva servire nei riguardi dei debiti americani, dato il carattere aleatorio di questi diciassette miliardi.
Non ricordo tutto ciò per aprire o riaprire polemiche, ma soltanto per precisare i termini di quello che fu e rimane un tentativo notevole di trovare una soluzione alla grave questione, tentativo che contiene elementi pregevoli, che potranno essere utilmente ripresi nel caso di una sistemazione definitiva.
Alla presentazione del progetto inglese seguì a breve distanza la conclusione di accordi tra l'Inghilterra e l'America sul progetto dei debiti ad opera dell'allora Cancelliere dello Scacchiere ed oggi Primo Ministro britannico.
Esula da questa sistemazione ogni idea di cancellazione del debito tedesco, o anche di una semplice compensazione attraverso la riscossione delle riparazioni: l'obbligo del pagamento, sia pure con agevolazioni, e per il numero degli anni in cui esso deve avvenire e per gli interessi da corrispondere, vi viene solennemente affermato e tradotto in atto.
Il discorso della Corona inglese mise l'accordo in speciale rilievo: né esso, pure fatta la debita parte alla diversità di potenza economica ed alla somma di sacrifici sopportati, poteva rimanere senza effetto sulla valutazione della intera questione da parte delle altre Potenze europee.
Se all'esame del progetto italiano ed inglese si fa seguire quello del progetto tedesco, la inaccettabilità dell'ultimo appare evidente. Come è noto, gli elementi fondamentali del penultimo progetto tedesco sono i seguenti: consolidamento del debito attuale della Germania, specie in natura, nella cifra di venti miliardi marchi oro, più altri dieci il cui pagamento è subordinato al giudizio di una Commissione internazionale.
Detratti gli interessi, gli stessi venti miliardi si riducono a quindici e le somme occorrenti devono essere date da prestiti internazionali; nel caso molto probabile che per il 1927 i venti miliardi non siano sottoscritti, si effettuerà il pagamento di una annualità rappresentante il quindici per cento di interesse più l'uno per cento di ammortamento. Manca infine nel progetto tedesco ogni disposizione e norma nei riguardi della garanzia richiesta.
Il debito capitale tedesco che nel progetto inglese ed in quello italiano veniva fissato nella cifra di cinquanta miliardi, nel progetto tedesco è ridotto a meno di un terzo. Difficile, se non impossibile, determinare la quota italiana in un simile progetto ed il sacrificio che all'Italia si domanda.
Date le sollecitatorie, specialmente dell'Inghilterra e dell'Italia, la Germania ha riconosciuto insufficienti le sue proposte, e ieri sera l'ambasciatore Neurath mi ha presentato la nuova nota tedesca, sul contenuto e natura della quale non posso pronunciarmi per motivi evidenti di riserbo; dovendo, attorno alla medesima nota, iniziarsi e svolgersi un'attività diplomatica fra tutti gli Alleati. Mi limiterò a dire soltanto che nella nota tedesca non si richiede più, per trattare, la preventiva evacuazione della Ruhr, il che potrebbe far credere ad una rinunzia da parte della Germania a quella resistenza passiva la cui utilità, anche ai fini tedeschi, appare sempre più dubbia, la cui cessazione gioverebbe forse a un più rapido raggiungimento della soluzione.
Ma il problema delle riparazioni non è soltanto franco-tedesco: è anche ungherese, bulgaro ed austriaco. È inutile precisare a che punto sia la situazione nei confronti di questi tre paesi ex-nemici.
L'ammontare delle riparazioni ungheresi, che non fu fissato dal trattato di pace del Trianon, non è stato ancora determinato dalla Commissione delle riparazioni e l'Ungheria a tutt'oggi non ci ha dato che limitate forniture in natura.
Il Governo ungherese, allegando le disagiate condizioni economiche e finanziarie del paese, denunciate dalla grave svalutazione della corona, ha di recente prospettato la necessità di contrarre un prestito all'estero che per riuscire dovrebbe essere garantito sulle dogane, sul monopolio dei tabacchi e all'occorrenza su altri cespiti di entrata. Da qui il bisogno che tali cespiti siano liberati per un adeguato periodo di tempo dal vincolo delle riparazioni.
Un memoriale appunto in tal senso è stato presentato recentemente dal Ministro d'Ungheria in Parigi alla Commissione delle riparazioni.
Il Governo italiano, esaminata la questione dal punto di vista tecnico, ha ritenuto che fosse indispensabile concedere all'Ungheria la temporanea liberazione di alcuni cespiti, affinché essa possa procedere alla propria restaurazione economica, mediante prestiti da contrarre all'estero.
Si è mostrato quindi in massima favorevole da parte sua all'anzidetta domanda ungherese, circondando la concessione di alcune condizioni necessarie a garantire i propri diritti. Ed in ciò si è trovato d'accordo col Governo britannico.
La Commissione delle riparazioni, che ha negli ultimi giorni del maggio scorso discusso quella domanda, ha accettato a maggioranza la tesi francese della Piccola Intesa, nel senso di non opporsi alla richiesta inglese di sospensione temporanea del privilegio sui redditi ungheresi, necessari per garantire i prestiti autorizzati: ma di non accordare tale facilitazione se non a condizione che una parte del ricavato dei prestiti fosse destinata alle riparazioni. L'Italia e l'Inghilterra non hanno creduto di aderire a tali condizioni, perché risultava in modo positivo che i prestatori esteri non avrebbero in alcun modo consentito l'operazione, se il ricavo del prestito non fosse stato destinato unicamente alla restaurazione economica del paese debitore.
La Commissione delle riparazioni ha stabilito inoltre di inviare subito in Ungheria una Commissione, per esaminare sopra luogo la situazione finanziaria ed economica del paese.
L'Ungheria ora insiste nel far presente che a tali condizioni non le riesce di contrarre il prestito e che di conseguenza la sua posizione va ognor più aggravandosi.
Mentre la Commissione suddetta prepara il suo responso, non è escluso che la Commissione delle riparazioni possa esaminare contemporaneamente alcune transazioni complementari.
Nei riguardi delle riparazioni bulgare l'Italia, la Gran Bretagna e la Francia il 31 marzo scorso sono addivenute ad un accordo con il Governo bulgaro, per facilitargli il modo di pagamento del suo debito di duemila duecentocinquanta milioni di franchi oro, fissato dal Trattato di Neuilly, col dividerlo in due parti, l'una di cinquecentocinquanta milioni da pagarsi ratealmente a cominciare dall'ottobre di quest'anno e l'altra di mille settecento milioni da reclamarsi non prima di 30 anni.
La Bulgaria si è obbligata con questo accordo a riservare al regolamento del suo debito i proventi delle sue dogane, ed ha già all'uopo emesso una legge.
L'accordo è stato approvato anche dalla Commissione delle riparazioni, con la riserva dei nostri diritti per il rimborso delle spese delle armate di occupazione italiane.
In effetto sono in corso negoziati col Governo bulgaro per il regolamento di detto nostro credito, che gode del privilegio della priorità sulle stesse riparazioni.
Il Regio Governo, animato da favorevoli disposizioni in tutto quanto concerne la sistemazione degli obblighi dipendenti dalla guerra, non ha avuto difficoltà ad accettare un tale accordo, che costituisce una forma di impegno concreto, garantito da un reddito sufficiente ad assicurarne l'esecuzione.
Mantenendo l'impegno assunto dai suoi predecessori, coi protocolli di Ginevra del 4 ottobre 1922, il Governo italiano ha dato opera coi Governi firmatari dei protocolli stessi, che il prestito a favore dell'Austria avesse una pronta e larga realizzazione.
A tal uopo ha consentito a postergare per 20 anni, quanto è la durata del prestito, il privilegio verso l'Austria per ricuperi di danno e per buoni di rifornimento alimentare; ha dato nella misura del 20,5 per cento la propria fideiussione ad un prestito massimo di cinquecentottantacinque milioni di corone oro ed ha autorizzato le banche italiane a concorrere direttamente al prestito, sino al limite massimo di duecento milioni di lire, ivi compresi i settantotto milioni di lire che l'Italia aveva antecedentemente prestati all'Austria e che a termini del protocollo di Ginevra avrebbero dovuto essere rimborsati in contanti.
Per il servizio del prestito sono stati pignorati, oltre quelli delle dogane e altri minori, i redditi lordi dei tabacchi austriaci, e perché essi fossero realmente rimunerativi e tali da non fare possibilmente appello alla fideiussione degli Stati garanti, i Governi di Inghilterra e di Francia hanno consentito che l'Amministrazione dei tabacchi venga dal Commissario generale affidata ad un italiano, riconoscendo con ciò implicitamente l'eccellenza della nostra Regia.
Concedendo le accennate facilitazioni per le riparazioni austriache ed accordando una fideiussione ad un concorso diretto e cospicuo al prestito a favore dell'Austria, il Governo italiano ha voluto offrire il suo concorso a quell'indipendenza politica ed integrità territoriale della Repubblica d'Austria a cui accennano i protocolli di Ginevra, ed a cui, voglio notare, hanno anche contribuito gli Stati Uniti d'America, sottoscrivendo fiduciosi per la prima volta ad un prestito europeo.
L'azione politica dell'Italia verso gli Stati della Piccola Intesa, e in genere verso gli Stati successori, è ispirata sostanzialmente dall'opportunità di eseguire il rispetto e l'osservanza scrupolosa dei trattati, perché, nelle attuali contingenze, solo tale politica può recare buoni e rapidi frutti per una sistemazione economica degli Stati danubiani che contribuirebbe a quella più larga dell'Europa Centrale. In varie occasioni l'azione amichevolmente moderatrice dell'Italia si è svolta in tal senso con utili risultati.
Nei riguardi di tale politica hanno speciale importanza i rapporti dell'Italia con la Jugoslavia.
L'atteggiamento netto assunto dal Governo nei riguardi della Jugoslavia, col procedere alla definitiva applicazione del Trattato di Rapallo, avendo fortificata la nostra posizione di fronte al diritto, ci ha messo in grado di poggiare su una solida base ogni ulteriore sviluppo della nostra politica.
L'esecuzione delle convenzioni di Santa Margherita, naturalmente laboriosa per la vastità della materia che investe, può dirsi che procede, in generale, in modo soddisfacente.
Malgrado le difficoltà iniziali in ogni regime eccezionale, funziona, già dal tempo dello sgombero degli ultimi territori dalmati, il regime economico della cosiddetta «-zona speciale-» di Zara, e sono stati costituiti vari organi pel regolamento di tutta la complessa materia, oggetto delle convenzioni.
Ma, naturalmente, la questione più importante da sistemare è quella di Fiume. Essa, come è noto, presenta le più gravi difficoltà, implicando, per assicurare l'avvenire della vita economica della città, la soluzione di molti complessi problemi di carattere economico, spesso contrastanti con quelli di carattere politico. Certo, sulla speditezza della soluzione di tale questione ha gravemente pesato la recente lunga crisi parlamentare jugoslava, che per molto tempo ha dovuto raccogliere quasi esclusivamente sui problemi interni l'attenzione del Governo di Belgrado. Quel Governo ci ha fatto ripetutamente conoscere i suoi intendimenti di risolvere la questione in modo soddisfacente per i sentimenti e per gli interessi dell'Italia e ci ha anche francamente manifestato quali siano le reali difficoltà che esso incontra per far accettare alle popolazioni interessate la soluzione consona al punto di vista italiano.
Nell'intento di assicurare ai lavori della Commissione paritetica un ambiente di maggior serenità, il Governo di Belgrado Ha intanto consentito a trasferirne la sede a Roma.
La delegazione jugoslava è giunta; tra essa e la delegazione nostra, che agisce con alto senso di patriottismo e di probità politica, sono ora in corso preliminari conversazioni allo scopo di concretare alcune basi fondamentali, prima di riprendere le discussioni ufficiali; in modo che queste possano procedere con la maggior possibile speditezza, senza soggiacere a deplorevoli ristagni, altrimenti inevitabili in così ardua materia.
La Conferenza di Losanna che, dopo la nota interruzione del febbraio scorso ha ripreso i suoi lavori il 23 aprile, li va lentamente ultimando, attraverso le non lievi difficoltà di varia natura, dipendenti dalla delicatezza e complessità delle questioni sottoposte al suo esame. L'azione svolta in ogni circostanza dalla delegazione italiana, è stata sempre improntata alla più serena ed equanime obbiettività, e l'efficacia di essa è stata riconosciuta e generalmente apprezzata al suo giusto valore.
L'Italia non può non considerare quali suoi vitali interessi il pronto ritorno alla normalità dei liberi traffici in Levante, lo sviluppo economico e il civile progresso di tutti i popoli abitanti sulle sponde del Mediterraneo orientale.
Quantunque non ancora tutte le questioni in discussione siano state risolte a Losanna, pure, per alcune di quelle che più direttamente interessavano il nostro Paese, si è raggiunta una soluzione in complesso soddisfacente.
La riserva sollevata dal Governo di Angora circa l'attribuzione all'Italia dell'isola di Castelrosso, il cui possesso da parte nostra non potrebbe in alcun modo giustificare un eventuale sospetto di nostre mire aggressive nei riguardi della Turchia, è stata esplicitamente da questa ritirata.
La nostra bandiera, già salutata fin dal suo apparire nell'isola, come simbolo di tranquillo benessere, continuerà a proteggere nell'avvenire una popolazione, che a noi plebiscitariamente si è affidata.
Per la nostra marina mercantile, che attraverso secolare tradizione è la più interessata nei mari del Levante, contribuendo così efficacemente allo sviluppo dei traffici della Turchia, si è potuto ottenere da questa che per due anni, dopo i quali sarà possibile concludere diretti accordi con il Governo turco, siano rispettati i diritti acquisiti in materia di cabottaggio, lungo le coste di quello Stato.E così, del pari, gli alleati si sono assicurati il rispetto dei diritti acquisiti dai rispettivi connazionali alla data del 1° gennaio 1923, per ciò che concerne l'esercizio delle professioni liberali in Turchia, col riconoscimento dei diplomi da essi conseguiti nei rispettivi paesi di origine. Tale questione interessava particolarmente gli italiani colà residenti, e per la sua soluzione favorevole la colonia italiana di Costantinopoli mi aveva, con ragione, fatto le più vive premure.
Il Governo italiano ha ottenuto anche che cadessero quelle clausole di interessamento formale del Sultanato, che gli accordi, che chiusero la guerra libica, avevano lasciato sussistere nelle nostre colonie dell'Africa settentrionale, e nello stesso tempo sono stati opportunamente tutelati gli interessi dei sudditi libici residenti in Turchia, i quali sono stati parificati nei diritti a cittadini italiani.
Della maggiore importanza per la Turchia si dimostrò, fin dall'inizio della conferenza, la questione relativa alla tutela giuridica degli stranieri; la conferenza è stata d'accordo nel definire i termini di tale tutela, concretandola in una formula che stabilisce per un periodo di cinque anni l'assunzione al proprio servizio, da parte dei Governo turco, di giureconsulti esteri, a cui è data facoltà di ricevere reclami sui giudicati e sull'operato dei magistrati turchi.
Con tale soluzione, così ampiamente benevola, che accompagna quell'abolizione delle capitolazioni da tanto tempo e tanto insistentemente dai turchi invocata, le Potenze europee hanno, in sostanza, aperto il più largo credito morale alla Turchia, sperando che essa sappia mostrarsi col fatto capace di organizzare rapidamente una Amministrazione giudiziaria al livello di quelle europee, e specialmente sappia imporre alle proprie autorità di polizia e giudicanti uno spirito di giustizia superiore ai piccoli interessi, quale Roma seppe insegnare al mondo.
Restano a Losanna tuttora in discussione alcune importanti questioni di interesse generale, quali quelle riferentisi al servizio del debito pubblico ottomano ed altre di natura economica, che mi auguro possano essere rapidamente risolte.
Gli attuali rapporti con la Russia sono regolati dagli accordi preliminari italo-russo ed italo-ukraini del 26 dicembre 1921. Proprio di questi giorni sono stati presentati al Parlamento progetti per la conversione in legge dei Regi decreti del 31 gennaio 1922, con i quali i detti accordi erano stati approvati, e che avevano trovato qualche ostacolo nella loro applicazione pratica, dando pretesto ai russi di violare gli accordi.
Noi non intendiamo così di rimuovere questi ostacoli per rendere più facili i rapporti economici fra i due paesi, e preparare il terreno alla eventualità di una intesa a base più larga senza soverchie illusioni, ma senza prevenzioni dannose. I contatti tra i due paesi a sistema i primi sei mesi di governo economico diverso, evidentemente presentano gravissime difficoltà che non sono però insormontabili, se dalle due parti ci sia la buona volontà di rimuoverle. La politica dell'Italia verso la Russia è chiara e non può dar luogo ad equivoci.
La presentazione al Parlamento dei decreti in parola è una prova di più delle nostre intenzioni e ci dà il diritto di attenderci dal Governo di Mosca la scrupolosa osservanza dei patti firmati, e fra i patti firmati è bene che il Governo russo ricordi l'impegno assunto di astenersi da ogni atto o iniziativa ostile al Regio Governo, ed a qualsiasi propaganda diretta o indiretta contro le istituzioni del Regno.
Non credo, per l'economia di questo discorso, scendere ad ulteriori dettagli. Dirò solo che particolarmente cordiali sono i rapporti fra Stati Uniti e Italia, e sono lieto di aggiungere che tanto il Governo quanto il popolo americano hanno pienamente compreso la nuova situazione politica italiana.
L'iniziativa presa dall'Italia, per il definitivo regolamento della frontiera della Polonia, ha sempre più cementati i vincoli di cordiale amicizia che uniscono da secoli i due paesi. Oltre che sul terreno politico, la loro collaborazione continua ad affermarsi anche su quello economico.
In questi stessi giorni il Governo polacco ha fatto all'industria italiana nuove importanti ordinazioni.
I colloqui ed i contatti da me avuti coi ministri di Austria, Romania, Ungheria, il viaggio recente di S. M. il Re d'Inghilterra, i trattati commerciali conclusi e da concludere sono altrettanti elementi di quella progressiva rivalutazione della nostra posizione diplomatica cui accennavo in principio. Il Governo fascista, sempre ai fini di questa rivalutazione, non appena insediato, annunciò alle Regie rappresentanze all'estero di ispirare l'azione politica fuori dei confini del paese alla rinnovata coscienza della Patria ed affrontò immediatamente il problema degli strumenti e degli uomini.
Effettivamente l'Amministrazione degli esteri, già di fronte a tante difficoltà esterne, ne trovava una grandissima al suo interno per l'insufficienza numerica dei suoi elementi. Gli strumenti della nostra opera così delicata all'estero dovevano essere rinsaldati, resi atti, come quantità e come spirito, al gran lavoro che da essa si richiede.
Si è quindi disposto fin dai primi di novembre per l'apertura dei concorsi alle carriere diplomatica e consolare ed alla carriera degli interpreti, e si è provveduto poi a circondare il personale di concetto di un servizio amministrativo e d'ordine che esonerasse il primo dalle cure assorbenti della contabilità, della custodia dei documenti e della cifrazione dei telegrammi, tutti compiti, che per le responsabilità minute che importano, finiscono col distogliere i funzionari dalle responsabilità più alte e più ampie.
Allo spirito delle carriere si è dedicata particolare attenzione, allargando la base del reclutamento, mediante l'abolizione del requisito della rendita, e riformando la carriera diplomatico-consolare in guisa da darle un reclutamento unico per dividerla poi in due ruoli separati, uno dei quali — il diplomatico — trarrà costantemente un terzo dei suoi elementi da quello consolare mediante passaggi laterali, in qualsiasi grado della carriera.
Al miglioramento dei servizi si è fatta corrispondere una diversa distribuzione di essi per quello che riguarda la rete consolare. Infatti, mentre immense regioni ove affluisce e si è stabilita da tempo la emigrazione italiana, sono state trovate prive di adeguata rappresentanza consolare, in quasi tutte le capitali accanto all'ufficio diplomatico esisteva un ufficio consolare di carriera, il quale, malgrado la sua diversa natura, pur rappresentava una duplicazione nei rispetti della presenza di una diretta tutela del nostro connazionale all'estero.
Senza disconoscere l'utilità di tali consolati nelle capitali, pure, di fronte alla necessità che si risentiva in altri luoghi, è sembrato inevitabile provvedere alla soppressione di essi, per poter invece provvedere alla creazione di altri, senza perdere di mira gli interessi dell'erario. I nuovi consolati, che sono in corso di creazione, sorgeranno in maggior parte nel Brasile, negli Stati Uniti, nel Messico e nell'India.
Concludendo, mi piace ripetere che la politica estera italiana, mentre intende salvaguardare gli interessi nazionali, vuole anche costituire nello stesso tempo un elemento di equilibrio e di pace in Europa. Credo, con questa politica, di interpretare le tendenze ed i bisogni del popolo italiano.
Vengo alla politica interna. I problemi dell'ordine pubblico sono i problemi dell'autorità dello Stato. Non v'è autorità dello Stato solida se l'ordine pubblico non è perfettamente normale; quindi ordine pubblico e autorità dello Stato sono i due aspetti dello stesso problema. Io domando a voi, domando alla Nazione: le condizioni dell'ordine pubblico sono migliorate o sono peggiorate dall'ottobre scorso?
Voci. — Migliorate!
Sento che qualcuno di voi dà già una risposta affermativa. Dico anch'io che sono migliorate quantunque io sia per temperamento piuttosto portato al pessimismo, e quindi al malcontento. Non si va mai abbastanza bene! Ma, o signori, quando si parla di ordine pubblico, bisogna stabilire dei raffronti: anche se sia odioso, essi sono necessari. L'inquietudine, il disagio, lo spirito di faziosità non sono soltanto un fenomeno italiano. Se noi gettiamo l'occhio al di là delle nostre frontiere, abbiamo motivo di ripetere che se Messene piange Sparta non ride.
Prendetemi i popoli vinti e guardate quello che accade in Austria, e in Germania; prendetemi i popoli vittoriosi: è di ieri uno sciopero dei funzionari pubblici nel Belgio che è costato all'erario e all'economia belga centinaia e centinaia di milioni di franchi; se poi rivolgete lo sguardo ai paesi neutrali (Spagna) troverete che anche là la vita non è eccessivamente comoda e brillante. Questo dico per coloro che ad ogni piccolo sparo di rivoltella in uno dei ventimila villaggi d'Italia credono di esser feriti da un colpo di 420. Ma poi soprattutto vale la pena di fare il raffronto in Italia e mettere da una parte la situazione dell'Italia nel biennio 1919-1920 e nel biennio successivo 1921-22. Il fatto dominante del biennio 1919-20 è costituito dall'occupazione delle fabbriche, dallo sciopero rotativo e permanente dei funzionari dei servizi pubblici, da un disgregamento di tutte le funzioni dell'autorità statale; e quantunque sia sommamente ingrato, bisogna pur ricordare che lo stesso nostro gloriosissimo esercito ebbe un episodio, ad Ancona, che dimostra come qualmente il tarlo fosse giunto assai profondo nell'organismo dello Stato italiano.
Fatto dominante di questo biennio, che chiameremo dell'orgia demagogica, l'occupazione delle fabbriche; fatto dominante del biennio successivo è la spedizione punitiva fascista. Vedete che io sono di una obbiettività straordinaria! I fascisti, per necessità di cose, sono andati all'assalto delle città a vaste masse e armati. Oggi tutto ciò è finito, oggi i funzionari dei servizi pubblici non fanno e non faranno sciopero.
Quando i postelegrafonici fascisti sono venuti da me per protestare, perché in seguito ad un telegramma di protesta al mio collega Di Cesarò erano stati puniti, ho detto loro che se fossi stato il collega delle Poste li avrei puniti due volte, e ho detto che, perché fascisti, essi avrebbero dovuto riconoscere la necessità di questa severa disciplina.
La situazione dell'ordine pubblico nel secondo semestre dell'anno decorso raggiunge il suo apice di disintegrazione; c'è nell'agosto uno sciopero; lo sciopero antifascista, sciopero che paralizza completamente lo Stato. Lo Stato non agisce, agiscono, in vece delle forze dello Stato, le forze del Fascismo. È allora, o signori, che io ho detto che di due bisognava fare uno, è da allora che io ho detto che dal momento che c'era uno Stato inattuale, uno Stato svuotato di tutti gli attributi della sua virilità, e c'è uno Stato in potenza che sorge, fortissimo, che saprà imporre una disciplina alla Nazione, è necessario che ci sia la sostituzione, mediante un atto rivoluzionario dello Stato che sorge allo Stato che declina inesorabilmente.
Lo sciopero antifascista dell'agosto fu seguito dall'occupazione fascista delle città di Bologna e di Bolzano.
L'autorità dello Stato presentava lo spettacolo di macerie, di rovine infinite. Ora la rubrica dei conflitti non appare più sui giornali; e la rissa domenicale non può farsi passare come conflitto: perché conflitto ci sia, deve essere collettivo e politico.
Vi ripeto, onorevoli senatori, sono così imparziale da dirvi che in questi ultimi giorni c'è stata una leggera recrudescenza: da che cosa essa dipende? Ve lo dico con franchezza: dalla riapertura della Camera! La sede delle interrogazioni con lo spettacolo che offre alla Nazione, è quella che riverbera e che getta in mezzo alle masse impulsive, eccitabili, sentimentali, i germi di conflitti e di discordie.
In secondo luogo, l'atteggiamento di una corrente del liberalismo italiano è una grandissima bazza per i sovversivi, perché essi trovano in costoro degli alleati insperati, inopinati, i quali sollevano delle enormi vesciche, che io mi riprometto di bucare con lo spillo della mia logica e della mia sincerità prima di finire il discorso! Poi, forse forse, c'è questo: che certi signori, quando si sono accorti che non hanno più da temere l'illegalismo fascista e il legalismo governativo che è lento, perché deve rispettare tutte le procedure, hanno ripreso baldanza e fanno quell'illegalismo che richiamerà in vita un altro illegalismo fascista.
Quali misure sono state adottate per ristabilire l'ordine pubblico? Prima di tutto il rastrellamento degli elementi così detti sovversivi: si è gridato alle retate in grande stile, ma in realtà è stata cosa assai modesta; su 2000 arrestati quelli che si trovano ancora in carcere non arrivano a 150.
Sono affidati completamente alla magistratura: erano degli elementi di disordine e degli elementi sovversivi: può essere che la pratica liberale consenta di lasciar mano libera a questi elementi, ma io non mi sento di seguire questa pratica!
All'indomani di ogni conflitto io davo l'ordine tassativo di rastrellare il maggior numero possibile di armi d'ogni specie e qualità; questi rastrellamenti hanno dato risultati discreti.
Sono stati sequestrati, nel periodo dal marzo alla fine di aprile, armi lunghe da fuoco da guerra, 29.257; armi corte da fuoco 1048; armi da punta e da taglio 7228; armi diverse 249. Munizioni per armi lunghe da fuoco, cartucce 1.110.000; munizioni per armi corte da fuoco, 82.000. Esplodenti diversi 1086 (e cioè bombe, petardi e simili aggeggi). Sono state sequestrate 29 scatole di dinamite; mezza cassetta di gelatina e chilogrammi 30 della stessa gelatina. Ci sono anche le armi comuni sequestrate e cioè: armi lunghe da caccia 2655; corte 2444; armi comuni da punta e da taglio 1089.
Va da sé che questo rastrellamento continua con la maggiore energia.
Poi ho dovuto reprimere ogni atto di illegalismo: si dice che qualche bicchiere di olio di ricino viene ancora distribuito qua e là; ma ho già detto all'altro ramo del Parlamento che i colpevoli di questi reati vengono severamente puniti.
Tutti questi provvedimenti sarebbero stati insufficienti se io non avessi restituito la piena autorità ai prefetti delle provincie. Ripeto ancora una volta che il Prefetto e il Questore sono gli unici legittimi autorizzati rappresentanti dell'autorità dello Stato nelle provincie del Regno.
Poi, vincendo le resistenze legittime del mio amico De Stefani, ho migliorato le condizioni dei funzionari di P. S., i quali sono oggi validamente tutelati in senso morale e politico dal Governo.
Ma il problema più spinoso, che ho dovuto affrontare e risolvere e l'ho risolto, è il problema degli squadrismi. Ognuno di questi squadrismi era un grandissimo colpo di piccone all'autorità dello Stato e siccome io penso, per assioma, che lo Stato ha il diritto e il dovere di avere forze armate, ho detto che queste multicolori camicie, ad un dato momento, dovevano essere completamente bandite dalla circolazione. E ce ne erano delle nere, delle azzurre, delle cachi, delle rosse, delle grigie, delle verdi, e delle bianche. Vi ripeto che non era un problema facile, perché molti di questi squadrismi agivano sul terreno nazionale, comprendevano patrioti, ex-combattenti, feriti, mutilati e decorati. Ma bisognava finirla, ed allora un decreto del Consiglio dei Ministri ha deciso che dal 1° febbraio tutti gli squadrismi erano aboliti, non si permettevano che squadrismi di gente di età inferiore ai 12 anni. La misura è stata generalmente osservata, ma c'era uno squadrismo speciale che mi poneva avanti ad un problema con riflessi di ordine morale e storico: il problema dello squadrismo fascista. Bisognava disperderlo, dire a questa gente: «andate a casa, tutto è finito»? Non si poteva! Prima di tutto perché sarebbe stata una ingratitudine enorme, in secondo luogo perché sarebbe stato pericoloso; e d'altra parte dovevo trasformare questo squadrismo, che aveva agito sul terreno dell'illegalismo, in un organo che fosse alle dipendenze dirette dello Stato. Ci sono riuscito, non completamente, ma dovete pensare che gli squadrismi sono stati aboliti al 1° febbraio di quest'anno di grazia e non si può in tre mesi prendere dei giovani, che erano stati abituati per due anni ad una ginnastica specialissima, e farne dei soldatini di piombo.
E si è detto: «-Perché questa milizia non ha prestato giuramento di fedeltà a S. M. il Re?-». Voi credete che non abbiamo pensato a questo. Errore! Ci siamo decisi in senso negativo, perché abbiamo pensato che la persona del Re, simbolo della Patria, simbolo della perpetuità della patria, non può essere messa a capo di una milizia, che aveva, per necessità di cose, più che per volontà di uomini, un carattere spiccatissimo di partito. Ora questa milizia sta continuamente raffinandosi: si procede ad un'opera severissima di selezione. Del resto la cronaca quotidiana documenta tutto ciò.
C'era un altro problema a proposito dei quadri della milizia. Il problema di contemperare la necessità dei quadri superiori, che dovevano essere affidati ad uomini provenienti dall'Esercito e con una vasta esperienza militare e personale, col riconoscimento e la gratitudine che si doveva ai piccoli capi dello squadrismo fascista il quale aveva domato, lasciando centinaia di morti gloriosissimi, il sovversivismo demagogico. Abbiamo risolto questo problema. Tutti i gradi di ufficiali superiori a Seniore sono assegnati ad ufficiali che vengono dall'Esercito; tutti i gradi inferiori, quelli che potrebbero essere chiamati i gradi subalterni, e i sottufficiali, sono stati assegnati ad elementi dello squadrismo che hanno sempre un passato militare e che sempre debbono avere delle qualità morali ineccepibili.
Del resto le statistiche valgono sempre più dei discorsi.
Gli ufficiali superiori della milizia, di grado superiore a Seniore, vengono, per il 97 per cento dagli ufficiali del Regio Esercito. Gli altri rappresentano il 3 o 4 per cento. Su circa 230 ufficiali superiori al grado di Seniore vi sono 20 ricompensati nei vari gradi dell'Ordine militare di Savoia, 12 medaglie d'oro, 130 medaglie d'argento, 80 medaglie di bronzo.
E bisogna, anche a costo di abusare della vostra pazienza, e siccome questa è una giornata di chiarimenti, che vi legga lo stato di servizio dei capi della milizia nazionale:
Generale De Bono (generale di corpo d'armata dell'Esercito): tre medaglie d'argento, una promozione straordinaria per merito di guerra, croce di guerra;
Generale Gandolfo (generale di corpo d'armata): 2 medaglie d'argento, promozione straordinaria per merito di guerra;
De Vecchi: 4 medaglie d'argento; 2 medaglie di bronzo; 2 croci di guerra;
Balbo: medaglia d'argento, croce di guerra;
Fara (il generale conosciutissimo in tutta Italia): una medaglia d'oro, due medaglie d'argento, promozione per merito di guerra;
Stringa (altro maggiore generale dell'Esercito): 3 medaglie d'argento, una medaglia di bronzo, mutilato di guerra;
Pero Clemente (altro maggiore generale dell'Esercito): 2 medaglie d'argento, croce di guerra;
Ceccherini (maggiore generale dell'Esercito): 3 medaglie d'argento, 2 medaglie di bronzo;
Zamboni (maggiore generale dell'Esercito): una medaglia d'argento, una di bronzo;
Guglielmotti (maggior generale dell'Esercito): 2 medaglie d'argento.
Seguono poi: maggiore Giuriati: 2 medaglie d'argento; Acerbo: 3 medaglie d'argento; Caradonna: 3 medaglie d'argento; Finzi: una medaglia d'argento e due croci di guerra, ecc., ecc.
E non voglio, per non confondere la modestia dei miei amici, continuare a leggere l'elenco di questi ufficiali della milizia nazionale.
Ho letto tutto ciò per dimostrarvi che la milizia è una cosa seria, e lo sta diventando ogni giorno di più, perché così io voglio, perché tutti i capi questo vogliono.
Ci si domanderà: perché la milizia resta? Ve lo dico subito: per una ragione molto semplice; per difendere la Rivoluzione fascista all'interno ed anche all'estero.
La frase «estero» può impressionarvi. Ebbene c'è all'estero un ambiente difficile per il Fascismo italiano. Difficile a destra e difficile a sinistra. Difficile a destra, in quanto l'elemento destro è un elemento nazionale, il quale non può essere entusiasta di un movimento che esalta i valori nazionali. D'altra parte l'elemento sinistro ci è avverso dal punto di vista sociale, perché sa che il movimento fascista è nettamente antisocialista. Allora è bene che si sappia che a difendere la Nazione, a difendere quella speciale forma di reggimento politico che si chiama Fascismo, vi è una potentissima armata di volontari. Secondo: per permettere all'Esercito di fare il suo mestiere: l'Esercito deve fare la guerra, deve prepararsi alla guerra, non deve fare della polizia, specialmente politica, se non in casi assolutamente eccezionali, che in questo momento non voglio assolutamente presentare nemmeno come ipotesi.
Stanotte, per mio ordine personale, si è bloccato un intero quartiere di Livorno.
Ebbene, 100 carabinieri e 300 camicie nere sono bastati. L'Esercito, le truppe e gli ufficiali dormivano tranquillamente nelle loro caserme, come era loro diritto e dovere. Eppoi, credetemi, finché in Italia si sa che, oltre ad alcune decine di migliaia di carabinieri fedelissimi, c'è questa enorme forza, i conati rivoltosi, i conati di sedizione non saranno mai osati.
Se dopo questi sei mesi di Governo, io mi volgo indietro e abbraccio con un colpo d'occhio, come si abbraccia un panorama, quello che è successo in sede politica, vedo tre fenomeni interessanti: tre fenomeni che io chiamerei tentativi di aggiramento del Fascismo.
Ad un certo momento, nel novembre, si comincia a parlare di unità operaia: bisogna mettersi tutti insieme sotto una bandiera vagamente nazionale, che doveva coprire parecchie merci di contrabbando. Il nome di Gabriele D'Annunzio era una carta che veniva frequentemente giuocata da questi ambigui zelatori dell'unità operaia.
Ci voleva poco a capire che si trattava di una mistificazione, attraverso la quale parecchi elementi, che si ritenevano espulsi dalla scena politica, volevano rientrarvi.
Bastò dire che le Corporazioni assumessero il nome di fasciste e questa speculazione cessò d'incanto.
Secondo: il contraltare nazionalista. Bisogna dire che da Roma in su nazionalisti e fascisti sono andati sempre d'accordo; erano due corpi in un'anima sola. A Milano, dove ho vissuto e lottato, non si è mai avvertita questa differenza. Ora va a succedere che dopo la marcia su Roma c'è una primavera enorme di nazionalismo, soprattutto da Roma in giù. Evidentemente, elementi dubbi volevano, attraverso questo contraltare, fare o preparare una opposizione al Governo fascista.
Anche questo ostacolo è stato superato con la fusione e mi sia concesso di rendere omaggio solenne allo spirito di lealtà assoluta e di ferma disciplina, allo spirito, cioè, con cui i nazionalisti sono entrati nelle file del Fascismo. Finalmente, ed è manovra di quest'ultimi giorni, sono spuntati in Italia i fieri difensori dello Statuto, della libertà e del Parlamento. Sembra, a sentire questi signori che avevano dimenticato da parecchio tempo l'esistenza dello Statuto, anche a semplice titolo di documento storico, che lo Statuto corra supremo pericolo e che non si possa nemmeno discuterlo, nemmeno esaminarlo.
Credo che nessuno di voi possa ritenere Camillo conte di Cavour un bolscevico o un fascista del 1848. Ebbene ognuno di voi sa che il moto costituzionale del Piemonte è stato opera di Camillo Cavour; ognuno sa come venne largita la costituzione politica. Ci fu un tumulto a Genova contro i gesuiti ritenuti assertori dell'assolutismo; una commissione di genovesi parte, va a Torino e chiede la cacciata dei gesuiti e la guardia civica; ma Camillo Cavour dice: «-Questo è poco, i tempi sono maturi per ben altro-».
Scrive Cavour nel suo giornale Il Risorgimento: «-Bisogna chiedere la costituzione-», e questa fu promulgata il 4 marzo.
Nel preambolo è detto: «-Lo Statuto è la legge fondamentale perpetua e irrevocabile della Monarchia-». Quattro giorni dopo si formò il primo ministero costituzionale di coalizione col moderato Balbo e il democratico Pareto, e poiché la frase: «-lo Statuto è la legge fondamentale perpetua e irrevocabile della Monarchia-» aveva ferito le orecchie dei democratici, Camillo Cavour si affrettava ad interpretarla, in senso relativo o relativista. Vale la pena di ascoltare attentamente questo brano di Camillo Cavour: «-Come mai — affermava — si può pretendere che il legislatore abbia voluto impegnare sé e la Nazione a non mai portare il più leggero cambiamento diretto ad operare il menomo miglioramento di una legge politica? Ma questo sarebbe voler far sparire il potere costituente dal seno della società, sarebbe privarla dell'indispensabile potere di modificare le sue forme politiche a seconda delle nuove esigenze sociali, sarebbe un concetto talmente assurdo, che non poteva venir concepito da nessuno di coloro che cooperarono alla redazione di questa legge fondamentale. Una Nazione non può spogliarsi della facoltà di mutare con mezzi legali le sue leggi comuni-».
Non passò molto tempo che la cronaca dovette registrare una prima violazione dello Statuto, il quale presumeva e presume che per essere deputato bisogna essere cittadino italiano. Il giorno 16 ottobre si era verificata una divisione tra la Destra e la Sinistra. Nella prima vi erano i moderati ed i municipali, nella seconda i democratici, così detti «-Teste bruciate-», ed i repubblicani.
Il 17 questi due partiti si trovarono uniti per proclamare, al disopra dello Statuto, che potevano far parte del Parlamento Subalpino tutti gli italiani di qualunque regione; e ciò all'unanimità. Il primo a beneficiare di questa violazione dello Statuto sarebbe stato Alessandro Manzoni, se il grande scrittore non avesse declinato il mandato con una lettera che è un monumento di castigatezza e di probità politica.
Nessuno, o signori, nessuno di noi vuole abbattere o distruggere lo Statuto. Lo Statuto è piantato solidamente nei suoi muri maestri; ma gli inquilini di questo edificio, dal '48 ad oggi, sono cambiati; vi sono altre esigenze, altri bisogni, non vi è più l'Italia piemontese del 1848.
Ed è oltremodo strano vedere fra i difensori dello Statuto quelli che lo hanno violato nelle sue leggi fondamentali; quelli che hanno diminuito le prerogative della Corona, quelli che volevano render la Corona totalmente estranea alla politica della Nazione, facendone una cosa morta e lontana nello spazio e nel tempo.
Si dice che questo Governo non ami la Camera dei Deputati. Si dice che si vuole abolire il Parlamento o svuotarlo di tutti i suoi attributi essenziali. Signori, sarà tempo di dire che la crisi del Parlamento non è una crisi voluta dal sottoscritto o da quelli che seguono le mie idee: il parlamentarismo è stato ferito non a morte, ma gravemente, da due fenomeni tipici del nostro tempo: da una parte il sindacalismo, dall'altra il giornalismo; il sindacalismo, che raccoglie in determinate associazioni tutti quelli che hanno interessi speciali e particolari da tutelare e che vogliono sottrarli alla incompetenza manifesta dell'assemblea politica; ed infine il giornalismo, che è il parlamento quotidiano, la tribuna quotidiana, dove uomini venuti dall'Università, dalle scienze, dall'industria, della vita vissuta, vi sviscerano i problemi con una competenza che si trova assai difficilmente sui banchi del Parlamento. Ed allora questi due fenomeni tipici dell'ultimo periodo della civiltà capitalistica sono quelli che hanno ridotto la importanza enorme che si attribuiva ai Parlamenti. Insomma il Parlamento non può più contenere tutta la vita di una Nazione, perché la vita delle Nazioni moderne è eccezionalmente complessa e difficile.
Dire questo non significa dire che vogliamo abolire il Parlamento. Affatto; anzi vogliamo migliorarlo, perfezionarlo, correggerlo, farne una cosa seria, se è possibile, una cosa solenne. E del resto, se volessi abolire il Parlamento, non avrei presentato una legge elettorale. Questa legge elettorale, a lume di logica, presuppone delle elezioni: si sa già fin da questo momento che, attraverso a queste elezioni, vi saranno dei deputati i quali comporranno il Parlamento; per cui nel 1924 vi sarà un Parlamento.
Si dice che il Fascismo ha creato dei duplicati. Signori, questi duplicati non esistono. Il Grande Consiglio fascista non è un organo duplicato del Consiglio dei ministri o superiore al Consiglio dei ministri. Il Grande Consiglio del Fascismo si è riunito quattro volte. Il Grande Consiglio, non ha mai affrontato i problemi che sono di pertinenza del Consiglio dei ministri. Di che cosa si è occupato il Grande Consiglio del Fascismo? Nella sessione di febbraio il Grande Consiglio del Fascismo si è occupato della Milizia Nazionale e della Massoneria; ha fatto un omaggio ai dalmati e fiumani; si è occupato dei Fasci all'estero. Nella sessione di marzo ha predisposto le cerimonie per il Natale di Roma e si è occupato di sindacalismo. Nella quarta sessione di aprile si è occupato del Congresso di Torino ed ancora del sindacalismo.
Voi vedete che tutti i grandi problemi dell'amministrazione dello Stato, della riorganizzazione delle nostre forze armate, della riforma delle circoscrizioni giudiziarie, della riforma delle scuole medie, tutte le misure di ordine finanziario, dalla nominatività dei titoli all'introduzione dell'imposta sul reddito agrario, sono tutte misure che sono state adottate dall'ente responsabile e diretto: il Consiglio dei ministri.
Ed ora che cosa è il Grande Consiglio del Fascismo?
È l'organo di coordinazione, fra le forze responsabili del Fascismo. E fra tutti gli organi creati dopo la rivoluzione di ottobre il Gran Consiglio del Fascismo è il più originale, il più utile, il più efficace. Ho abolito gli alti commissari perché erano un duplicato dei prefetti, perché angustiavano l'esercizio dell'autorità dei prefetti, i quali soli hanno diritto di esercitarla; ma non saprei mai abolire il Gran Consiglio del Fascismo neppure se, per ipotesi, il Consiglio dei ministri si componesse domani di tutti membri fascisti.
Questo Governo, che è dipinto come liberticida, è stato forse troppo generoso.
Non è stata una rivoluzione incruenta per noi quella dell'ottobre: noi abbiamo lasciato decine e decine di morti, o signori. E chi ci avrebbe impedito in quei giorni di fare quello che han fatto tutte le rivoluzioni? Di liberarci, una volta per sempre, da tutti coloro che, abusando della nostra generosità, rendono difficile ora il nostro compito? Soltanto i socialisti della Giustizia di Milano hanno avuto il coraggio di riconoscere che, se essi sono ancora in vita, lo debbono a noi, che non abbiamo voluto nei primi momenti della Marcia su Roma che le Camicie Nere si macchiassero di sangue italiano.
Ma, o signori, non bisogna abusare di questa nostra generosità. Non mi pongo il problema se sia stato un bene o un male non avere agito in quei termini. Perché non me lo pongo? Ve lo dico con schiettezza che parrà brutale. Non me lo pongo perché, se domani fosse necessario, ho il coraggio, la volontà e i mezzi per poterlo fare ancora.
E non speri qualcuno nella crisi del Fascismo e non la distenda sulle colonne dei capaci giornali. Essa è finita; era una bega di piccoli capi. E si capisce; non si può sistemare tutto il mondo. Io ho sempre detto che la rivoluzione non può essere una sistemazione in cui ognuno trova la sua casella... e ci mangia dentro.
Il Fascismo è ancora e rimarrà per lungo tempo un partito semplicemente formidabile. Non fate come faceva il borghese dell'occidente che, ogni minuto, quando saltava su un Wrangel o un Judenic, pensava che quelle piccole bande disarmate e scalze potessero demolire il Governo dei Sovieti. L'altro giorno Lloyd George diceva che è un Governo assai solido.
E così, se vedrete che in una delle tante Peretole d'Italia c'è un dissidio, non argomentatene che il Fascismo è in crisi. Bisogna, o signori, introdurre nell'esame dei fenomeni della storia l'elemento durata, l'elemento tempo. E quando un partito ha il Governo nelle mani, lo tiene, se lo vuol tenere, perché ha delle forze formidabili da utilizzare per stabilire sempre più saldamente il suo dominio. Il Fascismo è un movimento sindacale che raccoglie un milione e mezzo di operai e contadini i quali — debbo dirlo a titolo di lode — sono quelli che non mi danno imbarazzi di sorta. Poi è un movimento politico che ha 550.000 iscritti e io ho chiesto di esser liberato di almeno 150.000 di questi signori. Quindi è un movimento militare: 300.000 camicie nere che esistono, che non attendono che d'esser chiamate. Poi finalmente c'è in tutto ciò un amalgama, un cemento che si potrebbe chiamare mistico e religioso, per cui, battendo su certi tasti, domani si avrebbe il suono di certe fanfare.
Ci si domanda: «-Vorrete dunque accamparvi in Italia come un esercito di nemici che opprime il resto della popolazione?-» Siamo alla filosofia della forza e del consenso.
Intanto ho il piacere di annunziare che al Fascismo hanno aderito masse imponenti di uomini, che meritano tutto il rispetto della Nazione. Al Fascismo hanno aderito l'Associazione dei mutilati e degli invalidi; al Fascismo ha aderito l'Associazione Nazionale dei combattenti; nell'orbita del Fascismo marciano anche le famiglie dei caduti in guerra. C'è molto popolo in queste tre Associazioni c'è molto consenso in questi mutilati, combattenti e famiglie di caduti. Sono milioni di persone. E davanti a questa collaborazione debbo proprio io andare a cercare tutti i frammenti, tutte le reliquie dei vecchi partiti tradizionali?
E debbo vendere la mia primogenitura ideale per il piatto di lenticchie che mi potrebbero offrire questi signori che non hanno seguito alcuno nel Paese?
No, non farò mai questo!
Ma se uno vuole collaborare con me, io l'accolgo nella mia casa. Però se questo collaboratore mi ha l'aria dell'inquisitore che controlla o dell'erede che aspetta, dell'uomo che sta in agguato per potere, a un certo momento, fare l'obliquo ragioniere dei miei errori, allora io dichiaro che di questa collaborazione non voglio assolutamente saperne.
Del resto c'è una forza morale in tutto ciò. In fondo, di che cosa ha sofferto la vita italiana negli anni passati? Ha sofferto del fenomeno del trasformismo.
Non c'erano mai dei confini precisi. Nessuno aveva il coraggio di essere quello che doveva essere. C'era il borghese che aveva delle arie socialistoidi, c'era il socialista che si era già imborghesito fino al midollo spinale. Tutta l'atmosfera era un'atmosfera di mezze tinte, d'incertezza; non si vedevano mai dei contorni nettamente tagliati e definiti. Ebbene il Fascismo nella vita italiana compie proprio questa funzione; prende gl'individui per il collo e dice: «-Dovete essere quello che siete. Se siete dei borghesi, dovete essere dei borghesi, dovete avere l'orgoglio della vostra classe, perché la vostra classe è la classe che ha dato il tipo della civiltà mondiale al secolo decimonono; se siete dei socialisti, dovete avere il coraggio di esserlo, affrontando gli inevitabili rischi che questa professione può portare-».
Lo spettacolo della Nazione in questo momento è soddisfacente, soddisfacente perché il Governo fa una politica dura, una politica crudele, se volete. Deve licenziare a migliaia i suoi funzionari: sono magistrati, sono ufficiali, sono ferrovieri, sono arsenalotti; e ogni licenziamento è un motivo di turbamento, di dolore, di disagio di migliaia di famiglie. Ho dovuto mettere delle tasse che feriscono certamente vasti strati della popolazione italiana. Questo popolo italiano non ha ancora avuti quelli che si potrebbero chiamare i vantaggi di ordine materiale; non li ha avuti. Il Governo non ha dato proprio nulla che si possa tradurre in contanti, niente: ebbene questo popolo è disciplinato, questo popolo è silenzioso, questo popolo è tranquillo, questo popolo lavora. Come vi spieghereste questo fenomeno, se non pensaste che questo popolo è tranquillo perché sa che c'è un Governo che governa e sa soprattutto che, se questo Governo colpisce con misure crudeli, strati della popolazione italiana, non lo fa perché si alzi al mattino con il capriccio di dire: «-Oggi voglio colpire i ferrovieri, gli arsenalotti o i postelegrafonici-». Lo fa perché ciò risponde ad una necessità suprema di ordine nazionale. Al di sopra di questa massa che si cifra a decine di milioni ci sono i gruppi irrequieti di politicanti di professione. Bisogna parlar chiaro: c'erano, prima di questo, parecchi Governi in Italia, i quali tremavano sempre davanti al giornalista, davanti al banchiere, davanti al gran maestro della Massoneria, davanti al capo più o meno clandestino del partito popolare; e bastava che uno di questi ministri in partibus battesse alla porta dell'anticamera del Governo, perché il Governo fosse colto da improvvisa paralisi. Ebbene, tutto ciò è finito: molti signori che si prendevano delle arie con i vecchi Governi, non li ho ricevuti e li ho fatti piangere perché il Governo è uno solo, il Governo della Nazione, e non conosce altri Governi all'infuori del suo e vigila attentamente. Non bisogna mai dormire quando si governa, non bisogna trascurare nessuno dei sintomi, ma tenere innanzi agli occhi tutto il panorama, vedere tutte le composizioni, le scomposizioni, le deformazioni dei partiti e degli uomini. Qualche volta è necessario per la tattica avere degli adattamenti, ma la strategia politica, la mia almeno, è intransigente e assoluta.
Avrei finito, anzi ho finito, se non dovessi dire ancora una parola che mi riguarda un po' personalmente. Io non nego ai cittadini quello che si potrebbe chiamare il jus murmurandi, ma non bisogna esagerare, non bisogna essere con le orecchie ritte, nella tema di pericoli che non esistono, e, credetemi, io non mi ubriaco di grandezza; vorrei, se fosse possibile, ubriacarmi di umiltà. E credete ancora, onorevoli senatori, che non mi passa nemmeno per la controcassa dell'anticamera del cervello quello che può balenare nei crocchi misteriosi, pieni di sospetti, di paure e calunnie. Io mi contento semplicemente di essere ministro; nessuno deve essere spaventato dal fatto che io vado a cavallo. Ci andavano anche D'Azeglio e Minghetti; e del resto se ciò si deve alla mia gioventù, questo è un male divino di cui si guarisce ogni giorno. Non ho ambizioni che oltrepassino la cerchia nettamente definita dei miei doveri e delle mie responsabilità.
Eppure, un'ambizione l'ho anch'io: più conosco il popolo italiano, più m'inchino dinanzi a lui; più m'immergo anche fisicamente nelle masse del popolo italiano, più sento che questo popolo italiano è veramente degno del rispetto di tutti i rappresentanti della Nazione.
La mia ambizione, o signori, sarebbe una sola: non m'importa per questo di lavorare 14 o 16 ore al giorno, non m'importerebbe nemmeno di lasciarci la vita, e non lo riputerei il più grande dei sacrifici! La mia ambizione è questa: vorrei rendere forte, prosperoso, grande e libero il popolo italiano!
Il discorso che ho l'onore di pronunziare dinanzi alla vostra alta assemblea potrà apparire analitico, perché si propone di toccare parecchie questioni, e di dire parole decisive su parecchi problemi, specialmente in materia di politica interna.
Con che non mi illudo di potere convincere quelli che sono gli oppositori di professione o per temperamento personale. Non vi stupirà se io comincio dalla politica estera anche se, per avventura, sia questa la materia in cui una opposizione seria e fondata non esiste, per cui si può legittimamente affermare che questa politica raccoglie la quasi unanimità nazionale.
Come già dissi altra volta, le direttive generali della politica estera dell'attuale Governo sono ispirate dalla necessità di una progressiva rivalutazione della nostra posizione diplomatica e politica nell'Europa e nel mondo. Sta di fatto che, salvo le acquisizioni territoriali con confini al Brennero e al Nevoso, confini strappati dopo una lunga e sanguinosa guerra vittoriosa, l'Italia è stata esclusa, nella pace di Versailles e nelle altre successive dai benefici di ordine economico e coloniale.
Patti solenni firmati durante la guerra passarono in decadenza e non furono sostituiti. La posizione di inferiorità fatta all'Italia ha pesato e pesa ancora molte sulla economia del nostro popolo. Ma è inutile ora insistere sulle recriminazioni del passato: bisogna piuttosto cercare di riguadagnare il terreno ed il tempo perduto. Non vi è dubbio che dall'ottobre ad oggi, malgrado le vecchie nuove difficoltà, la situazione è notevolmente migliorata.
Le altre Potenze, alleate o non, sanno che l'Italia intende seguire una politica di energica, assidua tutela dei suoi interessi nazionali: intende essere presente dovunque siano direttamente o indirettamente in giuoco i suoi vitali interessi, perché questo è il suo diritto e il suo preciso dovere. Ma nello stesso tempo è favorevole a quella azione politica di ordine generale che tende a normalizzare il più sollecitamente possibile la situazione economica del nostro continente.
L'Italia, che pure cammina alacremente verso il suo riassetto, vede continuamente turbata questa rinascita da elementi estranei di ordine generale. Giudico che ci sia un preciso interesse italiano nell'affrettare la soluzione pacifica della crisi europea. Ora tale crisi dal Trattato di Versailles in poi è dominata dal fatto riparazioni.
Innanzi a tale problema la posizione fondamentale dell'Italia è la seguente:
1°) La Germania può e deve pagare una somma, che ormai appare universalmente precisata, e che è assai lontana dalle molte centinaia di miliardi, di cui si parlò all'indomani dell'armistizio.
2°) L'Italia non potrebbe tollerare spostamenti o rivolgimenti di ordine territoriale che conducessero ad una egemonia di ordine politico economico e militare.
3°) L'Italia è disposta a sopportare la sua quota parte di sacrificio, se ciò si renderà necessario ai fini di quella che, ordinariamente, si chiama la ricostruzione della economia europea.
4°) Il Governo italiano sostiene oggi più che mai, soprattutto di fronte all'ultima nota tedesca, che il problema delle riparazioni e quello dei debiti interalleati europei sono intimamente connessi ed in certo senso interdipendenti.
Non vi è dubbio che la occupazione della Ruhr ha portato alla acutizzazione estrema la crisi delle riparazioni e quindi in un certo senso ne ha affrettata la soluzione.
Vale certamente la pena di precisare nelle loro linee essenziali i termini del progetto italiano, inglese e tedesco per avere il quadro della situazione nelle sue coincidenze, nelle sue diversità e trarre qualche previsione circa la possibilità di un accordo.
Ciò varrà anche a spiegare come a Parigi l'Italia non abbia potuto accettare il progetto Bonar Law, e come abbia dovuto respingere il recente memorandum Cuno-Rosemberg.
Il progetto italiano di Londra riduceva il debito tedesco a cinquanta miliardi di marchi oro. Proponeva una moratoria di due anni, durante la quale sarebbe continuata la consegna di riparazioni in natura da parte della Germania. Accettava la ripartizione dei pagamenti tedeschi, secondo le quote di Spa, per cui la quota italiana sarebbe stata di cinque miliardi di marchi oro. Stabiliva il pagamento di una parte dei buoni C, mediante i valori corrispondenti, dagli altri Stati ex-nemici o mediante l'annullamento di una parte dei detti buoni, uguale all'importo del debito verso l'Inghilterra che sarebbe rimasto così annullato. La restante trancia dei buoni C sarebbe stata impiegata nei riguardi del debito verso l'America. Ammetteva la presa di pegni economici a garanzia dei pagamenti tedeschi.
Il progetto inglese, presentato da Bonar Law a Parigi, manteneva i cinquanta miliardi di riduzione del debito tedesco: ma ne ripartiva fra gli alleati solo quaranta, gli altri dieci dovevano servire al pagamento delle spese per le armate di occupazione e per il rimborso alla Francia, agli Stati Uniti ed all'Inghilterra del debito di guerra belga.
Lo stesso progetto cancellava il debito italiano verso il Tesoro inglese, ma domandava all'Italia un miliardo e mezzo di marchi oro di riparazioni sui quattro assegnatile e la rinunzia del mezzo miliardo di lire oro che si trovava in deposito a Londra.
Concedeva alla Germania una moratoria di quattro anni e riduceva le forniture in natura a limitatissime quantità di carbone.
Prospettava un debito supplementare tedesco, capitalizzando al 1923, in una cifra di altri diciassette miliardi, gli interessi non pagati sui cinquanta durante i quattro anni di moratoria, ma sottoponeva la possibilità di questo debito supplementare al giudizio di una Commissione internazionale, di guisa che la sua consistenza appariva assai dubbia. Domandava infine l'impegno, per ciò che si riferisce al pagamento delle riparazioni dovute dall'Austria, dalla Bulgaria e dall'Ungheria, di accettare le proposte che l'Inghilterra si riservava di avanzare, proposte, cioè, di annullamento di quei debiti, come è risultato dalle dichiarazioni successive.
La quota italiana di riparazioni che il progetto italiano fissava in cinque miliardi di marchi oro, si riduceva così nel progetto inglese a meno della metà; mentre annullando i buoni C si aboliva con nostro danno, da un lato, la solidarietà tedesca sui debiti minori ex-nemici, e si rendeva, dall'altro, impossibile l'esecuzione dell'accordo del marzo 1921, che assicura seri vantaggi all'Italia, sulla base dei buoni C. La maggiore percentuale sui diciassette miliardi, rappresentanti gli interessi di moratoria capitalizzati al 1923, non poteva servire nei riguardi dei debiti americani, dato il carattere aleatorio di questi diciassette miliardi.
Non ricordo tutto ciò per aprire o riaprire polemiche, ma soltanto per precisare i termini di quello che fu e rimane un tentativo notevole di trovare una soluzione alla grave questione, tentativo che contiene elementi pregevoli, che potranno essere utilmente ripresi nel caso di una sistemazione definitiva.
Alla presentazione del progetto inglese seguì a breve distanza la conclusione di accordi tra l'Inghilterra e l'America sul progetto dei debiti ad opera dell'allora Cancelliere dello Scacchiere ed oggi Primo Ministro britannico.
Esula da questa sistemazione ogni idea di cancellazione del debito tedesco, o anche di una semplice compensazione attraverso la riscossione delle riparazioni: l'obbligo del pagamento, sia pure con agevolazioni, e per il numero degli anni in cui esso deve avvenire e per gli interessi da corrispondere, vi viene solennemente affermato e tradotto in atto.
Il discorso della Corona inglese mise l'accordo in speciale rilievo: né esso, pure fatta la debita parte alla diversità di potenza economica ed alla somma di sacrifici sopportati, poteva rimanere senza effetto sulla valutazione della intera questione da parte delle altre Potenze europee.
Se all'esame del progetto italiano ed inglese si fa seguire quello del progetto tedesco, la inaccettabilità dell'ultimo appare evidente. Come è noto, gli elementi fondamentali del penultimo progetto tedesco sono i seguenti: consolidamento del debito attuale della Germania, specie in natura, nella cifra di venti miliardi marchi oro, più altri dieci il cui pagamento è subordinato al giudizio di una Commissione internazionale.
Detratti gli interessi, gli stessi venti miliardi si riducono a quindici e le somme occorrenti devono essere date da prestiti internazionali; nel caso molto probabile che per il 1927 i venti miliardi non siano sottoscritti, si effettuerà il pagamento di una annualità rappresentante il quindici per cento di interesse più l'uno per cento di ammortamento. Manca infine nel progetto tedesco ogni disposizione e norma nei riguardi della garanzia richiesta.
Il debito capitale tedesco che nel progetto inglese ed in quello italiano veniva fissato nella cifra di cinquanta miliardi, nel progetto tedesco è ridotto a meno di un terzo. Difficile, se non impossibile, determinare la quota italiana in un simile progetto ed il sacrificio che all'Italia si domanda.
Date le sollecitatorie, specialmente dell'Inghilterra e dell'Italia, la Germania ha riconosciuto insufficienti le sue proposte, e ieri sera l'ambasciatore Neurath mi ha presentato la nuova nota tedesca, sul contenuto e natura della quale non posso pronunciarmi per motivi evidenti di riserbo; dovendo, attorno alla medesima nota, iniziarsi e svolgersi un'attività diplomatica fra tutti gli Alleati. Mi limiterò a dire soltanto che nella nota tedesca non si richiede più, per trattare, la preventiva evacuazione della Ruhr, il che potrebbe far credere ad una rinunzia da parte della Germania a quella resistenza passiva la cui utilità, anche ai fini tedeschi, appare sempre più dubbia, la cui cessazione gioverebbe forse a un più rapido raggiungimento della soluzione.
Ma il problema delle riparazioni non è soltanto franco-tedesco: è anche ungherese, bulgaro ed austriaco. È inutile precisare a che punto sia la situazione nei confronti di questi tre paesi ex-nemici.
L'ammontare delle riparazioni ungheresi, che non fu fissato dal trattato di pace del Trianon, non è stato ancora determinato dalla Commissione delle riparazioni e l'Ungheria a tutt'oggi non ci ha dato che limitate forniture in natura.
Il Governo ungherese, allegando le disagiate condizioni economiche e finanziarie del paese, denunciate dalla grave svalutazione della corona, ha di recente prospettato la necessità di contrarre un prestito all'estero che per riuscire dovrebbe essere garantito sulle dogane, sul monopolio dei tabacchi e all'occorrenza su altri cespiti di entrata. Da qui il bisogno che tali cespiti siano liberati per un adeguato periodo di tempo dal vincolo delle riparazioni.
Un memoriale appunto in tal senso è stato presentato recentemente dal Ministro d'Ungheria in Parigi alla Commissione delle riparazioni.
Il Governo italiano, esaminata la questione dal punto di vista tecnico, ha ritenuto che fosse indispensabile concedere all'Ungheria la temporanea liberazione di alcuni cespiti, affinché essa possa procedere alla propria restaurazione economica, mediante prestiti da contrarre all'estero.
Si è mostrato quindi in massima favorevole da parte sua all'anzidetta domanda ungherese, circondando la concessione di alcune condizioni necessarie a garantire i propri diritti. Ed in ciò si è trovato d'accordo col Governo britannico.
La Commissione delle riparazioni, che ha negli ultimi giorni del maggio scorso discusso quella domanda, ha accettato a maggioranza la tesi francese della Piccola Intesa, nel senso di non opporsi alla richiesta inglese di sospensione temporanea del privilegio sui redditi ungheresi, necessari per garantire i prestiti autorizzati: ma di non accordare tale facilitazione se non a condizione che una parte del ricavato dei prestiti fosse destinata alle riparazioni. L'Italia e l'Inghilterra non hanno creduto di aderire a tali condizioni, perché risultava in modo positivo che i prestatori esteri non avrebbero in alcun modo consentito l'operazione, se il ricavo del prestito non fosse stato destinato unicamente alla restaurazione economica del paese debitore.
La Commissione delle riparazioni ha stabilito inoltre di inviare subito in Ungheria una Commissione, per esaminare sopra luogo la situazione finanziaria ed economica del paese.
L'Ungheria ora insiste nel far presente che a tali condizioni non le riesce di contrarre il prestito e che di conseguenza la sua posizione va ognor più aggravandosi.
Mentre la Commissione suddetta prepara il suo responso, non è escluso che la Commissione delle riparazioni possa esaminare contemporaneamente alcune transazioni complementari.
Nei riguardi delle riparazioni bulgare l'Italia, la Gran Bretagna e la Francia il 31 marzo scorso sono addivenute ad un accordo con il Governo bulgaro, per facilitargli il modo di pagamento del suo debito di duemila duecentocinquanta milioni di franchi oro, fissato dal Trattato di Neuilly, col dividerlo in due parti, l'una di cinquecentocinquanta milioni da pagarsi ratealmente a cominciare dall'ottobre di quest'anno e l'altra di mille settecento milioni da reclamarsi non prima di 30 anni.
La Bulgaria si è obbligata con questo accordo a riservare al regolamento del suo debito i proventi delle sue dogane, ed ha già all'uopo emesso una legge.
L'accordo è stato approvato anche dalla Commissione delle riparazioni, con la riserva dei nostri diritti per il rimborso delle spese delle armate di occupazione italiane.
In effetto sono in corso negoziati col Governo bulgaro per il regolamento di detto nostro credito, che gode del privilegio della priorità sulle stesse riparazioni.
Il Regio Governo, animato da favorevoli disposizioni in tutto quanto concerne la sistemazione degli obblighi dipendenti dalla guerra, non ha avuto difficoltà ad accettare un tale accordo, che costituisce una forma di impegno concreto, garantito da un reddito sufficiente ad assicurarne l'esecuzione.
Mantenendo l'impegno assunto dai suoi predecessori, coi protocolli di Ginevra del 4 ottobre 1922, il Governo italiano ha dato opera coi Governi firmatari dei protocolli stessi, che il prestito a favore dell'Austria avesse una pronta e larga realizzazione.
A tal uopo ha consentito a postergare per 20 anni, quanto è la durata del prestito, il privilegio verso l'Austria per ricuperi di danno e per buoni di rifornimento alimentare; ha dato nella misura del 20,5 per cento la propria fideiussione ad un prestito massimo di cinquecentottantacinque milioni di corone oro ed ha autorizzato le banche italiane a concorrere direttamente al prestito, sino al limite massimo di duecento milioni di lire, ivi compresi i settantotto milioni di lire che l'Italia aveva antecedentemente prestati all'Austria e che a termini del protocollo di Ginevra avrebbero dovuto essere rimborsati in contanti.
Per il servizio del prestito sono stati pignorati, oltre quelli delle dogane e altri minori, i redditi lordi dei tabacchi austriaci, e perché essi fossero realmente rimunerativi e tali da non fare possibilmente appello alla fideiussione degli Stati garanti, i Governi di Inghilterra e di Francia hanno consentito che l'Amministrazione dei tabacchi venga dal Commissario generale affidata ad un italiano, riconoscendo con ciò implicitamente l'eccellenza della nostra Regia.
Concedendo le accennate facilitazioni per le riparazioni austriache ed accordando una fideiussione ad un concorso diretto e cospicuo al prestito a favore dell'Austria, il Governo italiano ha voluto offrire il suo concorso a quell'indipendenza politica ed integrità territoriale della Repubblica d'Austria a cui accennano i protocolli di Ginevra, ed a cui, voglio notare, hanno anche contribuito gli Stati Uniti d'America, sottoscrivendo fiduciosi per la prima volta ad un prestito europeo.
L'azione politica dell'Italia verso gli Stati della Piccola Intesa, e in genere verso gli Stati successori, è ispirata sostanzialmente dall'opportunità di eseguire il rispetto e l'osservanza scrupolosa dei trattati, perché, nelle attuali contingenze, solo tale politica può recare buoni e rapidi frutti per una sistemazione economica degli Stati danubiani che contribuirebbe a quella più larga dell'Europa Centrale. In varie occasioni l'azione amichevolmente moderatrice dell'Italia si è svolta in tal senso con utili risultati.
Nei riguardi di tale politica hanno speciale importanza i rapporti dell'Italia con la Jugoslavia.
L'atteggiamento netto assunto dal Governo nei riguardi della Jugoslavia, col procedere alla definitiva applicazione del Trattato di Rapallo, avendo fortificata la nostra posizione di fronte al diritto, ci ha messo in grado di poggiare su una solida base ogni ulteriore sviluppo della nostra politica.
L'esecuzione delle convenzioni di Santa Margherita, naturalmente laboriosa per la vastità della materia che investe, può dirsi che procede, in generale, in modo soddisfacente.
Malgrado le difficoltà iniziali in ogni regime eccezionale, funziona, già dal tempo dello sgombero degli ultimi territori dalmati, il regime economico della cosiddetta «-zona speciale-» di Zara, e sono stati costituiti vari organi pel regolamento di tutta la complessa materia, oggetto delle convenzioni.
Ma, naturalmente, la questione più importante da sistemare è quella di Fiume. Essa, come è noto, presenta le più gravi difficoltà, implicando, per assicurare l'avvenire della vita economica della città, la soluzione di molti complessi problemi di carattere economico, spesso contrastanti con quelli di carattere politico. Certo, sulla speditezza della soluzione di tale questione ha gravemente pesato la recente lunga crisi parlamentare jugoslava, che per molto tempo ha dovuto raccogliere quasi esclusivamente sui problemi interni l'attenzione del Governo di Belgrado. Quel Governo ci ha fatto ripetutamente conoscere i suoi intendimenti di risolvere la questione in modo soddisfacente per i sentimenti e per gli interessi dell'Italia e ci ha anche francamente manifestato quali siano le reali difficoltà che esso incontra per far accettare alle popolazioni interessate la soluzione consona al punto di vista italiano.
Nell'intento di assicurare ai lavori della Commissione paritetica un ambiente di maggior serenità, il Governo di Belgrado Ha intanto consentito a trasferirne la sede a Roma.
La delegazione jugoslava è giunta; tra essa e la delegazione nostra, che agisce con alto senso di patriottismo e di probità politica, sono ora in corso preliminari conversazioni allo scopo di concretare alcune basi fondamentali, prima di riprendere le discussioni ufficiali; in modo che queste possano procedere con la maggior possibile speditezza, senza soggiacere a deplorevoli ristagni, altrimenti inevitabili in così ardua materia.
La Conferenza di Losanna che, dopo la nota interruzione del febbraio scorso ha ripreso i suoi lavori il 23 aprile, li va lentamente ultimando, attraverso le non lievi difficoltà di varia natura, dipendenti dalla delicatezza e complessità delle questioni sottoposte al suo esame. L'azione svolta in ogni circostanza dalla delegazione italiana, è stata sempre improntata alla più serena ed equanime obbiettività, e l'efficacia di essa è stata riconosciuta e generalmente apprezzata al suo giusto valore.
L'Italia non può non considerare quali suoi vitali interessi il pronto ritorno alla normalità dei liberi traffici in Levante, lo sviluppo economico e il civile progresso di tutti i popoli abitanti sulle sponde del Mediterraneo orientale.
Quantunque non ancora tutte le questioni in discussione siano state risolte a Losanna, pure, per alcune di quelle che più direttamente interessavano il nostro Paese, si è raggiunta una soluzione in complesso soddisfacente.
La riserva sollevata dal Governo di Angora circa l'attribuzione all'Italia dell'isola di Castelrosso, il cui possesso da parte nostra non potrebbe in alcun modo giustificare un eventuale sospetto di nostre mire aggressive nei riguardi della Turchia, è stata esplicitamente da questa ritirata.
La nostra bandiera, già salutata fin dal suo apparire nell'isola, come simbolo di tranquillo benessere, continuerà a proteggere nell'avvenire una popolazione, che a noi plebiscitariamente si è affidata.
Per la nostra marina mercantile, che attraverso secolare tradizione è la più interessata nei mari del Levante, contribuendo così efficacemente allo sviluppo dei traffici della Turchia, si è potuto ottenere da questa che per due anni, dopo i quali sarà possibile concludere diretti accordi con il Governo turco, siano rispettati i diritti acquisiti in materia di cabottaggio, lungo le coste di quello Stato.E così, del pari, gli alleati si sono assicurati il rispetto dei diritti acquisiti dai rispettivi connazionali alla data del 1° gennaio 1923, per ciò che concerne l'esercizio delle professioni liberali in Turchia, col riconoscimento dei diplomi da essi conseguiti nei rispettivi paesi di origine. Tale questione interessava particolarmente gli italiani colà residenti, e per la sua soluzione favorevole la colonia italiana di Costantinopoli mi aveva, con ragione, fatto le più vive premure.
Il Governo italiano ha ottenuto anche che cadessero quelle clausole di interessamento formale del Sultanato, che gli accordi, che chiusero la guerra libica, avevano lasciato sussistere nelle nostre colonie dell'Africa settentrionale, e nello stesso tempo sono stati opportunamente tutelati gli interessi dei sudditi libici residenti in Turchia, i quali sono stati parificati nei diritti a cittadini italiani.
Della maggiore importanza per la Turchia si dimostrò, fin dall'inizio della conferenza, la questione relativa alla tutela giuridica degli stranieri; la conferenza è stata d'accordo nel definire i termini di tale tutela, concretandola in una formula che stabilisce per un periodo di cinque anni l'assunzione al proprio servizio, da parte dei Governo turco, di giureconsulti esteri, a cui è data facoltà di ricevere reclami sui giudicati e sull'operato dei magistrati turchi.
Con tale soluzione, così ampiamente benevola, che accompagna quell'abolizione delle capitolazioni da tanto tempo e tanto insistentemente dai turchi invocata, le Potenze europee hanno, in sostanza, aperto il più largo credito morale alla Turchia, sperando che essa sappia mostrarsi col fatto capace di organizzare rapidamente una Amministrazione giudiziaria al livello di quelle europee, e specialmente sappia imporre alle proprie autorità di polizia e giudicanti uno spirito di giustizia superiore ai piccoli interessi, quale Roma seppe insegnare al mondo.
Restano a Losanna tuttora in discussione alcune importanti questioni di interesse generale, quali quelle riferentisi al servizio del debito pubblico ottomano ed altre di natura economica, che mi auguro possano essere rapidamente risolte.
Gli attuali rapporti con la Russia sono regolati dagli accordi preliminari italo-russo ed italo-ukraini del 26 dicembre 1921. Proprio di questi giorni sono stati presentati al Parlamento progetti per la conversione in legge dei Regi decreti del 31 gennaio 1922, con i quali i detti accordi erano stati approvati, e che avevano trovato qualche ostacolo nella loro applicazione pratica, dando pretesto ai russi di violare gli accordi.
Noi non intendiamo così di rimuovere questi ostacoli per rendere più facili i rapporti economici fra i due paesi, e preparare il terreno alla eventualità di una intesa a base più larga senza soverchie illusioni, ma senza prevenzioni dannose. I contatti tra i due paesi a sistema i primi sei mesi di governo economico diverso, evidentemente presentano gravissime difficoltà che non sono però insormontabili, se dalle due parti ci sia la buona volontà di rimuoverle. La politica dell'Italia verso la Russia è chiara e non può dar luogo ad equivoci.
La presentazione al Parlamento dei decreti in parola è una prova di più delle nostre intenzioni e ci dà il diritto di attenderci dal Governo di Mosca la scrupolosa osservanza dei patti firmati, e fra i patti firmati è bene che il Governo russo ricordi l'impegno assunto di astenersi da ogni atto o iniziativa ostile al Regio Governo, ed a qualsiasi propaganda diretta o indiretta contro le istituzioni del Regno.
Non credo, per l'economia di questo discorso, scendere ad ulteriori dettagli. Dirò solo che particolarmente cordiali sono i rapporti fra Stati Uniti e Italia, e sono lieto di aggiungere che tanto il Governo quanto il popolo americano hanno pienamente compreso la nuova situazione politica italiana.
L'iniziativa presa dall'Italia, per il definitivo regolamento della frontiera della Polonia, ha sempre più cementati i vincoli di cordiale amicizia che uniscono da secoli i due paesi. Oltre che sul terreno politico, la loro collaborazione continua ad affermarsi anche su quello economico.
In questi stessi giorni il Governo polacco ha fatto all'industria italiana nuove importanti ordinazioni.
I colloqui ed i contatti da me avuti coi ministri di Austria, Romania, Ungheria, il viaggio recente di S. M. il Re d'Inghilterra, i trattati commerciali conclusi e da concludere sono altrettanti elementi di quella progressiva rivalutazione della nostra posizione diplomatica cui accennavo in principio. Il Governo fascista, sempre ai fini di questa rivalutazione, non appena insediato, annunciò alle Regie rappresentanze all'estero di ispirare l'azione politica fuori dei confini del paese alla rinnovata coscienza della Patria ed affrontò immediatamente il problema degli strumenti e degli uomini.
Effettivamente l'Amministrazione degli esteri, già di fronte a tante difficoltà esterne, ne trovava una grandissima al suo interno per l'insufficienza numerica dei suoi elementi. Gli strumenti della nostra opera così delicata all'estero dovevano essere rinsaldati, resi atti, come quantità e come spirito, al gran lavoro che da essa si richiede.
Si è quindi disposto fin dai primi di novembre per l'apertura dei concorsi alle carriere diplomatica e consolare ed alla carriera degli interpreti, e si è provveduto poi a circondare il personale di concetto di un servizio amministrativo e d'ordine che esonerasse il primo dalle cure assorbenti della contabilità, della custodia dei documenti e della cifrazione dei telegrammi, tutti compiti, che per le responsabilità minute che importano, finiscono col distogliere i funzionari dalle responsabilità più alte e più ampie.
Allo spirito delle carriere si è dedicata particolare attenzione, allargando la base del reclutamento, mediante l'abolizione del requisito della rendita, e riformando la carriera diplomatico-consolare in guisa da darle un reclutamento unico per dividerla poi in due ruoli separati, uno dei quali — il diplomatico — trarrà costantemente un terzo dei suoi elementi da quello consolare mediante passaggi laterali, in qualsiasi grado della carriera.
Al miglioramento dei servizi si è fatta corrispondere una diversa distribuzione di essi per quello che riguarda la rete consolare. Infatti, mentre immense regioni ove affluisce e si è stabilita da tempo la emigrazione italiana, sono state trovate prive di adeguata rappresentanza consolare, in quasi tutte le capitali accanto all'ufficio diplomatico esisteva un ufficio consolare di carriera, il quale, malgrado la sua diversa natura, pur rappresentava una duplicazione nei rispetti della presenza di una diretta tutela del nostro connazionale all'estero.
Senza disconoscere l'utilità di tali consolati nelle capitali, pure, di fronte alla necessità che si risentiva in altri luoghi, è sembrato inevitabile provvedere alla soppressione di essi, per poter invece provvedere alla creazione di altri, senza perdere di mira gli interessi dell'erario. I nuovi consolati, che sono in corso di creazione, sorgeranno in maggior parte nel Brasile, negli Stati Uniti, nel Messico e nell'India.
Concludendo, mi piace ripetere che la politica estera italiana, mentre intende salvaguardare gli interessi nazionali, vuole anche costituire nello stesso tempo un elemento di equilibrio e di pace in Europa. Credo, con questa politica, di interpretare le tendenze ed i bisogni del popolo italiano.
Vengo alla politica interna. I problemi dell'ordine pubblico sono i problemi dell'autorità dello Stato. Non v'è autorità dello Stato solida se l'ordine pubblico non è perfettamente normale; quindi ordine pubblico e autorità dello Stato sono i due aspetti dello stesso problema. Io domando a voi, domando alla Nazione: le condizioni dell'ordine pubblico sono migliorate o sono peggiorate dall'ottobre scorso?
Voci. — Migliorate!
Sento che qualcuno di voi dà già una risposta affermativa. Dico anch'io che sono migliorate quantunque io sia per temperamento piuttosto portato al pessimismo, e quindi al malcontento. Non si va mai abbastanza bene! Ma, o signori, quando si parla di ordine pubblico, bisogna stabilire dei raffronti: anche se sia odioso, essi sono necessari. L'inquietudine, il disagio, lo spirito di faziosità non sono soltanto un fenomeno italiano. Se noi gettiamo l'occhio al di là delle nostre frontiere, abbiamo motivo di ripetere che se Messene piange Sparta non ride.
Prendetemi i popoli vinti e guardate quello che accade in Austria, e in Germania; prendetemi i popoli vittoriosi: è di ieri uno sciopero dei funzionari pubblici nel Belgio che è costato all'erario e all'economia belga centinaia e centinaia di milioni di franchi; se poi rivolgete lo sguardo ai paesi neutrali (Spagna) troverete che anche là la vita non è eccessivamente comoda e brillante. Questo dico per coloro che ad ogni piccolo sparo di rivoltella in uno dei ventimila villaggi d'Italia credono di esser feriti da un colpo di 420. Ma poi soprattutto vale la pena di fare il raffronto in Italia e mettere da una parte la situazione dell'Italia nel biennio 1919-1920 e nel biennio successivo 1921-22. Il fatto dominante del biennio 1919-20 è costituito dall'occupazione delle fabbriche, dallo sciopero rotativo e permanente dei funzionari dei servizi pubblici, da un disgregamento di tutte le funzioni dell'autorità statale; e quantunque sia sommamente ingrato, bisogna pur ricordare che lo stesso nostro gloriosissimo esercito ebbe un episodio, ad Ancona, che dimostra come qualmente il tarlo fosse giunto assai profondo nell'organismo dello Stato italiano.
Fatto dominante di questo biennio, che chiameremo dell'orgia demagogica, l'occupazione delle fabbriche; fatto dominante del biennio successivo è la spedizione punitiva fascista. Vedete che io sono di una obbiettività straordinaria! I fascisti, per necessità di cose, sono andati all'assalto delle città a vaste masse e armati. Oggi tutto ciò è finito, oggi i funzionari dei servizi pubblici non fanno e non faranno sciopero.
Quando i postelegrafonici fascisti sono venuti da me per protestare, perché in seguito ad un telegramma di protesta al mio collega Di Cesarò erano stati puniti, ho detto loro che se fossi stato il collega delle Poste li avrei puniti due volte, e ho detto che, perché fascisti, essi avrebbero dovuto riconoscere la necessità di questa severa disciplina.
La situazione dell'ordine pubblico nel secondo semestre dell'anno decorso raggiunge il suo apice di disintegrazione; c'è nell'agosto uno sciopero; lo sciopero antifascista, sciopero che paralizza completamente lo Stato. Lo Stato non agisce, agiscono, in vece delle forze dello Stato, le forze del Fascismo. È allora, o signori, che io ho detto che di due bisognava fare uno, è da allora che io ho detto che dal momento che c'era uno Stato inattuale, uno Stato svuotato di tutti gli attributi della sua virilità, e c'è uno Stato in potenza che sorge, fortissimo, che saprà imporre una disciplina alla Nazione, è necessario che ci sia la sostituzione, mediante un atto rivoluzionario dello Stato che sorge allo Stato che declina inesorabilmente.
Lo sciopero antifascista dell'agosto fu seguito dall'occupazione fascista delle città di Bologna e di Bolzano.
L'autorità dello Stato presentava lo spettacolo di macerie, di rovine infinite. Ora la rubrica dei conflitti non appare più sui giornali; e la rissa domenicale non può farsi passare come conflitto: perché conflitto ci sia, deve essere collettivo e politico.
Vi ripeto, onorevoli senatori, sono così imparziale da dirvi che in questi ultimi giorni c'è stata una leggera recrudescenza: da che cosa essa dipende? Ve lo dico con franchezza: dalla riapertura della Camera! La sede delle interrogazioni con lo spettacolo che offre alla Nazione, è quella che riverbera e che getta in mezzo alle masse impulsive, eccitabili, sentimentali, i germi di conflitti e di discordie.
In secondo luogo, l'atteggiamento di una corrente del liberalismo italiano è una grandissima bazza per i sovversivi, perché essi trovano in costoro degli alleati insperati, inopinati, i quali sollevano delle enormi vesciche, che io mi riprometto di bucare con lo spillo della mia logica e della mia sincerità prima di finire il discorso! Poi, forse forse, c'è questo: che certi signori, quando si sono accorti che non hanno più da temere l'illegalismo fascista e il legalismo governativo che è lento, perché deve rispettare tutte le procedure, hanno ripreso baldanza e fanno quell'illegalismo che richiamerà in vita un altro illegalismo fascista.
Quali misure sono state adottate per ristabilire l'ordine pubblico? Prima di tutto il rastrellamento degli elementi così detti sovversivi: si è gridato alle retate in grande stile, ma in realtà è stata cosa assai modesta; su 2000 arrestati quelli che si trovano ancora in carcere non arrivano a 150.
Sono affidati completamente alla magistratura: erano degli elementi di disordine e degli elementi sovversivi: può essere che la pratica liberale consenta di lasciar mano libera a questi elementi, ma io non mi sento di seguire questa pratica!
All'indomani di ogni conflitto io davo l'ordine tassativo di rastrellare il maggior numero possibile di armi d'ogni specie e qualità; questi rastrellamenti hanno dato risultati discreti.
Sono stati sequestrati, nel periodo dal marzo alla fine di aprile, armi lunghe da fuoco da guerra, 29.257; armi corte da fuoco 1048; armi da punta e da taglio 7228; armi diverse 249. Munizioni per armi lunghe da fuoco, cartucce 1.110.000; munizioni per armi corte da fuoco, 82.000. Esplodenti diversi 1086 (e cioè bombe, petardi e simili aggeggi). Sono state sequestrate 29 scatole di dinamite; mezza cassetta di gelatina e chilogrammi 30 della stessa gelatina. Ci sono anche le armi comuni sequestrate e cioè: armi lunghe da caccia 2655; corte 2444; armi comuni da punta e da taglio 1089.
Va da sé che questo rastrellamento continua con la maggiore energia.
Poi ho dovuto reprimere ogni atto di illegalismo: si dice che qualche bicchiere di olio di ricino viene ancora distribuito qua e là; ma ho già detto all'altro ramo del Parlamento che i colpevoli di questi reati vengono severamente puniti.
Tutti questi provvedimenti sarebbero stati insufficienti se io non avessi restituito la piena autorità ai prefetti delle provincie. Ripeto ancora una volta che il Prefetto e il Questore sono gli unici legittimi autorizzati rappresentanti dell'autorità dello Stato nelle provincie del Regno.
Poi, vincendo le resistenze legittime del mio amico De Stefani, ho migliorato le condizioni dei funzionari di P. S., i quali sono oggi validamente tutelati in senso morale e politico dal Governo.
Ma il problema più spinoso, che ho dovuto affrontare e risolvere e l'ho risolto, è il problema degli squadrismi. Ognuno di questi squadrismi era un grandissimo colpo di piccone all'autorità dello Stato e siccome io penso, per assioma, che lo Stato ha il diritto e il dovere di avere forze armate, ho detto che queste multicolori camicie, ad un dato momento, dovevano essere completamente bandite dalla circolazione. E ce ne erano delle nere, delle azzurre, delle cachi, delle rosse, delle grigie, delle verdi, e delle bianche. Vi ripeto che non era un problema facile, perché molti di questi squadrismi agivano sul terreno nazionale, comprendevano patrioti, ex-combattenti, feriti, mutilati e decorati. Ma bisognava finirla, ed allora un decreto del Consiglio dei Ministri ha deciso che dal 1° febbraio tutti gli squadrismi erano aboliti, non si permettevano che squadrismi di gente di età inferiore ai 12 anni. La misura è stata generalmente osservata, ma c'era uno squadrismo speciale che mi poneva avanti ad un problema con riflessi di ordine morale e storico: il problema dello squadrismo fascista. Bisognava disperderlo, dire a questa gente: «andate a casa, tutto è finito»? Non si poteva! Prima di tutto perché sarebbe stata una ingratitudine enorme, in secondo luogo perché sarebbe stato pericoloso; e d'altra parte dovevo trasformare questo squadrismo, che aveva agito sul terreno dell'illegalismo, in un organo che fosse alle dipendenze dirette dello Stato. Ci sono riuscito, non completamente, ma dovete pensare che gli squadrismi sono stati aboliti al 1° febbraio di quest'anno di grazia e non si può in tre mesi prendere dei giovani, che erano stati abituati per due anni ad una ginnastica specialissima, e farne dei soldatini di piombo.
E si è detto: «-Perché questa milizia non ha prestato giuramento di fedeltà a S. M. il Re?-». Voi credete che non abbiamo pensato a questo. Errore! Ci siamo decisi in senso negativo, perché abbiamo pensato che la persona del Re, simbolo della Patria, simbolo della perpetuità della patria, non può essere messa a capo di una milizia, che aveva, per necessità di cose, più che per volontà di uomini, un carattere spiccatissimo di partito. Ora questa milizia sta continuamente raffinandosi: si procede ad un'opera severissima di selezione. Del resto la cronaca quotidiana documenta tutto ciò.
C'era un altro problema a proposito dei quadri della milizia. Il problema di contemperare la necessità dei quadri superiori, che dovevano essere affidati ad uomini provenienti dall'Esercito e con una vasta esperienza militare e personale, col riconoscimento e la gratitudine che si doveva ai piccoli capi dello squadrismo fascista il quale aveva domato, lasciando centinaia di morti gloriosissimi, il sovversivismo demagogico. Abbiamo risolto questo problema. Tutti i gradi di ufficiali superiori a Seniore sono assegnati ad ufficiali che vengono dall'Esercito; tutti i gradi inferiori, quelli che potrebbero essere chiamati i gradi subalterni, e i sottufficiali, sono stati assegnati ad elementi dello squadrismo che hanno sempre un passato militare e che sempre debbono avere delle qualità morali ineccepibili.
Del resto le statistiche valgono sempre più dei discorsi.
Gli ufficiali superiori della milizia, di grado superiore a Seniore, vengono, per il 97 per cento dagli ufficiali del Regio Esercito. Gli altri rappresentano il 3 o 4 per cento. Su circa 230 ufficiali superiori al grado di Seniore vi sono 20 ricompensati nei vari gradi dell'Ordine militare di Savoia, 12 medaglie d'oro, 130 medaglie d'argento, 80 medaglie di bronzo.
E bisogna, anche a costo di abusare della vostra pazienza, e siccome questa è una giornata di chiarimenti, che vi legga lo stato di servizio dei capi della milizia nazionale:
Generale De Bono (generale di corpo d'armata dell'Esercito): tre medaglie d'argento, una promozione straordinaria per merito di guerra, croce di guerra;
Generale Gandolfo (generale di corpo d'armata): 2 medaglie d'argento, promozione straordinaria per merito di guerra;
De Vecchi: 4 medaglie d'argento; 2 medaglie di bronzo; 2 croci di guerra;
Balbo: medaglia d'argento, croce di guerra;
Fara (il generale conosciutissimo in tutta Italia): una medaglia d'oro, due medaglie d'argento, promozione per merito di guerra;
Stringa (altro maggiore generale dell'Esercito): 3 medaglie d'argento, una medaglia di bronzo, mutilato di guerra;
Pero Clemente (altro maggiore generale dell'Esercito): 2 medaglie d'argento, croce di guerra;
Ceccherini (maggiore generale dell'Esercito): 3 medaglie d'argento, 2 medaglie di bronzo;
Zamboni (maggiore generale dell'Esercito): una medaglia d'argento, una di bronzo;
Guglielmotti (maggior generale dell'Esercito): 2 medaglie d'argento.
Seguono poi: maggiore Giuriati: 2 medaglie d'argento; Acerbo: 3 medaglie d'argento; Caradonna: 3 medaglie d'argento; Finzi: una medaglia d'argento e due croci di guerra, ecc., ecc.
E non voglio, per non confondere la modestia dei miei amici, continuare a leggere l'elenco di questi ufficiali della milizia nazionale.
Ho letto tutto ciò per dimostrarvi che la milizia è una cosa seria, e lo sta diventando ogni giorno di più, perché così io voglio, perché tutti i capi questo vogliono.
Ci si domanderà: perché la milizia resta? Ve lo dico subito: per una ragione molto semplice; per difendere la Rivoluzione fascista all'interno ed anche all'estero.
La frase «estero» può impressionarvi. Ebbene c'è all'estero un ambiente difficile per il Fascismo italiano. Difficile a destra e difficile a sinistra. Difficile a destra, in quanto l'elemento destro è un elemento nazionale, il quale non può essere entusiasta di un movimento che esalta i valori nazionali. D'altra parte l'elemento sinistro ci è avverso dal punto di vista sociale, perché sa che il movimento fascista è nettamente antisocialista. Allora è bene che si sappia che a difendere la Nazione, a difendere quella speciale forma di reggimento politico che si chiama Fascismo, vi è una potentissima armata di volontari. Secondo: per permettere all'Esercito di fare il suo mestiere: l'Esercito deve fare la guerra, deve prepararsi alla guerra, non deve fare della polizia, specialmente politica, se non in casi assolutamente eccezionali, che in questo momento non voglio assolutamente presentare nemmeno come ipotesi.
Stanotte, per mio ordine personale, si è bloccato un intero quartiere di Livorno.
Ebbene, 100 carabinieri e 300 camicie nere sono bastati. L'Esercito, le truppe e gli ufficiali dormivano tranquillamente nelle loro caserme, come era loro diritto e dovere. Eppoi, credetemi, finché in Italia si sa che, oltre ad alcune decine di migliaia di carabinieri fedelissimi, c'è questa enorme forza, i conati rivoltosi, i conati di sedizione non saranno mai osati.
Se dopo questi sei mesi di Governo, io mi volgo indietro e abbraccio con un colpo d'occhio, come si abbraccia un panorama, quello che è successo in sede politica, vedo tre fenomeni interessanti: tre fenomeni che io chiamerei tentativi di aggiramento del Fascismo.
Ad un certo momento, nel novembre, si comincia a parlare di unità operaia: bisogna mettersi tutti insieme sotto una bandiera vagamente nazionale, che doveva coprire parecchie merci di contrabbando. Il nome di Gabriele D'Annunzio era una carta che veniva frequentemente giuocata da questi ambigui zelatori dell'unità operaia.
Ci voleva poco a capire che si trattava di una mistificazione, attraverso la quale parecchi elementi, che si ritenevano espulsi dalla scena politica, volevano rientrarvi.
Bastò dire che le Corporazioni assumessero il nome di fasciste e questa speculazione cessò d'incanto.
Secondo: il contraltare nazionalista. Bisogna dire che da Roma in su nazionalisti e fascisti sono andati sempre d'accordo; erano due corpi in un'anima sola. A Milano, dove ho vissuto e lottato, non si è mai avvertita questa differenza. Ora va a succedere che dopo la marcia su Roma c'è una primavera enorme di nazionalismo, soprattutto da Roma in giù. Evidentemente, elementi dubbi volevano, attraverso questo contraltare, fare o preparare una opposizione al Governo fascista.
Anche questo ostacolo è stato superato con la fusione e mi sia concesso di rendere omaggio solenne allo spirito di lealtà assoluta e di ferma disciplina, allo spirito, cioè, con cui i nazionalisti sono entrati nelle file del Fascismo. Finalmente, ed è manovra di quest'ultimi giorni, sono spuntati in Italia i fieri difensori dello Statuto, della libertà e del Parlamento. Sembra, a sentire questi signori che avevano dimenticato da parecchio tempo l'esistenza dello Statuto, anche a semplice titolo di documento storico, che lo Statuto corra supremo pericolo e che non si possa nemmeno discuterlo, nemmeno esaminarlo.
Credo che nessuno di voi possa ritenere Camillo conte di Cavour un bolscevico o un fascista del 1848. Ebbene ognuno di voi sa che il moto costituzionale del Piemonte è stato opera di Camillo Cavour; ognuno sa come venne largita la costituzione politica. Ci fu un tumulto a Genova contro i gesuiti ritenuti assertori dell'assolutismo; una commissione di genovesi parte, va a Torino e chiede la cacciata dei gesuiti e la guardia civica; ma Camillo Cavour dice: «-Questo è poco, i tempi sono maturi per ben altro-».
Scrive Cavour nel suo giornale Il Risorgimento: «-Bisogna chiedere la costituzione-», e questa fu promulgata il 4 marzo.
Nel preambolo è detto: «-Lo Statuto è la legge fondamentale perpetua e irrevocabile della Monarchia-». Quattro giorni dopo si formò il primo ministero costituzionale di coalizione col moderato Balbo e il democratico Pareto, e poiché la frase: «-lo Statuto è la legge fondamentale perpetua e irrevocabile della Monarchia-» aveva ferito le orecchie dei democratici, Camillo Cavour si affrettava ad interpretarla, in senso relativo o relativista. Vale la pena di ascoltare attentamente questo brano di Camillo Cavour: «-Come mai — affermava — si può pretendere che il legislatore abbia voluto impegnare sé e la Nazione a non mai portare il più leggero cambiamento diretto ad operare il menomo miglioramento di una legge politica? Ma questo sarebbe voler far sparire il potere costituente dal seno della società, sarebbe privarla dell'indispensabile potere di modificare le sue forme politiche a seconda delle nuove esigenze sociali, sarebbe un concetto talmente assurdo, che non poteva venir concepito da nessuno di coloro che cooperarono alla redazione di questa legge fondamentale. Una Nazione non può spogliarsi della facoltà di mutare con mezzi legali le sue leggi comuni-».
Non passò molto tempo che la cronaca dovette registrare una prima violazione dello Statuto, il quale presumeva e presume che per essere deputato bisogna essere cittadino italiano. Il giorno 16 ottobre si era verificata una divisione tra la Destra e la Sinistra. Nella prima vi erano i moderati ed i municipali, nella seconda i democratici, così detti «-Teste bruciate-», ed i repubblicani.
Il 17 questi due partiti si trovarono uniti per proclamare, al disopra dello Statuto, che potevano far parte del Parlamento Subalpino tutti gli italiani di qualunque regione; e ciò all'unanimità. Il primo a beneficiare di questa violazione dello Statuto sarebbe stato Alessandro Manzoni, se il grande scrittore non avesse declinato il mandato con una lettera che è un monumento di castigatezza e di probità politica.
Nessuno, o signori, nessuno di noi vuole abbattere o distruggere lo Statuto. Lo Statuto è piantato solidamente nei suoi muri maestri; ma gli inquilini di questo edificio, dal '48 ad oggi, sono cambiati; vi sono altre esigenze, altri bisogni, non vi è più l'Italia piemontese del 1848.
Ed è oltremodo strano vedere fra i difensori dello Statuto quelli che lo hanno violato nelle sue leggi fondamentali; quelli che hanno diminuito le prerogative della Corona, quelli che volevano render la Corona totalmente estranea alla politica della Nazione, facendone una cosa morta e lontana nello spazio e nel tempo.
Si dice che questo Governo non ami la Camera dei Deputati. Si dice che si vuole abolire il Parlamento o svuotarlo di tutti i suoi attributi essenziali. Signori, sarà tempo di dire che la crisi del Parlamento non è una crisi voluta dal sottoscritto o da quelli che seguono le mie idee: il parlamentarismo è stato ferito non a morte, ma gravemente, da due fenomeni tipici del nostro tempo: da una parte il sindacalismo, dall'altra il giornalismo; il sindacalismo, che raccoglie in determinate associazioni tutti quelli che hanno interessi speciali e particolari da tutelare e che vogliono sottrarli alla incompetenza manifesta dell'assemblea politica; ed infine il giornalismo, che è il parlamento quotidiano, la tribuna quotidiana, dove uomini venuti dall'Università, dalle scienze, dall'industria, della vita vissuta, vi sviscerano i problemi con una competenza che si trova assai difficilmente sui banchi del Parlamento. Ed allora questi due fenomeni tipici dell'ultimo periodo della civiltà capitalistica sono quelli che hanno ridotto la importanza enorme che si attribuiva ai Parlamenti. Insomma il Parlamento non può più contenere tutta la vita di una Nazione, perché la vita delle Nazioni moderne è eccezionalmente complessa e difficile.
Dire questo non significa dire che vogliamo abolire il Parlamento. Affatto; anzi vogliamo migliorarlo, perfezionarlo, correggerlo, farne una cosa seria, se è possibile, una cosa solenne. E del resto, se volessi abolire il Parlamento, non avrei presentato una legge elettorale. Questa legge elettorale, a lume di logica, presuppone delle elezioni: si sa già fin da questo momento che, attraverso a queste elezioni, vi saranno dei deputati i quali comporranno il Parlamento; per cui nel 1924 vi sarà un Parlamento.
Si dice che il Fascismo ha creato dei duplicati. Signori, questi duplicati non esistono. Il Grande Consiglio fascista non è un organo duplicato del Consiglio dei ministri o superiore al Consiglio dei ministri. Il Grande Consiglio del Fascismo si è riunito quattro volte. Il Grande Consiglio, non ha mai affrontato i problemi che sono di pertinenza del Consiglio dei ministri. Di che cosa si è occupato il Grande Consiglio del Fascismo? Nella sessione di febbraio il Grande Consiglio del Fascismo si è occupato della Milizia Nazionale e della Massoneria; ha fatto un omaggio ai dalmati e fiumani; si è occupato dei Fasci all'estero. Nella sessione di marzo ha predisposto le cerimonie per il Natale di Roma e si è occupato di sindacalismo. Nella quarta sessione di aprile si è occupato del Congresso di Torino ed ancora del sindacalismo.
Voi vedete che tutti i grandi problemi dell'amministrazione dello Stato, della riorganizzazione delle nostre forze armate, della riforma delle circoscrizioni giudiziarie, della riforma delle scuole medie, tutte le misure di ordine finanziario, dalla nominatività dei titoli all'introduzione dell'imposta sul reddito agrario, sono tutte misure che sono state adottate dall'ente responsabile e diretto: il Consiglio dei ministri.
Ed ora che cosa è il Grande Consiglio del Fascismo?
È l'organo di coordinazione, fra le forze responsabili del Fascismo. E fra tutti gli organi creati dopo la rivoluzione di ottobre il Gran Consiglio del Fascismo è il più originale, il più utile, il più efficace. Ho abolito gli alti commissari perché erano un duplicato dei prefetti, perché angustiavano l'esercizio dell'autorità dei prefetti, i quali soli hanno diritto di esercitarla; ma non saprei mai abolire il Gran Consiglio del Fascismo neppure se, per ipotesi, il Consiglio dei ministri si componesse domani di tutti membri fascisti.
Questo Governo, che è dipinto come liberticida, è stato forse troppo generoso.
Non è stata una rivoluzione incruenta per noi quella dell'ottobre: noi abbiamo lasciato decine e decine di morti, o signori. E chi ci avrebbe impedito in quei giorni di fare quello che han fatto tutte le rivoluzioni? Di liberarci, una volta per sempre, da tutti coloro che, abusando della nostra generosità, rendono difficile ora il nostro compito? Soltanto i socialisti della Giustizia di Milano hanno avuto il coraggio di riconoscere che, se essi sono ancora in vita, lo debbono a noi, che non abbiamo voluto nei primi momenti della Marcia su Roma che le Camicie Nere si macchiassero di sangue italiano.
Ma, o signori, non bisogna abusare di questa nostra generosità. Non mi pongo il problema se sia stato un bene o un male non avere agito in quei termini. Perché non me lo pongo? Ve lo dico con schiettezza che parrà brutale. Non me lo pongo perché, se domani fosse necessario, ho il coraggio, la volontà e i mezzi per poterlo fare ancora.
E non speri qualcuno nella crisi del Fascismo e non la distenda sulle colonne dei capaci giornali. Essa è finita; era una bega di piccoli capi. E si capisce; non si può sistemare tutto il mondo. Io ho sempre detto che la rivoluzione non può essere una sistemazione in cui ognuno trova la sua casella... e ci mangia dentro.
Il Fascismo è ancora e rimarrà per lungo tempo un partito semplicemente formidabile. Non fate come faceva il borghese dell'occidente che, ogni minuto, quando saltava su un Wrangel o un Judenic, pensava che quelle piccole bande disarmate e scalze potessero demolire il Governo dei Sovieti. L'altro giorno Lloyd George diceva che è un Governo assai solido.
E così, se vedrete che in una delle tante Peretole d'Italia c'è un dissidio, non argomentatene che il Fascismo è in crisi. Bisogna, o signori, introdurre nell'esame dei fenomeni della storia l'elemento durata, l'elemento tempo. E quando un partito ha il Governo nelle mani, lo tiene, se lo vuol tenere, perché ha delle forze formidabili da utilizzare per stabilire sempre più saldamente il suo dominio. Il Fascismo è un movimento sindacale che raccoglie un milione e mezzo di operai e contadini i quali — debbo dirlo a titolo di lode — sono quelli che non mi danno imbarazzi di sorta. Poi è un movimento politico che ha 550.000 iscritti e io ho chiesto di esser liberato di almeno 150.000 di questi signori. Quindi è un movimento militare: 300.000 camicie nere che esistono, che non attendono che d'esser chiamate. Poi finalmente c'è in tutto ciò un amalgama, un cemento che si potrebbe chiamare mistico e religioso, per cui, battendo su certi tasti, domani si avrebbe il suono di certe fanfare.
Ci si domanda: «-Vorrete dunque accamparvi in Italia come un esercito di nemici che opprime il resto della popolazione?-» Siamo alla filosofia della forza e del consenso.
Intanto ho il piacere di annunziare che al Fascismo hanno aderito masse imponenti di uomini, che meritano tutto il rispetto della Nazione. Al Fascismo hanno aderito l'Associazione dei mutilati e degli invalidi; al Fascismo ha aderito l'Associazione Nazionale dei combattenti; nell'orbita del Fascismo marciano anche le famiglie dei caduti in guerra. C'è molto popolo in queste tre Associazioni c'è molto consenso in questi mutilati, combattenti e famiglie di caduti. Sono milioni di persone. E davanti a questa collaborazione debbo proprio io andare a cercare tutti i frammenti, tutte le reliquie dei vecchi partiti tradizionali?
E debbo vendere la mia primogenitura ideale per il piatto di lenticchie che mi potrebbero offrire questi signori che non hanno seguito alcuno nel Paese?
No, non farò mai questo!
Ma se uno vuole collaborare con me, io l'accolgo nella mia casa. Però se questo collaboratore mi ha l'aria dell'inquisitore che controlla o dell'erede che aspetta, dell'uomo che sta in agguato per potere, a un certo momento, fare l'obliquo ragioniere dei miei errori, allora io dichiaro che di questa collaborazione non voglio assolutamente saperne.
Del resto c'è una forza morale in tutto ciò. In fondo, di che cosa ha sofferto la vita italiana negli anni passati? Ha sofferto del fenomeno del trasformismo.
Non c'erano mai dei confini precisi. Nessuno aveva il coraggio di essere quello che doveva essere. C'era il borghese che aveva delle arie socialistoidi, c'era il socialista che si era già imborghesito fino al midollo spinale. Tutta l'atmosfera era un'atmosfera di mezze tinte, d'incertezza; non si vedevano mai dei contorni nettamente tagliati e definiti. Ebbene il Fascismo nella vita italiana compie proprio questa funzione; prende gl'individui per il collo e dice: «-Dovete essere quello che siete. Se siete dei borghesi, dovete essere dei borghesi, dovete avere l'orgoglio della vostra classe, perché la vostra classe è la classe che ha dato il tipo della civiltà mondiale al secolo decimonono; se siete dei socialisti, dovete avere il coraggio di esserlo, affrontando gli inevitabili rischi che questa professione può portare-».
Lo spettacolo della Nazione in questo momento è soddisfacente, soddisfacente perché il Governo fa una politica dura, una politica crudele, se volete. Deve licenziare a migliaia i suoi funzionari: sono magistrati, sono ufficiali, sono ferrovieri, sono arsenalotti; e ogni licenziamento è un motivo di turbamento, di dolore, di disagio di migliaia di famiglie. Ho dovuto mettere delle tasse che feriscono certamente vasti strati della popolazione italiana. Questo popolo italiano non ha ancora avuti quelli che si potrebbero chiamare i vantaggi di ordine materiale; non li ha avuti. Il Governo non ha dato proprio nulla che si possa tradurre in contanti, niente: ebbene questo popolo è disciplinato, questo popolo è silenzioso, questo popolo è tranquillo, questo popolo lavora. Come vi spieghereste questo fenomeno, se non pensaste che questo popolo è tranquillo perché sa che c'è un Governo che governa e sa soprattutto che, se questo Governo colpisce con misure crudeli, strati della popolazione italiana, non lo fa perché si alzi al mattino con il capriccio di dire: «-Oggi voglio colpire i ferrovieri, gli arsenalotti o i postelegrafonici-». Lo fa perché ciò risponde ad una necessità suprema di ordine nazionale. Al di sopra di questa massa che si cifra a decine di milioni ci sono i gruppi irrequieti di politicanti di professione. Bisogna parlar chiaro: c'erano, prima di questo, parecchi Governi in Italia, i quali tremavano sempre davanti al giornalista, davanti al banchiere, davanti al gran maestro della Massoneria, davanti al capo più o meno clandestino del partito popolare; e bastava che uno di questi ministri in partibus battesse alla porta dell'anticamera del Governo, perché il Governo fosse colto da improvvisa paralisi. Ebbene, tutto ciò è finito: molti signori che si prendevano delle arie con i vecchi Governi, non li ho ricevuti e li ho fatti piangere perché il Governo è uno solo, il Governo della Nazione, e non conosce altri Governi all'infuori del suo e vigila attentamente. Non bisogna mai dormire quando si governa, non bisogna trascurare nessuno dei sintomi, ma tenere innanzi agli occhi tutto il panorama, vedere tutte le composizioni, le scomposizioni, le deformazioni dei partiti e degli uomini. Qualche volta è necessario per la tattica avere degli adattamenti, ma la strategia politica, la mia almeno, è intransigente e assoluta.
Avrei finito, anzi ho finito, se non dovessi dire ancora una parola che mi riguarda un po' personalmente. Io non nego ai cittadini quello che si potrebbe chiamare il jus murmurandi, ma non bisogna esagerare, non bisogna essere con le orecchie ritte, nella tema di pericoli che non esistono, e, credetemi, io non mi ubriaco di grandezza; vorrei, se fosse possibile, ubriacarmi di umiltà. E credete ancora, onorevoli senatori, che non mi passa nemmeno per la controcassa dell'anticamera del cervello quello che può balenare nei crocchi misteriosi, pieni di sospetti, di paure e calunnie. Io mi contento semplicemente di essere ministro; nessuno deve essere spaventato dal fatto che io vado a cavallo. Ci andavano anche D'Azeglio e Minghetti; e del resto se ciò si deve alla mia gioventù, questo è un male divino di cui si guarisce ogni giorno. Non ho ambizioni che oltrepassino la cerchia nettamente definita dei miei doveri e delle mie responsabilità.
Eppure, un'ambizione l'ho anch'io: più conosco il popolo italiano, più m'inchino dinanzi a lui; più m'immergo anche fisicamente nelle masse del popolo italiano, più sento che questo popolo italiano è veramente degno del rispetto di tutti i rappresentanti della Nazione.
La mia ambizione, o signori, sarebbe una sola: non m'importa per questo di lavorare 14 o 16 ore al giorno, non m'importerebbe nemmeno di lasciarci la vita, e non lo riputerei il più grande dei sacrifici! La mia ambizione è questa: vorrei rendere forte, prosperoso, grande e libero il popolo italiano!
Ultima modifica di Admin il Mer 21 Mar 2018, 15:27 - modificato 2 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO -1923
Civitavecchia, 10 giugno 1923: Mussolini parla al popolo di Civitavecchia.
S'inizia con questa breve allocuzione, detta al popolo di Civitavecchia, una serie di brevi discorsi che segnano le tappe d'un veloce viaggio compiuto da MUSSOLINI in Sardegna e in altre parti d'Italia. Nello stesso giorno MUSSOLINI salpava da Civitavecchia per recarsi a Caprera — alla tomba di Garibaldi — e quindi a Sassari.
L'accoglienza di questa moltitudine di popolo, questa accoglienza cordiale ed entusiastica viene a comprovare la verità del discorso che io pronunciai ieri a Roma, e cioè che attorno al Governo fascista, a sorreggere il Governo fascista non c'è soltanto la forza, c'è il consenso cordiale e sincero della moltitudine.
Civitavecchia è città cara al mio cuore di fascista: qui io discesi alla fine di ottobre dell'anno scorso, quando la trionfante rivoluzione delle camicie nere stava per assumere il potere con tutti i rischi e le responsabilità che questo compito terribile comporta.
Dopo sette mesi di dura fatica e mentre ci prepariamo ancora a combattere, ancora a resistere, sento che il popolo italiano, nelle sue vaste masse non inquinate dall'opposizione demagogica, si schiera compatto attorno al Governo fascista.
Parto di qui perché vado domani a compiere un rito di devozione e di amore. Vado a Caprera a inginocchiarmi sulla tomba dell'Eroe dei due mondi, quello che fu chiamato il Cavaliere del genere umano. Ci vado con coscienza tranquilla perché, tra le camicie rosse che seguirono Garibaldi e Garibaldi portò alla gloria in quaranta battaglie vittoriose, e le camicie nere, non c'è nessuna soluzione di continuità, ma c'è la stessa tradizione, lo stesso sacrificio, la stessa gloria, la stessa storia.
Viva le camicie rosse! Viva le camicie nere! Viva l'Italia!
Sassari, 11 giugno 1923: MUSSOLINI parla al popolo Sassarese.
Discorso pronunciato da MUSSOLINI a Sassari, l'undici giugno, dal Palazzo della Prefettura, dopo il pellegrinaggio a Caprera.
Cittadini di Sassari! Fiero, gentile popolo di Sardegna!
Quello che ho compiuto oggi non è e non deve essere interpretato come un viaggio ministeriale. Ho inteso di compiere un pellegrinaggio di devozione e di amore per la vostra magnifica terra. Mi hanno detto che dal 1870 ad oggi è questa la prima volta che il Capo del Governo parla al popolo di Sassari raccolto nella vasta piazza. Deploro che fino a questo momento nessun Capo del Governo, nessun Ministro abbia sentito il dovere elementare di venire a conoscere i vostri bisogni, di venire ad attestare a voi quanto l'Italia vi deve. Per i mesi, per gli anni, per i lunghi anni del nostro sacrificio di sangue e della nostra purissima gloria il nome di Sassari, consegnato alla Storia nei bollettini di guerra, ha echeggiato nell'animo profondo di tutta l'Italia. Coloro che seguivano lo sforzo magnifico e sanguinoso della nostra razza, coloro che si sono macerati nel sangue e nel fango delle trincee, giovani della mia generazione, fierissimi e sdegnosi, tutti quelli che portano sempre nel cuore la fede della Patria, tutti costoro, o sardi, vi ammirano, tutti costoro, o fanti della Brigata Sassari, o cittadini di Sassari, vi tributano un segno, una testimonianza di infinito amore.
Che cosa importa se qualche burocrata che si attarda a poltrire non ha ancora tenuto conto dei vostri bisogni? Sassari è già passata gloriosamente alla Storia. Oggi ho sofferto quando mi hanno detto che questa città non ha acqua. Ebbene, vi prometto che avrete l'acqua perché avete il diritto di averla. Se il Governo Nazionale vi concederà — come vi concederà — i due o i quattro milioni necessari, non avrà fatto che il suo dovere perché, mentre altrove giovani dalle spalle quadrate lavoravano al tornio, la gente di Sardegna combatteva e moriva nelle trincee.
Intendiamo rivalutare le città e le regioni d'Italia, perché chi più ha dato alla guerra maggior diritto ha di avere nella pace.
Pochi giorni fa, nella ricorrenza dell'anniversario della guerra, mi sono recato, per le vie del cielo, ai cimiteri del Carso. Ci sono molti vostri fratelli che dormono in quei cimiteri il sonno che non ha risveglio. Li ho conosciuti; ho vissuto con loro; ho sofferto con loro. Eran magnifici, pazienti, generosi. Non si lamentavano, resistevano e quando l'ora tragica suonava in cui si doveva uscire dalla trincea, erano i primi e non domandavano perché!
Il Governo Nazionale che ho l'onore di dirigere è un Governo che conta su di voi e voi potete contare su di lui. È un Governo scaturito da una duplice vittoria di popolo. Il Governo Nazionale viene verso di voi, perché voi gli diciate schiettamente, lealmente quali sono i vostri bisogni.
Siete stati trascurati, dimenticati, per troppo tempo! A Roma si sapeva e non si sapeva che esisteva la Sardegna. Ma poiché la guerra vi ha rivelato all'Italia, bisogna che tutti gli Italiani ricordino la Sardegna non soltanto a parole, ma a fatti.
Sono lieto, commosso, per le accoglienze che mi avete tributato. Ho guardato nelle vostre faccie; ho visto i vostri lineamenti; ho riconosciuto che voi siete dei virgulti superbi di questa razza italiana che era grande quando gli altri popoli non erano ancora nati, di questa razza italiana che ha dato tre volte la sua civiltà al mondo attonito o rimbarbarito, di questa razza italiana che noi vogliamo prendere, sagomare, forgiare per tutte le battaglie necessarie nella disciplina, nel lavoro, nella fede.
Sono sicuro che come la Sardegna è stata grande nella guerra, sarà altresì grande nella pace.
Vi saluto, o magnifici figli di quest'Isola solida, ferrigna e dimenticata. Vi abbraccio spiritualmente tutti quanti. Non è qui il Capo del Governo che vi parla: è il fratello, il commilitone, il trincerista. Gridate dunque con me: «-Viva il Re! Viva l'Italia! Viva la Sardegna!-».
Cagliari, 12 giugno 1923: MUSSOLINI parla ai cagliaritani.
Segue il discorso pronunziato nell'Anfiteatro di Cagliari da MUSSOLINI il 12 giugno.
Cittadini, Camicie Nere, Popolo di Cagliari ardente e cavalleresco!
Sono stato in questi ultimi tempi in parecchie città, non escluse quelle che appartengono alla terra dove sono nato. Ebbene, vi dichiaro — perché questa è la verità — che nessuna città mi ha tributato le accoglienze che oggi voi avete tributato a me. Sapevo che Cagliari era città di forti passioni, sapevo che un grande fermento di rinnovazione fremeva nei vostri cuori. L'urlo col quale mi avete accolto, la folla stipata nel Teatro Romano, mi dicono che qui il Fascismo ha salde radici nelle vostre coscienze.
Vi ringrazio dunque, cittadini, dal profondo del cuore.
Sono venuto in Sardegna non già e non soltanto per conoscere le vostre terre. Quarantotto ore non basterebbero; e meno ancora basterebbero per esaminare da vicino i vostri problemi. Io li conosco: li hanno conosciuti tutti i governi da mezzo secolo a questa parte: sono problemi presenti alla coscienza nazionale; e se fino ad oggi non sono stati risolti, gli è che a Roma mancava quella ferrea volontà di rinnovamento che è perno, essenza e fede del Governo fascista.
Passando per le vostre terre ho ritrovato qui vivo, pulsante, un lembo della Patria. Veramente questa vostra isola è il baluardo della Nazione all'occidente, è un cuore saldo di Roma piantato in mezzo al mare nostro. Talune catene delle vostre montagne mi ricordano le Prealpi comasche; talune vostre pianure, la Valle del Po, ma soprattutto ho visto nelle folle che si sono raccolte attorno ai gagliardetti, i bellissimi germogli della razza italiana, immortali nel tempo e nello spazio.
Mi sono domandato: «-Come dunque è avvenuto che ad un dato momento si è potuto pensare nel Continente che questa Isola di eroi e di salde coscienze si fosse intiepidita nel suo fortissimo amore verso la Madre Patria?-» Non ho mai creduto a ciò. Era un enorme equivoco: non era in giuoco la Patria; erano piuttosto in giuoco i pavidi ed inetti governanti di Roma che troppo tempo vi avevano dimenticati.
Credo, e lo affermo qui al vostro cospetto, credo che poche regioni d'Italia possano rivaleggiare con voi in fatto d'amor di Patria. Perché voi, cittadini, popolo di Sardegna, voi l'amor di Patria lo avete celebrato nelle fangose trincee, dallo Stelvio al mare. Avete salito il vostro ineffabile e glorioso calvario: là avete lasciato migliaia di vostri figli, di vostri fratelli, il fiore della vostra stirpe.
Non sarebbe dunque enormemente ingrata l'Italia se dimenticasse questo vostro magnifico olocausto di sangue, se non vi desse in pace quello che avete meritato in guerra?
Ebbene, non sono venuto per fare promesse, ma assicuro che le promesse che ho fatto o farò saranno rigidamente mantenute.
Fra tutti, uno spettacolo ha percosso il mio cuore di fascista intransigente, assoluto. Mi avevano detto che la Sardegna, per ragioni speciali di ambiente, era refrattaria al Fascismo. Anche qui si trattava di un equivoco. Ma da oggi le coorti e le legioni, le migliaia di camicie nere solidissime, i sindacati, i fasci, la gioventù tutta di quest'Isola, è là a dimostrare che, essendo il Fascismo un movimento irresistibile di rinnovazione della razza, doveva fatalmente toccare e conquistare questa Isola dove la razza italiana ha le sue manifestazioni più superbe.
Vi saluto, camicie nere. Ci siamo veduti a Roma, ed i manipoli della Sardegna ebbero il plauso della Capitale. Voi portate nel cuore la fede che a un dato momento fece partire da tutte le città e da tutti i villaggi d'Italia migliaia e migliaia di fascisti per scendere a Roma. Nessuno può pensare di strapparci il frutto di una vittoria che abbiamo pagato con tanto generosissimo sangue di giovinetti immolatisi per schiacciare il bolscevismo italiano. Migliaia e migliaia di giovinetti che ebbero il martirio delle trincee, che hanno ripreso la lotta civile, che hanno vinto, hanno tracciato un solco tra l'Italia di ieri, di oggi e di domani.
Cittadini di Cagliari, certamente dovrete ancora essere partecipi di questo grande dramma. Certamente voi volete vivere la vita della nostra grande collettività nazionale; di questa nostra adorabile Italia, di questa bellissima madre che è il nostro sogno, la nostra speranza, la nostra fede, la nostra certezza. Perché passano gli uomini, forse anche i Governi, ma la Nazione, l'Italia, vive e non morirà mai.
Parto domani da questa vostra Isola con una certezza. Questa. Ho visitato oggi gli impianti del Tirso, che non sono soltanto un privilegio della Sardegna, ma sono un capolavoro che può inorgoglire tutta la Nazione. Sento quasi per intuizione dello spirito, sento che anche la Sardegna oggi marcia al passo con tutte le altre regioni sorelle. Salutiamoci dunque, o cittadini. Dopo questo mio discorso, che ha voluto essere un atto di devozione ed una specie di comunione fra il mio ed il vostro spirito, salutiamoci gridando: Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Iglesias, 13 giugno 1923: MUSSOLINI parla al popolo di Iglesias.
A Iglesias, dal Palazzo del Comune, il 13 giugno, MUSSOLINI disse al popolo le seguenti parole. Esse costituiscono il saluto alla Sardegna, da cui MUSSOLINI ripartiva per trovarsi, pochi giorni dopo, nella Valle Padana.
Cittadini di Iglesias, Camicie Nere fasciste!
La vostra accoglienza così cordiale ed entusiastica supera nella realtà ogni aspettativa. Iglesias è stata veramente la culla del Fascismo sardo. Qui sono sorti i primi manipoli di camicie nere e quindi era mio precipuo dovere venire per mettermi in contatto coi voi. Voi meritate che il Governo vi ricordi. In questa Isola è una vasta riserva di fede, di patriottismo e di passione italiana. Torno a Roma col cuore gonfio di commozione.
Da quanto l'Italia è unita, è questa la prima volta che il Capo del Governo si mette in comunicazione diretta col popolo di Sardegna. Di una cosa sola mi dolgo: che il tempo troppo breve non mi abbia consentito di visitare più lungamente la vostra terra magnifica; prendo però formale impegno di tornare a visitare le vostre città, i vostri villaggi. Come Capo del Governo sono lieto di essermi trovato qui fra popolazioni laboriose, tranquille, veramente pazienti per quanto troppo a lungo dimenticate e considerate quasi come una colonia lontana. È opportuno si sappia che la Sardegna è una delle prime regioni d'Italia, anche perché ha dato il maggiore contributo di sangue alla guerra vittoriosa.
Come Capo del Fascismo sono lieto di essermi trovato con le eroiche camicie nere e avere visto la splendida rifioritura del Fascismo, che porterà una totale rinnovazione nella vostra terra.
Piacenza, 18 giugno 1923: MUSSOLINI parla al popolo piacentino.
Segue il discorso pronunziato a Piacenza, dal Palazzo del Governatore, dopo la rivista della Milizia Nazionale, degli Avanguardisti e dei Balilla nella Piazza dei Cavalli.
Camicie Nere! Avanguardisti! Balilla! Cittadini della primogenita!
Io non trovo parole sufficienti per esprimervi la mia commozione e la mia profonda gratitudine.
Tutte le volte che io mi allontano da Roma, dove i residui di piccole caste politiche si illudono ancora sulla loro vitalità, e mi confondo tra il popolo, io ho veramente davanti ai miei occhi la impressione visiva plastica di una magnifica, di una splendida, di un incomparabile primavera.
Qui in questa città storica, qui pulsa gagliardo il sangue della nuova generazione, qui più che altrove il popolo in tutte le sue categorie ha compreso che in questo momento la disciplina, la concordia, il lavoro sono elementi necessari per la ricostruzione della Patria. Qui è il consenso, non soltanto la forza. Qui è il consenso che si raccoglie attorno a me e attorno al Governo che ho l'onore di dirigere, perché sa e sente che è un Governo che agisce, che legifera al di sopra di tutti gli interessi delle singole classi e categorie e non ha in vista che il bene supremo di tutta la Nazione.
Io vorrei — e ci riuscirò — vorrei, come ho detto, rendere grande, prospero e libero tutto il popolo italiano: ci riuscirò. Ci riuscirò malgrado i tempi difficili, malgrado le crisi e un complesso di circostanze che sono all'infuori e al di sopra della nostra volontà umana. Ma al di sopra delle volontà singole e individuali c'è ormai in atto ed in potenza una magnifica volontà collettiva; una volontà collettiva di tutto il popolo italiano che oggi è compatto, solidale, omogeneo attorno al Fascismo, in quanto il Fascismo rappresenta il prodigio della razza italiana che si ritrova, si riscatta, che vuole essere grande.
Noi dobbiamo imporre le dure discipline e se qualche volta dobbiamo colpire le categorie, lo facciamo per salvare la Nazione, per salvare il tutto che è rappresentato dal popolo italiano.
Davanti a questa folla io evoco le giornate di Napoli, quelle che si poterono chiamare la Sagra della vigilia; avevo dinanzi a me 40.000 camicie nere venute da ogni parte d'Italia, e questi magnifici campioni della nostra razza scandivano in un ritmo che aveva del religioso e del solenne queste parole: «-Roma! Roma! Roma!-».
Io tacevo perché non era ancor suonata l'ora, ma la decisione era già maturata nel mio animo. Dopo quattro giorni, Roma non era più soltanto un grido: era una meta che avevamo raggiunta.
Perciò io dico a voi: «-Camicie nere, serbate purissima, immacolata la vostra fede. Il fascismo ha preso Roma perché ne aveva il diritto, perché in questa battaglia aveva lanciato a centinaia ed a migliaia i suoi magnifici giovinetti. Il fascismo avendo questo diritto, lo rivendica in pieno e sa che nei vostri cuori, o camicie nere, questa fiamma brucia ancora e li riscalda e li esalta e li tiene pronti pei i compiti che ancora ci attendono». Vi saluto gridando: «Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!-».
Cremona, 19 giugno 1923: MUSSOLINI parla ai cremonesi.
Discorso pronunziato a Cremona, nella Piazza del Comune, il 19 giugno, in risposta alle parole del Sindaco della città.
Il saluto che Ella mi ha voluto portare, mi giunge oltremodo gradito, non soltanto perché mi viene dal primo Magistrato di una città nobile, ricca di bellezze e di monumenti, e piena di ingegni, ma ancora più perché voi, Signor Sindaco, siete il rappresentante di una città piena di audacia, di forza e di disciplina e perché mi ricordate l'epoca garibaldina delle camicie rosse, presa in eredità dalle camicie nere.
Voi mi avete detto che non vale la pena di inseguire certe farfalle sotto l'Arco di Tito. Io vi dico che non ce ne sono. Le piccole diffamazioni sono residui del nostro mal costume. Tutte le volte che io scendo fra il popolo italiano, del quale mi vanto di essere, se non degno, almeno fierissimo figlio, sento che al di là di certe piccole mene c'è il popolo, il popolo sano, il popolo tranquillo che lavora. Quando penso a questo popolo cui non ho potuto dare ancora nulla di quello che si dice benessere materiale, e al quale io debbo infliggere una rigida disciplina, quando vedo questo popolo che è tranquillo e non si lagna, devo constatare che la salute morale del popolo è inattaccabile.
Certamente occorrerà che nessuno abusi del nostro spirito generoso, perché altrimenti interverrebbe la forza; se, cioè, quei residui di cui parlavo poco fa intendessero occupare ancora un po' la scena politica, essi sanno, e tutti gli italiani debbono saperlo, che io chiamerei le camicie nere, molte delle quali mordono il freno e sono impazienti.
La fede nel Fascismo, la mia fede, è qualche cosa che va al di là del semplice Partito, della semplice idea, della sua necessaria struttura militare, del suo necessario sindacalismo, del suo tesseramento politico. Il Fascismo è un fenomeno religioso di vaste proporzioni storiche, ed è il prodotto di una razza. Nulla si può contro il Fascismo: nemmeno gli stessi fascisti potrebbero nulla contro questo movimento gigantesco che si impone.
Signor Sindaco, le manifesto il mio più alto compiacimento. Tutti i paesi che ho attraversati mi hanno mostrato il loro consenso: dovunque ho constatato che la vita, ha un ritmo tranquillo; le messi biondeggiano nei campi e saranno presto mietute. La Nazione riprende la sua vita. E quando penso alla Nazione, sento nelle arterie affluire un sangue nobile purissimo: questo sangue vien dal cuore della Nazione italiana che riaccelera i suoi palpiti.
Camicie Nere! Popolo di Cremona!
Ecco che per un singolare destino propizio ai miei voti mi ritrovo, dopo sette mesi, a parlare a questa marea umana nella stessa armoniosa piazza che accolse la mia voce prima della Marcia su Roma.
Io guardo nei vostri occhi, che possono guardare nei miei e interrogarmi e domando: «-Mi trovate voi cambiato in qualche linea?-». Sono sicuro che nessuno di voi ha pensato, nemmeno nei momenti di incertezza, che io potessi diventare diverso da quello che sono. Ho l'orgoglio di essere quello che sono, cioè un uomo che prima di imporre dei sacrifici agli altri li impone a se stesso, e prima di chiamare la disciplina per gli altri a questa disciplina si sottopone. Tutto il popolo è raccolto in questa piazza, non solo il popolo di Cremona, ma tutto il popolo italiano; tutto il popolo italiano delle tre diverse categorie che sono raccolte oggi intorno al Governo.
È forse la prima volta nella storia italiana che il Capo del Governo può andare tra la folla tranquillamente senza le preoccupazioni che potevano affliggere certi individui in altri tempi. Sono della vostra razza, ho lo stesso vostro sangue, le stesse vostre virtù e naturalmente gli stessi vostri difetti. Appunto per questo si stabilisce fra noi la perfetta comunione degli spiriti: basta che io vi chiami, perché dalle città e dai borghi e dai casolari un coro unanime e formidabile risponda: «-Presente!-».
Camicie Nere!
Voi potete avere fiducia in me. Io sono il difensore inflessibile, severo, implacabile della nostra rivoluzione e se per difender questa rivoluzione, alla quale avete dato il prezioso contributo del vostro sangue, fosse necessario ricominciare ancora, ricomincieremo.
A chi la battaglia? A chi la gloria? A chi l'Italia?
A queste tre domande rispondono in coro i fascisti con triplice formidabile grido: «-A noi!-».
Firenze, 19 giugno 1923: Mussolini parla ai fiorentini.
Da Cremona il Duce passò a Firenze, ove nello stesso giorno, 19 giugno, nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, gli fu solennemente conferita la cittadinanza onoraria. In tale occasione Egli pronunziò il seguente discorso:
Signor Sindaco! Signori Consiglieri! Popolo di Firenze, Firenze, capitale, da parecchi secoli, della intelligenza italiana!
Ecco che davanti all'onore che voi mi fate, io mi sento un poco trepido e commosso. Essere cittadino di Firenze, di questa città che ha segnato così indelebili traccie nella storia dello spirito umano, rappresenta il fatto memorabile e dominante della mia vita.
Io non so se sono degno di tanto onore...
Quello che ho fatto sin qui non è molto; però, o cittadini di Firenze, la mia volontà è incrollabile.
Può fallire la carne umana, che è sempre fragile, ma non il mio spirito, che è dominato da una verità religiosa, umana: la verità della Patria.
Da quando il Fascismo ha alzato i suoi gagliardetti, accese le sue fiamme, cauterizzate le piaghe che infestavano il corpo divino della nostra Patria, noi italiani, che ci sentiamo orgogliosissimi di essere italiani, noi ci comunichiamo in ispirito con questa nuova fede.
Cittadini di Firenze!
Vi faccio una promessa: e, siate sicuri, la manterrò! Vi prometto, e Iddio mi è testimone in questo momento della purezza assoluta della mia fede, vi prometto che continuerò ancora e sempre ad essere un umile servitore della nostra Patria adorata.
Dopo la cerimonia nel Salone dei Cinquecento, il Duce si affacciò al balcone centrale di Palazzo Vecchio, e parlò al popolo affollato in Piazza della Signoria:
Camicie Nere di Firenze e della Toscana, Fascisti, popolo!
Dove trovare le parole necessarie per esprimere la piena dei sentimenti che traboccano dal mio spirito? La mia parola non può essere che inadeguata allo scopo; la vostra accoglienza solenne, entusiastica, mi commuove fino nel profondo dell'animo. Non è certamente soltanto a me che rendete questo onore straordinario ma è, io credo, all'Idea di cui sono stato banditore inflessibile.
Firenze mi ricorda i giorni in cui eravamo pochi.
Qui tenemmo la prima adunata gloriosa dei Fasci italiani di combattimento; dovevamo spesso interrompere il nostro Congresso per scendere in piazza a disperdere la vile canaglia.
Eravamo pochi allora; ebbene, malgrado questa marea oceanica di popolo, io dico che siamo pochi ancora, non già per i nemici che sono sgominati per sempre, ma per i compiti grandiosi ed imperiali che attende la nostra Italia.
Io dicevo che i nemici sono sgominati, poiché non faremo più l'onore di considerare come nemici certi cadaveri della politica italiana che si illudono di vivere ancora semplicemente perché abusano della nostra generosità. Ditemi, dunque, o camicie nere di Toscana e di Firenze, se è necessario di ricominciare, ricomincieremo?
(La folla grida: Sì! Sì!).
Questo vostro urlo potente più che una promessa è un giuramento che sigilla l'Italia del passato, l'Italia dei barattieri, dei mistificatori, dei pusillanimi e apre il varco alla nostra Italia, a quella che portiamo superbamente nei nostri cuori, di noi, nuova generazione che adora la forza, che si ispira alla bellezza, che è pronta a ogni rischio quando si tratta di sacrificarsi, di combattere e di morire per l'Ideale.
Io vi dico che l'Italia riprende. Due anni fa, quando imperversava la bestialità della demagogia rossa, partirono per la Coppa Baracca, in onore del nostro purissimo Cavaliere dell'aria, soltanto 20 apparecchi, l'anno scorso 35, quest'anno 90, sinora, e come abbiamo riconquistato il dominio del cielo, vogliamo che il mare non sia una cintura contro la nostra vitalità, ma invece la strada per la nostra necessaria espansione nel mondo.
Questi, o fascisti, o cittadini, sono i compiti grandiosi che ci attendono. E non falliremo a questa meta se ognuno di voi scolpirà nel cuore le parole in cui si riassume il comandamento di quest'ora ineffabile della nostra storia di popolo: il lavoro che a poco a poco ci deve riscattare dalla soggezione dell'estero, la concordia che deve fare degli italiani una sola famiglia, e la disciplina per cui a un dato momento tutti gli italiani diventano uno e marciano insieme verso la stessa meta.
Camicie nere, voi sentite che tutte le manovre degli avversari tendenti a separarmi da voi sono ridicole e grottesche.
Il Fascismo — e qui non vi sembri peccato di orgoglio la constatazione — io l'ho guidato sulle strade consolari di Roma e Roma è nel nostro solido pugno: e se qualcuno si facesse delle illusioni al riguardo, io non avrei che da fare un cenno, che da alzare un grido, che da dare una parola d'ordine: «A noi».
Levate in alto i vostri gagliardetti; essi sono consacrati dal purissimo sangue dei nostri morti, e quando una fede è stata consacrata dal sangue vermiglio e giovinetto, non può fallire, non può morire e non morrà.
Camicie nere! A chi il combattimento?
(Una voce unanime si leva dalla piazza ed un solo grido si ode: A noi!).
A chi la gloria?
(A noi!).
A chi Roma?
(A noi!).
A chi l'Italia?
(A noi!).
E così sia.
Messina, 22 giugno 1923: MUSSOLINI parla ai messinesi.
La notizia d'una nuova eruzione dell'Etna chiamò il Capo del Governo in Sicilia. Al suo ritorno da Catania, sostò a Messina e vi pronunziò il seguente discorso:
Messinesi!
Come ho detto ieri sera ai vostri fratelli di Catania, non è, questo che io compio, un viaggio politico o ufficiale; è semplicemente un pellegrinaggio di devozione e di amore verso la vostra terra, che ancora una volta è duramente colpita.
Ho pensato, tornando da Catania, di fermarmi a Messina per rendermi conto della situazione della vostra città. Già da una prima impressione, che potrei chiamare decisiva, ho avuto la nozione del problema che si esprime in questi molteplici termini: gran parte di Messina attende la sua ricostruzione. Oggi stesso io desidero sentire dalla viva voce dei vostri rappresentanti quali sono gli immediati bisogni della vostra città; devo dichiararvi che il Governo intende di compiere e compirà il suo preciso e categorico dovere. Messina deve completamente risorgere, deve tornare bella, grande, prosperosa come era una volta. Non è soltanto un interesse messinese o siciliano, è un interesse di ordine squisitamente nazionale. Sono qui dunque per porgervi l'attestazione sincera, fraterna, veramente fraterna, del Governo Nazionale, che è, in questo momento, lo affermo in modo solenne, l'interprete sicuro della rinnovata coscienza nazionale italiana.
Il Governo che ho l'onore di rappresentare si è trovato sulle braccia una infinità di problemi arretrati. Non faccio accuse al passato, è una constatazione di fatto. Questi problemi dovranno essere risolti, saranno risolti perché è utile, perché è necessario, perché è doveroso.
Messinesi!
Il tempo in cui le isole che tanto sacrificio di sangue hanno dato alla nostra gloriosa e vittoriosa guerra erano dimenticate o trattate come colonie, questo tempo è ormai lontano, sepolto, sotterrato per sempre. La fraternità e la solidarietà nazionale non devono essere più, d'ora innanzi, soltanto delle parole per le cerimonie, ma devono essere opere concrete di solidarietà nazionale ed umana.
L'Italia deve molto alle sue isole; la Sardegna e la Sicilia furono dimenticate purtroppo, ma queste isole dimenticate nell'ora del cimento si sono ricordate superbamente della Patria comune.
Parto da questa vostra terra con una impressione di tristezza per ciò che ho visto a Linguaglossa, ma anche con una impressione di fierezza perché, a Linguaglossa ed altrove, ho visto una popolazione seria, tranquilla, laboriosa, veramente degna della tradizione superba della vostra isola. Ne terrò conto, e mentre vi prego di gradire l'attestazione della mia sincera e fraterna simpatia di compagno, vi invito a levare insieme il grido che riassume la nostra fede di italiani: «-Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!-».
Civitavecchia, 10 giugno 1923: Mussolini parla al popolo di Civitavecchia.
S'inizia con questa breve allocuzione, detta al popolo di Civitavecchia, una serie di brevi discorsi che segnano le tappe d'un veloce viaggio compiuto da MUSSOLINI in Sardegna e in altre parti d'Italia. Nello stesso giorno MUSSOLINI salpava da Civitavecchia per recarsi a Caprera — alla tomba di Garibaldi — e quindi a Sassari.
L'accoglienza di questa moltitudine di popolo, questa accoglienza cordiale ed entusiastica viene a comprovare la verità del discorso che io pronunciai ieri a Roma, e cioè che attorno al Governo fascista, a sorreggere il Governo fascista non c'è soltanto la forza, c'è il consenso cordiale e sincero della moltitudine.
Civitavecchia è città cara al mio cuore di fascista: qui io discesi alla fine di ottobre dell'anno scorso, quando la trionfante rivoluzione delle camicie nere stava per assumere il potere con tutti i rischi e le responsabilità che questo compito terribile comporta.
Dopo sette mesi di dura fatica e mentre ci prepariamo ancora a combattere, ancora a resistere, sento che il popolo italiano, nelle sue vaste masse non inquinate dall'opposizione demagogica, si schiera compatto attorno al Governo fascista.
Parto di qui perché vado domani a compiere un rito di devozione e di amore. Vado a Caprera a inginocchiarmi sulla tomba dell'Eroe dei due mondi, quello che fu chiamato il Cavaliere del genere umano. Ci vado con coscienza tranquilla perché, tra le camicie rosse che seguirono Garibaldi e Garibaldi portò alla gloria in quaranta battaglie vittoriose, e le camicie nere, non c'è nessuna soluzione di continuità, ma c'è la stessa tradizione, lo stesso sacrificio, la stessa gloria, la stessa storia.
Viva le camicie rosse! Viva le camicie nere! Viva l'Italia!
Sassari, 11 giugno 1923: MUSSOLINI parla al popolo Sassarese.
Discorso pronunciato da MUSSOLINI a Sassari, l'undici giugno, dal Palazzo della Prefettura, dopo il pellegrinaggio a Caprera.
Cittadini di Sassari! Fiero, gentile popolo di Sardegna!
Quello che ho compiuto oggi non è e non deve essere interpretato come un viaggio ministeriale. Ho inteso di compiere un pellegrinaggio di devozione e di amore per la vostra magnifica terra. Mi hanno detto che dal 1870 ad oggi è questa la prima volta che il Capo del Governo parla al popolo di Sassari raccolto nella vasta piazza. Deploro che fino a questo momento nessun Capo del Governo, nessun Ministro abbia sentito il dovere elementare di venire a conoscere i vostri bisogni, di venire ad attestare a voi quanto l'Italia vi deve. Per i mesi, per gli anni, per i lunghi anni del nostro sacrificio di sangue e della nostra purissima gloria il nome di Sassari, consegnato alla Storia nei bollettini di guerra, ha echeggiato nell'animo profondo di tutta l'Italia. Coloro che seguivano lo sforzo magnifico e sanguinoso della nostra razza, coloro che si sono macerati nel sangue e nel fango delle trincee, giovani della mia generazione, fierissimi e sdegnosi, tutti quelli che portano sempre nel cuore la fede della Patria, tutti costoro, o sardi, vi ammirano, tutti costoro, o fanti della Brigata Sassari, o cittadini di Sassari, vi tributano un segno, una testimonianza di infinito amore.
Che cosa importa se qualche burocrata che si attarda a poltrire non ha ancora tenuto conto dei vostri bisogni? Sassari è già passata gloriosamente alla Storia. Oggi ho sofferto quando mi hanno detto che questa città non ha acqua. Ebbene, vi prometto che avrete l'acqua perché avete il diritto di averla. Se il Governo Nazionale vi concederà — come vi concederà — i due o i quattro milioni necessari, non avrà fatto che il suo dovere perché, mentre altrove giovani dalle spalle quadrate lavoravano al tornio, la gente di Sardegna combatteva e moriva nelle trincee.
Intendiamo rivalutare le città e le regioni d'Italia, perché chi più ha dato alla guerra maggior diritto ha di avere nella pace.
Pochi giorni fa, nella ricorrenza dell'anniversario della guerra, mi sono recato, per le vie del cielo, ai cimiteri del Carso. Ci sono molti vostri fratelli che dormono in quei cimiteri il sonno che non ha risveglio. Li ho conosciuti; ho vissuto con loro; ho sofferto con loro. Eran magnifici, pazienti, generosi. Non si lamentavano, resistevano e quando l'ora tragica suonava in cui si doveva uscire dalla trincea, erano i primi e non domandavano perché!
Il Governo Nazionale che ho l'onore di dirigere è un Governo che conta su di voi e voi potete contare su di lui. È un Governo scaturito da una duplice vittoria di popolo. Il Governo Nazionale viene verso di voi, perché voi gli diciate schiettamente, lealmente quali sono i vostri bisogni.
Siete stati trascurati, dimenticati, per troppo tempo! A Roma si sapeva e non si sapeva che esisteva la Sardegna. Ma poiché la guerra vi ha rivelato all'Italia, bisogna che tutti gli Italiani ricordino la Sardegna non soltanto a parole, ma a fatti.
Sono lieto, commosso, per le accoglienze che mi avete tributato. Ho guardato nelle vostre faccie; ho visto i vostri lineamenti; ho riconosciuto che voi siete dei virgulti superbi di questa razza italiana che era grande quando gli altri popoli non erano ancora nati, di questa razza italiana che ha dato tre volte la sua civiltà al mondo attonito o rimbarbarito, di questa razza italiana che noi vogliamo prendere, sagomare, forgiare per tutte le battaglie necessarie nella disciplina, nel lavoro, nella fede.
Sono sicuro che come la Sardegna è stata grande nella guerra, sarà altresì grande nella pace.
Vi saluto, o magnifici figli di quest'Isola solida, ferrigna e dimenticata. Vi abbraccio spiritualmente tutti quanti. Non è qui il Capo del Governo che vi parla: è il fratello, il commilitone, il trincerista. Gridate dunque con me: «-Viva il Re! Viva l'Italia! Viva la Sardegna!-».
Cagliari, 12 giugno 1923: MUSSOLINI parla ai cagliaritani.
Segue il discorso pronunziato nell'Anfiteatro di Cagliari da MUSSOLINI il 12 giugno.
Cittadini, Camicie Nere, Popolo di Cagliari ardente e cavalleresco!
Sono stato in questi ultimi tempi in parecchie città, non escluse quelle che appartengono alla terra dove sono nato. Ebbene, vi dichiaro — perché questa è la verità — che nessuna città mi ha tributato le accoglienze che oggi voi avete tributato a me. Sapevo che Cagliari era città di forti passioni, sapevo che un grande fermento di rinnovazione fremeva nei vostri cuori. L'urlo col quale mi avete accolto, la folla stipata nel Teatro Romano, mi dicono che qui il Fascismo ha salde radici nelle vostre coscienze.
Vi ringrazio dunque, cittadini, dal profondo del cuore.
Sono venuto in Sardegna non già e non soltanto per conoscere le vostre terre. Quarantotto ore non basterebbero; e meno ancora basterebbero per esaminare da vicino i vostri problemi. Io li conosco: li hanno conosciuti tutti i governi da mezzo secolo a questa parte: sono problemi presenti alla coscienza nazionale; e se fino ad oggi non sono stati risolti, gli è che a Roma mancava quella ferrea volontà di rinnovamento che è perno, essenza e fede del Governo fascista.
Passando per le vostre terre ho ritrovato qui vivo, pulsante, un lembo della Patria. Veramente questa vostra isola è il baluardo della Nazione all'occidente, è un cuore saldo di Roma piantato in mezzo al mare nostro. Talune catene delle vostre montagne mi ricordano le Prealpi comasche; talune vostre pianure, la Valle del Po, ma soprattutto ho visto nelle folle che si sono raccolte attorno ai gagliardetti, i bellissimi germogli della razza italiana, immortali nel tempo e nello spazio.
Mi sono domandato: «-Come dunque è avvenuto che ad un dato momento si è potuto pensare nel Continente che questa Isola di eroi e di salde coscienze si fosse intiepidita nel suo fortissimo amore verso la Madre Patria?-» Non ho mai creduto a ciò. Era un enorme equivoco: non era in giuoco la Patria; erano piuttosto in giuoco i pavidi ed inetti governanti di Roma che troppo tempo vi avevano dimenticati.
Credo, e lo affermo qui al vostro cospetto, credo che poche regioni d'Italia possano rivaleggiare con voi in fatto d'amor di Patria. Perché voi, cittadini, popolo di Sardegna, voi l'amor di Patria lo avete celebrato nelle fangose trincee, dallo Stelvio al mare. Avete salito il vostro ineffabile e glorioso calvario: là avete lasciato migliaia di vostri figli, di vostri fratelli, il fiore della vostra stirpe.
Non sarebbe dunque enormemente ingrata l'Italia se dimenticasse questo vostro magnifico olocausto di sangue, se non vi desse in pace quello che avete meritato in guerra?
Ebbene, non sono venuto per fare promesse, ma assicuro che le promesse che ho fatto o farò saranno rigidamente mantenute.
Fra tutti, uno spettacolo ha percosso il mio cuore di fascista intransigente, assoluto. Mi avevano detto che la Sardegna, per ragioni speciali di ambiente, era refrattaria al Fascismo. Anche qui si trattava di un equivoco. Ma da oggi le coorti e le legioni, le migliaia di camicie nere solidissime, i sindacati, i fasci, la gioventù tutta di quest'Isola, è là a dimostrare che, essendo il Fascismo un movimento irresistibile di rinnovazione della razza, doveva fatalmente toccare e conquistare questa Isola dove la razza italiana ha le sue manifestazioni più superbe.
Vi saluto, camicie nere. Ci siamo veduti a Roma, ed i manipoli della Sardegna ebbero il plauso della Capitale. Voi portate nel cuore la fede che a un dato momento fece partire da tutte le città e da tutti i villaggi d'Italia migliaia e migliaia di fascisti per scendere a Roma. Nessuno può pensare di strapparci il frutto di una vittoria che abbiamo pagato con tanto generosissimo sangue di giovinetti immolatisi per schiacciare il bolscevismo italiano. Migliaia e migliaia di giovinetti che ebbero il martirio delle trincee, che hanno ripreso la lotta civile, che hanno vinto, hanno tracciato un solco tra l'Italia di ieri, di oggi e di domani.
Cittadini di Cagliari, certamente dovrete ancora essere partecipi di questo grande dramma. Certamente voi volete vivere la vita della nostra grande collettività nazionale; di questa nostra adorabile Italia, di questa bellissima madre che è il nostro sogno, la nostra speranza, la nostra fede, la nostra certezza. Perché passano gli uomini, forse anche i Governi, ma la Nazione, l'Italia, vive e non morirà mai.
Parto domani da questa vostra Isola con una certezza. Questa. Ho visitato oggi gli impianti del Tirso, che non sono soltanto un privilegio della Sardegna, ma sono un capolavoro che può inorgoglire tutta la Nazione. Sento quasi per intuizione dello spirito, sento che anche la Sardegna oggi marcia al passo con tutte le altre regioni sorelle. Salutiamoci dunque, o cittadini. Dopo questo mio discorso, che ha voluto essere un atto di devozione ed una specie di comunione fra il mio ed il vostro spirito, salutiamoci gridando: Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Iglesias, 13 giugno 1923: MUSSOLINI parla al popolo di Iglesias.
A Iglesias, dal Palazzo del Comune, il 13 giugno, MUSSOLINI disse al popolo le seguenti parole. Esse costituiscono il saluto alla Sardegna, da cui MUSSOLINI ripartiva per trovarsi, pochi giorni dopo, nella Valle Padana.
Cittadini di Iglesias, Camicie Nere fasciste!
La vostra accoglienza così cordiale ed entusiastica supera nella realtà ogni aspettativa. Iglesias è stata veramente la culla del Fascismo sardo. Qui sono sorti i primi manipoli di camicie nere e quindi era mio precipuo dovere venire per mettermi in contatto coi voi. Voi meritate che il Governo vi ricordi. In questa Isola è una vasta riserva di fede, di patriottismo e di passione italiana. Torno a Roma col cuore gonfio di commozione.
Da quanto l'Italia è unita, è questa la prima volta che il Capo del Governo si mette in comunicazione diretta col popolo di Sardegna. Di una cosa sola mi dolgo: che il tempo troppo breve non mi abbia consentito di visitare più lungamente la vostra terra magnifica; prendo però formale impegno di tornare a visitare le vostre città, i vostri villaggi. Come Capo del Governo sono lieto di essermi trovato qui fra popolazioni laboriose, tranquille, veramente pazienti per quanto troppo a lungo dimenticate e considerate quasi come una colonia lontana. È opportuno si sappia che la Sardegna è una delle prime regioni d'Italia, anche perché ha dato il maggiore contributo di sangue alla guerra vittoriosa.
Come Capo del Fascismo sono lieto di essermi trovato con le eroiche camicie nere e avere visto la splendida rifioritura del Fascismo, che porterà una totale rinnovazione nella vostra terra.
Piacenza, 18 giugno 1923: MUSSOLINI parla al popolo piacentino.
Segue il discorso pronunziato a Piacenza, dal Palazzo del Governatore, dopo la rivista della Milizia Nazionale, degli Avanguardisti e dei Balilla nella Piazza dei Cavalli.
Camicie Nere! Avanguardisti! Balilla! Cittadini della primogenita!
Io non trovo parole sufficienti per esprimervi la mia commozione e la mia profonda gratitudine.
Tutte le volte che io mi allontano da Roma, dove i residui di piccole caste politiche si illudono ancora sulla loro vitalità, e mi confondo tra il popolo, io ho veramente davanti ai miei occhi la impressione visiva plastica di una magnifica, di una splendida, di un incomparabile primavera.
Qui in questa città storica, qui pulsa gagliardo il sangue della nuova generazione, qui più che altrove il popolo in tutte le sue categorie ha compreso che in questo momento la disciplina, la concordia, il lavoro sono elementi necessari per la ricostruzione della Patria. Qui è il consenso, non soltanto la forza. Qui è il consenso che si raccoglie attorno a me e attorno al Governo che ho l'onore di dirigere, perché sa e sente che è un Governo che agisce, che legifera al di sopra di tutti gli interessi delle singole classi e categorie e non ha in vista che il bene supremo di tutta la Nazione.
Io vorrei — e ci riuscirò — vorrei, come ho detto, rendere grande, prospero e libero tutto il popolo italiano: ci riuscirò. Ci riuscirò malgrado i tempi difficili, malgrado le crisi e un complesso di circostanze che sono all'infuori e al di sopra della nostra volontà umana. Ma al di sopra delle volontà singole e individuali c'è ormai in atto ed in potenza una magnifica volontà collettiva; una volontà collettiva di tutto il popolo italiano che oggi è compatto, solidale, omogeneo attorno al Fascismo, in quanto il Fascismo rappresenta il prodigio della razza italiana che si ritrova, si riscatta, che vuole essere grande.
Noi dobbiamo imporre le dure discipline e se qualche volta dobbiamo colpire le categorie, lo facciamo per salvare la Nazione, per salvare il tutto che è rappresentato dal popolo italiano.
Davanti a questa folla io evoco le giornate di Napoli, quelle che si poterono chiamare la Sagra della vigilia; avevo dinanzi a me 40.000 camicie nere venute da ogni parte d'Italia, e questi magnifici campioni della nostra razza scandivano in un ritmo che aveva del religioso e del solenne queste parole: «-Roma! Roma! Roma!-».
Io tacevo perché non era ancor suonata l'ora, ma la decisione era già maturata nel mio animo. Dopo quattro giorni, Roma non era più soltanto un grido: era una meta che avevamo raggiunta.
Perciò io dico a voi: «-Camicie nere, serbate purissima, immacolata la vostra fede. Il fascismo ha preso Roma perché ne aveva il diritto, perché in questa battaglia aveva lanciato a centinaia ed a migliaia i suoi magnifici giovinetti. Il fascismo avendo questo diritto, lo rivendica in pieno e sa che nei vostri cuori, o camicie nere, questa fiamma brucia ancora e li riscalda e li esalta e li tiene pronti pei i compiti che ancora ci attendono». Vi saluto gridando: «Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!-».
Cremona, 19 giugno 1923: MUSSOLINI parla ai cremonesi.
Discorso pronunziato a Cremona, nella Piazza del Comune, il 19 giugno, in risposta alle parole del Sindaco della città.
Il saluto che Ella mi ha voluto portare, mi giunge oltremodo gradito, non soltanto perché mi viene dal primo Magistrato di una città nobile, ricca di bellezze e di monumenti, e piena di ingegni, ma ancora più perché voi, Signor Sindaco, siete il rappresentante di una città piena di audacia, di forza e di disciplina e perché mi ricordate l'epoca garibaldina delle camicie rosse, presa in eredità dalle camicie nere.
Voi mi avete detto che non vale la pena di inseguire certe farfalle sotto l'Arco di Tito. Io vi dico che non ce ne sono. Le piccole diffamazioni sono residui del nostro mal costume. Tutte le volte che io scendo fra il popolo italiano, del quale mi vanto di essere, se non degno, almeno fierissimo figlio, sento che al di là di certe piccole mene c'è il popolo, il popolo sano, il popolo tranquillo che lavora. Quando penso a questo popolo cui non ho potuto dare ancora nulla di quello che si dice benessere materiale, e al quale io debbo infliggere una rigida disciplina, quando vedo questo popolo che è tranquillo e non si lagna, devo constatare che la salute morale del popolo è inattaccabile.
Certamente occorrerà che nessuno abusi del nostro spirito generoso, perché altrimenti interverrebbe la forza; se, cioè, quei residui di cui parlavo poco fa intendessero occupare ancora un po' la scena politica, essi sanno, e tutti gli italiani debbono saperlo, che io chiamerei le camicie nere, molte delle quali mordono il freno e sono impazienti.
La fede nel Fascismo, la mia fede, è qualche cosa che va al di là del semplice Partito, della semplice idea, della sua necessaria struttura militare, del suo necessario sindacalismo, del suo tesseramento politico. Il Fascismo è un fenomeno religioso di vaste proporzioni storiche, ed è il prodotto di una razza. Nulla si può contro il Fascismo: nemmeno gli stessi fascisti potrebbero nulla contro questo movimento gigantesco che si impone.
Signor Sindaco, le manifesto il mio più alto compiacimento. Tutti i paesi che ho attraversati mi hanno mostrato il loro consenso: dovunque ho constatato che la vita, ha un ritmo tranquillo; le messi biondeggiano nei campi e saranno presto mietute. La Nazione riprende la sua vita. E quando penso alla Nazione, sento nelle arterie affluire un sangue nobile purissimo: questo sangue vien dal cuore della Nazione italiana che riaccelera i suoi palpiti.
Camicie Nere! Popolo di Cremona!
Ecco che per un singolare destino propizio ai miei voti mi ritrovo, dopo sette mesi, a parlare a questa marea umana nella stessa armoniosa piazza che accolse la mia voce prima della Marcia su Roma.
Io guardo nei vostri occhi, che possono guardare nei miei e interrogarmi e domando: «-Mi trovate voi cambiato in qualche linea?-». Sono sicuro che nessuno di voi ha pensato, nemmeno nei momenti di incertezza, che io potessi diventare diverso da quello che sono. Ho l'orgoglio di essere quello che sono, cioè un uomo che prima di imporre dei sacrifici agli altri li impone a se stesso, e prima di chiamare la disciplina per gli altri a questa disciplina si sottopone. Tutto il popolo è raccolto in questa piazza, non solo il popolo di Cremona, ma tutto il popolo italiano; tutto il popolo italiano delle tre diverse categorie che sono raccolte oggi intorno al Governo.
È forse la prima volta nella storia italiana che il Capo del Governo può andare tra la folla tranquillamente senza le preoccupazioni che potevano affliggere certi individui in altri tempi. Sono della vostra razza, ho lo stesso vostro sangue, le stesse vostre virtù e naturalmente gli stessi vostri difetti. Appunto per questo si stabilisce fra noi la perfetta comunione degli spiriti: basta che io vi chiami, perché dalle città e dai borghi e dai casolari un coro unanime e formidabile risponda: «-Presente!-».
Camicie Nere!
Voi potete avere fiducia in me. Io sono il difensore inflessibile, severo, implacabile della nostra rivoluzione e se per difender questa rivoluzione, alla quale avete dato il prezioso contributo del vostro sangue, fosse necessario ricominciare ancora, ricomincieremo.
A chi la battaglia? A chi la gloria? A chi l'Italia?
A queste tre domande rispondono in coro i fascisti con triplice formidabile grido: «-A noi!-».
Firenze, 19 giugno 1923: Mussolini parla ai fiorentini.
Da Cremona il Duce passò a Firenze, ove nello stesso giorno, 19 giugno, nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, gli fu solennemente conferita la cittadinanza onoraria. In tale occasione Egli pronunziò il seguente discorso:
Signor Sindaco! Signori Consiglieri! Popolo di Firenze, Firenze, capitale, da parecchi secoli, della intelligenza italiana!
Ecco che davanti all'onore che voi mi fate, io mi sento un poco trepido e commosso. Essere cittadino di Firenze, di questa città che ha segnato così indelebili traccie nella storia dello spirito umano, rappresenta il fatto memorabile e dominante della mia vita.
Io non so se sono degno di tanto onore...
Quello che ho fatto sin qui non è molto; però, o cittadini di Firenze, la mia volontà è incrollabile.
Può fallire la carne umana, che è sempre fragile, ma non il mio spirito, che è dominato da una verità religiosa, umana: la verità della Patria.
Da quando il Fascismo ha alzato i suoi gagliardetti, accese le sue fiamme, cauterizzate le piaghe che infestavano il corpo divino della nostra Patria, noi italiani, che ci sentiamo orgogliosissimi di essere italiani, noi ci comunichiamo in ispirito con questa nuova fede.
Cittadini di Firenze!
Vi faccio una promessa: e, siate sicuri, la manterrò! Vi prometto, e Iddio mi è testimone in questo momento della purezza assoluta della mia fede, vi prometto che continuerò ancora e sempre ad essere un umile servitore della nostra Patria adorata.
Dopo la cerimonia nel Salone dei Cinquecento, il Duce si affacciò al balcone centrale di Palazzo Vecchio, e parlò al popolo affollato in Piazza della Signoria:
Camicie Nere di Firenze e della Toscana, Fascisti, popolo!
Dove trovare le parole necessarie per esprimere la piena dei sentimenti che traboccano dal mio spirito? La mia parola non può essere che inadeguata allo scopo; la vostra accoglienza solenne, entusiastica, mi commuove fino nel profondo dell'animo. Non è certamente soltanto a me che rendete questo onore straordinario ma è, io credo, all'Idea di cui sono stato banditore inflessibile.
Firenze mi ricorda i giorni in cui eravamo pochi.
Qui tenemmo la prima adunata gloriosa dei Fasci italiani di combattimento; dovevamo spesso interrompere il nostro Congresso per scendere in piazza a disperdere la vile canaglia.
Eravamo pochi allora; ebbene, malgrado questa marea oceanica di popolo, io dico che siamo pochi ancora, non già per i nemici che sono sgominati per sempre, ma per i compiti grandiosi ed imperiali che attende la nostra Italia.
Io dicevo che i nemici sono sgominati, poiché non faremo più l'onore di considerare come nemici certi cadaveri della politica italiana che si illudono di vivere ancora semplicemente perché abusano della nostra generosità. Ditemi, dunque, o camicie nere di Toscana e di Firenze, se è necessario di ricominciare, ricomincieremo?
(La folla grida: Sì! Sì!).
Questo vostro urlo potente più che una promessa è un giuramento che sigilla l'Italia del passato, l'Italia dei barattieri, dei mistificatori, dei pusillanimi e apre il varco alla nostra Italia, a quella che portiamo superbamente nei nostri cuori, di noi, nuova generazione che adora la forza, che si ispira alla bellezza, che è pronta a ogni rischio quando si tratta di sacrificarsi, di combattere e di morire per l'Ideale.
Io vi dico che l'Italia riprende. Due anni fa, quando imperversava la bestialità della demagogia rossa, partirono per la Coppa Baracca, in onore del nostro purissimo Cavaliere dell'aria, soltanto 20 apparecchi, l'anno scorso 35, quest'anno 90, sinora, e come abbiamo riconquistato il dominio del cielo, vogliamo che il mare non sia una cintura contro la nostra vitalità, ma invece la strada per la nostra necessaria espansione nel mondo.
Questi, o fascisti, o cittadini, sono i compiti grandiosi che ci attendono. E non falliremo a questa meta se ognuno di voi scolpirà nel cuore le parole in cui si riassume il comandamento di quest'ora ineffabile della nostra storia di popolo: il lavoro che a poco a poco ci deve riscattare dalla soggezione dell'estero, la concordia che deve fare degli italiani una sola famiglia, e la disciplina per cui a un dato momento tutti gli italiani diventano uno e marciano insieme verso la stessa meta.
Camicie nere, voi sentite che tutte le manovre degli avversari tendenti a separarmi da voi sono ridicole e grottesche.
Il Fascismo — e qui non vi sembri peccato di orgoglio la constatazione — io l'ho guidato sulle strade consolari di Roma e Roma è nel nostro solido pugno: e se qualcuno si facesse delle illusioni al riguardo, io non avrei che da fare un cenno, che da alzare un grido, che da dare una parola d'ordine: «A noi».
Levate in alto i vostri gagliardetti; essi sono consacrati dal purissimo sangue dei nostri morti, e quando una fede è stata consacrata dal sangue vermiglio e giovinetto, non può fallire, non può morire e non morrà.
Camicie nere! A chi il combattimento?
(Una voce unanime si leva dalla piazza ed un solo grido si ode: A noi!).
A chi la gloria?
(A noi!).
A chi Roma?
(A noi!).
A chi l'Italia?
(A noi!).
E così sia.
Messina, 22 giugno 1923: MUSSOLINI parla ai messinesi.
La notizia d'una nuova eruzione dell'Etna chiamò il Capo del Governo in Sicilia. Al suo ritorno da Catania, sostò a Messina e vi pronunziò il seguente discorso:
Messinesi!
Come ho detto ieri sera ai vostri fratelli di Catania, non è, questo che io compio, un viaggio politico o ufficiale; è semplicemente un pellegrinaggio di devozione e di amore verso la vostra terra, che ancora una volta è duramente colpita.
Ho pensato, tornando da Catania, di fermarmi a Messina per rendermi conto della situazione della vostra città. Già da una prima impressione, che potrei chiamare decisiva, ho avuto la nozione del problema che si esprime in questi molteplici termini: gran parte di Messina attende la sua ricostruzione. Oggi stesso io desidero sentire dalla viva voce dei vostri rappresentanti quali sono gli immediati bisogni della vostra città; devo dichiararvi che il Governo intende di compiere e compirà il suo preciso e categorico dovere. Messina deve completamente risorgere, deve tornare bella, grande, prosperosa come era una volta. Non è soltanto un interesse messinese o siciliano, è un interesse di ordine squisitamente nazionale. Sono qui dunque per porgervi l'attestazione sincera, fraterna, veramente fraterna, del Governo Nazionale, che è, in questo momento, lo affermo in modo solenne, l'interprete sicuro della rinnovata coscienza nazionale italiana.
Il Governo che ho l'onore di rappresentare si è trovato sulle braccia una infinità di problemi arretrati. Non faccio accuse al passato, è una constatazione di fatto. Questi problemi dovranno essere risolti, saranno risolti perché è utile, perché è necessario, perché è doveroso.
Messinesi!
Il tempo in cui le isole che tanto sacrificio di sangue hanno dato alla nostra gloriosa e vittoriosa guerra erano dimenticate o trattate come colonie, questo tempo è ormai lontano, sepolto, sotterrato per sempre. La fraternità e la solidarietà nazionale non devono essere più, d'ora innanzi, soltanto delle parole per le cerimonie, ma devono essere opere concrete di solidarietà nazionale ed umana.
L'Italia deve molto alle sue isole; la Sardegna e la Sicilia furono dimenticate purtroppo, ma queste isole dimenticate nell'ora del cimento si sono ricordate superbamente della Patria comune.
Parto da questa vostra terra con una impressione di tristezza per ciò che ho visto a Linguaglossa, ma anche con una impressione di fierezza perché, a Linguaglossa ed altrove, ho visto una popolazione seria, tranquilla, laboriosa, veramente degna della tradizione superba della vostra isola. Ne terrò conto, e mentre vi prego di gradire l'attestazione della mia sincera e fraterna simpatia di compagno, vi invito a levare insieme il grido che riassume la nostra fede di italiani: «-Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!-».
Ultima modifica di Admin il Mer 21 Mar 2018, 16:04 - modificato 1 volta.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1923
Roma, 24 giugno 1923: MUSSOLINI Parla ai Combattenti.
Roma, 24 giugno 1923: MUSSOLINI Parla ai Combattenti.
MUSSOLINI pronuncia dal balcone di Palazzo Venezia, ai commilitoni adunati in Roma per la Sagra dei Combattenti, il seguente discorso:
Commilitoni!
Dopo che le vostre squadre meravigliose di disciplina e di portamento sono sfilate davanti alla maestà del Re che è il simbolo intangibile della Patria; dopo la cerimonia austera nella sua silenziosa solennità davanti al tumulo del Fante Ignoto: dopo questo formidabile spettacolo di forza e di santità, le mie parole sono assolutamente superflue. Non intendo farvi un discorso. La sfilata di oggi è una manifestazione piena di significato e di ammonimento. Tutto un popolo in armi, spiritualmente è oggi convenuto nella città eterna: tutto un popolo che al di sopra delle deviazioni inevitabili dei partiti si ritrova gagliardamente unito quando è in giuoco la salvezza della Patria comune.
Per il disastro di Linguaglossa la solidarietà nazionale ha avuto una delle sue manifestazioni migliori; da tutte le città, da tutti i villaggi, si potrebbe dire da tutti i casolari, un palpito di amore fraterno è andato verso la terra colpita dalla sventura.
Oggi diecine di migliaia di combattenti, migliaia di bandiere, uomini venuti a Roma da tutte le parti d'Italia e dalle lontane colonie dell'estero, stanno a dimostrare inesorabilmente che l'unità morale della Patria italiana è un fatto compiuto ed irrevocabile.
Dopo sette mesi di Governo il parlare a voi, commilitoni delle trincee, è il più alto onore che mi potesse toccare. E non lo dico per adularvi: non lo dico per rendervi un omaggio che potrebbe sembrare di prammatica. Io ho il diritto di interpretare questa vostra adunata che si raccoglie a sentire la mia parola come un gesto di solidarietà col Governo nazionale. Non solleviamo parole e fantasmi inutili. Ma io vi domando: Ci deve essere la libertà per mutilare la vittoria? (grida: no! no!). Ci deve essere la libertà di sabotare la Nazione? (grida: no! no!). Ci deve essere la libertà per coloro che hanno come programma di sconvolgere le istituzioni che ci reggono? (grida: no! no!). Ripeto quello che ho detto altra volta, in maniera esplicita. Io non mi sento infallibile; mi sento uomo come voi.
Non respingo, non posso, non voglio respingere nessuna collaborazione leale, fraterna e sincera.
Commilitoni!
Il compito che grava sulle mie spalle, ma anche sulle vostre è semplicemente immenso, e ci impegnerà per un lungo periodo di anni. È necessario, quindi, non disperdere, ma tesoreggiare ed utilizzare tutte le energie che siano rivolte al bene della Patria. Sono passati cinque anni dalla battaglia vittoriosa per eccellenza, vittoriosa perché su di essa non si può sofisticare né al di qua né al di là della frontiera. Bisogna proclamarlo per voi, che mi ascoltate, ed anche per coloro che mi leggeranno, che la vittoria del giugno sul Piave fu decisiva ai fini di tutta la guerra. Sul Piave rovinò l'impero austro-ungarico, dal Piave si librò sulle sue ali candide la vittoria italiana. Il Governo intende esaltare i valori spirituali che sorgono dalla vittoria del popolo in armi. Non intende disperderli, perché essi rappresentano la semente sacra per l'avvenire. Più ci allontaniamo da quei giorni e più ci sembrano grandi, maestosi, formidabili; più ci allontaniamo da quella vittoria e già tutto appare come in un alone di leggenda e tutti vorrebbero esserci stati.
Troppo tardivamente qualcuno si accorse che quando la Patria è in pericolo, il dovere di tutti i cittadini, dal più alto al più basso, è uno solo: combattere, soffrire, e, se occorre, morire!
Noi abbiamo vinto la guerra, noi abbiamo demolito un impero che gravava sulle nostre frontiere e ci mozzava il respiro e ci teneva perennemente sotto il ricatto della sua minaccia armata. La storia non finisce o commilitoni; la storia dei popoli non si misura ad anni ma a decenni, a secoli! Questa vostra manifestazione è un segno infallibile della vitalità del popolo italiano.
La frase che si deve vincere la pace non è un luogo comune. Racchiude una profonda verità. La pace si vince con la concordia, col lavoro, con la disciplina. Questo è il vangelo aperto dinanzi agli occhi delle nuove generazioni, che sono uscite dalle trincee, un vangelo semplice e schietto che tiene conto di tutti gli elementi, che utilizza tutte le energie, che non si abbandona a tirannia o ed esclusivismi grotteschi, perché ha dinanzi agli occhi una meta sola, una meta comune: la grandezza e la salvezza della Nazione!
Combattenti!
Voi siete venuti a Roma, ed è naturale, io oserei dire, fatale! Perché Roma è sempre, e domani e nei millenni, il cuore potente della nostra razza. È il simbolo imperituro della nostra vitalità di popolo. Chi tiene Roma, tiene la Nazione.
Vi assicuro, o Commilitoni, che il mio Governo, nonostante le difficoltà aperte o larvate, terrà fede ai suoi impegni. È il Governo di Vittorio Veneto. Voi lo sentite e voi lo sapete; se non lo credeste, non sareste qui raccolti in questa piazza! Portate nelle vostre città, nei vostri paesi, nelle vostre case lontane, ma vicine al mio cuore, portate l'impressione gagliarda e formidabile di questa adunata.
Tenete accesa la fiamma poiché quello che non è stato può essere: poiché se la vittoria fu mutilata una volta, non è detto che non possa essere mutilata un'altra volta. Io prendo atto della vostra promessa, del vostro giuramento. Conto su di voi come conto su tutti i buoni italiani, ma conto soprattutto su di voi, perché siete della mia generazione, perché siete usciti dal travaglio fangoso e sanguinoso della trincea, perché avete vissuto e lottato e sofferto, in cospetto della morte, perché avete compiuto il vostro dovere ed avete il diritto di rivendicare ciò che vi aspetta, non soltanto dal punto di vista materiale, ma anche dal punto di vista morale. È passato per sempre, io ve lo dico e ve lo giuro, il tempo in cui i combattenti reduci dalle trincee dovevano quasi vergognarsi; il tempo in cui si dava agli ufficiali il codardo consiglio di vestire in borghese, lutto ciò è sepolto. Non dovete dimenticare, e nessuno lo dimentichi, che sette mesi fa, 50.000 camicie nere, armate, vennero a Roma a seppellire il passato. Combattenti, commilitoni, eleviamo in cospetto del grande compagno ignoto il grido che riassume la nostra fede: Viva il Re! Viva l'Italia vittoriosa, intangibile, immortale!
Roma, 28 giugno 1923: MUSSOLINI risponde all'Ambasciatore degli Stati Uniti d'America.
L'Associazione Italo-Americana offerse — nella sua sede di Palazzo Salviati in Roma — un pranzo al Capo del Governo e all'Ambasciatore degli Stati Uniti d'America, S. E. Child. Questi parlò dell'amicizia italo-americana, e il Duce gli rispose con il seguente discorso:
Signor Ambasciatore!
Il discorso che V. E. ha pronunciato in questa riunione destinata a fortificare i vincoli di simpatia e di fraternità italo-americana, mi ha profondamente interessato nella mia qualità di italiano e di fascista. Nella mia qualità di italiano, perché Ella ha avuto parole schiette di cordiale adesione per il Governo che ho l'onore di dirigere. Non ho bisogno di aggiungere che tale cordialità è ricambiata da me e dagli italiani tutti; non vi è dubbio che gli elementi per una collaborazione pratica fra i due popoli esistono: si tratta soltanto di organizzare questa collaborazione. Qualche cosa si è fatto, ma il più resta da fare. Non recherà sorpresa a V. E. se accenno, senza particolarmente insistervi, ad un problema che ci riguarda in modo assai diretto: parlo del problema dell'emigrazione. Mi limito soltanto a dire che l'Italia vedrebbe con soddisfazione aprirsi nelle maglie alquanto rigide dell'immigration bill un varco tale da consentire di aumentare il suo contingente emigratorio per il Nord America e vedrà, con altrettanta soddisfazione, l'impiego di capitale americano in imprese italiane.
Nella mia qualità di fascista le parole di V. E. mi hanno interessato, perché rivelano un'esatta comprensione del nostro movimento e ne costituiscono anzi una simpatica ed imponente rivendicazione.
Il fatto è tanto più notevole in quanto il movimento fascista è assai complesso, ed una mentalità straniera non sempre è la più adatta a penetrarlo.
Ella sì, Ambasciatore, costituisce una eccezione brillantissima a questa regola. Nel suo discorso, oso affermare, c'è tutta la filosofia del Fascismo e dell'azione fascista, intesa come esaltazione della forza, della bellezza, della disciplina, della gerarchia e del senso di responsabilità.
Ella ha potuto constatare, signor Ambasciatore, che malgrado le enormi difficoltà della situazione in generale, il Fascismo ha tenuto fede alle promesse lanciate prima della marcia su Roma.
Il tempo intercorso è troppo breve e solo uno stolto può pretendere che l'opera mia sia già compiuta. Mi limito a dire, e in ciò mi pare di trovare l'autorevole consenso della E. V., che essa è bene cominciata.
Sono certo, signor Ambasciatore, che tutti gli italiani leggeranno con emozione il discorso che Ella ha pronunciato in questa memorabile circostanza; li invito anzi e specialmente a meditarlo.
Non è stato quello che ho udito testé un discorso dello stile e della misura dei soliti discorsi convenzionali. È l'esposizione chiara e suggestiva di quella concezione della vita e della storia che inspira il Fascismo italiano. Non credo di ingannarmi se affermo che questa concezione trova gagliardi e numerosi partigiani anche oltre oceano, fra i cittadini di un popolo che non ha i millenni della nostra storia, ma marcia oggi all'avanguardia del progresso umano; è in questa affinità di concezioni che io trovo la base solida di una fraterna intesa italo-americana.
L'annuncio che Ella, signor Ambasciatore, destina una corona d'oro al giovane italiano che vincerà in qualcuna delle prossime gare olimpioniche, scenderà gradito al cuore di tutti gli sportivi d'Italia e sono essi, V. E. lo sa, innumerevoli legioni.
Ringrazio V. E. in nome della gioventù italiana che indossa quasi tutta, specie negli sportivi, la camicia nera, e mentre incoraggio l'Associazione italo-americana a perseverare nell'esecuzione del suo nobile programma, dichiaro che il mio Governo farà tutto quanto è necessario per sviluppare e rinsaldare i rapporti economici e politici fra gli Stati Uniti e l'Italia.
Levo il bicchiere alla salute del Presidente Harding ed alle fortune del potente popolo americano!
Roma, 15 luglio 1923: MUSSOLINI interviene nella discussione per la riforma elettorale.
Alla Camera dei Deputati, stava chiudendosi la discussione del progetto di legge per la riforma elettorale, MUSSOLINI tenne il seguente discorso:
Onorevoli signori!
Avrei preferito intrattenere questa Assemblea sulla questione di politica estera che in questo momento interessa l'Italia ed appassiona il mondo: parlo della Ruhr.
Avrei, io credo, dimostrato che l'azione dell'Italia è autonoma ed è ispirata dalla tutela dei nostri interessi ed anche dal bisogno generalmente sentito di uscire da una crisi che impoverisce ed umilia il nostro Continente.
Mi riprometto di far ciò in un prossimo giorno, se la Camera non vorrà oggi avere il capriccio di morire anzi tempo.
Il mio discorso sarà assai calmo e misurato, se pure a fondo resistente. Si comporrà di due parti: una che vorrei chiamare negativa, ed una che chiamerò positiva.
In fondo non mi dispiace che la discussione abbia poco o molto superato i confini nei quali forse poteva essere contenuta. La discussione sulla riforma elettorale ha offerto il motivo all'opposizione di manifestarsi, di muoversi da tutti i fronti, da tutti i settori ad un attacco contro la politica ed i sistemi politici del mio Governo. Non vi sorprenderà, dunque, se io, pur non scendendo ai dettagli di tutti i discorsi, toglierò dai discorsi degli oratori principali quelle tesi e quelle proposizioni che io debbo assolutamente contrastare e ribattere.
Dato che il discorso dell'onorevole Petrillo è stato favorevole al Governo, non occorre occuparsene.
Mi occuperò invece del discorso pronunziato dall'onorevole Gronchi, un discorso fine nella forma e forse anche più nel contenuto. L'onorevole Gronchi ha offerto ancora una volta al Governo una collaborazione di convenienza, uguale a quei matrimoni di convenienza che non durano, o finiscono nello sbadiglio di una noia senza fine.
La vostra collaborazione, o signori popolari, è piena di sottintesi. Il vostro stesso partito ha molti sottintesi. Voi dovreste applicarvi a chiarirli. Non so per quanto tempo ancora potranno restare uniti nella vostra compagine elementi che vogliono collaborare lealmente col Governo nazionale ed elementi che vorrebbero collaborare, ma non possono, perché il loro intimo sentimento non consente loro questo passo e questa collaborazione.
Voi certamente mi conoscete abbastanza per capire che in sede di discussione politica io sono intransigente. I piccoli mercati dei due quinti e dei tre quarti o di qualche altra frazione di questa abbastanza complicata aritmetica elettorale non può essere un commercio a dettaglio. O si è, o non si è. Sono così poco elettoralista che potrei darvi i trenta o i quaranta deputati che vi interessano, ma non ve li do, perché ciò sarebbe immorale, perché sarebbe una transazione che deve ripugnare alla vostra coscienza, come ripugna alla mia.
Insomma non si può fornirmi una collaborazione maltusiana.
Certamente forte è stato il discorso pronunciato dall'onorevole Labriola. Egli ha detto: «-Le crisi ministeriali rappresentano il surrogato — bisognerebbe dire ersatz, perché surrogato, dalla guerra in qua, è di natura tedesca — della rivoluzione-». È un giudizio troppo semplicista per essere accettato! Può essere che il difetto di crisi ministeriale conduca alla rivoluzione; ma voi avete qui un esempio che vi dimostra come l'eccesso di crisi ministeriali conduca esso pure a una rivoluzione.
Ma soprattutto mi ha stupito di sentire l'onorevole Labriola manovrare ancora la vecchia nomenclatura della letteratura socialista di secondo ordine: borghesia e proletariato, come due entità nettamente definite e perpetuamente in istato di antagonismo.
È certamente vero che non c'è una borghesia, bensì ci sono forse ventiquattro o quarantotto borghesie e sottoborghesie; ma è lo stesso del proletariato.
Che rapporto volete che ci sia fra un operaio della «-Fiat-» specializzato, raffinato, a gusti e tendenze già borghesi, che guadagna dalle 30 alle 50 lire al giorno, o le guadagnava: che rapporto volete che ci sia tra questo uomo, questo sedicente proletario, e il povero cafone dell'Italia Meridionale che gratta disperatamente la sua terra bruciata dal sole?
Ha detto l'onorevole Labriola che solo il proletariato può darsi il lusso di una dittatura. Errore! Errore documentato e documentabile. L'unico esempio di dittatura del proletariato, ci è offerto dalla Russia; ma l'onorevole Labriola ha scritto diecine di articoli per dimostrare come qualmente la dittatura non esiste in Russia, e la dittatura non è del proletariato. Tutti i dirigenti dello Stato russo sono professori, avvocati, economisti, letterati, gente di ingegno, cioè usciti dalle classi professionali della borghesia.
La colpa che ci fa l'onorevole Labriola, il quale ci accusa di trovare una analogia insussistente tra i metodi e lo svolgimento della rivoluzione russa e il metodo e lo svolgimento della rivoluzione italiana, è insussistente, in quanto che io faccio qui una semplice constatazione d'ordine storico. È un fatto che tanto l'una quanto l'altra rivoluzione tendono a superare tutte le ideologie e, in un certo senso, le istituzioni liberali e democratiche che sono uscite dalla rivoluzione francese.
Mi dispiace molto che l'onorevole Alessio abbia portato qui i rancori meschini e torbidi delle logge giustinianee.
Alessio. Non ho mai appartenuto, come non appartengo, alla Massoneria!
Mussolini. In questi giorni si è con molta frequenza fatto ricorso ad un metodo polemico, abbastanza usato ed abusato: quello di risuscitare gli scritti e le opinioni del tempo passato per farsene un'arma nella polemica presente. È un pessimo sistema che io ritorco contro coloro che l'hanno impiegato.
In un discorso pronunziato dall'onorevole Alessio a Lendinara, nel quale discorso fu presentato dal candidato fascista Aldo Finzi, l'onorevole Alessio così fotografava la situazione: «-Tra un gruppo numeroso, intemperante, ignorante e passivo di socialisti e un ibrido gruppo di costituzionali si ergeva ambizioso e arbitro delle sorti della Nazione il partito popolare che coi suoi capricci, alle volte d'accordo coi socialisti, provocava crisi ministeriali dannosissime per poter ottenere l'inclusione nel Gabinetto dei propri rappresentanti. Ogni discussione parlamentare si protraeva inutilmente tra l'indifferenza degli uni e l'ostruzionismo degli altri. La Camera non poteva più adempiere alla sua funzione legislativa ed essa poi, in seguito al grande risveglio della borghesia italiana di quest'anno, non poteva più rappresentare legittimamente il popolo italiano-».
Questo potrebbe in un certo senso riguardare i popolari. Ma l'onorevole Alessio è un uomo che ha molte frecce, se non nel suo fianco, nella sua faretra, e si occupava quindi anche dei socialisti e delle loro leghe.
«-Il sistema delle leghe — disse in un altro discorso elettorale — aveva distrutto le iniziative, l'impulso, l'attività individuale, dimenticando che solo per esso può svilupparsi e progredire il processo produttivo. Guai a togliere dalla vita economica lo stimolo e l'incentivo all'opera rappresentati dal miraggio della conquista di un determinato stato di agiatezza! Guai a togliere all'uomo la possibilità di tramandare ai figli i frutti del suo lavoro intellettuale e intelligente! La prosperità del paese ne avrebbe un colpo mortale, ecc.-».
Nel suo discorso l'onorevole Alessio ha affermato che la disfatta degli Imperi Centrali si deve alla deficienza dei loro organi rappresentativi. Mi permetto di dirgli che questa è una spiegazione unilaterale e semplicista. C'è stata una guerra, ci sono stati milioni di uomini che hanno combattuto contro gli Imperi Centrali, e alla vittoria e alla guerra si deve la disfatta degli Imperi Centrali.
Altro errore: che dopo Caporetto l'Italia si sia ripresa, perché è ritornata la sua libertà. Affatto! Le è stata imposta la necessaria disciplina della guerra.
Io non sono di quel parere secondo il quale Caporetto sarebbe dovuta tutta alla disintegrazione del fronte interno.
È stato un rovescio di ordine militare nelle sue cause e nel suo svolgimento. Ma non vi è dubbio che l'atmosfera di indulgenza, di eccessiva tolleranza, ha prodotto fenomeni morali di turbamento che dovevano influire su quel nostro rovescio.
E perché, onorevole Alessio, disturbate Felice Cavallotti?
Quello che accade in questi giorni è veramente singolare. Da anni ed anni nessuno più si ricordava di Felice Cavallotti.
Scomparso dalla scena milanese Carlo Romussi, che portava questo suo bagaglio come una specie di eredità gloriosa, la data del 6 marzo passava, e nessuno se ne accorgeva. Perché? Per una ragione molto semplice. Perché Cavallotti non dice più niente al popolo italiano, né con la sua letteratura, e meno ancora con la sua politica.
Superficiale è l'altra affermazione dell'onorevole Alessio, che il Risorgimento italiano sia stato lo sforzo del popolo italiano. Non è così, purtroppo. Il popolo italiano, nelle sue masse profonde, è stato assente e spesso ostile. I primi albori del Risorgimento italiano vengono da Napoli, da quella borghesia di professionisti prodi ed intelligenti che nell'Italia Meridionale rappresenta una classe definita storicamente, politicamente e moralmente.
Quelli che a Nola, nel 1821 levarono lo stendardo della rivolte contro i Borboni, erano due ufficiali di cavalleria. Tutto il martirologio nobilissimo del Risorgimento italiano, è martirologio di borghesi.
Niente di più triste del sacrificio inutile dei fratelli Bandiera! E quando voi pensate alla tragedia di Carlo Pisacane, un brivido di commozione vi prende lo spirito.
Io vorrei escludere che lo stesso Giuseppe Mazzini possa essere inquadrato nella democrazia. I suoi metodi non erano certamente democratici. Era un coerentissimo nel fine; ma quante volte è stato incoerente e mutevole nei mezzi!
E Cavour? Io penso che l'avvenimento che ha preparato realmente l'unità della Patria sia stato la spedizione di Crimea, uno dei fatti più singolari della storia. E lo ricordo, perché dimostra come e qualmente nelle ore solenni la decisione è affidata al singolo, che deve consultare soltanto la propria coscienza!
Quando il generale Dabormida rifiutò di segnare il trattato di alleanza con la Francia e l'Inghilterra, Cavour, la sera stessa del 10 gennaio 1855, lo firmò senza consultare il Parlamento, senza consultare il Consiglio dei Ministri, e soprattutto, a discrezione, senza porre condizioni di sorta.
Fu un gesto di una temerità che si potrebbe chiamare sublime. E lo stesso Cavour lo riconosceva quando, scrivendo al Conte Oldofredi, diceva: «Ho assunto sul mio capo una responsabilità tremenda. Non importa. Nasca quello che deve nascere. La mia coscienza mi dice di avere adempiuto ad un sacro dovere».
Avviene la discussione al Parlamento subalpino quando già i soldati del piccolo e grande Piemonte partivano o stavano per partire, e Angelo Brofferio, una specie di Cavallotti dell'epoca, accusò Cavour di non avere un preciso indirizzo politico. Vale veramente la pena che io rilegga parte di questo discorso, perché ricorda assai da vicino i discorsi che in questa settimana sono stati pronunciati in quest'aula.
«-I nostri ministri — diceva Angelo Brofferio — si fanno centro di tutto. Essi rappresentano tutte le idee e tutte le convinzioni. Una volta si fanno conservatori e tolgono i giurati alla stampa, un'altra volta pigliano sembianze di democratici e sorgono contro le usurpazioni di Roma; un'altra volta gettano la maschera e si fanno retrogradi per unirsi all'Austria-».
Angelo Brofferio concludeva con queste veramente singolari parole: «-Dove è, con questo sistema, il rispetto delle convinzioni e della moralità costituzionale?». E riferendosi al trattato, soggiungeva: «Dio disperda il funesto augurio, ma se voi consentite a questo trattato, la prostituzione del Piemonte e la rovina dell'Italia saranno un fatto compiuto-».
Curioso ancora che un altro ideologo potentissimo, e certamente sacro al cuore di tutti gli italiani, Giuseppe Mazzini, era anche lui contrarissimo a questo trattato, e giunse sino al punto di chiamare deportati i soldati piemontesi che andavano in Crimea, sino al punto di incitarli alla diserzione!
Ma Garibaldi, spirito molto più pratico di condottiero, spirito realistico, aveva intuito l'importanza fondamentale del Trattato di Alleanza tra il Piemonte e le Potenze occidentali.
«L'Italia — diceva Garibaldi — non dovrebbe perdere nessuna occasione di spiegare la propria bandiera sui campi di battaglia, che potesse ricordare alle Nazioni europee il fatto della sua esistenza politica-».
Oggi, voi siete certamente tutti d'accordo nel riconoscere che la storia ha dato torto al signor Angelo Brofferio, e ragione, grandemente ragione, a Camillo Benso di Cavour:
Il discorso dell'onorevole Amendola, è, dopo quello dell'onorevole Labriola, il discorso più quadrato, più degno di meditazione.
Egli ha detto: «-Il popolo italiano soffre di una crisi morale di spiriti che certamente è in relazione con l'intervento, con la guerra, col dopoguerra-». Ha concluso dicendo che bisogna dare a questo popolo italiano la sua unità morale.
Bisogna intendersi! Che cosa vuol dire unità morale del popolo italiano?
Un minimo comune denominatore, un terreno comune di azione in cui tutti i partiti nazionali si incontrano o si intendono, un livellamento generale di tutte le opinioni, di tutti i convincimenti, di tutti i partiti?
A me basta che l'unità morale ci sia in certe ore decisive della vita dei popoli. Non vi può essere tutti i giorni e per tutte le questioni.
D'altra parte io credo fermissimamente che a questa unità morale, fondamentale, del popolo italiano si va; questa unità morale è già in atto. La vedremo realizzata noi Stessi; non tanto per l'opera nostra politica, quanto come risultato della guerra che ha fatto conoscere gli italiani gli uni agli altri, li ha mescolati, ha fatto di questa nostra piccola penisola una specie di casa ove ci conosciamo ormai tutti quanti.
Molti diaframmi, che dividevano regioni e Provincie, sono caduti: si tratta ora di completare l'opera!
L'onorevole Bentini, parlando della libertà di stampa, sulla quale ritornerò fra poco, ha citato l'episodio di Garibaldi e di Dumas. Io approvo pienamente la risposta di Garibaldi. Ma vi domando: «-Se il giornale Indipendente avesse, puta caso, pubblicato notizie disfattiste, o avesse dato notizie di movimenti delle truppe garibaldine, credete voi che Garibaldi non avrebbe soppresso il giornale?-».
Ma soprattutto singolare è nel discorso dell'onorevole Bentini la confusione fra tattica e strategia politica.
Si possono vincere molte battaglie e si può perdere la guerra: e viceversa! Che cosa vi è successo? Avete avuto brillanti risultati tattici, ma poi non avete avuto il coraggio di intraprendere l'azione per raggiungere l'obbiettivo finale!
Avete conquistato una quantità di comuni, di Provincie, di istituzioni alla periferia e non avete capito che tutto ciò era perfettamente inutile se, a un dato momento, non vi impadronivate del cervello e del cuore della Nazione, se cioè non avevate il coraggio di fare della strategia politica. Oggi il vostro turno è passato, e non fatevi delle illusioni: certe occasioni la storia le presenta una volta sola.
Ma, per comprendere questa legge bisogna, onorevoli signori, tener conto di due fatti molto semplici, e sono questi: c'è stata una guerra, che ha spostato interessi, che ha modificato idee, che ha esasperato sentimenti, e c'è stata, se non vi dispiace e se non dispiace al mio amico Maffeo Pantaleoni, anche una rivoluzione. Non è necessario, per fare una rivoluzione, di inscenare tutta la coreografia delle rivoluzioni, di fare il grande dramma da arena.
Noi abbiamo lasciato molti morti sulla strada di Roma, e naturalmente, ognuno che si faccia delle illusioni è uno stolto. Il potere lo abbiamo e lo teniamo. Lo difenderemo contro chiunque. Qui è la rivoluzione, in questa ferma volontà di mantenere il potere!
E vengo adesso al lato positivo della discussione.
Si parla di libertà. Bisogna avere il coraggio di dire che, quando si grida: «-viva la libertà-» si sottintende: «-abbasso il Fascismo-». Ma che cosa è questa libertà? Esiste la libertà? In fondo, è una categoria filosofico-morale. Ci sono le libertà: la libertà non è mai esistita! I socialisti l'hanno sempre rinnegata. La libertà di lavoro non l'avete mai ammessa. Avete legnato il crumiro, quando si presentava alle fabbriche e gli altri scioperavano.
Ma poi è realmente vero e provato che il popolo italiano sia dominato da un Governo liberticida e gema avvinto nei ceppi della schiavitù? È un Governo liberticida il mio?
Nel campo sociale no. Ha avuto il coraggio di tramutare in legge dello Stato le otto ore di lavoro. Non disprezzate questa conquista, non svalutatela.
Ha approvato tutte le convenzioni sociali e pacifiste di Washington. Nel campo politico che cosa ha fatto questo Governo? Si dice che la democrazia è là dove il suffragio è allargato. Questo Governo ha mantenuto il suffragio universale! E quantunque le donne italiane, che sono abbastanza intelligenti per pretenderlo, non lo avessero fatto, ha immesso, sia pure sul solo terreno delle elezioni amministrative, da sei ad otto milioni di donne!
Leggi eccezionali nessuna. Non è una legge eccezionale il regolamento sulla stampa.
Buffoni. È la soppressione dell'editto sulla stampa.
Mussolini. Dimenticate una cosa molto semplice: che la rivoluzione ha diritto di difendersi.
In Russia c'è la libertà di associazione per i non bolscevichi? No! C'è la libertà di stampa per i non bolscevichi? No! C'è libertà di riunione, c'è libertà di voto? No!
Voi che siete gli assertori del regime russo non avete diritto di protestare contro un regime come il mio, che non può essere nemmeno lontanamente paragonato al regime bolscevico.
Io non sono, signori, il despota che sta chiuso in un castello munito di un triplice muro. Io giro fra il popolo senza preoccupazione di sorta e lo ascolto. Ebbene, il popolo italiano, sino a questo momento, non mi chiede libertà.
A Messina, la popolazione che circondava la mia vettura diceva: «Toglieteci dalle baracche». L'altro giorno i comuni di Basilicata mi chiedevano l'acqua, perché, o signori, ci sono milioni di italiani che non hanno l'acqua, non dico per il bagno, ma nemmeno per levarsi la sete.
In Sardegna (vedete che vi parlo di una regione dove il Fascismo non ha le diecine di migliaia di iscritti della Lombardia) ad Arbatax, scesero a me degli uomini dalla faccia patita, vorrei quasi dire accartocciata, mi circondarono e mi mostrarono una distesa dove un fiume imputridiva fra le canne palustri, e mi dissero: «-La malaria ci uccide-». Non mi parlarono di libertà, di Statuto e di Costituzione!
Sono gli emigrati della rivoluzione fascista che sollevano questo fantasma che il popolo italiano e ormai anche l'opinione pubblica estera hanno largamente smontato.
E tutti i giorni ricevo decine di Commissioni, e si abbattono sul mio tavolo centinaia di memoriali, nei quali si può dire che le piaghe di ognuno degli ottomila comuni d'Italia sono illustrate: sono veramente dei cahiers de doleances. Ebbene, perché costoro non verrebbero a me a dirmi: «-Noi soffriamo perché voi ci opprimete?-».
Ma vi è una ragione, un fatto su cui richiamo la vostra attenzione. Voi dite che i combattenti si sono battuti per la libertà. E come avviene allora che questi combattenti sono per il Governo liberticida?
La forza e il consenso sono veramente termini antagonistici? Affatto. Nella forza c'è già un consenso, e il consenso è la forza in sé e per sé. Ma insomma, avete mai visto sulla faccia della terra un Governo qualsiasi che abbia preteso di rendere felici tutti i suoi governati? Ma questa è la quadratura del circolo! Qualunque Governo, fosse retto da uomini partecipanti alla sapienza divina, qualunque provvedimento prenda, farà dei malcontenti.
E come vorrete contenere questo malcontento? Con la forza. Lo Stato che cosa è? È il carabiniere. Tutti i vostri codici, tutte le vostre dottrine e leggi sono nulle, se a un dato momento il carabiniere con la sua forza fisica non fa sentire il peso indistruttibile delle leggi.
Il Parlamento: si dice che vogliamo abolire il Parlamento. No! Prima di tutto non sappiamo con che cosa lo sostituiremmo. I Consigli così detti tecnici sono ancora allo stato embrionale. Può darsi che rappresentino dei principi di vita. Non si può mai essere dogmatici, espliciti, in siffatte materie. Ma allo stato dei fatti sono dei tentativi. Può darsi che in un secondo tempo accada di scaricare su questi Consigli tecnici una parte del lavoro legislativo.
Ma, o signori, vi prego di considerare che il Fascismo è elezionista. Fa le elezioni per conquistare i comuni e le provincie, le ha fatte per mandare deputati al Parlamento. Anzi, l'ho detto e lo ripeto, vuole fare del Parlamento una cosa un po' più seria, se non solenne, vuole, se fosse possibile, colmare quell'hiatus che esiste innegabilmente fra Parlamento e Paese.
Signori! Bisogna seguire il Fascismo, non dirò con intelletto d'amore, ma con intelletto di comprensione. Bisogna non farsi delle illusioni.
Quante volte da quei banchi si è detto che il Fascismo era un fenomeno transitorio! Voi lo vedeste: è un fenomeno imponente che raccoglie, si può dire, a milioni i suoi aderenti, è il Partito più grande di massa che sia mai stato in Italia. Ha in sé delle forze vitali potentissime, e siccome è diverso da tutti gli altri nella sua estensione, nel suo organamento, nei suoi quadri, nella sua disciplina, non sperate che la sua traiettoria sia rapida.
Proprio in questi giorni il Fascismo è in un travaglio di profonda trasformazione. Voi dite: «-Quando diventerà saggio il Fascismo?-».
Oh! io non desidero che lo diventi troppo presto! Preferisco che continui per qualche tempo ancora come oggi, sino a quando tutti saranno rassegnati al fatto compiuto, ad avere la sua bella armatura e la sua bella anima guerriera.
Ma lo squadrismo diventa milizia. E vi è un altro fatto che sta trasformando radicalmente l'essenza del Fascismo. Il partito che da una parte diventa milizia, dall'altra diventa amministrazione e Governo.
È incredibile come cambia il capo squadra che è diventato assessore, o sindaco. Ha un'altr'aria. Comprende che non si può andare all'assalto dei bilanci dei comuni, ma bisogna studiarli; bisogna applicarsi all'amministrazione che è una cosa dura, arida, difficile. E siccome i comuni conquistati dai fascisti sono ormai parecchie migliaia, voi vedete che a poco a poco questa trasformazione del. Fascismo in un organo di amministrazione, quindi necessariamente calmo e delimitato, avviene, e sarà presto un fatto compiuto.
Voi dite: «-Quando cesserà questa pressione morale del Fascismo?-». Comprendo che ne siate ansiosi, è umano; dipende da voi.
Voi sapete che io sarei felice domani di avere nel mio Governo i rappresentanti diretti delle masse operaie organizzate. Vorrei averli con me, vorrei dare a loro anche un dicastero delicato, perché si convincessero che l'amministrazione dello Stato è una cosa di straordinaria difficoltà e complessità, che c'è poco da improvvisare, che non bisogna fare tabula rasa come è accaduto in qualche rivoluzione, perché, dopo, bisogna ricostruire. E non si può prendere un Krilenko o un cuoco della divisione di Pietrogrado per farne un generale, perché dopo dovete chiamare un Brussilov.
Insomma finché esistono degli oppositori che invece di rassegnarsi al fatto compiuto pensano ad una riscossa, noi non possiamo disarmare.
Ma vi dico di più: che la esperienza anche ultima che avete tentato, quella dello sciopero dell'anno scorso, vi deve avere convinti ormai che su quella strada andrete alla perdizione, mentre viceversa dovete rendervi conto una buona volta, se avete nelle vostre vene un po' di dottrina marxista, che c'è una situazione nuova alla quale dovreste, se siete intelligenti, e pensosi delle classi che dite di rappresentare, adeguare il vostro spirito. E del resto dica Colombino, che è amico di D'Aragona, dica se sono nemico degli operai, smentisca quello che affermo, che 6000 operai del Consorzio metallurgico italiano oggi lavorano perché li ho aiutati, e ho fatto il mio dovere di cittadino e capo del Governo italiano.
Ma la libertà, o signori, non deve convertirsi in licenza. Quella che si chiede è la licenza, ma questa non la darò mai.
Voi potete, se volete, fare cortei e processioni, e vi farò scortare, ma se pretendete di tirare sassate contro i carabinieri o di passare da una strada dove non si può passare, troverete lo Stato che si oppone e che fa fuoco.
Ma questa legge che ci affatica è, veramente, un mostro? Vi dichiaro che se fosse un mostro, lo vorrei consegnare subito ad un museo di teratologia o delle mostruosità che dir si voglia.
Questa legge, della quale ho messo le linee fondamentali, ma che poi è stata successivamente elaborata dal mio amico onorevole Acerbo e rielaborata dalla Commissione, non so se in bene o in male, è una creatura, e come tutte le creature di questo mondo, ha le sue qualità e i suoi difetti. Non bisogna condannarla in blocco, sarebbe un gravissimo errore.
Voi dovete considerare, ve lo dico con assoluta franchezza, che è una legge per noi. Ma accoglie principi che sono ultra democratici. Accoglie il principio della scheda di Stato, accoglie il principio del collegio nazionale che era rivendicazione del socialismo, come ricordava testé Costantino Lazzari, che è ammirevole, come sono ammirevoli tutte le persone le quali rappresentano una specie di rudero spirituale della vita.
Voi dite che si spersonalizza la lotta. Voi dite che le elezioni si faranno nel tumulto; ma chi vi dice che le elezioni siano vicine?
Il congegno è tale, intanto, che garantisce una quota parte di posti alle minoranze. Io credo che facendo le elezioni colla legge attuale, le minoranze sarebbero forse più sacrificate.
Ad ogni modo la spersonalizzazione della lotta toglie alla lotta stessa quel carattere di asprezza che potrebbe preoccupare dal punto di vista dell'ordine pubblico. In questo momento le elezioni fatte col collegio uninominale o anche colla proporzionale condurrebbero certamente ad eccessi.
Io dichiaro che non farò le elezioni, se non quando sarò sicuro che si svolgeranno in stato di perfetta libertà e di indipendenza.
E aggiungo che, mentre in sede di discussione politica io sono e devo essere intransigente, in sede di discussione tecnica mi affido, in certo senso, ai competenti. I competenti — ce ne sono moltissimi in quest'aula — diranno come la legge possa essere ancora di più maltrattata o perfezionata. Ma ciò riguarderà la Camera, e il Governo vi dichiara che non si rifiuta di accogliere tutti quei perfezionamenti che rendessero più agevole l'esercizio del diritto di voto.
Questo riguarda in un certo senso i popolari, i quali devono decidersi. Io ho parlato chiaro, ma devo dire che non altrettanto chiaramente si è parlato da quei banchi. Il Governo non può accettare condizioni: o gli date la fiducia o gliela negate.
Signori, voi sentite che in questa discussione c'è stato un elemento di drammaticità. In genere, quando le idee diventano anche passioni personali degli uomini, fanno elevare il tono di tutte le discussioni di tutte le Assemblee.
Io concordo con tutti gli oratori i quali hanno affermato che il Paese desidera soltanto di essere lasciato tranquillo, di lavorare in pace, con disciplina: il mio Governo fa degli sforzi enormi, per arrivare a questo risultato, e li continuerà, anche se dovesse picchiare sui propri aderenti, perché avendo voluto lo Stato forte è giusto che essi siano i primi ad esperimentarne la forza.
Ho anche il dovere di dirvi, e ve lo dico per debito di lealtà, che dal vostro voto dipende in un certo senso il vostro destino.
Non vi fate anche in questo terreno delle illusioni, perché nessuno esce dalla Costituzione; né io né altri; e nessuno può supporre nemmeno che io non sia ampiamente garantito, secondo lo spirito e la lettera della Costituzione.
E allora, se le cose stanno in questi termini, io concludendo, vi dico: «-Rendetevi conto di questa necessità; non fate che il Paese abbia ancora una volta l'impressione che il Parlamento si è esercitato per una settimana intera in una campagna di opposizione, che alla fine è sterile di risultati-».
Perché questo è il momento in cui Parlamento e Paese possono riconciliarsi. Ma, se questa occasione passa, domani sarà troppo tardi; e voi lo sentite nell'aria, lo sentite nei vostri spiriti.
E allora, o signori, non afferratevi alle etichette, non irrigiditevi nella coerenza formale dei partiti, non afferratevi a delle pagliuzze, come possono fare dei naufraghi nell'Oceano credendo inutilmente di salvarsi; ma ascoltate il monito segreto e solenne della vostra coscienza, ascoltate anche il grido incoercibile della Nazione.
Castellammare Adriatico, 21 agosto 1923: MUSSOLINI parla al popolo abruzzese
Nel mese d'agosto, MUSSOLINI dedicò uno dei suoi brevi giri agli Abruzzi, troppo spesso trascurati.
Anzitutto parlo a Castellammare Adriatico, dalla terrazza del Kursaal:
Legionari! Gente di Abruzzo!
Io sono venuto qui per porre la vostra regione all'ordine del giorno della Nazione. Fra tutte le regioni d'Italia l'Abruzzo è l'avanguardia, perché in dieci mesi di Governo è la regione che mi ha chiesto di meno e che ha lavorato di più. Una volta io ho chiamato l'Abruzzo il cuore vivo e pulsante della Patria. Rinnovo oggi, al cospetto di questa moltitudine, al cospetto dell'Adriatico, ancora abbastanza amaro se non più amarissimo, questa mia dichiarazione che risponde ad una semplice e documentata verità. Pongo all'ordine del giorno del Fascismo tutto ii Fascismo abruzzese tutte le sue magnifiche legioni, poiché, se in qualche scarsa località d'Italia piccole e trascurabili questioni personali angustiano la nostra vita, qui invece fervida è la passione, altissima la fede, infrangibile la vostra unità.
Poco fa uno dei vostri produttori mi diceva che se il Fascismo avesse preso il potere due anni prima, saremmo in anticipo di due anni nella nostra rinascita e nella nostra redenzione morale ed economica. C'è veramente in ogni provincia d'Italia un impeto ed un fremito di vita nuova ed io ho l'impressione visibile e plastica di tutto il popolo che marcia in battaglioni serrati, ora che tutte le utopie asiatiche sono state stroncate per sempre.
Dall'Abruzzo mi sono venuti al Governo due collaboratori che io apprezzo moltissimo, che sono devoti, fedeli e preziosi collaboratori nella grande causa. Siate fedeli, o camicie nere, a questa nostra rivoluzione. Ditemi: «-Se fosse necessario ricominciare, ricomincereste?-».
(Tutti gli astanti gridano a più riprese: Sì! Sì!).
«-Se sarà necessario marciare verso altre mete, marcerete?-».
(Tutti gli astanti rispondono con un grido: Sì!).
Ebbene, separiamoci con questo giuramento. Se sarà necessario, impegneremo altre battaglie e strapperemo tutte le vittorie!
Pescara, 22 agosto 1923: MUSSOLINI parla al popolo Pescarese.
Il giorno seguente, MUSSOLINI si recò a Pescara a visitare la casa di Gabriele D'Annunzio e parlò — dal balcone del Circolo Aternino — al popolo adunato in Piazza Vittorio Emanuele:
Cittadini di Pescara!
Da oggi avrò il gradito ricordo di avere potuto comunicare con il vostro animo profondo e devoto alla Patria.
Stamane, visitando la Mostra, ho avuto la rivelazione visiva del vostro potente sforzo di costruttori e di produttori. Io ho detto e ripeto che siete benemeriti della Nazione. Lo siete stati in guerra; molti abruzzesi sono stati con me nelle trincee e posso attestare il fermo valore dei loro solidi petti.
Siamo tutti devoti all'Italia; questa è la fede che ci riscalda lo spirito; dal più alto al più umile ognuno deve compiere il suo preciso dovere.
Se noi riusciremo — e riusciremo perché io lo voglio e voi lo volete — a fondere tutte le nostre energie e ad esaltare la nostra fede, a credere, a fermamente credere nei radiosi destini d'Italia, non c'è da temere il ritorno offensivo del nemico.
Vorrei che certi pallidi politicastri i quali perdono il loro tempo in lunghe e prolisse disquisizioni sulla forza e sul consenso, partecipassero a queste nostre fresche ed impetuose adunate di popolo per convincersi che, oltre alla forza, il Governo fascista ha il consenso della parte migliore del popolo italiano. Ed è per questo che noi, del Governo fascista, dichiariamo che saremo inflessibili ed inesorabili contro tutti coloro che volessero rievocare l'Italia di ieri: la piccola Italia che non può essere la nostra grande Italia, quella che siamo noi, quella che noi vogliamo. Così non è il partito: è qualche cosa di più: è una milizia, è una religione, una passione che infiamma tutti i giovani generosi italiani e con i giovani gli adolescenti ed i vecchi che non si sentono tali e che hanno raccolta la face viva riaccesa dei morti della grande guerra. I morti della grande guerra ci hanno detto che bisogna vincere la pace e si deve vincere col lavoro, con la disciplina, con la concordia. E d'esempio quotidiano di lavoro e di disciplina crediamo debbano essere soprattutto ed in prima linea i fascisti, che hanno l'onore e l'orgoglio di partecipare a questo grande Partito che, volere o no, ha salvato la Patria.
Io serberò profondo nel cuore il ricordo di questa ospitale e fraterna accoglienza.
Gridiamo insieme: Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Sulmona, 22 agosto 1923: MUSSOLINI parla al popolo di Sulmona
Da Pescara MUSSOLINI passò a Sulmona, dove parlò al popolo dal balcone del Palazzo Comunale:
Io vi ringrazio dal più profondo del cuore delle fervide e ospitali accoglienze. Intendo salutare e ringraziare in voi tutto il generoso popolo dell'Abruzzo, che ieri ho messo all'ordine del giorno della Nazione.
Ieri alla Mostra di Castellammare passarono sotto i miei occhi le mirabili opere della vostra arte, della vostra industria, della agricoltura, ed ebbi la prova delle superbe vostre qualità.
In questa troppo rapida gita attraverso i bei vostri paesi ho avuto la viva soddisfazione di vedere che tutto il popolo, senza distinzioni di classi, mi è venuto incontro. Io credo che più che venire verso di me, esso abbia voluto salutare il Governo nazionale fascista, che è fermamente deciso di portare al sommo della perfezione morale e materiale il popolo italiano.
In altri tempi Sulmona passava per un centro sovversivo; oggi la sento guarita da questa infezione, come ne è guarita l'Italia tutta. Ebbene, vi assicuro che l'Italia non sarà più colpita da questo morbo, che ci fece tanto soffrire.
Chi garantisce che l'Italia non perderà più i contatti con le opere della sua redenzione?
(Urla formidabili della folla che pende dalla bocca del Duce: Noi!).
Avete eletto: «-Noi!-». Voi, dunque, lo garantite, voi che siete tutti fascisti, anche se non portate la camicia nera.
Parto da questa terra di Abruzzo col cuore gonfio di commozione per quello che ho veduto. Dico a voi fascisti: «-Ricordate quali sono le nostre idealità e che io raggiungerò con tutta la fede di un figlio del popolo che vuole la elevazione del popolo-». Spero che ritornerò sulle strade d'Abruzzo, ma in ogni modo il ricordo di questi giorni resterà incancellabile nel mio cuore.
A chi Roma?
(E il popolo fremente risponde: A Noi!).
A chi l'Italia?
(E ancora la folla unanime grida: A Noi!).
A chi il Governo fascista?
(E per la terza volta il popolo ripete forte: A Noi!).
Roma, 22 ottobre 1923: MUSSOLINI parla ai mutilati.
Dopo un periodo d'intensa attività silenziosa — fra l'agosto e l'ottobre 1923 — il Duce riprese la parola il 22 ottobre, parlando alla Sezione romana dei Mutilati, ove gli venne offerta una spada romana, presentata dal reggente Pellegrini, con la seguente dedica: «-Benito Mussolini - A Roma segnando i nuovi destini - Questa spada romana regga con romana virtù - I Mutilati di Roma nell'ottobre 1923-».
Nel discorso che voi, commilitone Pellegrini, mi avete rivolto, ci sono alcune parole che a mio avviso sono degne di meditazione. È questa la seconda volta che mi trovo qui a Roma fra voi mutilati, invalidi e combattenti. La prima volta a San Basilio, presso il vostro Comitato centrale, dove ebbi la gioia di ascoltare il meraviglioso profondo discorso del grande Delcroix. Oggi sento gli stessi accenti.
Segno che la linea magnifica nella quale vi movete, gli ideali che vi animano e le direttive che perseguite sono rimasti immutati. Voi date uno spettacolo superbo! Avete definito la vostra disciplina silenziosa, operante e devota. Questi aggettivi sono quelli che meglio definiscono il concetto di disciplina. Disciplina che dev'essere più che nella forma nello spirito; che non consiste solo nella parata, ma è l'espressione del sentimento che anima la vita, non solo nelle grandi circostanze, ma tutti i giorni.
È fortuna del Governo aver derivata gran parte della sua forza morale dai mutilati e dai combattenti. Io non dirò di aver fatto per essi grandi cose. Dichiaro soltanto che abbiamo fatto il nostro dovere. Dichiaro inoltre che il Governo vi avrà sempre presenti al suo spirito. Il Governo è un po' la vostra emanazione, essendo composto in massima parte di combattenti, di mutilati e decorati; e quelli del Governo che per la loro età non hanno potuto combattere, hanno, come il mio amico Oviglio, dato un figlio alla guerra, e, come il ministro Carnazza, donato un figlio giovanissimo alla Patria. Tutto ciò va ricordato e deve far meditare!
Vi sono assai grato dell'omaggio morale e del dono materiale, che ha in sé una speciale significazione, ed è un simbolo.
La spada romana è piena di significato, perché è stata spada essenzialmente di giustizia. Roma ha combattuto duramente per vincere; ma dopo la vittoria si è ispirata alla giustizia; ha assoggettato i popoli per farli cittadini, fondendo insieme la forza e la pietà.
Ed è questo il concetto che io ho della violenza. Se qualche volta la violenza è necessaria, essa non deve andare mai disgiunta dal senso della cavalleria e della generosità.
In questa concezione corrispondono pienamente i miei ed i vostri intendimenti. E sento perciò la necessità della vostra collaborazione.
Il compito del Governo in questo momento è tale da far tremare le vene ed i polsi. Non è senza tormento, come voi ben potete comprendere, che si porta sulle spalle il destino di quaranta milioni di italiani. È pertanto preziosa al Governo la collaborazione compatta degli uomini che vengono dalle trincee.
Con queste forze l'Italia potrà marciare verso i suoi alti destini.
Torino, 24 25 ottobre 1923: MUSSOLNI parla ai torinesi.
Il 24 ottobre 1923 MUSSOLINI presenzia all'inaugurazione, nell'atrio del Municipio, una lapide in memoria dei Caduti fascisti. In tale occasione pronunciò il seguente discorso:
Signori!
Torino non mi ha sorpreso perché io ero sicuro che Torino mi sarebbe venuta incontro con la sua anima solida, fierissima e devota: mi sarebbe venuta incontro non per onorare la mia persona. La mia persona passa in secondo ordine; io sono, come già dissi, un soldato fedele, un capo fedele alla consegna. Ma io credo che la manifestazione sia stata diretta al Governo che ho l'onore di presiedere e al movimento che ho creato, che ho educato e che educherò ancora fino a quando non sia diventato sempre migliore.
Questo movimento, questo Partito ha assunto la terribile responsabilità del potere. Sulle spalle di pochi uomini pesa il destino di quaranta milioni di italiani. C'è da meditare, c'è da sentirsi un poco umili di fronte a tanta fatica e a tanta responsabilità, ma questo fremito e questa trepidazione che sono di tutti gli artieri, di tutti i patriotti, trovano compenso nella adesione sempre più vasta e sempre più profonda del popolo italiano.
Dopo dodici mesi di governo, governo duro, governo anti-democratico, governo che non ha potuto ancora dare benefici tangibili al popolo italiano, dopo dodici mesi di questo governo, il popolo italiano è stretto attorno agli uomini del Governo e manifesta sempre più vivamente il suo consenso alle loro fatiche. Senza bisogno di ricorrere alla forza, c'è il consenso. E perché? Per una ragione molto semplice: noi non siamo degli ambiziosi, meno ancora dei vanitosi, meno ancora assumiamo pose di infallibili; siamo semplicemente degli uomini che lavorano, che si sono imposti una disciplina e perciò essi hanno il diritto di imporla a quelli che fossero recalcitranti.
Perché, o signori, la libertà senza ordine e senza disciplina significa dissoluzione e catastrofe. Il popolo italiano che è certamente più sano spesso di coloro che presumono di rappresentarlo, apprezza i vantaggi di questo regime che impone la disciplina necessaria.
Non siamo in un momento facile, specialmente in Europa. La nave è sbattuta dai flutti: è necessaria la disciplina più assoluta. Solo quando sarà passata la prima tempesta si potrà dare libertà agli equipaggi; prima no: sarebbe delitto. Il consenso che viene a noi e alla nostra opera è determinato dal fatto che il Fascismo è forza spirituale e religione. Potrà errare negli uomini o nei gruppi, ma la fiamma che sorge dal Fascismo è immortale.
Nello stesso giorno, il Duce passò dal Municipio alla Prefettura, e qui pronunziò dal balcone, al popolo adunato, il seguente discorso:
Popolo di Torino! la tua anima gagliarda, guerriera e operosa, mi è venuta incontro stamane con tutti i palpiti della tua fede, ed io ti ringrazio dal profondo del cuore. Non è senza meditazione che fra tutte le date ho scelto il 24 ottobre. Cinque anni fa le nostre divisioni, i soldati del nostro eroico Esercito, scattavano all'assalto nella battaglia che decise delle sorti della guerra mondiale. Ricordiamo questa gloriosa data fra tutte le date della nostra storia. La vittoria nostra è vittoria immortale. Il Bollettino che la rammenta sfida i secoli. Non è senza profonda commozione che vedo nella moltitudine ufficiali di tutte le armi del sacro Esercito. A lui va tutto il plauso, tutta la riconoscenza della Patria. Questo è un baluardo che tutela le nostre speranze e la nostra sicurezza; la Nazione può contare sull'Esercito oggi, domani, sempre.
C'è un altro motivo che mi ha fatto scegliere questa data. Un anno fa a Napoli vi fu la grande adunata delle Camicie Nere. Ricordo che quella sera 40.000 Camicie Nere che gremivano la Piazza del Plebiscito scandivano con voce semplice e terribile la parola «Roma». Sentivano questi uomini venuti da tutti i borghi, da tutti i casolari d'Italia, che se noi non avessimo preso Roma, il Fascismo avrebbe fallito al suo compito, avrebbe mancato alla meta. Tre giorni dopo noi prendemmo la città eterna, e iniziammo l'opera di rastrellamento e di polizia che non è ancora finita e che deve continuare. Io vi accerto che quest'opera continuerà inflessibilmente, tenacemente, sistematicamente. Ora noi teniamo Roma non per ambizione o per profitto o per vanità personale: la teniamo e la terremo contro chiunque, finché l'opera iniziata non sia completa: fino a che le opposizioni più o meno meschine e miserabili siano infrante per sempre. (Lunghissime ovazioni).
Sono venuto a Torino per dimostrare a questa città nobilissima la mia simpatia e la mia ammirazione. Qui sono nati il Risorgimento e l'Italia libera e unita. E voi non vi siete smarriti quando avete perduto la capitale, perché avete sentito che la capitale d'Italia era ed è Roma. Ai fasti della capitale avete sostituito le mille ciminiere delle vostre fabbriche. Qui è la capitale dell'industria italiana; qui è la città potente che lavora, che porta i prodotti della sua industria in tutte le contrade del mondo.
Voglio insorgere anche in vostro cospetto contro una calunnia che non so se sia più turpe o più stupida: parlino i vostri 10.000 morti, per dire che Torino ha fatto il suo compito, che Torino è stata fedele alle sue tradizioni.
Una voce. E sarà sempre!
Molte voci. Sì, sì! Lo sarà sempre!
Mussolini. Parlino i fanti delle vostre brigate, parlino gli alpini delle vostre montagne, parlino coloro che hanno dato il sangue, che hanno dato la fede, il braccio alla Patria. Ebbene, o torinesi, tutta l'Italia oggi ha ritrovato la sua anima, tutta l'Italia oggi si raccoglie in uno spettacolo superbo di disciplina nazionale. Guai a colui o a coloro che vorranno rompere tale disciplina o corrompere l'anima del popolo con le stupidissime fole. Contro costoro saremo inflessibili, severissimi e non daremo loro tregua.
Non si creda che sotto questa «-redingote-» non vi sia ancora la camicia nera. Tutti gli avversari che lo credessero si attendano la più immediata e energica smentita. Siamo un esercito in marcia che non si arresta, che non si abbatte per insuccessi momentanei. Noi sentiamo che questo Esercito ha la vostra simpatia. Come è stato vittorioso nelle battaglie di ieri, sarà vittorioso nelle battaglie di domani. Viva Torino! Viva il Re d'Italia!
Dopo il discorso dal balcone della Prefettura, il Duce ricevuto l'omaggio delle Madri e Vedove dei Caduti, dei Combattenti e dei Mutilati, fece una visita alla Associazione della Stampa, ove parlò brevemente rievocando i primi tempi del «-Popolo d'Italia-». Nella serata, dal balcone dell'Albergo Europa, in seguito alle insistenti richieste della folla, il Duce pronunciò brevi parole, esaltando il lavoro. Il giorno seguente, 25 ottobre 1923, Egli si recò a Racconigi a visitare S. M. il Re; e al ritorno visitò gli Stabilimenti della «Fiat» ove fu ricevuto dal Senatore Agnelli. In tale occasione rivolse agli operai le seguenti parole:
Senatore! Operai!
Ho ancora le orecchie frastornate e gli occhi abbagliati dallo spettacolo superbo che stamani si è offerto al mio sguardo. Come capo del Governo e come italiano sono orgoglioso di questa vostra splendida città del lavoro. Credo che non ci sia nulla di simile in Italia e forse nemmeno in Europa. Tutto ciò deve rendervi orgogliosi e darvi quel che io chiamo l'orgoglio della fabbrica.
Voi, del resto, lo sentite questo orgoglio perché voi siete legati al successo della vostra opera. Non è indifferente per voi che la vostra macchina giunga prima o seconda in un cimento europeo o mondiale. È nel vostro interesse che giunga prima, perché ciò aumenterà le vostre possibilità di lavoro. Tutto si ottiene nella vita? C'è un limite che non si può varcare, un limite per gli industriali e un limite per gli operai. È, cioè, nell'interesse degli industriali che gli operai siano tranquilli, che conducano una vita tranquilla, che abbiano il necessario alla vita e non siano assillati da bisogni insoddisfatti. Ma è anche nell'interesse degli operai che la produzione si svolga con ritmo ordinato, vorrei quasi dire solenne, poiché il lavoro è la cosa più alta, più nobile, più religiosa della vita.
E soprattutto non pensate di potervi straniare dalla vita, dall'anima e dalla storia della Nazione. Anche se voi lo voleste non vi riuscireste, come non si può riuscire a rinnegare mai la propria madre. Lo vogliate o non lo vogliate, siamo tutti italiani a dobbiamo avere l'orgoglio di essere italiani non solo per le glorie del passato, nobilissime glorie, ma sulle quali non vogliamo vivere di rendita come dei signori degeneri e parassiti, ma soprattutto per questa Italia nuova che va sorgendo, che ha qui in questa vostra fabbrica raggiunto un primato europeo.
Per questa Italia nuova io vi chiedo l'adempimento silenzioso del vostro dovere di operai e di cittadini. Solo con il lavoro e con la collaborazione fra tutti gli elementi della produzione si aumenterà il benessere individuale. Fuori di questo, io lo proclamo solennemente, fuori di questi limiti è la miseria individuale e la rovina della Nazione.
Dopo di che io, che ho lavorato con le braccia e che vengo dal popolo e che ho questo orgoglio, dopo di che io vi saluto, non con la mentita simpatia dei demagoghi venditori di fumo, ma con la sincerità rude di un lavoratore, di un uomo che non vi vuole ingannare, di un uomo che imporrà a tutti la disciplina necessaria, agli amici soprattutto ed anche agli avversari.
Ebbene, abbiatevi la manifestazione della mia simpatia più fraterna con l'augurio che il primato europeo e mondiale della vostra fabbrica non abbia mai a cessare.
Novara, 25 ottobre 1923: MUSSOLINI parla al popolo novarese.
Recandosi da Torino a Milano, MUSSOLINI sostò alla stazione di Novara, ove al popolo acclamante rivolse le seguenti parole:
Cittadini!
Non un discorso, ma un saluto che parte dal cuore. Da due giorni io passo tra manifestazioni di popolo altamente significative ed ammonitrici: vedo nella moltitudine di Torino, di Santhià, di Vercelli e di Novara, mescolati fraternamente insieme, i mutilati, i combattenti le madri e le vedove dei caduti, tutti coloro che formano quella che io chiamo la nuova e grande aristocrazia del sangue italiano. Vedo anche ufficiali e soldati del nostro Esercito che deve essere sacro per tutti i cittadini italiani; vedo le Camicie Nere, vedo il popolo lavoratore di tutte le categorie, di tutte le età. Che cosa significa questo se non una manifestazione di consenso non tanto alla mia persona, quanto al mio Governo, quanto alle idee che rappresento e difendo? Voi sentite tutti, anche i recalcitranti, quando facciano il loro esame di coscienza, voi sentite tutti che da un anno a questa parte l'atmosfera che si respira in Italia è un poco cambiata da quella degli anni infausti della rinuncia e della abiezione. Sembrano assai lontani i tempi in cui un Ministro del Regno d'Italia non sentiva la suprema vergogna di consigliare agli ufficiali di uscire in borghese e senza armi. Sembra assai lontano il tempo in cui gli elementi infidi o traviati della plebe, invece di onorare il sacrificio, insultavano i mutilati e spesso sputavano sui petti coperti dai segni del dovere e del valore.
Ebbene, tutto ciò è finito e per sempre; tutto ciò è tramontato e non risorgerà mai più. Lo giurate voi?
(Un grido unanime si leva dal popolo: Sì!).
Milano, 27 ottobre 1923: MUSSOLINI arringa i giornalisti lombardi.
A Milano, nel salone del Cova, l'Associazione Lombarda dei Giornalisti offerse un «-vermuth-» d'onore al Capo del Governo, il quale — ricollegandosi alle parole pronunziate a Torino all'Associazione della Stampa — rispose nel modo seguente al saluto del Consigliere delegato:
Onorevoli colleghi!
Ho ritrovato entrando qui dei volti che non avevo dimenticato; vecchi colleghi, giovani, gente con la quale sono vissuto a contatto più o meno quotidiano durante quegli anni di giornalismo che erano e sono la mia passione.
Bisogna distinguere il giornalista dal pubblicista. Pubblicista è una cosa, giornalista è un'altra. Ci può essere un gran numero di giornalisti che non scrivono nemmeno un articolo del giornale e vi può essere un pubblicista provetto che è negato al giornalismo. Il giornalismo è un istinto. Oserei dire che si nasce giornalisti. Molto difficilmente si diventa giornalisti. Poi è una passione; è qualche cosa che prende tutto lo spirito; si vive del giornale, per il giornale, col giornale. Io non ho dimenticato, andando al Governo, di essere un giornalista e spesso e volentieri prendo dei fogli e scrivo qualche cosa che può interessare gli italiani.
Ciò ha l'apparenza solenne delle note ufficiose od ufficiali che dir si voglia. Sono invece dei piccoli articoli, sono ancora atti che rivelano la nostalgia del mestiere.
L'altro giorno a Torino ho tessuta l'apologia di questo nostro mestiere, di questa nostra missione, di questo nostro apostolato che dir si voglia. Non amo le parole solenni.
Voi sapete che io rispetto il giornalismo e l'ho dimostrato. Desidero soltanto che il giornalismo si renda conto delle necessità storiche, di certe ineluttabilità storiche; desidero che il giornalismo collabori con la Nazione.
Io sono un lettore di centinaia di giornali al giorno ed ognuno di essi mi serve, perché il giornale può essere l'eco di bisogni inespressi che non troverebbero forse la via dell'accoglimento attraverso i meandri di quella cosa enorme e misteriosa e potente che è la burocrazia. Ripeto quello che dissi a Torino: che il giornalismo è una scuola di vita. Prepara gli uomini.
Vi saluto con molta simpatia e fraternità e vi dico di aver molto coraggio perché non so se nel vostro zaino, ma nella vostra cartella di redazione, ci può essere il bastone di maresciallo.
Commilitoni!
Dopo che le vostre squadre meravigliose di disciplina e di portamento sono sfilate davanti alla maestà del Re che è il simbolo intangibile della Patria; dopo la cerimonia austera nella sua silenziosa solennità davanti al tumulo del Fante Ignoto: dopo questo formidabile spettacolo di forza e di santità, le mie parole sono assolutamente superflue. Non intendo farvi un discorso. La sfilata di oggi è una manifestazione piena di significato e di ammonimento. Tutto un popolo in armi, spiritualmente è oggi convenuto nella città eterna: tutto un popolo che al di sopra delle deviazioni inevitabili dei partiti si ritrova gagliardamente unito quando è in giuoco la salvezza della Patria comune.
Per il disastro di Linguaglossa la solidarietà nazionale ha avuto una delle sue manifestazioni migliori; da tutte le città, da tutti i villaggi, si potrebbe dire da tutti i casolari, un palpito di amore fraterno è andato verso la terra colpita dalla sventura.
Oggi diecine di migliaia di combattenti, migliaia di bandiere, uomini venuti a Roma da tutte le parti d'Italia e dalle lontane colonie dell'estero, stanno a dimostrare inesorabilmente che l'unità morale della Patria italiana è un fatto compiuto ed irrevocabile.
Dopo sette mesi di Governo il parlare a voi, commilitoni delle trincee, è il più alto onore che mi potesse toccare. E non lo dico per adularvi: non lo dico per rendervi un omaggio che potrebbe sembrare di prammatica. Io ho il diritto di interpretare questa vostra adunata che si raccoglie a sentire la mia parola come un gesto di solidarietà col Governo nazionale. Non solleviamo parole e fantasmi inutili. Ma io vi domando: Ci deve essere la libertà per mutilare la vittoria? (grida: no! no!). Ci deve essere la libertà di sabotare la Nazione? (grida: no! no!). Ci deve essere la libertà per coloro che hanno come programma di sconvolgere le istituzioni che ci reggono? (grida: no! no!). Ripeto quello che ho detto altra volta, in maniera esplicita. Io non mi sento infallibile; mi sento uomo come voi.
Non respingo, non posso, non voglio respingere nessuna collaborazione leale, fraterna e sincera.
Commilitoni!
Il compito che grava sulle mie spalle, ma anche sulle vostre è semplicemente immenso, e ci impegnerà per un lungo periodo di anni. È necessario, quindi, non disperdere, ma tesoreggiare ed utilizzare tutte le energie che siano rivolte al bene della Patria. Sono passati cinque anni dalla battaglia vittoriosa per eccellenza, vittoriosa perché su di essa non si può sofisticare né al di qua né al di là della frontiera. Bisogna proclamarlo per voi, che mi ascoltate, ed anche per coloro che mi leggeranno, che la vittoria del giugno sul Piave fu decisiva ai fini di tutta la guerra. Sul Piave rovinò l'impero austro-ungarico, dal Piave si librò sulle sue ali candide la vittoria italiana. Il Governo intende esaltare i valori spirituali che sorgono dalla vittoria del popolo in armi. Non intende disperderli, perché essi rappresentano la semente sacra per l'avvenire. Più ci allontaniamo da quei giorni e più ci sembrano grandi, maestosi, formidabili; più ci allontaniamo da quella vittoria e già tutto appare come in un alone di leggenda e tutti vorrebbero esserci stati.
Troppo tardivamente qualcuno si accorse che quando la Patria è in pericolo, il dovere di tutti i cittadini, dal più alto al più basso, è uno solo: combattere, soffrire, e, se occorre, morire!
Noi abbiamo vinto la guerra, noi abbiamo demolito un impero che gravava sulle nostre frontiere e ci mozzava il respiro e ci teneva perennemente sotto il ricatto della sua minaccia armata. La storia non finisce o commilitoni; la storia dei popoli non si misura ad anni ma a decenni, a secoli! Questa vostra manifestazione è un segno infallibile della vitalità del popolo italiano.
La frase che si deve vincere la pace non è un luogo comune. Racchiude una profonda verità. La pace si vince con la concordia, col lavoro, con la disciplina. Questo è il vangelo aperto dinanzi agli occhi delle nuove generazioni, che sono uscite dalle trincee, un vangelo semplice e schietto che tiene conto di tutti gli elementi, che utilizza tutte le energie, che non si abbandona a tirannia o ed esclusivismi grotteschi, perché ha dinanzi agli occhi una meta sola, una meta comune: la grandezza e la salvezza della Nazione!
Combattenti!
Voi siete venuti a Roma, ed è naturale, io oserei dire, fatale! Perché Roma è sempre, e domani e nei millenni, il cuore potente della nostra razza. È il simbolo imperituro della nostra vitalità di popolo. Chi tiene Roma, tiene la Nazione.
Vi assicuro, o Commilitoni, che il mio Governo, nonostante le difficoltà aperte o larvate, terrà fede ai suoi impegni. È il Governo di Vittorio Veneto. Voi lo sentite e voi lo sapete; se non lo credeste, non sareste qui raccolti in questa piazza! Portate nelle vostre città, nei vostri paesi, nelle vostre case lontane, ma vicine al mio cuore, portate l'impressione gagliarda e formidabile di questa adunata.
Tenete accesa la fiamma poiché quello che non è stato può essere: poiché se la vittoria fu mutilata una volta, non è detto che non possa essere mutilata un'altra volta. Io prendo atto della vostra promessa, del vostro giuramento. Conto su di voi come conto su tutti i buoni italiani, ma conto soprattutto su di voi, perché siete della mia generazione, perché siete usciti dal travaglio fangoso e sanguinoso della trincea, perché avete vissuto e lottato e sofferto, in cospetto della morte, perché avete compiuto il vostro dovere ed avete il diritto di rivendicare ciò che vi aspetta, non soltanto dal punto di vista materiale, ma anche dal punto di vista morale. È passato per sempre, io ve lo dico e ve lo giuro, il tempo in cui i combattenti reduci dalle trincee dovevano quasi vergognarsi; il tempo in cui si dava agli ufficiali il codardo consiglio di vestire in borghese, lutto ciò è sepolto. Non dovete dimenticare, e nessuno lo dimentichi, che sette mesi fa, 50.000 camicie nere, armate, vennero a Roma a seppellire il passato. Combattenti, commilitoni, eleviamo in cospetto del grande compagno ignoto il grido che riassume la nostra fede: Viva il Re! Viva l'Italia vittoriosa, intangibile, immortale!
Roma, 28 giugno 1923: MUSSOLINI risponde all'Ambasciatore degli Stati Uniti d'America.
L'Associazione Italo-Americana offerse — nella sua sede di Palazzo Salviati in Roma — un pranzo al Capo del Governo e all'Ambasciatore degli Stati Uniti d'America, S. E. Child. Questi parlò dell'amicizia italo-americana, e il Duce gli rispose con il seguente discorso:
Signor Ambasciatore!
Il discorso che V. E. ha pronunciato in questa riunione destinata a fortificare i vincoli di simpatia e di fraternità italo-americana, mi ha profondamente interessato nella mia qualità di italiano e di fascista. Nella mia qualità di italiano, perché Ella ha avuto parole schiette di cordiale adesione per il Governo che ho l'onore di dirigere. Non ho bisogno di aggiungere che tale cordialità è ricambiata da me e dagli italiani tutti; non vi è dubbio che gli elementi per una collaborazione pratica fra i due popoli esistono: si tratta soltanto di organizzare questa collaborazione. Qualche cosa si è fatto, ma il più resta da fare. Non recherà sorpresa a V. E. se accenno, senza particolarmente insistervi, ad un problema che ci riguarda in modo assai diretto: parlo del problema dell'emigrazione. Mi limito soltanto a dire che l'Italia vedrebbe con soddisfazione aprirsi nelle maglie alquanto rigide dell'immigration bill un varco tale da consentire di aumentare il suo contingente emigratorio per il Nord America e vedrà, con altrettanta soddisfazione, l'impiego di capitale americano in imprese italiane.
Nella mia qualità di fascista le parole di V. E. mi hanno interessato, perché rivelano un'esatta comprensione del nostro movimento e ne costituiscono anzi una simpatica ed imponente rivendicazione.
Il fatto è tanto più notevole in quanto il movimento fascista è assai complesso, ed una mentalità straniera non sempre è la più adatta a penetrarlo.
Ella sì, Ambasciatore, costituisce una eccezione brillantissima a questa regola. Nel suo discorso, oso affermare, c'è tutta la filosofia del Fascismo e dell'azione fascista, intesa come esaltazione della forza, della bellezza, della disciplina, della gerarchia e del senso di responsabilità.
Ella ha potuto constatare, signor Ambasciatore, che malgrado le enormi difficoltà della situazione in generale, il Fascismo ha tenuto fede alle promesse lanciate prima della marcia su Roma.
Il tempo intercorso è troppo breve e solo uno stolto può pretendere che l'opera mia sia già compiuta. Mi limito a dire, e in ciò mi pare di trovare l'autorevole consenso della E. V., che essa è bene cominciata.
Sono certo, signor Ambasciatore, che tutti gli italiani leggeranno con emozione il discorso che Ella ha pronunciato in questa memorabile circostanza; li invito anzi e specialmente a meditarlo.
Non è stato quello che ho udito testé un discorso dello stile e della misura dei soliti discorsi convenzionali. È l'esposizione chiara e suggestiva di quella concezione della vita e della storia che inspira il Fascismo italiano. Non credo di ingannarmi se affermo che questa concezione trova gagliardi e numerosi partigiani anche oltre oceano, fra i cittadini di un popolo che non ha i millenni della nostra storia, ma marcia oggi all'avanguardia del progresso umano; è in questa affinità di concezioni che io trovo la base solida di una fraterna intesa italo-americana.
L'annuncio che Ella, signor Ambasciatore, destina una corona d'oro al giovane italiano che vincerà in qualcuna delle prossime gare olimpioniche, scenderà gradito al cuore di tutti gli sportivi d'Italia e sono essi, V. E. lo sa, innumerevoli legioni.
Ringrazio V. E. in nome della gioventù italiana che indossa quasi tutta, specie negli sportivi, la camicia nera, e mentre incoraggio l'Associazione italo-americana a perseverare nell'esecuzione del suo nobile programma, dichiaro che il mio Governo farà tutto quanto è necessario per sviluppare e rinsaldare i rapporti economici e politici fra gli Stati Uniti e l'Italia.
Levo il bicchiere alla salute del Presidente Harding ed alle fortune del potente popolo americano!
Roma, 15 luglio 1923: MUSSOLINI interviene nella discussione per la riforma elettorale.
Alla Camera dei Deputati, stava chiudendosi la discussione del progetto di legge per la riforma elettorale, MUSSOLINI tenne il seguente discorso:
Onorevoli signori!
Avrei preferito intrattenere questa Assemblea sulla questione di politica estera che in questo momento interessa l'Italia ed appassiona il mondo: parlo della Ruhr.
Avrei, io credo, dimostrato che l'azione dell'Italia è autonoma ed è ispirata dalla tutela dei nostri interessi ed anche dal bisogno generalmente sentito di uscire da una crisi che impoverisce ed umilia il nostro Continente.
Mi riprometto di far ciò in un prossimo giorno, se la Camera non vorrà oggi avere il capriccio di morire anzi tempo.
Il mio discorso sarà assai calmo e misurato, se pure a fondo resistente. Si comporrà di due parti: una che vorrei chiamare negativa, ed una che chiamerò positiva.
In fondo non mi dispiace che la discussione abbia poco o molto superato i confini nei quali forse poteva essere contenuta. La discussione sulla riforma elettorale ha offerto il motivo all'opposizione di manifestarsi, di muoversi da tutti i fronti, da tutti i settori ad un attacco contro la politica ed i sistemi politici del mio Governo. Non vi sorprenderà, dunque, se io, pur non scendendo ai dettagli di tutti i discorsi, toglierò dai discorsi degli oratori principali quelle tesi e quelle proposizioni che io debbo assolutamente contrastare e ribattere.
Dato che il discorso dell'onorevole Petrillo è stato favorevole al Governo, non occorre occuparsene.
Mi occuperò invece del discorso pronunziato dall'onorevole Gronchi, un discorso fine nella forma e forse anche più nel contenuto. L'onorevole Gronchi ha offerto ancora una volta al Governo una collaborazione di convenienza, uguale a quei matrimoni di convenienza che non durano, o finiscono nello sbadiglio di una noia senza fine.
La vostra collaborazione, o signori popolari, è piena di sottintesi. Il vostro stesso partito ha molti sottintesi. Voi dovreste applicarvi a chiarirli. Non so per quanto tempo ancora potranno restare uniti nella vostra compagine elementi che vogliono collaborare lealmente col Governo nazionale ed elementi che vorrebbero collaborare, ma non possono, perché il loro intimo sentimento non consente loro questo passo e questa collaborazione.
Voi certamente mi conoscete abbastanza per capire che in sede di discussione politica io sono intransigente. I piccoli mercati dei due quinti e dei tre quarti o di qualche altra frazione di questa abbastanza complicata aritmetica elettorale non può essere un commercio a dettaglio. O si è, o non si è. Sono così poco elettoralista che potrei darvi i trenta o i quaranta deputati che vi interessano, ma non ve li do, perché ciò sarebbe immorale, perché sarebbe una transazione che deve ripugnare alla vostra coscienza, come ripugna alla mia.
Insomma non si può fornirmi una collaborazione maltusiana.
Certamente forte è stato il discorso pronunciato dall'onorevole Labriola. Egli ha detto: «-Le crisi ministeriali rappresentano il surrogato — bisognerebbe dire ersatz, perché surrogato, dalla guerra in qua, è di natura tedesca — della rivoluzione-». È un giudizio troppo semplicista per essere accettato! Può essere che il difetto di crisi ministeriale conduca alla rivoluzione; ma voi avete qui un esempio che vi dimostra come l'eccesso di crisi ministeriali conduca esso pure a una rivoluzione.
Ma soprattutto mi ha stupito di sentire l'onorevole Labriola manovrare ancora la vecchia nomenclatura della letteratura socialista di secondo ordine: borghesia e proletariato, come due entità nettamente definite e perpetuamente in istato di antagonismo.
È certamente vero che non c'è una borghesia, bensì ci sono forse ventiquattro o quarantotto borghesie e sottoborghesie; ma è lo stesso del proletariato.
Che rapporto volete che ci sia fra un operaio della «-Fiat-» specializzato, raffinato, a gusti e tendenze già borghesi, che guadagna dalle 30 alle 50 lire al giorno, o le guadagnava: che rapporto volete che ci sia tra questo uomo, questo sedicente proletario, e il povero cafone dell'Italia Meridionale che gratta disperatamente la sua terra bruciata dal sole?
Ha detto l'onorevole Labriola che solo il proletariato può darsi il lusso di una dittatura. Errore! Errore documentato e documentabile. L'unico esempio di dittatura del proletariato, ci è offerto dalla Russia; ma l'onorevole Labriola ha scritto diecine di articoli per dimostrare come qualmente la dittatura non esiste in Russia, e la dittatura non è del proletariato. Tutti i dirigenti dello Stato russo sono professori, avvocati, economisti, letterati, gente di ingegno, cioè usciti dalle classi professionali della borghesia.
La colpa che ci fa l'onorevole Labriola, il quale ci accusa di trovare una analogia insussistente tra i metodi e lo svolgimento della rivoluzione russa e il metodo e lo svolgimento della rivoluzione italiana, è insussistente, in quanto che io faccio qui una semplice constatazione d'ordine storico. È un fatto che tanto l'una quanto l'altra rivoluzione tendono a superare tutte le ideologie e, in un certo senso, le istituzioni liberali e democratiche che sono uscite dalla rivoluzione francese.
Mi dispiace molto che l'onorevole Alessio abbia portato qui i rancori meschini e torbidi delle logge giustinianee.
Alessio. Non ho mai appartenuto, come non appartengo, alla Massoneria!
Mussolini. In questi giorni si è con molta frequenza fatto ricorso ad un metodo polemico, abbastanza usato ed abusato: quello di risuscitare gli scritti e le opinioni del tempo passato per farsene un'arma nella polemica presente. È un pessimo sistema che io ritorco contro coloro che l'hanno impiegato.
In un discorso pronunziato dall'onorevole Alessio a Lendinara, nel quale discorso fu presentato dal candidato fascista Aldo Finzi, l'onorevole Alessio così fotografava la situazione: «-Tra un gruppo numeroso, intemperante, ignorante e passivo di socialisti e un ibrido gruppo di costituzionali si ergeva ambizioso e arbitro delle sorti della Nazione il partito popolare che coi suoi capricci, alle volte d'accordo coi socialisti, provocava crisi ministeriali dannosissime per poter ottenere l'inclusione nel Gabinetto dei propri rappresentanti. Ogni discussione parlamentare si protraeva inutilmente tra l'indifferenza degli uni e l'ostruzionismo degli altri. La Camera non poteva più adempiere alla sua funzione legislativa ed essa poi, in seguito al grande risveglio della borghesia italiana di quest'anno, non poteva più rappresentare legittimamente il popolo italiano-».
Questo potrebbe in un certo senso riguardare i popolari. Ma l'onorevole Alessio è un uomo che ha molte frecce, se non nel suo fianco, nella sua faretra, e si occupava quindi anche dei socialisti e delle loro leghe.
«-Il sistema delle leghe — disse in un altro discorso elettorale — aveva distrutto le iniziative, l'impulso, l'attività individuale, dimenticando che solo per esso può svilupparsi e progredire il processo produttivo. Guai a togliere dalla vita economica lo stimolo e l'incentivo all'opera rappresentati dal miraggio della conquista di un determinato stato di agiatezza! Guai a togliere all'uomo la possibilità di tramandare ai figli i frutti del suo lavoro intellettuale e intelligente! La prosperità del paese ne avrebbe un colpo mortale, ecc.-».
Nel suo discorso l'onorevole Alessio ha affermato che la disfatta degli Imperi Centrali si deve alla deficienza dei loro organi rappresentativi. Mi permetto di dirgli che questa è una spiegazione unilaterale e semplicista. C'è stata una guerra, ci sono stati milioni di uomini che hanno combattuto contro gli Imperi Centrali, e alla vittoria e alla guerra si deve la disfatta degli Imperi Centrali.
Altro errore: che dopo Caporetto l'Italia si sia ripresa, perché è ritornata la sua libertà. Affatto! Le è stata imposta la necessaria disciplina della guerra.
Io non sono di quel parere secondo il quale Caporetto sarebbe dovuta tutta alla disintegrazione del fronte interno.
È stato un rovescio di ordine militare nelle sue cause e nel suo svolgimento. Ma non vi è dubbio che l'atmosfera di indulgenza, di eccessiva tolleranza, ha prodotto fenomeni morali di turbamento che dovevano influire su quel nostro rovescio.
E perché, onorevole Alessio, disturbate Felice Cavallotti?
Quello che accade in questi giorni è veramente singolare. Da anni ed anni nessuno più si ricordava di Felice Cavallotti.
Scomparso dalla scena milanese Carlo Romussi, che portava questo suo bagaglio come una specie di eredità gloriosa, la data del 6 marzo passava, e nessuno se ne accorgeva. Perché? Per una ragione molto semplice. Perché Cavallotti non dice più niente al popolo italiano, né con la sua letteratura, e meno ancora con la sua politica.
Superficiale è l'altra affermazione dell'onorevole Alessio, che il Risorgimento italiano sia stato lo sforzo del popolo italiano. Non è così, purtroppo. Il popolo italiano, nelle sue masse profonde, è stato assente e spesso ostile. I primi albori del Risorgimento italiano vengono da Napoli, da quella borghesia di professionisti prodi ed intelligenti che nell'Italia Meridionale rappresenta una classe definita storicamente, politicamente e moralmente.
Quelli che a Nola, nel 1821 levarono lo stendardo della rivolte contro i Borboni, erano due ufficiali di cavalleria. Tutto il martirologio nobilissimo del Risorgimento italiano, è martirologio di borghesi.
Niente di più triste del sacrificio inutile dei fratelli Bandiera! E quando voi pensate alla tragedia di Carlo Pisacane, un brivido di commozione vi prende lo spirito.
Io vorrei escludere che lo stesso Giuseppe Mazzini possa essere inquadrato nella democrazia. I suoi metodi non erano certamente democratici. Era un coerentissimo nel fine; ma quante volte è stato incoerente e mutevole nei mezzi!
E Cavour? Io penso che l'avvenimento che ha preparato realmente l'unità della Patria sia stato la spedizione di Crimea, uno dei fatti più singolari della storia. E lo ricordo, perché dimostra come e qualmente nelle ore solenni la decisione è affidata al singolo, che deve consultare soltanto la propria coscienza!
Quando il generale Dabormida rifiutò di segnare il trattato di alleanza con la Francia e l'Inghilterra, Cavour, la sera stessa del 10 gennaio 1855, lo firmò senza consultare il Parlamento, senza consultare il Consiglio dei Ministri, e soprattutto, a discrezione, senza porre condizioni di sorta.
Fu un gesto di una temerità che si potrebbe chiamare sublime. E lo stesso Cavour lo riconosceva quando, scrivendo al Conte Oldofredi, diceva: «Ho assunto sul mio capo una responsabilità tremenda. Non importa. Nasca quello che deve nascere. La mia coscienza mi dice di avere adempiuto ad un sacro dovere».
Avviene la discussione al Parlamento subalpino quando già i soldati del piccolo e grande Piemonte partivano o stavano per partire, e Angelo Brofferio, una specie di Cavallotti dell'epoca, accusò Cavour di non avere un preciso indirizzo politico. Vale veramente la pena che io rilegga parte di questo discorso, perché ricorda assai da vicino i discorsi che in questa settimana sono stati pronunciati in quest'aula.
«-I nostri ministri — diceva Angelo Brofferio — si fanno centro di tutto. Essi rappresentano tutte le idee e tutte le convinzioni. Una volta si fanno conservatori e tolgono i giurati alla stampa, un'altra volta pigliano sembianze di democratici e sorgono contro le usurpazioni di Roma; un'altra volta gettano la maschera e si fanno retrogradi per unirsi all'Austria-».
Angelo Brofferio concludeva con queste veramente singolari parole: «-Dove è, con questo sistema, il rispetto delle convinzioni e della moralità costituzionale?». E riferendosi al trattato, soggiungeva: «Dio disperda il funesto augurio, ma se voi consentite a questo trattato, la prostituzione del Piemonte e la rovina dell'Italia saranno un fatto compiuto-».
Curioso ancora che un altro ideologo potentissimo, e certamente sacro al cuore di tutti gli italiani, Giuseppe Mazzini, era anche lui contrarissimo a questo trattato, e giunse sino al punto di chiamare deportati i soldati piemontesi che andavano in Crimea, sino al punto di incitarli alla diserzione!
Ma Garibaldi, spirito molto più pratico di condottiero, spirito realistico, aveva intuito l'importanza fondamentale del Trattato di Alleanza tra il Piemonte e le Potenze occidentali.
«L'Italia — diceva Garibaldi — non dovrebbe perdere nessuna occasione di spiegare la propria bandiera sui campi di battaglia, che potesse ricordare alle Nazioni europee il fatto della sua esistenza politica-».
Oggi, voi siete certamente tutti d'accordo nel riconoscere che la storia ha dato torto al signor Angelo Brofferio, e ragione, grandemente ragione, a Camillo Benso di Cavour:
Il discorso dell'onorevole Amendola, è, dopo quello dell'onorevole Labriola, il discorso più quadrato, più degno di meditazione.
Egli ha detto: «-Il popolo italiano soffre di una crisi morale di spiriti che certamente è in relazione con l'intervento, con la guerra, col dopoguerra-». Ha concluso dicendo che bisogna dare a questo popolo italiano la sua unità morale.
Bisogna intendersi! Che cosa vuol dire unità morale del popolo italiano?
Un minimo comune denominatore, un terreno comune di azione in cui tutti i partiti nazionali si incontrano o si intendono, un livellamento generale di tutte le opinioni, di tutti i convincimenti, di tutti i partiti?
A me basta che l'unità morale ci sia in certe ore decisive della vita dei popoli. Non vi può essere tutti i giorni e per tutte le questioni.
D'altra parte io credo fermissimamente che a questa unità morale, fondamentale, del popolo italiano si va; questa unità morale è già in atto. La vedremo realizzata noi Stessi; non tanto per l'opera nostra politica, quanto come risultato della guerra che ha fatto conoscere gli italiani gli uni agli altri, li ha mescolati, ha fatto di questa nostra piccola penisola una specie di casa ove ci conosciamo ormai tutti quanti.
Molti diaframmi, che dividevano regioni e Provincie, sono caduti: si tratta ora di completare l'opera!
L'onorevole Bentini, parlando della libertà di stampa, sulla quale ritornerò fra poco, ha citato l'episodio di Garibaldi e di Dumas. Io approvo pienamente la risposta di Garibaldi. Ma vi domando: «-Se il giornale Indipendente avesse, puta caso, pubblicato notizie disfattiste, o avesse dato notizie di movimenti delle truppe garibaldine, credete voi che Garibaldi non avrebbe soppresso il giornale?-».
Ma soprattutto singolare è nel discorso dell'onorevole Bentini la confusione fra tattica e strategia politica.
Si possono vincere molte battaglie e si può perdere la guerra: e viceversa! Che cosa vi è successo? Avete avuto brillanti risultati tattici, ma poi non avete avuto il coraggio di intraprendere l'azione per raggiungere l'obbiettivo finale!
Avete conquistato una quantità di comuni, di Provincie, di istituzioni alla periferia e non avete capito che tutto ciò era perfettamente inutile se, a un dato momento, non vi impadronivate del cervello e del cuore della Nazione, se cioè non avevate il coraggio di fare della strategia politica. Oggi il vostro turno è passato, e non fatevi delle illusioni: certe occasioni la storia le presenta una volta sola.
Ma, per comprendere questa legge bisogna, onorevoli signori, tener conto di due fatti molto semplici, e sono questi: c'è stata una guerra, che ha spostato interessi, che ha modificato idee, che ha esasperato sentimenti, e c'è stata, se non vi dispiace e se non dispiace al mio amico Maffeo Pantaleoni, anche una rivoluzione. Non è necessario, per fare una rivoluzione, di inscenare tutta la coreografia delle rivoluzioni, di fare il grande dramma da arena.
Noi abbiamo lasciato molti morti sulla strada di Roma, e naturalmente, ognuno che si faccia delle illusioni è uno stolto. Il potere lo abbiamo e lo teniamo. Lo difenderemo contro chiunque. Qui è la rivoluzione, in questa ferma volontà di mantenere il potere!
E vengo adesso al lato positivo della discussione.
Si parla di libertà. Bisogna avere il coraggio di dire che, quando si grida: «-viva la libertà-» si sottintende: «-abbasso il Fascismo-». Ma che cosa è questa libertà? Esiste la libertà? In fondo, è una categoria filosofico-morale. Ci sono le libertà: la libertà non è mai esistita! I socialisti l'hanno sempre rinnegata. La libertà di lavoro non l'avete mai ammessa. Avete legnato il crumiro, quando si presentava alle fabbriche e gli altri scioperavano.
Ma poi è realmente vero e provato che il popolo italiano sia dominato da un Governo liberticida e gema avvinto nei ceppi della schiavitù? È un Governo liberticida il mio?
Nel campo sociale no. Ha avuto il coraggio di tramutare in legge dello Stato le otto ore di lavoro. Non disprezzate questa conquista, non svalutatela.
Ha approvato tutte le convenzioni sociali e pacifiste di Washington. Nel campo politico che cosa ha fatto questo Governo? Si dice che la democrazia è là dove il suffragio è allargato. Questo Governo ha mantenuto il suffragio universale! E quantunque le donne italiane, che sono abbastanza intelligenti per pretenderlo, non lo avessero fatto, ha immesso, sia pure sul solo terreno delle elezioni amministrative, da sei ad otto milioni di donne!
Leggi eccezionali nessuna. Non è una legge eccezionale il regolamento sulla stampa.
Buffoni. È la soppressione dell'editto sulla stampa.
Mussolini. Dimenticate una cosa molto semplice: che la rivoluzione ha diritto di difendersi.
In Russia c'è la libertà di associazione per i non bolscevichi? No! C'è la libertà di stampa per i non bolscevichi? No! C'è libertà di riunione, c'è libertà di voto? No!
Voi che siete gli assertori del regime russo non avete diritto di protestare contro un regime come il mio, che non può essere nemmeno lontanamente paragonato al regime bolscevico.
Io non sono, signori, il despota che sta chiuso in un castello munito di un triplice muro. Io giro fra il popolo senza preoccupazione di sorta e lo ascolto. Ebbene, il popolo italiano, sino a questo momento, non mi chiede libertà.
A Messina, la popolazione che circondava la mia vettura diceva: «Toglieteci dalle baracche». L'altro giorno i comuni di Basilicata mi chiedevano l'acqua, perché, o signori, ci sono milioni di italiani che non hanno l'acqua, non dico per il bagno, ma nemmeno per levarsi la sete.
In Sardegna (vedete che vi parlo di una regione dove il Fascismo non ha le diecine di migliaia di iscritti della Lombardia) ad Arbatax, scesero a me degli uomini dalla faccia patita, vorrei quasi dire accartocciata, mi circondarono e mi mostrarono una distesa dove un fiume imputridiva fra le canne palustri, e mi dissero: «-La malaria ci uccide-». Non mi parlarono di libertà, di Statuto e di Costituzione!
Sono gli emigrati della rivoluzione fascista che sollevano questo fantasma che il popolo italiano e ormai anche l'opinione pubblica estera hanno largamente smontato.
E tutti i giorni ricevo decine di Commissioni, e si abbattono sul mio tavolo centinaia di memoriali, nei quali si può dire che le piaghe di ognuno degli ottomila comuni d'Italia sono illustrate: sono veramente dei cahiers de doleances. Ebbene, perché costoro non verrebbero a me a dirmi: «-Noi soffriamo perché voi ci opprimete?-».
Ma vi è una ragione, un fatto su cui richiamo la vostra attenzione. Voi dite che i combattenti si sono battuti per la libertà. E come avviene allora che questi combattenti sono per il Governo liberticida?
La forza e il consenso sono veramente termini antagonistici? Affatto. Nella forza c'è già un consenso, e il consenso è la forza in sé e per sé. Ma insomma, avete mai visto sulla faccia della terra un Governo qualsiasi che abbia preteso di rendere felici tutti i suoi governati? Ma questa è la quadratura del circolo! Qualunque Governo, fosse retto da uomini partecipanti alla sapienza divina, qualunque provvedimento prenda, farà dei malcontenti.
E come vorrete contenere questo malcontento? Con la forza. Lo Stato che cosa è? È il carabiniere. Tutti i vostri codici, tutte le vostre dottrine e leggi sono nulle, se a un dato momento il carabiniere con la sua forza fisica non fa sentire il peso indistruttibile delle leggi.
Il Parlamento: si dice che vogliamo abolire il Parlamento. No! Prima di tutto non sappiamo con che cosa lo sostituiremmo. I Consigli così detti tecnici sono ancora allo stato embrionale. Può darsi che rappresentino dei principi di vita. Non si può mai essere dogmatici, espliciti, in siffatte materie. Ma allo stato dei fatti sono dei tentativi. Può darsi che in un secondo tempo accada di scaricare su questi Consigli tecnici una parte del lavoro legislativo.
Ma, o signori, vi prego di considerare che il Fascismo è elezionista. Fa le elezioni per conquistare i comuni e le provincie, le ha fatte per mandare deputati al Parlamento. Anzi, l'ho detto e lo ripeto, vuole fare del Parlamento una cosa un po' più seria, se non solenne, vuole, se fosse possibile, colmare quell'hiatus che esiste innegabilmente fra Parlamento e Paese.
Signori! Bisogna seguire il Fascismo, non dirò con intelletto d'amore, ma con intelletto di comprensione. Bisogna non farsi delle illusioni.
Quante volte da quei banchi si è detto che il Fascismo era un fenomeno transitorio! Voi lo vedeste: è un fenomeno imponente che raccoglie, si può dire, a milioni i suoi aderenti, è il Partito più grande di massa che sia mai stato in Italia. Ha in sé delle forze vitali potentissime, e siccome è diverso da tutti gli altri nella sua estensione, nel suo organamento, nei suoi quadri, nella sua disciplina, non sperate che la sua traiettoria sia rapida.
Proprio in questi giorni il Fascismo è in un travaglio di profonda trasformazione. Voi dite: «-Quando diventerà saggio il Fascismo?-».
Oh! io non desidero che lo diventi troppo presto! Preferisco che continui per qualche tempo ancora come oggi, sino a quando tutti saranno rassegnati al fatto compiuto, ad avere la sua bella armatura e la sua bella anima guerriera.
Ma lo squadrismo diventa milizia. E vi è un altro fatto che sta trasformando radicalmente l'essenza del Fascismo. Il partito che da una parte diventa milizia, dall'altra diventa amministrazione e Governo.
È incredibile come cambia il capo squadra che è diventato assessore, o sindaco. Ha un'altr'aria. Comprende che non si può andare all'assalto dei bilanci dei comuni, ma bisogna studiarli; bisogna applicarsi all'amministrazione che è una cosa dura, arida, difficile. E siccome i comuni conquistati dai fascisti sono ormai parecchie migliaia, voi vedete che a poco a poco questa trasformazione del. Fascismo in un organo di amministrazione, quindi necessariamente calmo e delimitato, avviene, e sarà presto un fatto compiuto.
Voi dite: «-Quando cesserà questa pressione morale del Fascismo?-». Comprendo che ne siate ansiosi, è umano; dipende da voi.
Voi sapete che io sarei felice domani di avere nel mio Governo i rappresentanti diretti delle masse operaie organizzate. Vorrei averli con me, vorrei dare a loro anche un dicastero delicato, perché si convincessero che l'amministrazione dello Stato è una cosa di straordinaria difficoltà e complessità, che c'è poco da improvvisare, che non bisogna fare tabula rasa come è accaduto in qualche rivoluzione, perché, dopo, bisogna ricostruire. E non si può prendere un Krilenko o un cuoco della divisione di Pietrogrado per farne un generale, perché dopo dovete chiamare un Brussilov.
Insomma finché esistono degli oppositori che invece di rassegnarsi al fatto compiuto pensano ad una riscossa, noi non possiamo disarmare.
Ma vi dico di più: che la esperienza anche ultima che avete tentato, quella dello sciopero dell'anno scorso, vi deve avere convinti ormai che su quella strada andrete alla perdizione, mentre viceversa dovete rendervi conto una buona volta, se avete nelle vostre vene un po' di dottrina marxista, che c'è una situazione nuova alla quale dovreste, se siete intelligenti, e pensosi delle classi che dite di rappresentare, adeguare il vostro spirito. E del resto dica Colombino, che è amico di D'Aragona, dica se sono nemico degli operai, smentisca quello che affermo, che 6000 operai del Consorzio metallurgico italiano oggi lavorano perché li ho aiutati, e ho fatto il mio dovere di cittadino e capo del Governo italiano.
Ma la libertà, o signori, non deve convertirsi in licenza. Quella che si chiede è la licenza, ma questa non la darò mai.
Voi potete, se volete, fare cortei e processioni, e vi farò scortare, ma se pretendete di tirare sassate contro i carabinieri o di passare da una strada dove non si può passare, troverete lo Stato che si oppone e che fa fuoco.
Ma questa legge che ci affatica è, veramente, un mostro? Vi dichiaro che se fosse un mostro, lo vorrei consegnare subito ad un museo di teratologia o delle mostruosità che dir si voglia.
Questa legge, della quale ho messo le linee fondamentali, ma che poi è stata successivamente elaborata dal mio amico onorevole Acerbo e rielaborata dalla Commissione, non so se in bene o in male, è una creatura, e come tutte le creature di questo mondo, ha le sue qualità e i suoi difetti. Non bisogna condannarla in blocco, sarebbe un gravissimo errore.
Voi dovete considerare, ve lo dico con assoluta franchezza, che è una legge per noi. Ma accoglie principi che sono ultra democratici. Accoglie il principio della scheda di Stato, accoglie il principio del collegio nazionale che era rivendicazione del socialismo, come ricordava testé Costantino Lazzari, che è ammirevole, come sono ammirevoli tutte le persone le quali rappresentano una specie di rudero spirituale della vita.
Voi dite che si spersonalizza la lotta. Voi dite che le elezioni si faranno nel tumulto; ma chi vi dice che le elezioni siano vicine?
Il congegno è tale, intanto, che garantisce una quota parte di posti alle minoranze. Io credo che facendo le elezioni colla legge attuale, le minoranze sarebbero forse più sacrificate.
Ad ogni modo la spersonalizzazione della lotta toglie alla lotta stessa quel carattere di asprezza che potrebbe preoccupare dal punto di vista dell'ordine pubblico. In questo momento le elezioni fatte col collegio uninominale o anche colla proporzionale condurrebbero certamente ad eccessi.
Io dichiaro che non farò le elezioni, se non quando sarò sicuro che si svolgeranno in stato di perfetta libertà e di indipendenza.
E aggiungo che, mentre in sede di discussione politica io sono e devo essere intransigente, in sede di discussione tecnica mi affido, in certo senso, ai competenti. I competenti — ce ne sono moltissimi in quest'aula — diranno come la legge possa essere ancora di più maltrattata o perfezionata. Ma ciò riguarderà la Camera, e il Governo vi dichiara che non si rifiuta di accogliere tutti quei perfezionamenti che rendessero più agevole l'esercizio del diritto di voto.
Questo riguarda in un certo senso i popolari, i quali devono decidersi. Io ho parlato chiaro, ma devo dire che non altrettanto chiaramente si è parlato da quei banchi. Il Governo non può accettare condizioni: o gli date la fiducia o gliela negate.
Signori, voi sentite che in questa discussione c'è stato un elemento di drammaticità. In genere, quando le idee diventano anche passioni personali degli uomini, fanno elevare il tono di tutte le discussioni di tutte le Assemblee.
Io concordo con tutti gli oratori i quali hanno affermato che il Paese desidera soltanto di essere lasciato tranquillo, di lavorare in pace, con disciplina: il mio Governo fa degli sforzi enormi, per arrivare a questo risultato, e li continuerà, anche se dovesse picchiare sui propri aderenti, perché avendo voluto lo Stato forte è giusto che essi siano i primi ad esperimentarne la forza.
Ho anche il dovere di dirvi, e ve lo dico per debito di lealtà, che dal vostro voto dipende in un certo senso il vostro destino.
Non vi fate anche in questo terreno delle illusioni, perché nessuno esce dalla Costituzione; né io né altri; e nessuno può supporre nemmeno che io non sia ampiamente garantito, secondo lo spirito e la lettera della Costituzione.
E allora, se le cose stanno in questi termini, io concludendo, vi dico: «-Rendetevi conto di questa necessità; non fate che il Paese abbia ancora una volta l'impressione che il Parlamento si è esercitato per una settimana intera in una campagna di opposizione, che alla fine è sterile di risultati-».
Perché questo è il momento in cui Parlamento e Paese possono riconciliarsi. Ma, se questa occasione passa, domani sarà troppo tardi; e voi lo sentite nell'aria, lo sentite nei vostri spiriti.
E allora, o signori, non afferratevi alle etichette, non irrigiditevi nella coerenza formale dei partiti, non afferratevi a delle pagliuzze, come possono fare dei naufraghi nell'Oceano credendo inutilmente di salvarsi; ma ascoltate il monito segreto e solenne della vostra coscienza, ascoltate anche il grido incoercibile della Nazione.
Castellammare Adriatico, 21 agosto 1923: MUSSOLINI parla al popolo abruzzese
Nel mese d'agosto, MUSSOLINI dedicò uno dei suoi brevi giri agli Abruzzi, troppo spesso trascurati.
Anzitutto parlo a Castellammare Adriatico, dalla terrazza del Kursaal:
Legionari! Gente di Abruzzo!
Io sono venuto qui per porre la vostra regione all'ordine del giorno della Nazione. Fra tutte le regioni d'Italia l'Abruzzo è l'avanguardia, perché in dieci mesi di Governo è la regione che mi ha chiesto di meno e che ha lavorato di più. Una volta io ho chiamato l'Abruzzo il cuore vivo e pulsante della Patria. Rinnovo oggi, al cospetto di questa moltitudine, al cospetto dell'Adriatico, ancora abbastanza amaro se non più amarissimo, questa mia dichiarazione che risponde ad una semplice e documentata verità. Pongo all'ordine del giorno del Fascismo tutto ii Fascismo abruzzese tutte le sue magnifiche legioni, poiché, se in qualche scarsa località d'Italia piccole e trascurabili questioni personali angustiano la nostra vita, qui invece fervida è la passione, altissima la fede, infrangibile la vostra unità.
Poco fa uno dei vostri produttori mi diceva che se il Fascismo avesse preso il potere due anni prima, saremmo in anticipo di due anni nella nostra rinascita e nella nostra redenzione morale ed economica. C'è veramente in ogni provincia d'Italia un impeto ed un fremito di vita nuova ed io ho l'impressione visibile e plastica di tutto il popolo che marcia in battaglioni serrati, ora che tutte le utopie asiatiche sono state stroncate per sempre.
Dall'Abruzzo mi sono venuti al Governo due collaboratori che io apprezzo moltissimo, che sono devoti, fedeli e preziosi collaboratori nella grande causa. Siate fedeli, o camicie nere, a questa nostra rivoluzione. Ditemi: «-Se fosse necessario ricominciare, ricomincereste?-».
(Tutti gli astanti gridano a più riprese: Sì! Sì!).
«-Se sarà necessario marciare verso altre mete, marcerete?-».
(Tutti gli astanti rispondono con un grido: Sì!).
Ebbene, separiamoci con questo giuramento. Se sarà necessario, impegneremo altre battaglie e strapperemo tutte le vittorie!
Pescara, 22 agosto 1923: MUSSOLINI parla al popolo Pescarese.
Il giorno seguente, MUSSOLINI si recò a Pescara a visitare la casa di Gabriele D'Annunzio e parlò — dal balcone del Circolo Aternino — al popolo adunato in Piazza Vittorio Emanuele:
Cittadini di Pescara!
Da oggi avrò il gradito ricordo di avere potuto comunicare con il vostro animo profondo e devoto alla Patria.
Stamane, visitando la Mostra, ho avuto la rivelazione visiva del vostro potente sforzo di costruttori e di produttori. Io ho detto e ripeto che siete benemeriti della Nazione. Lo siete stati in guerra; molti abruzzesi sono stati con me nelle trincee e posso attestare il fermo valore dei loro solidi petti.
Siamo tutti devoti all'Italia; questa è la fede che ci riscalda lo spirito; dal più alto al più umile ognuno deve compiere il suo preciso dovere.
Se noi riusciremo — e riusciremo perché io lo voglio e voi lo volete — a fondere tutte le nostre energie e ad esaltare la nostra fede, a credere, a fermamente credere nei radiosi destini d'Italia, non c'è da temere il ritorno offensivo del nemico.
Vorrei che certi pallidi politicastri i quali perdono il loro tempo in lunghe e prolisse disquisizioni sulla forza e sul consenso, partecipassero a queste nostre fresche ed impetuose adunate di popolo per convincersi che, oltre alla forza, il Governo fascista ha il consenso della parte migliore del popolo italiano. Ed è per questo che noi, del Governo fascista, dichiariamo che saremo inflessibili ed inesorabili contro tutti coloro che volessero rievocare l'Italia di ieri: la piccola Italia che non può essere la nostra grande Italia, quella che siamo noi, quella che noi vogliamo. Così non è il partito: è qualche cosa di più: è una milizia, è una religione, una passione che infiamma tutti i giovani generosi italiani e con i giovani gli adolescenti ed i vecchi che non si sentono tali e che hanno raccolta la face viva riaccesa dei morti della grande guerra. I morti della grande guerra ci hanno detto che bisogna vincere la pace e si deve vincere col lavoro, con la disciplina, con la concordia. E d'esempio quotidiano di lavoro e di disciplina crediamo debbano essere soprattutto ed in prima linea i fascisti, che hanno l'onore e l'orgoglio di partecipare a questo grande Partito che, volere o no, ha salvato la Patria.
Io serberò profondo nel cuore il ricordo di questa ospitale e fraterna accoglienza.
Gridiamo insieme: Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Sulmona, 22 agosto 1923: MUSSOLINI parla al popolo di Sulmona
Da Pescara MUSSOLINI passò a Sulmona, dove parlò al popolo dal balcone del Palazzo Comunale:
Io vi ringrazio dal più profondo del cuore delle fervide e ospitali accoglienze. Intendo salutare e ringraziare in voi tutto il generoso popolo dell'Abruzzo, che ieri ho messo all'ordine del giorno della Nazione.
Ieri alla Mostra di Castellammare passarono sotto i miei occhi le mirabili opere della vostra arte, della vostra industria, della agricoltura, ed ebbi la prova delle superbe vostre qualità.
In questa troppo rapida gita attraverso i bei vostri paesi ho avuto la viva soddisfazione di vedere che tutto il popolo, senza distinzioni di classi, mi è venuto incontro. Io credo che più che venire verso di me, esso abbia voluto salutare il Governo nazionale fascista, che è fermamente deciso di portare al sommo della perfezione morale e materiale il popolo italiano.
In altri tempi Sulmona passava per un centro sovversivo; oggi la sento guarita da questa infezione, come ne è guarita l'Italia tutta. Ebbene, vi assicuro che l'Italia non sarà più colpita da questo morbo, che ci fece tanto soffrire.
Chi garantisce che l'Italia non perderà più i contatti con le opere della sua redenzione?
(Urla formidabili della folla che pende dalla bocca del Duce: Noi!).
Avete eletto: «-Noi!-». Voi, dunque, lo garantite, voi che siete tutti fascisti, anche se non portate la camicia nera.
Parto da questa terra di Abruzzo col cuore gonfio di commozione per quello che ho veduto. Dico a voi fascisti: «-Ricordate quali sono le nostre idealità e che io raggiungerò con tutta la fede di un figlio del popolo che vuole la elevazione del popolo-». Spero che ritornerò sulle strade d'Abruzzo, ma in ogni modo il ricordo di questi giorni resterà incancellabile nel mio cuore.
A chi Roma?
(E il popolo fremente risponde: A Noi!).
A chi l'Italia?
(E ancora la folla unanime grida: A Noi!).
A chi il Governo fascista?
(E per la terza volta il popolo ripete forte: A Noi!).
Roma, 22 ottobre 1923: MUSSOLINI parla ai mutilati.
Dopo un periodo d'intensa attività silenziosa — fra l'agosto e l'ottobre 1923 — il Duce riprese la parola il 22 ottobre, parlando alla Sezione romana dei Mutilati, ove gli venne offerta una spada romana, presentata dal reggente Pellegrini, con la seguente dedica: «-Benito Mussolini - A Roma segnando i nuovi destini - Questa spada romana regga con romana virtù - I Mutilati di Roma nell'ottobre 1923-».
Nel discorso che voi, commilitone Pellegrini, mi avete rivolto, ci sono alcune parole che a mio avviso sono degne di meditazione. È questa la seconda volta che mi trovo qui a Roma fra voi mutilati, invalidi e combattenti. La prima volta a San Basilio, presso il vostro Comitato centrale, dove ebbi la gioia di ascoltare il meraviglioso profondo discorso del grande Delcroix. Oggi sento gli stessi accenti.
Segno che la linea magnifica nella quale vi movete, gli ideali che vi animano e le direttive che perseguite sono rimasti immutati. Voi date uno spettacolo superbo! Avete definito la vostra disciplina silenziosa, operante e devota. Questi aggettivi sono quelli che meglio definiscono il concetto di disciplina. Disciplina che dev'essere più che nella forma nello spirito; che non consiste solo nella parata, ma è l'espressione del sentimento che anima la vita, non solo nelle grandi circostanze, ma tutti i giorni.
È fortuna del Governo aver derivata gran parte della sua forza morale dai mutilati e dai combattenti. Io non dirò di aver fatto per essi grandi cose. Dichiaro soltanto che abbiamo fatto il nostro dovere. Dichiaro inoltre che il Governo vi avrà sempre presenti al suo spirito. Il Governo è un po' la vostra emanazione, essendo composto in massima parte di combattenti, di mutilati e decorati; e quelli del Governo che per la loro età non hanno potuto combattere, hanno, come il mio amico Oviglio, dato un figlio alla guerra, e, come il ministro Carnazza, donato un figlio giovanissimo alla Patria. Tutto ciò va ricordato e deve far meditare!
Vi sono assai grato dell'omaggio morale e del dono materiale, che ha in sé una speciale significazione, ed è un simbolo.
La spada romana è piena di significato, perché è stata spada essenzialmente di giustizia. Roma ha combattuto duramente per vincere; ma dopo la vittoria si è ispirata alla giustizia; ha assoggettato i popoli per farli cittadini, fondendo insieme la forza e la pietà.
Ed è questo il concetto che io ho della violenza. Se qualche volta la violenza è necessaria, essa non deve andare mai disgiunta dal senso della cavalleria e della generosità.
In questa concezione corrispondono pienamente i miei ed i vostri intendimenti. E sento perciò la necessità della vostra collaborazione.
Il compito del Governo in questo momento è tale da far tremare le vene ed i polsi. Non è senza tormento, come voi ben potete comprendere, che si porta sulle spalle il destino di quaranta milioni di italiani. È pertanto preziosa al Governo la collaborazione compatta degli uomini che vengono dalle trincee.
Con queste forze l'Italia potrà marciare verso i suoi alti destini.
Torino, 24 25 ottobre 1923: MUSSOLNI parla ai torinesi.
Il 24 ottobre 1923 MUSSOLINI presenzia all'inaugurazione, nell'atrio del Municipio, una lapide in memoria dei Caduti fascisti. In tale occasione pronunciò il seguente discorso:
Signori!
Torino non mi ha sorpreso perché io ero sicuro che Torino mi sarebbe venuta incontro con la sua anima solida, fierissima e devota: mi sarebbe venuta incontro non per onorare la mia persona. La mia persona passa in secondo ordine; io sono, come già dissi, un soldato fedele, un capo fedele alla consegna. Ma io credo che la manifestazione sia stata diretta al Governo che ho l'onore di presiedere e al movimento che ho creato, che ho educato e che educherò ancora fino a quando non sia diventato sempre migliore.
Questo movimento, questo Partito ha assunto la terribile responsabilità del potere. Sulle spalle di pochi uomini pesa il destino di quaranta milioni di italiani. C'è da meditare, c'è da sentirsi un poco umili di fronte a tanta fatica e a tanta responsabilità, ma questo fremito e questa trepidazione che sono di tutti gli artieri, di tutti i patriotti, trovano compenso nella adesione sempre più vasta e sempre più profonda del popolo italiano.
Dopo dodici mesi di governo, governo duro, governo anti-democratico, governo che non ha potuto ancora dare benefici tangibili al popolo italiano, dopo dodici mesi di questo governo, il popolo italiano è stretto attorno agli uomini del Governo e manifesta sempre più vivamente il suo consenso alle loro fatiche. Senza bisogno di ricorrere alla forza, c'è il consenso. E perché? Per una ragione molto semplice: noi non siamo degli ambiziosi, meno ancora dei vanitosi, meno ancora assumiamo pose di infallibili; siamo semplicemente degli uomini che lavorano, che si sono imposti una disciplina e perciò essi hanno il diritto di imporla a quelli che fossero recalcitranti.
Perché, o signori, la libertà senza ordine e senza disciplina significa dissoluzione e catastrofe. Il popolo italiano che è certamente più sano spesso di coloro che presumono di rappresentarlo, apprezza i vantaggi di questo regime che impone la disciplina necessaria.
Non siamo in un momento facile, specialmente in Europa. La nave è sbattuta dai flutti: è necessaria la disciplina più assoluta. Solo quando sarà passata la prima tempesta si potrà dare libertà agli equipaggi; prima no: sarebbe delitto. Il consenso che viene a noi e alla nostra opera è determinato dal fatto che il Fascismo è forza spirituale e religione. Potrà errare negli uomini o nei gruppi, ma la fiamma che sorge dal Fascismo è immortale.
Nello stesso giorno, il Duce passò dal Municipio alla Prefettura, e qui pronunziò dal balcone, al popolo adunato, il seguente discorso:
Popolo di Torino! la tua anima gagliarda, guerriera e operosa, mi è venuta incontro stamane con tutti i palpiti della tua fede, ed io ti ringrazio dal profondo del cuore. Non è senza meditazione che fra tutte le date ho scelto il 24 ottobre. Cinque anni fa le nostre divisioni, i soldati del nostro eroico Esercito, scattavano all'assalto nella battaglia che decise delle sorti della guerra mondiale. Ricordiamo questa gloriosa data fra tutte le date della nostra storia. La vittoria nostra è vittoria immortale. Il Bollettino che la rammenta sfida i secoli. Non è senza profonda commozione che vedo nella moltitudine ufficiali di tutte le armi del sacro Esercito. A lui va tutto il plauso, tutta la riconoscenza della Patria. Questo è un baluardo che tutela le nostre speranze e la nostra sicurezza; la Nazione può contare sull'Esercito oggi, domani, sempre.
C'è un altro motivo che mi ha fatto scegliere questa data. Un anno fa a Napoli vi fu la grande adunata delle Camicie Nere. Ricordo che quella sera 40.000 Camicie Nere che gremivano la Piazza del Plebiscito scandivano con voce semplice e terribile la parola «Roma». Sentivano questi uomini venuti da tutti i borghi, da tutti i casolari d'Italia, che se noi non avessimo preso Roma, il Fascismo avrebbe fallito al suo compito, avrebbe mancato alla meta. Tre giorni dopo noi prendemmo la città eterna, e iniziammo l'opera di rastrellamento e di polizia che non è ancora finita e che deve continuare. Io vi accerto che quest'opera continuerà inflessibilmente, tenacemente, sistematicamente. Ora noi teniamo Roma non per ambizione o per profitto o per vanità personale: la teniamo e la terremo contro chiunque, finché l'opera iniziata non sia completa: fino a che le opposizioni più o meno meschine e miserabili siano infrante per sempre. (Lunghissime ovazioni).
Sono venuto a Torino per dimostrare a questa città nobilissima la mia simpatia e la mia ammirazione. Qui sono nati il Risorgimento e l'Italia libera e unita. E voi non vi siete smarriti quando avete perduto la capitale, perché avete sentito che la capitale d'Italia era ed è Roma. Ai fasti della capitale avete sostituito le mille ciminiere delle vostre fabbriche. Qui è la capitale dell'industria italiana; qui è la città potente che lavora, che porta i prodotti della sua industria in tutte le contrade del mondo.
Voglio insorgere anche in vostro cospetto contro una calunnia che non so se sia più turpe o più stupida: parlino i vostri 10.000 morti, per dire che Torino ha fatto il suo compito, che Torino è stata fedele alle sue tradizioni.
Una voce. E sarà sempre!
Molte voci. Sì, sì! Lo sarà sempre!
Mussolini. Parlino i fanti delle vostre brigate, parlino gli alpini delle vostre montagne, parlino coloro che hanno dato il sangue, che hanno dato la fede, il braccio alla Patria. Ebbene, o torinesi, tutta l'Italia oggi ha ritrovato la sua anima, tutta l'Italia oggi si raccoglie in uno spettacolo superbo di disciplina nazionale. Guai a colui o a coloro che vorranno rompere tale disciplina o corrompere l'anima del popolo con le stupidissime fole. Contro costoro saremo inflessibili, severissimi e non daremo loro tregua.
Non si creda che sotto questa «-redingote-» non vi sia ancora la camicia nera. Tutti gli avversari che lo credessero si attendano la più immediata e energica smentita. Siamo un esercito in marcia che non si arresta, che non si abbatte per insuccessi momentanei. Noi sentiamo che questo Esercito ha la vostra simpatia. Come è stato vittorioso nelle battaglie di ieri, sarà vittorioso nelle battaglie di domani. Viva Torino! Viva il Re d'Italia!
Dopo il discorso dal balcone della Prefettura, il Duce ricevuto l'omaggio delle Madri e Vedove dei Caduti, dei Combattenti e dei Mutilati, fece una visita alla Associazione della Stampa, ove parlò brevemente rievocando i primi tempi del «-Popolo d'Italia-». Nella serata, dal balcone dell'Albergo Europa, in seguito alle insistenti richieste della folla, il Duce pronunciò brevi parole, esaltando il lavoro. Il giorno seguente, 25 ottobre 1923, Egli si recò a Racconigi a visitare S. M. il Re; e al ritorno visitò gli Stabilimenti della «Fiat» ove fu ricevuto dal Senatore Agnelli. In tale occasione rivolse agli operai le seguenti parole:
Senatore! Operai!
Ho ancora le orecchie frastornate e gli occhi abbagliati dallo spettacolo superbo che stamani si è offerto al mio sguardo. Come capo del Governo e come italiano sono orgoglioso di questa vostra splendida città del lavoro. Credo che non ci sia nulla di simile in Italia e forse nemmeno in Europa. Tutto ciò deve rendervi orgogliosi e darvi quel che io chiamo l'orgoglio della fabbrica.
Voi, del resto, lo sentite questo orgoglio perché voi siete legati al successo della vostra opera. Non è indifferente per voi che la vostra macchina giunga prima o seconda in un cimento europeo o mondiale. È nel vostro interesse che giunga prima, perché ciò aumenterà le vostre possibilità di lavoro. Tutto si ottiene nella vita? C'è un limite che non si può varcare, un limite per gli industriali e un limite per gli operai. È, cioè, nell'interesse degli industriali che gli operai siano tranquilli, che conducano una vita tranquilla, che abbiano il necessario alla vita e non siano assillati da bisogni insoddisfatti. Ma è anche nell'interesse degli operai che la produzione si svolga con ritmo ordinato, vorrei quasi dire solenne, poiché il lavoro è la cosa più alta, più nobile, più religiosa della vita.
E soprattutto non pensate di potervi straniare dalla vita, dall'anima e dalla storia della Nazione. Anche se voi lo voleste non vi riuscireste, come non si può riuscire a rinnegare mai la propria madre. Lo vogliate o non lo vogliate, siamo tutti italiani a dobbiamo avere l'orgoglio di essere italiani non solo per le glorie del passato, nobilissime glorie, ma sulle quali non vogliamo vivere di rendita come dei signori degeneri e parassiti, ma soprattutto per questa Italia nuova che va sorgendo, che ha qui in questa vostra fabbrica raggiunto un primato europeo.
Per questa Italia nuova io vi chiedo l'adempimento silenzioso del vostro dovere di operai e di cittadini. Solo con il lavoro e con la collaborazione fra tutti gli elementi della produzione si aumenterà il benessere individuale. Fuori di questo, io lo proclamo solennemente, fuori di questi limiti è la miseria individuale e la rovina della Nazione.
Dopo di che io, che ho lavorato con le braccia e che vengo dal popolo e che ho questo orgoglio, dopo di che io vi saluto, non con la mentita simpatia dei demagoghi venditori di fumo, ma con la sincerità rude di un lavoratore, di un uomo che non vi vuole ingannare, di un uomo che imporrà a tutti la disciplina necessaria, agli amici soprattutto ed anche agli avversari.
Ebbene, abbiatevi la manifestazione della mia simpatia più fraterna con l'augurio che il primato europeo e mondiale della vostra fabbrica non abbia mai a cessare.
Novara, 25 ottobre 1923: MUSSOLINI parla al popolo novarese.
Recandosi da Torino a Milano, MUSSOLINI sostò alla stazione di Novara, ove al popolo acclamante rivolse le seguenti parole:
Cittadini!
Non un discorso, ma un saluto che parte dal cuore. Da due giorni io passo tra manifestazioni di popolo altamente significative ed ammonitrici: vedo nella moltitudine di Torino, di Santhià, di Vercelli e di Novara, mescolati fraternamente insieme, i mutilati, i combattenti le madri e le vedove dei caduti, tutti coloro che formano quella che io chiamo la nuova e grande aristocrazia del sangue italiano. Vedo anche ufficiali e soldati del nostro Esercito che deve essere sacro per tutti i cittadini italiani; vedo le Camicie Nere, vedo il popolo lavoratore di tutte le categorie, di tutte le età. Che cosa significa questo se non una manifestazione di consenso non tanto alla mia persona, quanto al mio Governo, quanto alle idee che rappresento e difendo? Voi sentite tutti, anche i recalcitranti, quando facciano il loro esame di coscienza, voi sentite tutti che da un anno a questa parte l'atmosfera che si respira in Italia è un poco cambiata da quella degli anni infausti della rinuncia e della abiezione. Sembrano assai lontani i tempi in cui un Ministro del Regno d'Italia non sentiva la suprema vergogna di consigliare agli ufficiali di uscire in borghese e senza armi. Sembra assai lontano il tempo in cui gli elementi infidi o traviati della plebe, invece di onorare il sacrificio, insultavano i mutilati e spesso sputavano sui petti coperti dai segni del dovere e del valore.
Ebbene, tutto ciò è finito e per sempre; tutto ciò è tramontato e non risorgerà mai più. Lo giurate voi?
(Un grido unanime si leva dal popolo: Sì!).
Milano, 27 ottobre 1923: MUSSOLINI arringa i giornalisti lombardi.
A Milano, nel salone del Cova, l'Associazione Lombarda dei Giornalisti offerse un «-vermuth-» d'onore al Capo del Governo, il quale — ricollegandosi alle parole pronunziate a Torino all'Associazione della Stampa — rispose nel modo seguente al saluto del Consigliere delegato:
Onorevoli colleghi!
Ho ritrovato entrando qui dei volti che non avevo dimenticato; vecchi colleghi, giovani, gente con la quale sono vissuto a contatto più o meno quotidiano durante quegli anni di giornalismo che erano e sono la mia passione.
Bisogna distinguere il giornalista dal pubblicista. Pubblicista è una cosa, giornalista è un'altra. Ci può essere un gran numero di giornalisti che non scrivono nemmeno un articolo del giornale e vi può essere un pubblicista provetto che è negato al giornalismo. Il giornalismo è un istinto. Oserei dire che si nasce giornalisti. Molto difficilmente si diventa giornalisti. Poi è una passione; è qualche cosa che prende tutto lo spirito; si vive del giornale, per il giornale, col giornale. Io non ho dimenticato, andando al Governo, di essere un giornalista e spesso e volentieri prendo dei fogli e scrivo qualche cosa che può interessare gli italiani.
Ciò ha l'apparenza solenne delle note ufficiose od ufficiali che dir si voglia. Sono invece dei piccoli articoli, sono ancora atti che rivelano la nostalgia del mestiere.
L'altro giorno a Torino ho tessuta l'apologia di questo nostro mestiere, di questa nostra missione, di questo nostro apostolato che dir si voglia. Non amo le parole solenni.
Voi sapete che io rispetto il giornalismo e l'ho dimostrato. Desidero soltanto che il giornalismo si renda conto delle necessità storiche, di certe ineluttabilità storiche; desidero che il giornalismo collabori con la Nazione.
Io sono un lettore di centinaia di giornali al giorno ed ognuno di essi mi serve, perché il giornale può essere l'eco di bisogni inespressi che non troverebbero forse la via dell'accoglimento attraverso i meandri di quella cosa enorme e misteriosa e potente che è la burocrazia. Ripeto quello che dissi a Torino: che il giornalismo è una scuola di vita. Prepara gli uomini.
Vi saluto con molta simpatia e fraternità e vi dico di aver molto coraggio perché non so se nel vostro zaino, ma nella vostra cartella di redazione, ci può essere il bastone di maresciallo.
Ultima modifica di Admin il Gio 22 Mar 2018, 08:04 - modificato 2 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO -1923
Milano, 28 ottobre 1923: MUSSOLINI parla ai milanesi nel primo anniversario della Marcia su Roma
Dal balcone di Palazzo Belgioioso a Milano — in quella stessa piazza ove l'undici ottobre 1919 aveva tenuto uno storico discorso , - MUSSOLINI pronunziò, il 28 ottobre 1923, nel primo anniversario della Marcia su Roma, il seguente discorso:
Gloriose ed invitte, invincibili Camicie Nere!
Il mio plauso anzitutto ai vostri capi ed a voi che avete sfilato magnificamente in una disciplina perfetta; mi pareva di vedere non delle centurie, ma la Nazione intera che marciava col vostro ritmo gagliardo. Dopo qualche anno ecco che il destino mi concede di parlare ancora una volta in questa piazza, sacra ormai nella storia del Fascismo italiano. Qui in fatti, nei tempi oscuri, nei tempi bastardi, nei tempi che non tornano più, ci siamo riuniti in poche centinaia di audaci e di fedeli che avevano il coraggio di sfidare la bestia, che era allora trionfante.
Eravamo piccoli manipoli, siamo oggi delle legioni; eravamo allora pochissimi, oggi siamo una moltitudine sterminata.
A un anno di distanza da quella Rivoluzione che deve costituire l'orgoglio indefettibile di tutta la vostra vita, io rievoco dinanzi a voi con sicura coscienza, con animo tranquillo, il cammino percorso. E non parlo soltanto a voi, parlo a tutte le Camicie Nere, a tutto il popolo italiano. E dichiaro che il Governo fascista si è tenuto fedele alla sua promessa, e dichiaro che la Rivoluzione fascista non ha mancato alla sua meta.
Noi avevamo detto, in tutte le manifestazioni che precedettero la Marcia fatale, che la Monarchia è il simbolo sacro, glorioso, tradizionale, millenario della Patria; noi abbiamo fortificato la Monarchia, l'abbiamo resa ancora più augusta. Il nostro lealismo è perfetto e devono ormai riconoscerlo, anche gli ipercritici, che amano arrampicarsi sugli specchi dove si riflette troppo spesso l'immagine della loro pervicace malafede e della loro cronica stupidità.
Avevamo detto che non avremmo toccato un altro dei pilastri della Società Nazionale: la Chiesa. Ebbene, la religione, che è patrimonio sacro dei popoli, da noi non è stata toccata né diminuita. Ne abbiamo anzi aumentato il prestigio. Avevamo assicurato il maggior rispetto e la devozione più profonda per l'Esercito: ebbene, oggi l'Esercito di Vittorio Veneto occupa un posto d'onore nello spirito di tutti gli italiani devoti alla Patria. Se oggi gli ufficiali possono portare sul petto i segni della gloria da loro conquistati in guerra, se possono circolare a fronte alta, se i mutilati non sono più costretti a piangere sui loro moncherini, lo si deve in gran parte alle migliaia di morti dell'esercito delle Camicie Nere, sacrificati in tempi difficili, e quando la viltà sembrava divenuta un'insegna. Oggi la Nazione può contare pienamente sull'Esercito e questo lo si sa all'interno e lo si sa benissimo oltre i confini.
Né abbiamo toccato l'altro pilastro, che chiamerò quello della istituzione rappresentativa. Non abbiamo né invasò, né chiuso il Parlamento, malgrado la nausea invincibile che ci ha provocato in questi ultimi tempi. Non abbiamo fatto nessuna legge eccezionale, o malinconici zelatori di una libertà che è stata anche troppo rispettata e non abbiamo creato tribunali straordinari, che forse avrebbero potuto distribuire su certe schiene le razioni di piombo necessarie!
Ci sarebbe quasi da inquietarsi quando gli uomini che si vantano di una tradizione liberale vanno gemendo sulla mancanza di libertà, quando nessuno attenta alla vera libertà del Popolo italiano. Ma, dico, o signori, e dico a voi, Camicie Nere, se per la libertà s'intende di sospendere ogni giorno il ritmo tranquillo, ordinato del lavoro della Nazione, se per libertà s'intende il diritto di sputare sui simboli della Religione, della Patria e dello Stato, ebbene, io Capo del Governo e Duce del Fascismo, dichiaro che questa libertà non ci sarà mai! Non solo, ma dichiaro che i nostri avversari, di tutti i colori, non devono contare più oltre sulla nostra longanimità. Abbiamo dato un anno di prova perché si ravvedano, perché si rendano conto di questa nostra forza, invincibile, perché si rendano conto che quello che è stato, è stato, che non si torna più indietro, che siamo disposti a impegnare le più dure battaglie pur di difendere la nostra Rivoluzione. Ebbene, o Camicie Nere, non notate una profonda trasformazione nel clima di questa nostra adorata Patria?
(Grida altissime: Sì!).
Nell'anno che ha preceduto la nostra Marcia si sono perduti sette milioni di giornate di lavoro, uno sciupio enorme di ricchezza nazionale; da sette milioni abbiamo ridotto queste giornate a 200.000 appena. Tutto quello che rappresenta il ritmo della vita civile si svolge ordinatamente. Nel settembre di quest'anno l'Italia ha vissuto, dal punto di vista politico, la esperienza più interessante e più importante che essa abbia mai vissuto dal '60 in poi. Per la prima volta nella vita politica italiana, l'Italia ha compiuto un gesto di assoluta autonomia, ha avuto il coraggio di negare la competenza dell'areopago ginevrino, che è una specie di premio di assicurazione delle Nazioni arrivate contro le Nazioni proletarie.
Ebbene, in quei giorni che sono stati assai più gravi di quello che non sia apparso al nostro pubblico, in quei giorni che hanno avuto bagliori di tragedia, tutto il popolo italiano ha dato uno spettacolo magnifico di disciplina. Se io avessi detto al popolo italiano di marciare, non vi è dubbio che questo meraviglioso, ardente popolo italiano avrebbe marciato.
D'altra parte vi prego di riflettere che la Rivoluzione venne fatta coi bastoni: voi che cosa avete ora nei vostri pugni? Se coi bastoni è stato possibile fare la Rivoluzione, grazie al vostro eroismo, ora la Rivoluzione si difende e si consolida con le armi, coi vostri fucili. E sopra la camicia nera avete indossato il grigio verde; non siete più soltanto l'aristocrazia di un Partito, siete qualche cosa di più, siete l'espressione e l'anima della Nazione italiana.
Voglio fare un dialogo con voi: e sono sicuro che le vostre risposte saranno intonate e formidabili. Le mie domande e le vostre risposte non sono ascoltate soltanto da voi, ma da tutti gli italiani e da tutto il popolo, poiché oggi, a distanza di secoli, ancora una volta è l'Italia che dà una direzione al cammino della civiltà del mondo.
Camicie Nere, io vi domando se i sacrifici domani saranno più gravi dei sacrifici di ieri, li sosterrete voi?
(Urlo immenso dei fascisti: Sì).
Se domani io vi chiedessi quello che si potrebbe chiamare la prova sublime della disciplina, mi dareste questa prova?
(Sì! — ripetono ad alta voce i militi, con entusiasmo).
Se domani dessi il segnale dell'allarme, l'allarme delle grandi giornate, di quelle che decidono del destino dei popoli, rispondereste voi?
(Nuova esplosione entusiastica di: Sì, lo giuriamo!).
Se domani io vi dicessi che bisogna riprendere e continuare la marcia e spingerla a fondo verso altre direzioni, marcereste voi?
(Sì, sì, ed il coro fascista si eleva al più alto diapason).
Avete voi l'animo pronto per tutte le prove che la disciplina esige, anche per quelle umili, ignorate, quotidiane?
(La Milizia grida a gran voce: Sì).
Voi certamente siete ormai fusi in uno spirito solo, in un cuore solo, in una coscienza sola. Voi rappresentate veramente il prodigio di questa vecchia e meravigliosa razza italica, che conosce le ore tristi ma non conobbe mai le tenebre dell'oscurità. Se qualche volta apparve oscurata, ad un tratto ricomparve in luce maggiore.
Certo vi è qualche cosa di misterioso in questo rifiorire della nostra passione romana, certo vi è qualche cosa di religioso in questo esercito di volontari che non chiede nulla ed è pronto a tutto. Ora io vi dico che non sono altra cosa all'infuori di un umile servitore della Nazione. Se qualche volta io sono duro, se qualche volta io sono inflessibile, se qualche volta ho l'aria di comprimere e di voler qualche cosa di più dello stretto necessario gli è perché le mie spalle portano un peso durissimo, portano un peso formidabile, che spesso mi dà dei momenti di angoscia profonda. È il destino di tutta la Nazione.
Voi avete l'obbligo di aiutarmi, avete l'obbligo di non appesantire il mio fardello, ma di alleggerirlo.
O fascisti degni di questo glorioso nome, degni di questo movimento fatale, serbate intatta negli animi la piccola fiaccola della purissima fede! E quanto a voi, avversari di tutti i colori, rimettere le speranze e finitela col vostro giuoco che non ha nemmeno il pregio della novità e che è stato, smentito solennemente in cinque anni di storia.
Quando siamo nati, i grandi magnati della politica italiana ed i falsi pastori delle masse operaie avevano l'aria di considerarci come quantità trascurabile. Poi hanno detto — filosofi mancati che non riescono mai ad interpretare esattamente la storia — hanno detto che questo era un movimento effimero; hanno detto che noi non avevamo una dottrina — come se essi avessero delle dottrine e non invece dei frammenti dove c'è tutto un miscuglio impossibile delle cose più disparate; hanno detto — uno di essi era un filosofo della storia, un malinconico masturbatore della storia — hanno detto che il Governo fascista avrebbe durato sei settimane appena.
Sono appena dodici mesi. Pensate voi che durerà dodici anni moltiplicato per cinque?
(Sì, sì! — scattano ad una sola voce i militi e la folla).
Durerà, Camicie Nere, durerà perché noi, negatori della dottrina del materialismo, non abbiamo espulsa la volontà dalla storia umana; durerà perché vogliamo che duri, durerà perché sistematicamente disperderemo i nostri nemici, durerà perché non è soltanto il trionfo di un partito: è qualche cosa di più, molto di più, infinitamente di più, è la primavera, è la resurrezione della razza, è il Popolo che diventa Nazione, la Nazione che diventa Stato, è lo Stato che cerca nel mondo le linee della sua espansione.
Camicie Nere! Noi ci conosciamo; fra me e voi non si perderà mai il contatto; vi devono far ridere ed anche suscitare qualche moto di disgusto coloro che vorrebbero che io avessi già l'arteriosclerosi o la paralisi della vecchiezza. Ben lungi da ciò, lo stare dieci o dodici ore ad un tavolo, non mi ha impedito, il 24 maggio, di fare un volo di guerra; lavorare indefessamente dal mattino alla sera, dalla sera al mattino, non mi impedisce e non m'impedirà mai di osare tutti gli ardimenti, e nemmeno io desidero che le Camicie Nere invecchino anzi tempo; non voglio che diventino una specie di società di mutuo soccorso; voi dovete mantenere bene acceso nel vostro animo la fiamma del Fascismo, e chi dice Fascismo dice prima di tutto bellezza, dice coraggio, dice responsabilità, dice gente che è pronta a tutto dare ed a nulla chiedere quando sono in gioco gli interessi della Patria. Con questi intendimenti, o Camicie Nere di Lombardia, meravigliose Camicie Nere, io vi saluto, voi potete contare su me; ed io posso contare su voi?
(Sì! — rispondono ancora una volta le migliaia di voci).
Bologna, 29 ottobre 1923: MUSSOLINI parla ai bolognesi.
MUSSOLINI si recava da Milano a Bologna. A Palazzo d'Accursio — il palazzo comunale ove è rimasta la memoria del tragico assassinio di Giulio Giordani avvenuto il 22 novembre 1920 — al saluto rivoltogli dal Sindaco avv. Puppini, Egli rispose con le seguenti parole:
Invece delle mie parole basteranno due atti del Governo nazionale. Uno riguarda la vedova dell'avvocato Giordani e l'altro il figlio del Guardasigilli onorevole Oviglio. Si tratta di due provvedimenti approvati in una recente seduta dal Consiglio dei Ministri e già resi esecutivi dalla firma reale. Con il primo è assegnato alla vedova Giordani un assegno straordinario di 10.000 lire, con il secondo è consegnata una medaglia d'argento alla memoria di Galeazzo Oviglio caduto in guerra.
Io sento vibrare in tutte le mie fibre intime e più profonde un senso di gioia rinnovata e ritrovata. È veramente tutto il popolo della mia terra che mi viene incontro con la sua franca cordialità, con il suo sorriso gagliardo, con i suoi inni di gioia e di trionfo. È veramente questa una grandissima giornata. Non è soltanto la rievocazione di un evento famoso ormai nella storia d'Italia, ma è anche un'imponente, una immensa, una sterminata adunata di popolo che si ritrova e che rinnova il suo giuramento di fedeltà incondizionata alla causa della Nazione.
Davanti a questa moltitudine di anime vibranti di una sola passione, che cosa può ormai valere più la piccola calunnia o la non meno miserabile mistificazione degli avversari che noi abbiamo ancora risparmiati per eccesso di generosità? Poco o nulla.
Queste adunate di popolo segneranno delle date storiche. Riuniti sin qui in questa piazza vetusta e gloriosa, voi, o bolognesi, che avete conosciuto nella vostra storia tutte le bellezze e tutti gli ardimenti, voi oggi rinnovate il giuramento solenne che si compendia in queste parole: indietro non si torna più! I tempi tristi ed oscuri sono cancellati per sempre, e se io vi domandassi in quest'ora solenne il giuramento, un grido, una parola, un monosillabo che riassume tutto il nostro orgoglio e tutta la nostra speranza, voi certamente questa parola la direste. Ebbene, o bolognesi, o fascisti, o Camicie Nere, siete sempre disposti a dare la prova migliore della disciplina e della fede? Siete disposti a rinnovare e riprendere la marcia?
(La moltitudine risponde con due formidabili: Sì!).
Alzate i vostri moschetti, o Camicie Nere, alzate i gagliardetti, o alfieri, e salutate la storia d'Italia, l'avvenire immancabile della nostra adorabile Patria.
Perugia, 30 ottobre 1923: MUSSOLINI celebra la Marcia su Roma.
La città di Perugia, orgogliosa d'essere stata sede del Quartiere Generale della Marcia su Roma, un anno dopo lo storico avvenimento, offriva, a B. MUSSOLINI e ai Quadrumviri De Bono, De Vecchi, Balbo e Bianchi, la cittadinanza onoraria. La solenne cerimonia ebbe luogo nella Loggia della Vaccara, nel Palazzo dei Notori, dove MUSSOLINI pronunziò il seguente discorso:
Popolo di Perugia! Popolo dell'Umbria tutta!
Non ti stupire se io comincio il mio discorso con un atto di contrizione: ho molta vergogna di dirti che questa è la prima volta nella mia vita che vengo nella tua mirabile città la quale mi è balzata incontro con tutta la sua cordialità profonda, mentre il suo cielo purissimo, la sua aria trasparente, il suo orizzonte chiaro, dolce, quasi senza confini, mi spiegano come questa terra sia quella che ha celebrato a volta a volta l'eroismo e la santità.
Questa è l'ultima tappa del viaggio di celebrazione della Marcia su Roma. Abbiamo ripercorso in pochi giorni il cammino di molti anni, forse di molti secoli. Giunto a questa tappa, io, nella mia duplice qualità di Capo del Governo e Capo del Fascismo, voglio porgere il mio saluto, il mio ringraziamento fraterno a coloro che lavorarono con me in quella che fu un'opera suprema nella storia della Nazione; parlo degli uomini del Quadrumvirato.
Comincio da te, generale Emilio De Bono, guerriero intrepido di molti anni e di molte battaglie, col petto onusto dei segni del valore, giovane malgrado la lieve neve che incornicia il tuo volto maschio e fiero. Le Camicie Nere ti porgono il più alto alala! Chiamo te, Cesare De Vecchi, combattente decoratissimo, mutilato della Grande Guerra e mutilato anche della nostra guerra, solido e fedele come le montagne del tuo vecchio Piemonte. Parlo a te, Italo Balbo, uomo della mia terra, vorrei quasi dire della mia razza se io non mi sentissi intimamente, quasi ferocemente, uomo di una sola razza, la razza italiana. Tu, giovane che hai combattuto brillantemente nella nostra Santa Guerra di redenzione e sei stato insieme coi tuoi compagni uno di coloro che ha più potentemente contribuito a trasformare un movimento di squadre in un movimento di riscossa impetuosa e invincibile. Né ultimo tu sei, o Michele Bianchi, uomo della lunga e tempestosa vigilia, uomo che vidi con me il 23 marzo 1919 a Milano quando in numero esatto di cinquantadue, dico cinquantadue, ci riunimmo a giurare che la lotta che noi avevamo intrapresa non poteva finire se non con una trionfale vittoria.
Dopo i Capi del Quadrumvirato io voglio anche ricordare quelli pur noti che condussero le colonne verso Roma. C'erano fra di loro dei Generali come Ceccherini, come Fara, come Zamboni, uomini e nomi ben noti a tutto l'Esercito italiano. C'erano anche i Comandanti delle nostre squadre: voglio ricordare anche tutti i gregari, i morti e i superstiti e fra i primi quello vostro, o Perugini, che morì sulle soglie di Roma; voglio ricordare tutti quelli che a un dato momento dimenticarono famiglia, interessi, amori, e non ascoltarono che il grido che prorompeva dal mio e dai loro animi: il grido di: Roma o Morte!
Chi poteva resistere alla nostra marcia? Noi ci preparammo a tutti gli eventi con tutte le sagge regole della strategia militare e politica. La nostra lotta non era diretta contro l'Esercito, al quale non cessammo mai di tributare l'attestato della nostra più profonda e incommensurabile devozione. Non era diretta contro la Monarchia, la quale ha gloriosamente incarnato la tradizione della nostra razza e della nostra Nazione. Non era diretta contro le forze armate della Polizia, soprattutto non era diretta contro i fedeli della Benemerita coi quali noi avevamo in molte località combattuto assieme la buona battaglia contro gli sciagurati della Antinazione. Non era nemmeno la nostra battaglia diretta contro il popolo lavoratore; questo popolo che per qualche tempo è stato ingannato da una demagogia stupida e suicida, questo popolo lavoratore in quei giorni non interruppe il ritmo solerte e quotidiano della sua fatica; assisteva simpatizzando al nostro movimento, perché sentiva oscuramente, istintivamente che si sbarazzava il terreno da una classe di politicanti imbelli. Noi facevamo anche l'interesse del popolo che lavora.
Contro chi dunque abbiamo noi diretto la nostra impetuosa battaglia? Da venti anni, forse da trent'anni, la classe politica italiana andava sempre più corrompendosi e degenerando. Simbolo della nostra vita e marchio della nostra vergogna era diventato il parlamentarismo con tutto ciò che di stupido e demoralizzante questo nome significa. Non c'era un Governo; c'erano degli uomini sottoposti continuamente ai capricci della cosiddetta maggioranza ministeriale. Chi dominava erano i capi della burocrazia anonima, i quali rappresentavano l'unica continuità della nostra vita nazionale. Il popolo, quando poteva leggere i cosiddetti resoconti parlamentari ed assistere al cosiddetto incrocio delle ingiurie più plateali fra i cosiddetti rappresentanti della Nazione, sentiva lo schifo che gli saliva alla gola.
Era diretta la nostra battaglia soprattutto contro una mentalità: una mentalità di rinuncia, uno spirito sempre più pronto a sfuggire che ad accettare tutte le responsabilità: era diretta contro il mal costume politico-parlamentare, contro la licenza che profanava il sacro nome della libertà.
E chi ci poteva resistere? Forse i pallidi uomini che in quel momento rappresentavano il Governo? Roma in quei giorni mi dava l'idea di Bisanzio: discutevano se dovevano o non applicare il loro ridicolo decreto di stato d'assedio, mentre le nostre colonne formidabili ed inarrestabili avevano già circondato la capitale. Non costoro potevano coi loro reticolati, con le loro mitragliatrici, che al momento opportuno non avrebbero sparato, non costoro potevano impedire a noi di toccare la meta. E meno ancora i vecchi partiti. Non certamente i partiti della democrazia, frammentari, segmentati all'infinito; non certamente i partiti del cosiddetto sovversivismo che noi abbiamo inesorabilmente spazzato via dalla scena politica italiana e nemmeno il partito del dopoguerra, il cosiddetto partito popolare italiano, che ha rivaleggiato con il socialismo quando si trattava di fare della demagogia per mercato elettorale.
Ora tutti questi partiti dispersi e mortificati vivono della nostra longanimità, né noi, o cittadini, o Camicie Nere, intendiamo di sacrificarli. La nostra è una rivoluzione originale e grandiosa che non ha fatto i tribunali straordinari e non ha fucilato nessuno. Non è necessario fare una rivoluzione secondo gli stampi antichi. Ci deve essere una originalità nostra, fascista e latina. Del resto il consenso del popolo è immenso: la forza delle nostre legioni è intatta, per cui se qualche uomo o qualche partito pretendesse di ritornare ai tempi che furono, quell'uomo e quel partito saranno inesorabilmente puniti.
Camicie Nere, cittadini, noi non possiamo, non vogliamo più tornare al tempo in cui si elargiva una triplice amnistia ai disertori, mentre i mutilati non potevano circolare per le strade d'Italia. Né si deve più tornare al tempo in cui i partiti e la cosiddetta democrazia affogavano il popolo nel mare delle loro interminabili ciarle. Meno ancora si può tornare al tempo in cui era possibile mistificare le masse lavoratrici mettendole contro la Patria o fuori della Patria. Ebbene, sia detto qui in questa piazza meravigliosa e in quest'ora solenne: le sorti del popolo lavoratore sono intimamente legate alle sorti della Nazione, perché il popolo lavoratore è parte di questa Nazione. Se la Nazione grandeggia, anche il popolo diventa grande e ricco, ma se la Nazione perisce anche il popolo muore.
Non è senza un profondo disgusto che noi rievochiamo i tempi del dopoguerra: l'Esercito che ritornava dalla battaglia di Vittorio Veneto non ebbe la grande, la meritata soddisfazione di occupare Vienna e Budapest. Non già per esercitarvi atti di prepotenza, perché i nostri soldati, dovunque sono stati, hanno lasciato un buon ricordo incancellabile; ma perché era giusto che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero nelle città che erano state capitali del nemico battuto.
Giacché questo non si osò di fare perché il profeta di oltre oceano andava inseguendo le utopie dei suoi 14 punti, almeno fosse stato concesso ai nostri reggimenti vittoriosi di sfilare per le strade di Roma imperiale perché avessero avuto nel tripudio di tutto il popolo e di tutta la Nazione il senso augusto della nostra vittoria! Nemmeno questo si volle! Ora questi tempi sono passati. Taluni politicanti che non si muovono da Roma, che di questa città fanno centro della loro vita e pretenderebbero fare centro dell'Italia il palazzo di Montecitorio, girano poco. Non si muovono da Roma. Se avessero l'abitudine di circolare in mezzo alla moltitudine italiana, si convincerebbero che è ora di deporre le loro speranze, si convincerebbero che non c'è più niente da fare, si convincerebbero di una realtà che pareva sino a ieri la più stupenda ed irraggiungibile delle utopie: la realtà è, o cittadini, che il Capo del Governo gira tranquillamente in mezzo alle moltitudini italiane ed ha da loro l'attestazione di un consenso sempre più grande.
Chi oserà dire, sia pure l'avversario in malafede dichiarata, chi oserà dire che il Governo di Mussolini poggia soltanto sulla forza di un Partito? E non era assurdo che si pretendesse da taluno di dare alla celebrazione della Marcia su Roma il carattere esclusivo d'una manifestazione di Partito? Non è una manifestazione di Partito, non è solo il Fascismo che celebra la Marcia su Roma: sono accanto a noi mutilati e combattenti che rappresentano, lo ripeto, l'aristocrazia della Nazione. È accanto a noi la massa imponentissima dei nostri operai, dei capi e dell'industria, sindacati nelle nostre corporazioni. E soprattutto è con noi la moltitudine del popolo italiano che da un anno a questa parte dà uno spettacolo superbo di disciplina e dimostra che la ciurma era sana. Solo i piloti erano deficienti e mancanti. No, o cittadini, non si poteva pensare di assumere la somma delle responsabilità senza prendere Roma: Roma è veramente il segno fatale della nostra stirpe: Roma non può essere senza l'Italia, ma l'Italia non può essere senza Roma.
Il nostro destino di popolo ci inchioda alla storia di Roma. Noi prendemmo Roma per purificare, redimere ed innalzare l'Italia, e terremo Roma solidamente finché il nostro compito non sarà totalmente compiuto. E state tranquilli, o cittadini, state tranquilli, voi legionari delle Camicie Nere, che l'opera sarà continuata; sarà continuata con una tenacia fredda, oserei dire matematica e scientifica. Noi marceremo con passo sicuro e romano verso le mete infallibili. Nessuna forza ci potrà fermare, perché noi non rappresentiamo un partito o una dottrina o un semplice programma; noi rappresentiamo ben più di tutto ciò. Portiamo nello spirito il sogno che fermenta anche nelle nostre anime: noi vogliamo forgiare la grande, la superba, la maestosa Italia del nostro sogno, dei nostri poeti, dei nostri guerrieri, dei nostri martiri.
Qualche volta io vedo questa Italia nella sua singolare, divina espressione geografica: la vedo costellata delle sue città meravigliose, la vedo ricinta dal suo quadruplice mare, la vedo popolata di un popolo sempre più numeroso, laborioso e gagliardo che cerca le strade della sua espansione nel mondo. Salutate questa Italia, questa divina nostra terra protetta da tutti gli Iddii. Salutatela voi, uomini dalla piena virilità. Salutatela voi, vecchi che avete vissuto e avete bene spesa la vostra vita: salutatela voi, o donne che portate nel grembo il mistero delle generazioni che furono e di quelle che saranno: salutatela voi, o adolescenti che vi affacciate alla vita con occhi e con animo puro. Salutiamo insieme e gridiamo insieme: Viva, Viva, Viva l'Italia!
Roma, 31 ottobre 1923: MUSSOLINI interviene alla chiusura della quinta sessione della navigazione aerea.
Il 31 ottobre 1923 si compiva — con una giornata di fervido entusiasmo — il ciclo delle celebrazioni del primo anniversario della Marcia su Roma. Nello stesso giorno, chiudendosi la quinta sessione della Commissione internazionale per la Navigazione Aerea, il Duce pronunziava, nella Sala del Consiglio in Campidoglio, le seguenti parole:
Eccellenza! Onorevoli Signori!
E' per me un alto onore chiudere questo vostro Congresso che, se non ha avuto il contorno clamoroso dei congressi politici, è però stato fertile di fecondi risultati.
Sono qui nella mia qualità di Capo del Governo e sono qui anche nella mia qualità di aviatore e, come aviatore, permettetemi di felicitarmi con voi che da aviatori avete raggiunto il cielo di Roma attraverso le linee che sono normali per gli aviatori: le linee del cielo.
Come non si concepisce un ammiraglio che stia continuamente in terra ferma, così non si concepisce un aviatore che voli stando al tavolino. Chi fa dell'aviazione, deve dimostrare la sua passione e la sua abilità soprattutto volando.
Mi compiaccio poi per i risultati a cui siete pervenuti ed anche per il fatto che vi siete pervenuti alla unanimità. Ciò significa che c'è già una intesa fra tutti gli aviatori e che le possibilità di accordo sul terreno della legislazione aerea internazionale sono fondatissime.
Signor Flandin, io vi ho ascoltato con molta soddisfazione e con altrettanta gioia quando avete parlato di un certo scetticismo che ancora circonda la navigazione aerea. Voi sapete che l'umanità si può dividere in due categorie: i misoneisti ed i filoneisti; quelli che hanno la paura del nuovo e quelli che del nuovo hanno la nostalgia. Ora in questi tempi il nuovo è il volo.
Nella leggenda, nella storia, si vede chiaramente che l'uomo ha sempre cercato di liberarsi dalla terra dura, e qualche volta ingrata, per salire nelle regioni aeree della luce e del silenzio. Alla navigazione aerea spetta l'avvenire. Su questo non c'è dubbio né io saprei meglio concludere questo Congresso, questa vostra riunione se non modificando un motto latino che dava lo spirito e il coraggio ai piloti del mare e dell'Oceano: Navigare est necesse. Ora io dico: Volare necesse est.
Roma, 6 novembre 1923: MUSSOLINI parla agli impiegati delle poste e telegrafi.
Due giorni dopo la celebrazione della Vittoria, a Palazzo Chigi, il Comitato di azione patriottica fra il personale postelegrafico ed i rappresentanti del personale di tutte le provincie d'Italia, accompagnati dal Sottosegretario alle Poste, on. Caradonna, presentarono al Duce un album contenente sessantamila firme raccolte nel personale dell'amministrazione postelegrafonica. In tale occasione, Egli pronunziò le seguenti parole:
Signori!
L'attestato di simpatia e di solidarietà che mi offrite con le firme del personale è altamente significativo, perché dimostra che in tutti gli strati e le categorie del personale postelegrafonico è stata compresa una semplice e fondamentale verità che è questa: che siamo tutti legati allo stesso destino e che i più devoti alla Nazione ed allo Stato devono essere quelli che nelle Amministrazioni dello Stato lavorano compiendo il proprio dovere. Un giorno o l'altro io tesserò l'elogio della burocrazia italiana a cominciare dalla sua onestà. In dodici mesi di Governo mi sono convinto che la onestà e la correttezza degli impiegati dello Stato in Italia sono assolute. Vi saranno critici e ipercritici che potranno discutere su altri lati del problema; ma su questo, che è un elemento fondamentale, non ci può essere che unanimità di giudizio. La burocrazia italiana è corretta, onestissima. In secondo luogo quando l'esempio scende dall'alto, quando coloro che governano lavorano, questo esempio si ripercuote, si rifrange su tutta la scala; dal più alto al più basso gradino: dal Capo divisione all'usciere, tutti si sentono legati all'amministrazione, tutti comprendono che in questo ingranaggio di apparecchi sono condizionati l'uno all'altro. Non può uno solo fare il proprio dovere: tutti lo devono fare.
Con questo gesto mi dimostrate un'altra cosa, a mio avviso anch'essa importante, ed è questa: voi comprenderete che se il Governo prende delle misure che qualche volta sembrano e sono severe, non lo fa per capriccio. È una necessità che è superiore alla volontà. D'altra parte io credo che il vostro ideale ed il mio sia quello che si può riassumere in una formula molto semplice: pochi impiegati, ben trattati, che possano vivere di una vita estremamente dignitosa; che non siano vessati continuamene dalle necessità inesorabili della vita; che abbiano l'orgoglio della propria missione e funzione.
Queste cose io vi dovevo dire molto succintamente. Vi prego nello stesso tempo di portare a tutti i vostri colleghi il mio plauso, il mio ringraziamento ed il mio saluto.
Roma, 6 novembre 1923: MUSSOLINI risponde al Gr. Uff. Mercanti, dell'Aviazione italiana.
Nell'atmosfera dalle celebrazioni del 28 ottobre e del 4 novembre, nel Grand Hotel, fu consegna a MUSSOLINI la Medaglia d'Oro dell'Aereonautica. Dopo un banchetto offerto dall'Aereo Club in onore del Capo del Governo, alla presenza di Armando Diaz, dell'Ammiraglio Thaon di Revel e delle LL. EE. Finzi, De Stefani, Corbino. Il Gr. Uff. Mercanti, Intendente Generale dell'Aereonautica e Presidente dell'Aereo Club, tenne un breve discorso. Dopo la consegna della Medaglia, MUSSOLINI rivolse agli astanti le seguenti parole:
Duca della Vittoria! Duca del Mare! Colleghi! Signori!
E' veramente, come ha detto il mio caro amico Mercanti, quella di stasera una eccezione che io faccio alla mia ormai inveterata fobia conviviale; ma sono venuto fra voi volentieri perché l'invito non recava parole solenni, diceva: «-All'aviatore Mussolini-».
Questo mi ha estremamente lusingato poiché ho l'orgoglio di questa mia qualità, orgoglio che ho documentato volando in tempi in cui pochissimi volavano e cadendo, perché avevo il proposito di essere pilota a 37 anni, volando dopo essere caduto, naturalmente.
E pochi mesi or sono compiendo un volo, che si potrebbe chiamare di guerra, Roma-Udine e ritorno, ho dimostrato che si può governare la Nazione ma non per questo si debbono perdere le abitudini del rischio e dell'ardimento, poiché la vita deve essere rischiata e rivissuta quotidianamente, continuamente, dimostrando che si è pronti a gettarla quando sia necessario.
Ho ascoltato molto attentamente il discorso dell'amico Mercanti e soprattutto mi ha interessato lo sdoppiamento della sua personalità. Ma il problema è risolto, mio caro amico. Se tu come Presidente dell'Aereo Club d'Italia trovi che non tutte le cose dell'intendenza vanno bene, tu, come Intendente, sei nella migliore posizione per metterle a posto. D'altra parte io rispetto e comprendo le critiche; c'è sempre qualcuno che ha il compito di mormorare, c'è sempre qualcuno che grida che se lui fosse a quel posto le cose andrebbero meglio. È incredibile come durante il tempo della guerra ci fossero degli strateghi che seguivano con le bandierine le avanzate e pensavano veramente che se fossero stati essi al comando supremo, la Vittoria sarebbe stata ottenuta molto più rapidamente.
Per rendersi conto della reale situazione delle cose e dei fatti, bisogna prendere dei termini di confronto. Bisogna vedere che cosa era l'aviazione un anno fa, tre anni fa, nei tempi bastardi del 1919 e del 1920 e che cosa è oggi l'aviazione. Voi conoscete certamente la lacrimevole istoria della smobilitazione aviatoria compiutasi negli infausti anni del 1919 e 1920: quando sembrava che una follia bieca avesse preso i nostri governanti. C'erano delle persone che non volevano più vedere aeroplani, che credevano che il tempo della pace universale, perpetua, duratura fosse realmente spuntato. Noi abbiamo con la nostra mentalità spregiudicata fatto giustizia di tutta questa falsa letteratura, di tutta questa bassa, distruggitrice e suicida ideologia. Noi ci siamo posti dinanzi il problema della ricostruzione. Il problema è enormemente complesso poiché non si costruisce in un solo campo. Il difficile è che bisogna ricostruire in campi diversi contemporaneamente, spesso in campi contrastanti tra loro.
L'aviazione che non esisteva nel 1919 e 1920, che esisteva pochissimo nel 1921 e 1922, oggi esiste. Non è forse l'aviazione francese, non è forse l'aviazione inglese, ma siamo sulla buona strada che può condurci, se non alla parità, certo a condizioni tali che permettono di fronteggiare qualsiasi evento.
La materia umana c'è. Io non vi faccio un elogio interessato se vi dico che i piloti italiani, per giudizio unanime, anche degli stranieri, sono tra i migliori del mondo.
Sono perfettamente ottimista circa l'avvenire dell'aviazione italiana; credo che ci metteremo rapidamente alla pari con le altre nazioni.
Le altre nazioni del resto si accorgono di questa atmosfera nuova in cui viviamo da un anno a questa parte. Perché soltanto in questo anno 1923 i generali francesi e inglesi, che furono con noi a Vittorio Veneto, perché soltanto oggi, hanno mandato dispacci di congratulazione? Ebbene, questo ci dimostra che la Vittoria non è un fatto militare, o meglio non è soltanto un fatto militare, non è un episodio definito in determinate situazioni di spazio e di tempo. Il senso della Vittoria è una cosa che diviene, la Vittoria acquista forme sempre più grandiose a mano a mano che lo spirito si eleva. Se i generali alleati ci mandano il loro saluto gentile è perché sentono che l'atmosfera è cambiata, vedono i nostri progressi, riflettono sulle nostre parole.
Dichiaro che se altre nazioni sono più preparate dal punto di vista militare, nessun popolo nell'ora attuale è più preparato del nostro ad affrontare i cimenti che si rendessero inevitabili.
Accetto questa medaglia non tanto come premio per il passato, ma come anticipato premio sull'avvenire. Voi sapete che io vivo pochissimo del passato. Vivo sempre del domani. Preparo le cose a distanza mentre la gente crede che siano improvvisate. Non tutti hanno l'obbligo di conoscere il mio travaglio e sapere come maturo le mie decisioni. Affermo qui, in questa magnifica, superba riunione giovanile, che le speranze dell'aviazione italiana non saranno deluse; finché io sia al mio posto di Commissario dell'aviazione non v'è dubbio che tutte le mie energie saranno dedicate all'aviazione italiana.
Voi avrete i mezzi necessari perché credo che il mio amico De Stefani sia d'accordo con me nel ritenere che bisogna sollecitamente riguadagnare il terreno perduto, poiché c'è da tremare quando si pensi alla situazione in cui siamo stati negli scorsi anni. L'amico De' Stefani è pronto a darvi questi mezzi. Lo spirito ve lo darò io, il mio governo e tutto il popolo italiano. Tutti non possono volare; non è nemmeno desiderabile che tutti volino. Il volo deve rimanere ancora il privilegio di una aristocrazia; ma tutti devono avere il desiderio del volo, tutti devono avere la nostalgia del volo.
Questa ala è stata bandita per due, tre anni dal cielo adorabile della nostra terra. Questa ala oggi riprende il suo volo, questa ala non sarà più infranta. Ne prendo formale, solenne impegno come aviatore e come Capo del Governo italiano.
Roma, 11 novembre 1923: MUSSOLINI interviene alla cerimonia delle medaglie dell'Unità.
A Palazzo Salviatì in Roma, ebbe luogo la cerimonia della distribuzione delle medaglie della unità d'Italia, fatta dalla Sezione romana delle Madri e Vedove dei Caduti ai grandi mutilati ed ai grandi invalidi. In questa occasione, MUSSOLINI pronunziò le seguenti parole:
Prima di andarmene, desidero, signore e miei cari commilitoni, dirvi poche parole. Questa cerimonia intima e perciò eminentemente suggestiva, è degna dell'altra alla quale ho assistito poco fa alla caserma del Macao. Questa cerimonia stringe i rapporti che devono essere sempre più profondi fra tutti coloro che hanno vissuto e sofferto nella guerra vittoriosa.
Mi si è data una medaglia dell'unità italiana. Io non so se, nella mia qualità di Capo del Governo, certo nella mia qualità di fascista e di italiano, ho il dovere di dichiararvi che forse l'unità non è ancora perfetta. È inteso quindi che si tratta della unità che abbiamo raggiunto con la sempre più splendida vittoria del Piave del 24 ottobre 1918. Tutti coloro che a questa vittoria hanno partecipato marciando verso le frontiere, soggiornando nelle trincee — e non era sempre un soggiorno piacevole come voi sapete, andando all'assalto, lasciando al di là dei reticolati brandelli di carne viva e spesso la vita — tutti sono nel cuore del Governo, tutti devono essere nel profondo del cuore del popolo italiano e sarebbe assai triste il giorno in cui il popolo italiano non avesse più il rispetto massimo per coloro che sono stati gli artefici della incomparabile vittoria della nostra Patria.
Roma, 13 novembre 1923: MUSSOLINI parla ai Generali.
MUSSOLINI ricevé i Generali d'Esercito ed i Comandanti dei Corpi d'Armata, convei a Roma per partecipare ai lavori della Commissione centrale di avanzamento. Essi furono presentati dal Generale Armando Diaz, Duca della Vittoria, con le seguenti parole: «Sono Generali di Esercito, Comandanti di Armata e di Corpo d'Armata: ognuno di loro ha scritto in guerra pagine di cui il nostro Paese si onora. Sono dei valorosi, dei forti Comandanti. Essi hanno compiuto tutto il loro dovere in guerra e compiono oggi in pace, per la ricostruzione non meno ardua dell'Esercito, tutto il loro dovere con un solo ideale che è quello della grandezza della Patria e della forza dell'Italia nostra. Sono fiero di averli avuti a collaboratori fedeli durante l'ultimo anno di guerra in cui tenni il comando dell'Esercito: sono fiero di presentarli a V. E. la cui parola è giunta sempre animatrice, anche nell'attuale periodo, al fine della grandezza del nostro Paese». Alle parole del Duca della Vittoria, il Duce rispose nel modo seguente:
La ringrazio delle gentili parole e di questo gesto che i Generali di Esercito, i Comandanti di Armata e di Corpo d'Armata compiono oggi dinanzi a me, Capo del Governo. Voi sapete che questo Governo ha in cima ai suoi pensieri le sorti dell'Esercito nazionale. Le sorti morali e le sorti materiali, perché a mio avviso non bisogna mai disgiungere le due cose: lo spirito ha i suoi diritti imprescrittibili, ma anche la materia ha le sue esigenze necessarie. Non vi è dubbio che giammai, come in questi ultimi tempi, l'Italia ebbe uno spirito militare così elevato. Ho la impressione e credo che questa mia impressione possa essere confortata dalla vostra testimonianza, che il morale dei quadri e quello della truppa sia in questo momento superbo. Dal punto di vista morale siamo quindi a posto. Non si potrebbe pretendere un materiale umano più elastico, più preparato di quello che oggi è affidato al vostro comando.
A quello che riguarda la materia, cioè la preparazione dei mezzi, pensa incessantemente il Ministro della Guerra, pensa continuamente il Governo fascista. Voi conoscete, in proposito, le mie idee. Per me l'Esercito ha un compito solo, il compito supremo: prepararsi per essere pronto in ogni momento a difendere gli interessi della Nazione.
Tutti gli altri compiti passano in seconda linea. Tali concetti non devono essere limitati soltanto ai membri delle alte gerarchie dell'Esercito devono essere diffusi anche in tutta la massa dei quadri: questo deve essere l'obiettivo costante, il fermento animatore di tutti coloro — dal più alto al più basso — che costituiscono nell'Esercito la garanzia sicura e infrangibile dei destini della Patria.
Io vi prego, signori Generali, di portare a tutti gli ufficiali che da voi dipendono e alle truppe di cui avete il comando l'attestazione della mia devozione, della mia simpatia e della mia ammirazione e l'assicurazione anche che le sorti dell'Esercito stanno sommamente a cuore del Governo nazionale fascista.
Milano, 28 ottobre 1923: MUSSOLINI parla ai milanesi nel primo anniversario della Marcia su Roma
Dal balcone di Palazzo Belgioioso a Milano — in quella stessa piazza ove l'undici ottobre 1919 aveva tenuto uno storico discorso , - MUSSOLINI pronunziò, il 28 ottobre 1923, nel primo anniversario della Marcia su Roma, il seguente discorso:
Gloriose ed invitte, invincibili Camicie Nere!
Il mio plauso anzitutto ai vostri capi ed a voi che avete sfilato magnificamente in una disciplina perfetta; mi pareva di vedere non delle centurie, ma la Nazione intera che marciava col vostro ritmo gagliardo. Dopo qualche anno ecco che il destino mi concede di parlare ancora una volta in questa piazza, sacra ormai nella storia del Fascismo italiano. Qui in fatti, nei tempi oscuri, nei tempi bastardi, nei tempi che non tornano più, ci siamo riuniti in poche centinaia di audaci e di fedeli che avevano il coraggio di sfidare la bestia, che era allora trionfante.
Eravamo piccoli manipoli, siamo oggi delle legioni; eravamo allora pochissimi, oggi siamo una moltitudine sterminata.
A un anno di distanza da quella Rivoluzione che deve costituire l'orgoglio indefettibile di tutta la vostra vita, io rievoco dinanzi a voi con sicura coscienza, con animo tranquillo, il cammino percorso. E non parlo soltanto a voi, parlo a tutte le Camicie Nere, a tutto il popolo italiano. E dichiaro che il Governo fascista si è tenuto fedele alla sua promessa, e dichiaro che la Rivoluzione fascista non ha mancato alla sua meta.
Noi avevamo detto, in tutte le manifestazioni che precedettero la Marcia fatale, che la Monarchia è il simbolo sacro, glorioso, tradizionale, millenario della Patria; noi abbiamo fortificato la Monarchia, l'abbiamo resa ancora più augusta. Il nostro lealismo è perfetto e devono ormai riconoscerlo, anche gli ipercritici, che amano arrampicarsi sugli specchi dove si riflette troppo spesso l'immagine della loro pervicace malafede e della loro cronica stupidità.
Avevamo detto che non avremmo toccato un altro dei pilastri della Società Nazionale: la Chiesa. Ebbene, la religione, che è patrimonio sacro dei popoli, da noi non è stata toccata né diminuita. Ne abbiamo anzi aumentato il prestigio. Avevamo assicurato il maggior rispetto e la devozione più profonda per l'Esercito: ebbene, oggi l'Esercito di Vittorio Veneto occupa un posto d'onore nello spirito di tutti gli italiani devoti alla Patria. Se oggi gli ufficiali possono portare sul petto i segni della gloria da loro conquistati in guerra, se possono circolare a fronte alta, se i mutilati non sono più costretti a piangere sui loro moncherini, lo si deve in gran parte alle migliaia di morti dell'esercito delle Camicie Nere, sacrificati in tempi difficili, e quando la viltà sembrava divenuta un'insegna. Oggi la Nazione può contare pienamente sull'Esercito e questo lo si sa all'interno e lo si sa benissimo oltre i confini.
Né abbiamo toccato l'altro pilastro, che chiamerò quello della istituzione rappresentativa. Non abbiamo né invasò, né chiuso il Parlamento, malgrado la nausea invincibile che ci ha provocato in questi ultimi tempi. Non abbiamo fatto nessuna legge eccezionale, o malinconici zelatori di una libertà che è stata anche troppo rispettata e non abbiamo creato tribunali straordinari, che forse avrebbero potuto distribuire su certe schiene le razioni di piombo necessarie!
Ci sarebbe quasi da inquietarsi quando gli uomini che si vantano di una tradizione liberale vanno gemendo sulla mancanza di libertà, quando nessuno attenta alla vera libertà del Popolo italiano. Ma, dico, o signori, e dico a voi, Camicie Nere, se per la libertà s'intende di sospendere ogni giorno il ritmo tranquillo, ordinato del lavoro della Nazione, se per libertà s'intende il diritto di sputare sui simboli della Religione, della Patria e dello Stato, ebbene, io Capo del Governo e Duce del Fascismo, dichiaro che questa libertà non ci sarà mai! Non solo, ma dichiaro che i nostri avversari, di tutti i colori, non devono contare più oltre sulla nostra longanimità. Abbiamo dato un anno di prova perché si ravvedano, perché si rendano conto di questa nostra forza, invincibile, perché si rendano conto che quello che è stato, è stato, che non si torna più indietro, che siamo disposti a impegnare le più dure battaglie pur di difendere la nostra Rivoluzione. Ebbene, o Camicie Nere, non notate una profonda trasformazione nel clima di questa nostra adorata Patria?
(Grida altissime: Sì!).
Nell'anno che ha preceduto la nostra Marcia si sono perduti sette milioni di giornate di lavoro, uno sciupio enorme di ricchezza nazionale; da sette milioni abbiamo ridotto queste giornate a 200.000 appena. Tutto quello che rappresenta il ritmo della vita civile si svolge ordinatamente. Nel settembre di quest'anno l'Italia ha vissuto, dal punto di vista politico, la esperienza più interessante e più importante che essa abbia mai vissuto dal '60 in poi. Per la prima volta nella vita politica italiana, l'Italia ha compiuto un gesto di assoluta autonomia, ha avuto il coraggio di negare la competenza dell'areopago ginevrino, che è una specie di premio di assicurazione delle Nazioni arrivate contro le Nazioni proletarie.
Ebbene, in quei giorni che sono stati assai più gravi di quello che non sia apparso al nostro pubblico, in quei giorni che hanno avuto bagliori di tragedia, tutto il popolo italiano ha dato uno spettacolo magnifico di disciplina. Se io avessi detto al popolo italiano di marciare, non vi è dubbio che questo meraviglioso, ardente popolo italiano avrebbe marciato.
D'altra parte vi prego di riflettere che la Rivoluzione venne fatta coi bastoni: voi che cosa avete ora nei vostri pugni? Se coi bastoni è stato possibile fare la Rivoluzione, grazie al vostro eroismo, ora la Rivoluzione si difende e si consolida con le armi, coi vostri fucili. E sopra la camicia nera avete indossato il grigio verde; non siete più soltanto l'aristocrazia di un Partito, siete qualche cosa di più, siete l'espressione e l'anima della Nazione italiana.
Voglio fare un dialogo con voi: e sono sicuro che le vostre risposte saranno intonate e formidabili. Le mie domande e le vostre risposte non sono ascoltate soltanto da voi, ma da tutti gli italiani e da tutto il popolo, poiché oggi, a distanza di secoli, ancora una volta è l'Italia che dà una direzione al cammino della civiltà del mondo.
Camicie Nere, io vi domando se i sacrifici domani saranno più gravi dei sacrifici di ieri, li sosterrete voi?
(Urlo immenso dei fascisti: Sì).
Se domani io vi chiedessi quello che si potrebbe chiamare la prova sublime della disciplina, mi dareste questa prova?
(Sì! — ripetono ad alta voce i militi, con entusiasmo).
Se domani dessi il segnale dell'allarme, l'allarme delle grandi giornate, di quelle che decidono del destino dei popoli, rispondereste voi?
(Nuova esplosione entusiastica di: Sì, lo giuriamo!).
Se domani io vi dicessi che bisogna riprendere e continuare la marcia e spingerla a fondo verso altre direzioni, marcereste voi?
(Sì, sì, ed il coro fascista si eleva al più alto diapason).
Avete voi l'animo pronto per tutte le prove che la disciplina esige, anche per quelle umili, ignorate, quotidiane?
(La Milizia grida a gran voce: Sì).
Voi certamente siete ormai fusi in uno spirito solo, in un cuore solo, in una coscienza sola. Voi rappresentate veramente il prodigio di questa vecchia e meravigliosa razza italica, che conosce le ore tristi ma non conobbe mai le tenebre dell'oscurità. Se qualche volta apparve oscurata, ad un tratto ricomparve in luce maggiore.
Certo vi è qualche cosa di misterioso in questo rifiorire della nostra passione romana, certo vi è qualche cosa di religioso in questo esercito di volontari che non chiede nulla ed è pronto a tutto. Ora io vi dico che non sono altra cosa all'infuori di un umile servitore della Nazione. Se qualche volta io sono duro, se qualche volta io sono inflessibile, se qualche volta ho l'aria di comprimere e di voler qualche cosa di più dello stretto necessario gli è perché le mie spalle portano un peso durissimo, portano un peso formidabile, che spesso mi dà dei momenti di angoscia profonda. È il destino di tutta la Nazione.
Voi avete l'obbligo di aiutarmi, avete l'obbligo di non appesantire il mio fardello, ma di alleggerirlo.
O fascisti degni di questo glorioso nome, degni di questo movimento fatale, serbate intatta negli animi la piccola fiaccola della purissima fede! E quanto a voi, avversari di tutti i colori, rimettere le speranze e finitela col vostro giuoco che non ha nemmeno il pregio della novità e che è stato, smentito solennemente in cinque anni di storia.
Quando siamo nati, i grandi magnati della politica italiana ed i falsi pastori delle masse operaie avevano l'aria di considerarci come quantità trascurabile. Poi hanno detto — filosofi mancati che non riescono mai ad interpretare esattamente la storia — hanno detto che questo era un movimento effimero; hanno detto che noi non avevamo una dottrina — come se essi avessero delle dottrine e non invece dei frammenti dove c'è tutto un miscuglio impossibile delle cose più disparate; hanno detto — uno di essi era un filosofo della storia, un malinconico masturbatore della storia — hanno detto che il Governo fascista avrebbe durato sei settimane appena.
Sono appena dodici mesi. Pensate voi che durerà dodici anni moltiplicato per cinque?
(Sì, sì! — scattano ad una sola voce i militi e la folla).
Durerà, Camicie Nere, durerà perché noi, negatori della dottrina del materialismo, non abbiamo espulsa la volontà dalla storia umana; durerà perché vogliamo che duri, durerà perché sistematicamente disperderemo i nostri nemici, durerà perché non è soltanto il trionfo di un partito: è qualche cosa di più, molto di più, infinitamente di più, è la primavera, è la resurrezione della razza, è il Popolo che diventa Nazione, la Nazione che diventa Stato, è lo Stato che cerca nel mondo le linee della sua espansione.
Camicie Nere! Noi ci conosciamo; fra me e voi non si perderà mai il contatto; vi devono far ridere ed anche suscitare qualche moto di disgusto coloro che vorrebbero che io avessi già l'arteriosclerosi o la paralisi della vecchiezza. Ben lungi da ciò, lo stare dieci o dodici ore ad un tavolo, non mi ha impedito, il 24 maggio, di fare un volo di guerra; lavorare indefessamente dal mattino alla sera, dalla sera al mattino, non mi impedisce e non m'impedirà mai di osare tutti gli ardimenti, e nemmeno io desidero che le Camicie Nere invecchino anzi tempo; non voglio che diventino una specie di società di mutuo soccorso; voi dovete mantenere bene acceso nel vostro animo la fiamma del Fascismo, e chi dice Fascismo dice prima di tutto bellezza, dice coraggio, dice responsabilità, dice gente che è pronta a tutto dare ed a nulla chiedere quando sono in gioco gli interessi della Patria. Con questi intendimenti, o Camicie Nere di Lombardia, meravigliose Camicie Nere, io vi saluto, voi potete contare su me; ed io posso contare su voi?
(Sì! — rispondono ancora una volta le migliaia di voci).
Bologna, 29 ottobre 1923: MUSSOLINI parla ai bolognesi.
MUSSOLINI si recava da Milano a Bologna. A Palazzo d'Accursio — il palazzo comunale ove è rimasta la memoria del tragico assassinio di Giulio Giordani avvenuto il 22 novembre 1920 — al saluto rivoltogli dal Sindaco avv. Puppini, Egli rispose con le seguenti parole:
Invece delle mie parole basteranno due atti del Governo nazionale. Uno riguarda la vedova dell'avvocato Giordani e l'altro il figlio del Guardasigilli onorevole Oviglio. Si tratta di due provvedimenti approvati in una recente seduta dal Consiglio dei Ministri e già resi esecutivi dalla firma reale. Con il primo è assegnato alla vedova Giordani un assegno straordinario di 10.000 lire, con il secondo è consegnata una medaglia d'argento alla memoria di Galeazzo Oviglio caduto in guerra.
Io sento vibrare in tutte le mie fibre intime e più profonde un senso di gioia rinnovata e ritrovata. È veramente tutto il popolo della mia terra che mi viene incontro con la sua franca cordialità, con il suo sorriso gagliardo, con i suoi inni di gioia e di trionfo. È veramente questa una grandissima giornata. Non è soltanto la rievocazione di un evento famoso ormai nella storia d'Italia, ma è anche un'imponente, una immensa, una sterminata adunata di popolo che si ritrova e che rinnova il suo giuramento di fedeltà incondizionata alla causa della Nazione.
Davanti a questa moltitudine di anime vibranti di una sola passione, che cosa può ormai valere più la piccola calunnia o la non meno miserabile mistificazione degli avversari che noi abbiamo ancora risparmiati per eccesso di generosità? Poco o nulla.
Queste adunate di popolo segneranno delle date storiche. Riuniti sin qui in questa piazza vetusta e gloriosa, voi, o bolognesi, che avete conosciuto nella vostra storia tutte le bellezze e tutti gli ardimenti, voi oggi rinnovate il giuramento solenne che si compendia in queste parole: indietro non si torna più! I tempi tristi ed oscuri sono cancellati per sempre, e se io vi domandassi in quest'ora solenne il giuramento, un grido, una parola, un monosillabo che riassume tutto il nostro orgoglio e tutta la nostra speranza, voi certamente questa parola la direste. Ebbene, o bolognesi, o fascisti, o Camicie Nere, siete sempre disposti a dare la prova migliore della disciplina e della fede? Siete disposti a rinnovare e riprendere la marcia?
(La moltitudine risponde con due formidabili: Sì!).
Alzate i vostri moschetti, o Camicie Nere, alzate i gagliardetti, o alfieri, e salutate la storia d'Italia, l'avvenire immancabile della nostra adorabile Patria.
Perugia, 30 ottobre 1923: MUSSOLINI celebra la Marcia su Roma.
La città di Perugia, orgogliosa d'essere stata sede del Quartiere Generale della Marcia su Roma, un anno dopo lo storico avvenimento, offriva, a B. MUSSOLINI e ai Quadrumviri De Bono, De Vecchi, Balbo e Bianchi, la cittadinanza onoraria. La solenne cerimonia ebbe luogo nella Loggia della Vaccara, nel Palazzo dei Notori, dove MUSSOLINI pronunziò il seguente discorso:
Popolo di Perugia! Popolo dell'Umbria tutta!
Non ti stupire se io comincio il mio discorso con un atto di contrizione: ho molta vergogna di dirti che questa è la prima volta nella mia vita che vengo nella tua mirabile città la quale mi è balzata incontro con tutta la sua cordialità profonda, mentre il suo cielo purissimo, la sua aria trasparente, il suo orizzonte chiaro, dolce, quasi senza confini, mi spiegano come questa terra sia quella che ha celebrato a volta a volta l'eroismo e la santità.
Questa è l'ultima tappa del viaggio di celebrazione della Marcia su Roma. Abbiamo ripercorso in pochi giorni il cammino di molti anni, forse di molti secoli. Giunto a questa tappa, io, nella mia duplice qualità di Capo del Governo e Capo del Fascismo, voglio porgere il mio saluto, il mio ringraziamento fraterno a coloro che lavorarono con me in quella che fu un'opera suprema nella storia della Nazione; parlo degli uomini del Quadrumvirato.
Comincio da te, generale Emilio De Bono, guerriero intrepido di molti anni e di molte battaglie, col petto onusto dei segni del valore, giovane malgrado la lieve neve che incornicia il tuo volto maschio e fiero. Le Camicie Nere ti porgono il più alto alala! Chiamo te, Cesare De Vecchi, combattente decoratissimo, mutilato della Grande Guerra e mutilato anche della nostra guerra, solido e fedele come le montagne del tuo vecchio Piemonte. Parlo a te, Italo Balbo, uomo della mia terra, vorrei quasi dire della mia razza se io non mi sentissi intimamente, quasi ferocemente, uomo di una sola razza, la razza italiana. Tu, giovane che hai combattuto brillantemente nella nostra Santa Guerra di redenzione e sei stato insieme coi tuoi compagni uno di coloro che ha più potentemente contribuito a trasformare un movimento di squadre in un movimento di riscossa impetuosa e invincibile. Né ultimo tu sei, o Michele Bianchi, uomo della lunga e tempestosa vigilia, uomo che vidi con me il 23 marzo 1919 a Milano quando in numero esatto di cinquantadue, dico cinquantadue, ci riunimmo a giurare che la lotta che noi avevamo intrapresa non poteva finire se non con una trionfale vittoria.
Dopo i Capi del Quadrumvirato io voglio anche ricordare quelli pur noti che condussero le colonne verso Roma. C'erano fra di loro dei Generali come Ceccherini, come Fara, come Zamboni, uomini e nomi ben noti a tutto l'Esercito italiano. C'erano anche i Comandanti delle nostre squadre: voglio ricordare anche tutti i gregari, i morti e i superstiti e fra i primi quello vostro, o Perugini, che morì sulle soglie di Roma; voglio ricordare tutti quelli che a un dato momento dimenticarono famiglia, interessi, amori, e non ascoltarono che il grido che prorompeva dal mio e dai loro animi: il grido di: Roma o Morte!
Chi poteva resistere alla nostra marcia? Noi ci preparammo a tutti gli eventi con tutte le sagge regole della strategia militare e politica. La nostra lotta non era diretta contro l'Esercito, al quale non cessammo mai di tributare l'attestato della nostra più profonda e incommensurabile devozione. Non era diretta contro la Monarchia, la quale ha gloriosamente incarnato la tradizione della nostra razza e della nostra Nazione. Non era diretta contro le forze armate della Polizia, soprattutto non era diretta contro i fedeli della Benemerita coi quali noi avevamo in molte località combattuto assieme la buona battaglia contro gli sciagurati della Antinazione. Non era nemmeno la nostra battaglia diretta contro il popolo lavoratore; questo popolo che per qualche tempo è stato ingannato da una demagogia stupida e suicida, questo popolo lavoratore in quei giorni non interruppe il ritmo solerte e quotidiano della sua fatica; assisteva simpatizzando al nostro movimento, perché sentiva oscuramente, istintivamente che si sbarazzava il terreno da una classe di politicanti imbelli. Noi facevamo anche l'interesse del popolo che lavora.
Contro chi dunque abbiamo noi diretto la nostra impetuosa battaglia? Da venti anni, forse da trent'anni, la classe politica italiana andava sempre più corrompendosi e degenerando. Simbolo della nostra vita e marchio della nostra vergogna era diventato il parlamentarismo con tutto ciò che di stupido e demoralizzante questo nome significa. Non c'era un Governo; c'erano degli uomini sottoposti continuamente ai capricci della cosiddetta maggioranza ministeriale. Chi dominava erano i capi della burocrazia anonima, i quali rappresentavano l'unica continuità della nostra vita nazionale. Il popolo, quando poteva leggere i cosiddetti resoconti parlamentari ed assistere al cosiddetto incrocio delle ingiurie più plateali fra i cosiddetti rappresentanti della Nazione, sentiva lo schifo che gli saliva alla gola.
Era diretta la nostra battaglia soprattutto contro una mentalità: una mentalità di rinuncia, uno spirito sempre più pronto a sfuggire che ad accettare tutte le responsabilità: era diretta contro il mal costume politico-parlamentare, contro la licenza che profanava il sacro nome della libertà.
E chi ci poteva resistere? Forse i pallidi uomini che in quel momento rappresentavano il Governo? Roma in quei giorni mi dava l'idea di Bisanzio: discutevano se dovevano o non applicare il loro ridicolo decreto di stato d'assedio, mentre le nostre colonne formidabili ed inarrestabili avevano già circondato la capitale. Non costoro potevano coi loro reticolati, con le loro mitragliatrici, che al momento opportuno non avrebbero sparato, non costoro potevano impedire a noi di toccare la meta. E meno ancora i vecchi partiti. Non certamente i partiti della democrazia, frammentari, segmentati all'infinito; non certamente i partiti del cosiddetto sovversivismo che noi abbiamo inesorabilmente spazzato via dalla scena politica italiana e nemmeno il partito del dopoguerra, il cosiddetto partito popolare italiano, che ha rivaleggiato con il socialismo quando si trattava di fare della demagogia per mercato elettorale.
Ora tutti questi partiti dispersi e mortificati vivono della nostra longanimità, né noi, o cittadini, o Camicie Nere, intendiamo di sacrificarli. La nostra è una rivoluzione originale e grandiosa che non ha fatto i tribunali straordinari e non ha fucilato nessuno. Non è necessario fare una rivoluzione secondo gli stampi antichi. Ci deve essere una originalità nostra, fascista e latina. Del resto il consenso del popolo è immenso: la forza delle nostre legioni è intatta, per cui se qualche uomo o qualche partito pretendesse di ritornare ai tempi che furono, quell'uomo e quel partito saranno inesorabilmente puniti.
Camicie Nere, cittadini, noi non possiamo, non vogliamo più tornare al tempo in cui si elargiva una triplice amnistia ai disertori, mentre i mutilati non potevano circolare per le strade d'Italia. Né si deve più tornare al tempo in cui i partiti e la cosiddetta democrazia affogavano il popolo nel mare delle loro interminabili ciarle. Meno ancora si può tornare al tempo in cui era possibile mistificare le masse lavoratrici mettendole contro la Patria o fuori della Patria. Ebbene, sia detto qui in questa piazza meravigliosa e in quest'ora solenne: le sorti del popolo lavoratore sono intimamente legate alle sorti della Nazione, perché il popolo lavoratore è parte di questa Nazione. Se la Nazione grandeggia, anche il popolo diventa grande e ricco, ma se la Nazione perisce anche il popolo muore.
Non è senza un profondo disgusto che noi rievochiamo i tempi del dopoguerra: l'Esercito che ritornava dalla battaglia di Vittorio Veneto non ebbe la grande, la meritata soddisfazione di occupare Vienna e Budapest. Non già per esercitarvi atti di prepotenza, perché i nostri soldati, dovunque sono stati, hanno lasciato un buon ricordo incancellabile; ma perché era giusto che i nostri battaglioni vittoriosi sfilassero nelle città che erano state capitali del nemico battuto.
Giacché questo non si osò di fare perché il profeta di oltre oceano andava inseguendo le utopie dei suoi 14 punti, almeno fosse stato concesso ai nostri reggimenti vittoriosi di sfilare per le strade di Roma imperiale perché avessero avuto nel tripudio di tutto il popolo e di tutta la Nazione il senso augusto della nostra vittoria! Nemmeno questo si volle! Ora questi tempi sono passati. Taluni politicanti che non si muovono da Roma, che di questa città fanno centro della loro vita e pretenderebbero fare centro dell'Italia il palazzo di Montecitorio, girano poco. Non si muovono da Roma. Se avessero l'abitudine di circolare in mezzo alla moltitudine italiana, si convincerebbero che è ora di deporre le loro speranze, si convincerebbero che non c'è più niente da fare, si convincerebbero di una realtà che pareva sino a ieri la più stupenda ed irraggiungibile delle utopie: la realtà è, o cittadini, che il Capo del Governo gira tranquillamente in mezzo alle moltitudini italiane ed ha da loro l'attestazione di un consenso sempre più grande.
Chi oserà dire, sia pure l'avversario in malafede dichiarata, chi oserà dire che il Governo di Mussolini poggia soltanto sulla forza di un Partito? E non era assurdo che si pretendesse da taluno di dare alla celebrazione della Marcia su Roma il carattere esclusivo d'una manifestazione di Partito? Non è una manifestazione di Partito, non è solo il Fascismo che celebra la Marcia su Roma: sono accanto a noi mutilati e combattenti che rappresentano, lo ripeto, l'aristocrazia della Nazione. È accanto a noi la massa imponentissima dei nostri operai, dei capi e dell'industria, sindacati nelle nostre corporazioni. E soprattutto è con noi la moltitudine del popolo italiano che da un anno a questa parte dà uno spettacolo superbo di disciplina e dimostra che la ciurma era sana. Solo i piloti erano deficienti e mancanti. No, o cittadini, non si poteva pensare di assumere la somma delle responsabilità senza prendere Roma: Roma è veramente il segno fatale della nostra stirpe: Roma non può essere senza l'Italia, ma l'Italia non può essere senza Roma.
Il nostro destino di popolo ci inchioda alla storia di Roma. Noi prendemmo Roma per purificare, redimere ed innalzare l'Italia, e terremo Roma solidamente finché il nostro compito non sarà totalmente compiuto. E state tranquilli, o cittadini, state tranquilli, voi legionari delle Camicie Nere, che l'opera sarà continuata; sarà continuata con una tenacia fredda, oserei dire matematica e scientifica. Noi marceremo con passo sicuro e romano verso le mete infallibili. Nessuna forza ci potrà fermare, perché noi non rappresentiamo un partito o una dottrina o un semplice programma; noi rappresentiamo ben più di tutto ciò. Portiamo nello spirito il sogno che fermenta anche nelle nostre anime: noi vogliamo forgiare la grande, la superba, la maestosa Italia del nostro sogno, dei nostri poeti, dei nostri guerrieri, dei nostri martiri.
Qualche volta io vedo questa Italia nella sua singolare, divina espressione geografica: la vedo costellata delle sue città meravigliose, la vedo ricinta dal suo quadruplice mare, la vedo popolata di un popolo sempre più numeroso, laborioso e gagliardo che cerca le strade della sua espansione nel mondo. Salutate questa Italia, questa divina nostra terra protetta da tutti gli Iddii. Salutatela voi, uomini dalla piena virilità. Salutatela voi, vecchi che avete vissuto e avete bene spesa la vostra vita: salutatela voi, o donne che portate nel grembo il mistero delle generazioni che furono e di quelle che saranno: salutatela voi, o adolescenti che vi affacciate alla vita con occhi e con animo puro. Salutiamo insieme e gridiamo insieme: Viva, Viva, Viva l'Italia!
Roma, 31 ottobre 1923: MUSSOLINI interviene alla chiusura della quinta sessione della navigazione aerea.
Il 31 ottobre 1923 si compiva — con una giornata di fervido entusiasmo — il ciclo delle celebrazioni del primo anniversario della Marcia su Roma. Nello stesso giorno, chiudendosi la quinta sessione della Commissione internazionale per la Navigazione Aerea, il Duce pronunziava, nella Sala del Consiglio in Campidoglio, le seguenti parole:
Eccellenza! Onorevoli Signori!
E' per me un alto onore chiudere questo vostro Congresso che, se non ha avuto il contorno clamoroso dei congressi politici, è però stato fertile di fecondi risultati.
Sono qui nella mia qualità di Capo del Governo e sono qui anche nella mia qualità di aviatore e, come aviatore, permettetemi di felicitarmi con voi che da aviatori avete raggiunto il cielo di Roma attraverso le linee che sono normali per gli aviatori: le linee del cielo.
Come non si concepisce un ammiraglio che stia continuamente in terra ferma, così non si concepisce un aviatore che voli stando al tavolino. Chi fa dell'aviazione, deve dimostrare la sua passione e la sua abilità soprattutto volando.
Mi compiaccio poi per i risultati a cui siete pervenuti ed anche per il fatto che vi siete pervenuti alla unanimità. Ciò significa che c'è già una intesa fra tutti gli aviatori e che le possibilità di accordo sul terreno della legislazione aerea internazionale sono fondatissime.
Signor Flandin, io vi ho ascoltato con molta soddisfazione e con altrettanta gioia quando avete parlato di un certo scetticismo che ancora circonda la navigazione aerea. Voi sapete che l'umanità si può dividere in due categorie: i misoneisti ed i filoneisti; quelli che hanno la paura del nuovo e quelli che del nuovo hanno la nostalgia. Ora in questi tempi il nuovo è il volo.
Nella leggenda, nella storia, si vede chiaramente che l'uomo ha sempre cercato di liberarsi dalla terra dura, e qualche volta ingrata, per salire nelle regioni aeree della luce e del silenzio. Alla navigazione aerea spetta l'avvenire. Su questo non c'è dubbio né io saprei meglio concludere questo Congresso, questa vostra riunione se non modificando un motto latino che dava lo spirito e il coraggio ai piloti del mare e dell'Oceano: Navigare est necesse. Ora io dico: Volare necesse est.
Roma, 6 novembre 1923: MUSSOLINI parla agli impiegati delle poste e telegrafi.
Due giorni dopo la celebrazione della Vittoria, a Palazzo Chigi, il Comitato di azione patriottica fra il personale postelegrafico ed i rappresentanti del personale di tutte le provincie d'Italia, accompagnati dal Sottosegretario alle Poste, on. Caradonna, presentarono al Duce un album contenente sessantamila firme raccolte nel personale dell'amministrazione postelegrafonica. In tale occasione, Egli pronunziò le seguenti parole:
Signori!
L'attestato di simpatia e di solidarietà che mi offrite con le firme del personale è altamente significativo, perché dimostra che in tutti gli strati e le categorie del personale postelegrafonico è stata compresa una semplice e fondamentale verità che è questa: che siamo tutti legati allo stesso destino e che i più devoti alla Nazione ed allo Stato devono essere quelli che nelle Amministrazioni dello Stato lavorano compiendo il proprio dovere. Un giorno o l'altro io tesserò l'elogio della burocrazia italiana a cominciare dalla sua onestà. In dodici mesi di Governo mi sono convinto che la onestà e la correttezza degli impiegati dello Stato in Italia sono assolute. Vi saranno critici e ipercritici che potranno discutere su altri lati del problema; ma su questo, che è un elemento fondamentale, non ci può essere che unanimità di giudizio. La burocrazia italiana è corretta, onestissima. In secondo luogo quando l'esempio scende dall'alto, quando coloro che governano lavorano, questo esempio si ripercuote, si rifrange su tutta la scala; dal più alto al più basso gradino: dal Capo divisione all'usciere, tutti si sentono legati all'amministrazione, tutti comprendono che in questo ingranaggio di apparecchi sono condizionati l'uno all'altro. Non può uno solo fare il proprio dovere: tutti lo devono fare.
Con questo gesto mi dimostrate un'altra cosa, a mio avviso anch'essa importante, ed è questa: voi comprenderete che se il Governo prende delle misure che qualche volta sembrano e sono severe, non lo fa per capriccio. È una necessità che è superiore alla volontà. D'altra parte io credo che il vostro ideale ed il mio sia quello che si può riassumere in una formula molto semplice: pochi impiegati, ben trattati, che possano vivere di una vita estremamente dignitosa; che non siano vessati continuamene dalle necessità inesorabili della vita; che abbiano l'orgoglio della propria missione e funzione.
Queste cose io vi dovevo dire molto succintamente. Vi prego nello stesso tempo di portare a tutti i vostri colleghi il mio plauso, il mio ringraziamento ed il mio saluto.
Roma, 6 novembre 1923: MUSSOLINI risponde al Gr. Uff. Mercanti, dell'Aviazione italiana.
Nell'atmosfera dalle celebrazioni del 28 ottobre e del 4 novembre, nel Grand Hotel, fu consegna a MUSSOLINI la Medaglia d'Oro dell'Aereonautica. Dopo un banchetto offerto dall'Aereo Club in onore del Capo del Governo, alla presenza di Armando Diaz, dell'Ammiraglio Thaon di Revel e delle LL. EE. Finzi, De Stefani, Corbino. Il Gr. Uff. Mercanti, Intendente Generale dell'Aereonautica e Presidente dell'Aereo Club, tenne un breve discorso. Dopo la consegna della Medaglia, MUSSOLINI rivolse agli astanti le seguenti parole:
Duca della Vittoria! Duca del Mare! Colleghi! Signori!
E' veramente, come ha detto il mio caro amico Mercanti, quella di stasera una eccezione che io faccio alla mia ormai inveterata fobia conviviale; ma sono venuto fra voi volentieri perché l'invito non recava parole solenni, diceva: «-All'aviatore Mussolini-».
Questo mi ha estremamente lusingato poiché ho l'orgoglio di questa mia qualità, orgoglio che ho documentato volando in tempi in cui pochissimi volavano e cadendo, perché avevo il proposito di essere pilota a 37 anni, volando dopo essere caduto, naturalmente.
E pochi mesi or sono compiendo un volo, che si potrebbe chiamare di guerra, Roma-Udine e ritorno, ho dimostrato che si può governare la Nazione ma non per questo si debbono perdere le abitudini del rischio e dell'ardimento, poiché la vita deve essere rischiata e rivissuta quotidianamente, continuamente, dimostrando che si è pronti a gettarla quando sia necessario.
Ho ascoltato molto attentamente il discorso dell'amico Mercanti e soprattutto mi ha interessato lo sdoppiamento della sua personalità. Ma il problema è risolto, mio caro amico. Se tu come Presidente dell'Aereo Club d'Italia trovi che non tutte le cose dell'intendenza vanno bene, tu, come Intendente, sei nella migliore posizione per metterle a posto. D'altra parte io rispetto e comprendo le critiche; c'è sempre qualcuno che ha il compito di mormorare, c'è sempre qualcuno che grida che se lui fosse a quel posto le cose andrebbero meglio. È incredibile come durante il tempo della guerra ci fossero degli strateghi che seguivano con le bandierine le avanzate e pensavano veramente che se fossero stati essi al comando supremo, la Vittoria sarebbe stata ottenuta molto più rapidamente.
Per rendersi conto della reale situazione delle cose e dei fatti, bisogna prendere dei termini di confronto. Bisogna vedere che cosa era l'aviazione un anno fa, tre anni fa, nei tempi bastardi del 1919 e del 1920 e che cosa è oggi l'aviazione. Voi conoscete certamente la lacrimevole istoria della smobilitazione aviatoria compiutasi negli infausti anni del 1919 e 1920: quando sembrava che una follia bieca avesse preso i nostri governanti. C'erano delle persone che non volevano più vedere aeroplani, che credevano che il tempo della pace universale, perpetua, duratura fosse realmente spuntato. Noi abbiamo con la nostra mentalità spregiudicata fatto giustizia di tutta questa falsa letteratura, di tutta questa bassa, distruggitrice e suicida ideologia. Noi ci siamo posti dinanzi il problema della ricostruzione. Il problema è enormemente complesso poiché non si costruisce in un solo campo. Il difficile è che bisogna ricostruire in campi diversi contemporaneamente, spesso in campi contrastanti tra loro.
L'aviazione che non esisteva nel 1919 e 1920, che esisteva pochissimo nel 1921 e 1922, oggi esiste. Non è forse l'aviazione francese, non è forse l'aviazione inglese, ma siamo sulla buona strada che può condurci, se non alla parità, certo a condizioni tali che permettono di fronteggiare qualsiasi evento.
La materia umana c'è. Io non vi faccio un elogio interessato se vi dico che i piloti italiani, per giudizio unanime, anche degli stranieri, sono tra i migliori del mondo.
Sono perfettamente ottimista circa l'avvenire dell'aviazione italiana; credo che ci metteremo rapidamente alla pari con le altre nazioni.
Le altre nazioni del resto si accorgono di questa atmosfera nuova in cui viviamo da un anno a questa parte. Perché soltanto in questo anno 1923 i generali francesi e inglesi, che furono con noi a Vittorio Veneto, perché soltanto oggi, hanno mandato dispacci di congratulazione? Ebbene, questo ci dimostra che la Vittoria non è un fatto militare, o meglio non è soltanto un fatto militare, non è un episodio definito in determinate situazioni di spazio e di tempo. Il senso della Vittoria è una cosa che diviene, la Vittoria acquista forme sempre più grandiose a mano a mano che lo spirito si eleva. Se i generali alleati ci mandano il loro saluto gentile è perché sentono che l'atmosfera è cambiata, vedono i nostri progressi, riflettono sulle nostre parole.
Dichiaro che se altre nazioni sono più preparate dal punto di vista militare, nessun popolo nell'ora attuale è più preparato del nostro ad affrontare i cimenti che si rendessero inevitabili.
Accetto questa medaglia non tanto come premio per il passato, ma come anticipato premio sull'avvenire. Voi sapete che io vivo pochissimo del passato. Vivo sempre del domani. Preparo le cose a distanza mentre la gente crede che siano improvvisate. Non tutti hanno l'obbligo di conoscere il mio travaglio e sapere come maturo le mie decisioni. Affermo qui, in questa magnifica, superba riunione giovanile, che le speranze dell'aviazione italiana non saranno deluse; finché io sia al mio posto di Commissario dell'aviazione non v'è dubbio che tutte le mie energie saranno dedicate all'aviazione italiana.
Voi avrete i mezzi necessari perché credo che il mio amico De Stefani sia d'accordo con me nel ritenere che bisogna sollecitamente riguadagnare il terreno perduto, poiché c'è da tremare quando si pensi alla situazione in cui siamo stati negli scorsi anni. L'amico De' Stefani è pronto a darvi questi mezzi. Lo spirito ve lo darò io, il mio governo e tutto il popolo italiano. Tutti non possono volare; non è nemmeno desiderabile che tutti volino. Il volo deve rimanere ancora il privilegio di una aristocrazia; ma tutti devono avere il desiderio del volo, tutti devono avere la nostalgia del volo.
Questa ala è stata bandita per due, tre anni dal cielo adorabile della nostra terra. Questa ala oggi riprende il suo volo, questa ala non sarà più infranta. Ne prendo formale, solenne impegno come aviatore e come Capo del Governo italiano.
Roma, 11 novembre 1923: MUSSOLINI interviene alla cerimonia delle medaglie dell'Unità.
A Palazzo Salviatì in Roma, ebbe luogo la cerimonia della distribuzione delle medaglie della unità d'Italia, fatta dalla Sezione romana delle Madri e Vedove dei Caduti ai grandi mutilati ed ai grandi invalidi. In questa occasione, MUSSOLINI pronunziò le seguenti parole:
Prima di andarmene, desidero, signore e miei cari commilitoni, dirvi poche parole. Questa cerimonia intima e perciò eminentemente suggestiva, è degna dell'altra alla quale ho assistito poco fa alla caserma del Macao. Questa cerimonia stringe i rapporti che devono essere sempre più profondi fra tutti coloro che hanno vissuto e sofferto nella guerra vittoriosa.
Mi si è data una medaglia dell'unità italiana. Io non so se, nella mia qualità di Capo del Governo, certo nella mia qualità di fascista e di italiano, ho il dovere di dichiararvi che forse l'unità non è ancora perfetta. È inteso quindi che si tratta della unità che abbiamo raggiunto con la sempre più splendida vittoria del Piave del 24 ottobre 1918. Tutti coloro che a questa vittoria hanno partecipato marciando verso le frontiere, soggiornando nelle trincee — e non era sempre un soggiorno piacevole come voi sapete, andando all'assalto, lasciando al di là dei reticolati brandelli di carne viva e spesso la vita — tutti sono nel cuore del Governo, tutti devono essere nel profondo del cuore del popolo italiano e sarebbe assai triste il giorno in cui il popolo italiano non avesse più il rispetto massimo per coloro che sono stati gli artefici della incomparabile vittoria della nostra Patria.
Roma, 13 novembre 1923: MUSSOLINI parla ai Generali.
MUSSOLINI ricevé i Generali d'Esercito ed i Comandanti dei Corpi d'Armata, convei a Roma per partecipare ai lavori della Commissione centrale di avanzamento. Essi furono presentati dal Generale Armando Diaz, Duca della Vittoria, con le seguenti parole: «Sono Generali di Esercito, Comandanti di Armata e di Corpo d'Armata: ognuno di loro ha scritto in guerra pagine di cui il nostro Paese si onora. Sono dei valorosi, dei forti Comandanti. Essi hanno compiuto tutto il loro dovere in guerra e compiono oggi in pace, per la ricostruzione non meno ardua dell'Esercito, tutto il loro dovere con un solo ideale che è quello della grandezza della Patria e della forza dell'Italia nostra. Sono fiero di averli avuti a collaboratori fedeli durante l'ultimo anno di guerra in cui tenni il comando dell'Esercito: sono fiero di presentarli a V. E. la cui parola è giunta sempre animatrice, anche nell'attuale periodo, al fine della grandezza del nostro Paese». Alle parole del Duca della Vittoria, il Duce rispose nel modo seguente:
La ringrazio delle gentili parole e di questo gesto che i Generali di Esercito, i Comandanti di Armata e di Corpo d'Armata compiono oggi dinanzi a me, Capo del Governo. Voi sapete che questo Governo ha in cima ai suoi pensieri le sorti dell'Esercito nazionale. Le sorti morali e le sorti materiali, perché a mio avviso non bisogna mai disgiungere le due cose: lo spirito ha i suoi diritti imprescrittibili, ma anche la materia ha le sue esigenze necessarie. Non vi è dubbio che giammai, come in questi ultimi tempi, l'Italia ebbe uno spirito militare così elevato. Ho la impressione e credo che questa mia impressione possa essere confortata dalla vostra testimonianza, che il morale dei quadri e quello della truppa sia in questo momento superbo. Dal punto di vista morale siamo quindi a posto. Non si potrebbe pretendere un materiale umano più elastico, più preparato di quello che oggi è affidato al vostro comando.
A quello che riguarda la materia, cioè la preparazione dei mezzi, pensa incessantemente il Ministro della Guerra, pensa continuamente il Governo fascista. Voi conoscete, in proposito, le mie idee. Per me l'Esercito ha un compito solo, il compito supremo: prepararsi per essere pronto in ogni momento a difendere gli interessi della Nazione.
Tutti gli altri compiti passano in seconda linea. Tali concetti non devono essere limitati soltanto ai membri delle alte gerarchie dell'Esercito devono essere diffusi anche in tutta la massa dei quadri: questo deve essere l'obiettivo costante, il fermento animatore di tutti coloro — dal più alto al più basso — che costituiscono nell'Esercito la garanzia sicura e infrangibile dei destini della Patria.
Io vi prego, signori Generali, di portare a tutti gli ufficiali che da voi dipendono e alle truppe di cui avete il comando l'attestazione della mia devozione, della mia simpatia e della mia ammirazione e l'assicurazione anche che le sorti dell'Esercito stanno sommamente a cuore del Governo nazionale fascista.
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Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO -1923
Roma, 16 novembre 1923: MUSSOLINI interviene nel Senato sulla situazione politica internazionale
MUSSOLINI cogliendo l'occasione dell'interpellanza presentata al Senato del Regno dai Senatori Artom e Mazziotti per conoscere «-le direttive del Governo in relazione alla situazione politica internazionale-». pronuncia la seguente risposta:
Onorevoli Senatori!
Voglio in primo luogo ringraziare gli onorevoli interpellanti i quali hanno provocato questa discussione in tema di politica estera, e sarò lieto se essa sarà ampia, poiché io accetto suggerimenti e consigli da qualunque parte mi vengano, purché siano ispirati dal superiore criterio degli interessi nazionali.
Mi riservo di toccare nell'altro ramo del Parlamento molte questioni che oggi non toccherò. Mi limiterò ad esporre l'azione e le idee del Governo su tre avvenimenti, intorno ai quali si è particolarmente polarizzata l'attenzione del pubblico: la Ruhr, Corfù, Fiume.
Voglia però il Senato concedermi di anticipare in questa sala il benvenuto ai Sovrani di Spagna, che saranno dopodomani a Roma ospiti della capitale intangibile del mondo latino. La loro visita, preceduta dall'ottimo trattato di commercio felicemente concluso, sarà, io credo, feconda di altri tangibili risultati circa i rapporti futuri fra i due grandi popoli bagnati dallo stesso mare.
Ed ora vi prego, onorevoli senatori, di seguirmi molto pazientemente e molto attentamente nel labirinto calamitoso e ormai mitologico delle riparazioni.
Allorquando, nel novembre dello scorso anno, a Governo nazionale assunse il potere, la situazione, per quanto concerne il problema delle riparazioni germaniche, si presentava assai complicata e grave. Ecco le posizioni reciproche di tutte le potenze interessate.
Scadeva nel 31 dicembre l'ultima moratoria concessa alla Germania nel corso del 1922 ed il Governo tedesco notificava alla Commissione internazionale delle riparazioni che non solo non avrebbe potuto uniformarsi pel 1923 allo stato dei pagamenti fissati a Londra nel 1921, ma neanche eseguire il programma di riparazioni grandemente ridotte che era stato indicato con la moratoria del 1922. Chiedeva perciò il Governo tedesco una nuova e più larga proroga dei suoi impegni e la revisione radicale degli impegni stessi in guisa da notevolmente ridurli.
La Francia si opponeva alla concessione di una nuova proroga in modo decisivo. Metteva in evidenza gli innumerevoli tentativi fatti dal Governo di Berlino per sottrarsi agli impegni contratti, dando ragione ad una certa corrente, secondo la quale la Germania era assolutamente decisa di trovar modo di non pagare.
Affermava ancora la Francia la necessità di mezzi coercitivi ed insisteva per la presa di pegni e per l'occupazione di alcuni centri industriali della Germania.
L'Inghilterra invece, preoccupata dal deprezzamento crescente e fantastico del marco e dalle conseguenze per la concorrenza al commercio inglese, assumeva un'attitudine favorevole nei riguardi della moratoria, e anche per le riparazioni in natura sosteneva la riduzione del la situazione politica internazionale debito tedesco e si dichiarava contraria alla presa di pegni.
La situazione era difficile. Incombeva sull'Europa la preoccupazione di ciò che sarebbe accaduto allo scadere della moratoria col 31 dicembre. Si prospettavano le gravi complicazioni a cui avrebbe potuto condurre l'occupazione della Ruhr alla quale la Francia, innanzi ai mancati pagamenti tedeschi, sembrava ormai sempre più decisa.
Per trovare una via di uscita, fu indetta la riunione della Conferenza di Londra nel dicembre del 1922. Parve allora al Governo nazionale che non avrebbe valso a ricondurre la quiete e la normalità in Europa, né l'impiego delle nuove misure temporanee e parziali a cui si era fatto fino allora ricorso, né la continuazione della discussione sulle ragioni prò e contro la occupazione della Ruhr, o dei torti tedeschi e dei diritti francesi e alleati, né tanto meno l'occupazione della Ruhr. Soltanto un piano di sistemazione generale in cui le varie questioni controverse potessero trovare una trattazione e possibilmente una soluzione organica e adeguata, dava affidamento di risultati favorevoli.
A questi intendimenti si ispirò il Governo italiano, presentando alla Conferenza di Londra il proprio piano per le riparazioni. Sono note le sue caratteristiche: connessione delle riparazioni con i debiti interalleati, riduzioni del debito tedesco, presa di pegni economici a garanzia, ed esclusione di ogni occupazione militare, concessione di una moratoria e continuazione delle prestazioni in natura.
Questo progetto era il risultato di lunghi studi e di una vasta esperienza fatta dai nostri rappresentanti in seno alla Commissione delle riparazioni. Esso conciliava i punti di vista opposti; mentre dava delle garanzie alla Francia, accordava con la moratoria un sufficiente respiro alla Germania, un periodo di tempo durante il quale essa avrebbe potuto dimostrare la buona volontà di far fronte ai propri impegni; con la presa di pegni economici intendeva combattere le ragioni per cui la Francia tentava di giustificare i suoi progetti di occupazione politico-militare. È mia convinzione sempre più ferma che le linee fondamentali del progetto italiano restano ancora le sole sulle quali si può trovare la soluzione del problema delle riparazioni.
Al convegno di Londra furono esposti i punti di vista italiano, francese ed inglese. Come risulta dai resoconti stenografici, il signor Theunis constatava che il progetto italiano aveva il merito di porre direttamente la questione della esistenza di uno stretto nesso tra i debiti interalleati e le riparazioni. Quanto al signor Poincaré, egli ebbe a dichiarare che il memorandum italiano forniva le basi per la soluzione del problema delle riparazioni.
In questa conferenza si venne ad un risultato di capitale importanza: si riuscì, cioè, a far riconoscere il punto dell'interdipendenza dei debiti e delle riparazioni posto dall'Italia a base dei suoi progetti e tenacemente sostenuto nella discussione.
Fu così, per usare le parole del signor Theunis, che Poincaré dichiarava che accettava in pagamento i Buoni della serie C.
E il signor Bonar Law accettò che l'Inghilterra corresse il rischio di pagare all'America più di quanto essa potesse ricevere dagli alleati e dalla Germania.
Per il rimanente la discussione fu dominata dalla esposizione delle colpe della Germania e dei diritti degli Alleati, nonostante miei energici richiami a volersi accordare sopra un piano, che solo poteva salvare l'Europa dal pericolo di una grave jattura.
Ma i due Governi francese ed inglese rimasero fermi nelle loro posizioni. Aumentava la preoccupazione per quel che sarebbe avvenuto dopo il 31 dicembre, dopo la scadenza della moratoria.
Per facilitare l'opera dei Governi, la Commissione delle riparazioni, in seguito a speciale insistenza italiana, consentì una ulteriore proroga della moratoria di 15 giorni. Non fu possibile fare ammettere un periodo più lungo; ma essendo intanto la Germania inadempiente, anche per le limitate consegne in natura del 1922, la Francia chiese alla Commissione delle riparazioni la constatazione della inadempienza tedesca per il legname; e la inadempienza fu dovuta constatare dalla Commissione delle riparazioni con l'assenso di tutti i delegati. È vero che il delegato inglese si astenne dal voto, ma egli dichiarò di riconoscere ugualmente l'inadempienza della Germania.
Analoga dichiarazione fu fatta dal rappresentante americano.
La Delegazione italiana tenne a chiarire le conseguenze delle legittime stipulazioni ricordando che con l'accordo del 21 marzo 1922 tra la Commissione delle riparazioni e il Governo tedesco era stato stabilito che, qualora la Germania non eseguisse le consegne in natura, essa avrebbe dovuto soltanto pagare in denaro il valore della parte mancante, e poiché a norma del trattato, la Commissione delle riparazioni ha facoltà di indicare ai Governi le sanzioni da applicare in caso di inadempimento, la Delegazione italiana chiese che la Commissione ricordasse ai Governi stessi che le sanzioni dovevano essere in questo caso esclusivamente finanziarie e consistere, cioè, nell'invito alla Germania di pagare in denaro, come si è detto sopra, il valore del legname da consegnare e non consegnato.
La Commissione delle riparazioni accolse la proposta della Delegazione italiana e notificò ai Governi l'inadempienza della Germania insieme col disposto dell'accordo 21 marzo 1922 concernente le sanzioni.
Pochi giorni dopo, il 3 gennaio, si convocava una nuova conferenza interalleata a Parigi allo scopo di rinnovare il tentativo fatto a Londra nel dicembre precedente per la ricerca di una via di uscita alla situazione. Il proposito della Francia di assicurarsi ad ogni costo le riparazioni tedesche, ricorrendo all'impiego di mezzi coercitivi, era ormai più che manifesto, e il dissidio franco-tedesco, a seguito del persistente mancato adempimento da parte della Germania, pesava più che mai su tutti e rendeva la situazione sempre più difficile. A Parigi l'Inghilterra presentò improvvisamente un proprio progetto di riparazioni non comunicato in precedenza.
Questo progetto, insieme con la moratoria, stabiliva notevoli riduzioni del debito tedesco e quindi della quota proporzionale spettante agli alleati, pur ammettendo facilitazioni nel pagamento dei loro debiti verso la Gran Bretagna. Occorre chiarire un punto fondamentale che non sembra sia stato sufficientemente valutato in taluni ambienti, e cioè che le condizioni prospettate nel progetto Bonar Law potevano trovare applicazione pratica nel solo caso che si giungesse ad una sistemazione generale, di guisa che, anche nell'ipotesi che l'Italia avesse accettato da sola quel progetto, esso sarebbe rimasto nello stato di progetto, perché la sua esecuzione pratica era subordinata al regolamento generale e quindi all'accettazione anche da parte del Belgio e della Francia.
Bisogna inoltre, giunti a questo punto, specificare esattamente che cosa avrebbe importato per l'Italia l'accettazione pura e semplice e immediata del progetto Bonar Law: la cessione all'Inghilterra di un miliardo e mezzo dei quattro assegnati all'Italia a titolo di riparazioni, più la cessione in proprietà inglese dei 650 milioni di lire oro depositati durante la guerra alla Banca d'Inghilterra (articolo 13); rinunzia alla più gran parte delle consegne in natura durante la moratoria, rinunzia inoltre al principio della solidarietà tedesca per le riparazioni degli Stati minori ex nemici e assunzione in suo luogo dell'impegno di accettare per tali riparazioni le proposte inglesi (articolo 14); la quasi certezza che i crediti francesi e inglesi verso la Germania sarebbero stati soddisfatti prima di quelli italiani.
Un articolo del progetto inglese (articolo 12) stabiliva infatti che i prestiti internazionali, su cui esso si fondava, dovessero servire a riscattare le riparazioni assegnate ai paesi nei quali i prestiti stessi venivano emessi. L'Italia, paese non ricco di capitali, si sarebbe potuta trovare così in un determinato momento a essere la sola potenza creditrice verso la Germania tra tutte le grandi nazioni, e sono evidenti le conseguenze di un tale fatto nei riguardi del valore reale attribuito alla quota italiana di riparazioni.
In tutta la costruzione del progetto inglese era inoltre presunto il pieno rispetto, da parte della Germania, dei propri impegni ed esclusa qualsiasi forma di garanzia quale, ad esempio, quella dei pegni economici che lo stesso Governo tedesco avrebbe poi successivamente offerto.
Alla non accettazione del progetto inglese contribuì la circostanza già accennata che esso non fu fatto conoscere preventivamente, ma presentato alla fine della prima seduta, e che la Conferenza si sciolse improvvisamente, dopo due sole riunioni, per l'acuirsi del dissidio franco-inglese.
Il 4 gennaio finì la Conferenza di Parigi; il 7 l'incaricato d'affari di Francia comunicò al Governo italiano che la Francia inviava ad Essen una Missione composta di ingegneri per il controllo delle operazioni di ripartizione del carbone della Ruhr, per curare la stretta applicazione dei programmi fissati dalla Commissione delle riparazioni, e chiedeva se il Governo italiano fosse disposto a partecipare a questa Missione con qualche ingegnere.
Non poteva esservi esitazione. Senza quei pochi ingegneri che il Governo decise di inviare, saremmo rimasti assenti e tagliati fuori da tutto. Non vi è bisogno di lunga dimostrazione per chiarire come tale decisione sia stata utilissima dopo l'esperienza fatta e di quale grande efficacia sia stata per la tutela degli interessi dell'economia nazionale la presenza nella Ruhr dei nostri ingegneri.
Fu pertanto risposto con l'adesione in linea di principio, dichiarandosi che doveva trattarsi in ogni caso di operazione con carattere assolutamente civile.
Qualche giorno dopo (10 gennaio) l'Ambasciata di Francia notificò al Governo italiano che, stante la necessità di proteggere gli ingegneri della missione di controllo, il Governo francese era costretto ad inviare alcune sue truppe nella Ruhr e che una notifica in tal senso era contemporaneamente, nello stesso giorno, fatta al Governo germanico.
La comunicazione aggiungeva che il Governo belga si associava all'invio di truppe in quella zona. La comunicazione venne fatta contemporaneamente all'arrivo delle truppe.
Il Governo francese aveva la cura di dichiarare che non era nelle sue intenzioni di procedere sul momento ad operazioni di carattere militare, né ad una occupazione di ordine politico.
Inviava semplicemente nella Ruhr una missione di ingegneri e di funzionari il cui oggetto era chiaramente definito: la missione doveva assicurare il rispetto, da parte della Germania, delle obbligazioni di riparazione contenute nel Trattato di Versailles e le truppe francesi entravano nella Ruhr per salvaguardare la missione. Nessun mutamento sarebbe stato portato alla vita normale delle popolazioni, le quali avrebbero potuto lavorare in ordine e con calma.
Il Governo italiano, che si era sempre manifestato contrario ad ogni forma di occupazione, sconsigliò in modo esplicito, nell'interesse stesso della Francia, il provvedimento che assumeva carattere militare e dichiarò formalmente che i suoi tecnici avrebbero preso parte soltanto ad azioni di carattere civile ed economico e si sarebbero scrupolosamente astenuti da ogni operazione di carattere politico.
Poco dopo, essendo multato che il Governo francese cercava di porre la missione di controllo, per ragioni di sicurezza, in certa guisa alle dipendenze del comandante militare, il Governo italiano fece presente che tale dipendenza poteva mutare il carattere civile della missione, e che l'Italia, non potendo consentirvi, sarebbe stata costretta a ritirare gli ingegneri.
Il Governo insistette in tale occasione sulla convenienza che le misure coercitive fossero evitate. Ebbe assicurazioni che gli ingegneri della missione dipendevano dai Governi rispettivi e che sarebbero state tenute ne' massimo conto le osservazioni per cui la missione di controllo doveva essere un organo indipendente e civile.
Fissati questi precedenti, non infliggerò al Senato la lunga cronistoria dell'occupazione della Ruhr, né rievocherò il faticoso nonché inutile travaglio diplomatico di questi ultimi mesi; mi limito a dichiarare, con coscienza perfettamente tranquilla, che l'Italia non poteva seguire una diversa linea di condotta.
A miglior dimostrazione della mia tesi, prospettiamo l'ipotesi contraria, cioè del non intervento e del disinteressamento dell'Italia nella Ruhr. Il non intervento dell'Italia non avrebbe impedito l'occupazione della Ruhr che la Francia ha attuato malgrado l'opposizione, del resto più che altro formale, della stessa Inghilterra; avrebbe maggiormente lacerato la già fragile compagine dell'Intesa, e favorito la resistenza passiva tedesca; ci avrebbe tenuto lontani dalla possibilità di accordi a due (franco-tedeschi) che si sarebbero fatti in nostra assenza.
Debbo aggiungere che anche per cautelarmi di fronte a questa ultima evenienza, ottenni, in data 16 gennaio, formale dichiarazione dalla Francia che nessun accordo tra la Francia e la Germania limitatamente alle industrie, si sarebbe fatto senza darne notizia e senza accordare l'eventuale partecipazione dell'Italia. Il disinteressamento dell'Italia avrebbe reso aleatorio il nostro rifornimento di carbone. Nessuno può credere quante difficoltà si siano dovute superare, nonostante la cordiale volontà della Francia e della Germania. Tutte le volte che l'occupazione francese procedeva verso un centro ferroviario, verso un città, verso una parte del bacino, si ponevano per noi problemi delicatissimi e complicati, che abbiamo superato mercé l'abnegazione, la diligenza e lo scrupolo tanto dei nostri rappresentanti in seno alla Commissione delle Riparazioni, quanto per opera dei nostri ingegneri e tecnici che si trovavano nella Ruhr.
A termini del trattato, l'Italia avrebbe potuto avere otto milioni di tonnellate di carbone. È questa una cifra dei primi tempi.
Il quantitativo fu ridotto dalla Commissione delle Riparazioni a 3.600.000 tonnellate. L'Italia, pel periodo che va dal gennaio all'ottobre 1923, ha ricevuto 1.370.000 tonnellate di carbone. Si noti che, salvo a rifornirci sul mercato inglese, non c'era possibilità di grande rifornimento in altre parti di Europa. Abbiamo cercato di rifornirci nell'Alta Slesia prendendo accordi col Governo polacco, ma la cosa, quando si è stati all'atto pratico, non ha avuto seguito.
Il carbone polacco costava molto più dell'altro carbone importato da Cardiff. Da allora, malgrado tutte le vicende diplomatiche e la cessazione della resistenza passiva, la situazione della Ruhr non è sostanzialmente cambiata. Che cosa poteva fare, che cosa può fare l'Italia?
I cultori di certa letteratura europeizzante ricostruzionistica sono pregati di precisare e di rispondere. Escluse le manifestazioni verbali e propagandistiche, che non sono assolutamente nello stile della mia politica estera, e che la stessa Russia non fa perché delega a farle il partito dominante della Nazione, si vuole forse che l'Italia ritiri i suoi tecnici dalla Ruhr? Ebbene ciò non modificherebbe di un ette la politica della Francia. Si ponga ben mente che l'Inghilterra non ha minimamente pensato a ritirare le sue truppe dal suolo germanico.
Si vuole forse che l'Italia rompa con la Francia e si stacchi deliberatamente e definitivamente dai suoi Alleati di guerra e prenda in un certo senso la iniziativa e la responsabilità di annullare il trattato di Versaglia?
Basta porsi la domanda per comprendere l'estrema gravità della cosa che potrebbe condurre ad una conflagrazione europea. Siffatta politica provocherebbe un terribile isolamento dell'Italia nella situazione presente; basta osservare con quanta cautela l'Inghilterra ha evitato fino ad oggi ed eviterà finché le sia possibile la rottura con la Francia, per comprendere che l'Italia deve essere per lo meno altrettanto guardinga quanto l'Inghilterra.
Si pretendevano o si pretendono delle mediazioni? Ma, o signori, si dimentica che le mediazioni sono efficaci in quanto siano cercate ed accettate e si dimentica che l'Italia è parte in causa.
Si vuole che l'Italia compia gesti di francescana rinunzia in favore dei popoli vinti per salvarli dall'abisso? L'Italia ne ha già fatti in confronto dell'Austria, ma ciò non ostante mi accade spesso di leggere sui giornali viennesi articoli enormemente sconvenienti nel confronto del nostro Paese.
La stessa cosa si è fatta nei confronti dell'Ungheria; ci si è dichiarati pronti a farla, ma proporzionalmente con gli altri, nei riguardi della Germania. Del resto tutte le volte che è' stato possibile intervenire in certe situazioni in confronto della Germania, l'Italia è intervenuta; ma può forse l'Italia fare il bel gesto ed in pura perdita rimettere i suoi crediti, se i suoi alleati non rinunciano fino ad oggi ad una lira del loro credito? La cosa rasenterebbe i limiti della pura follia.
Si vuole un accordo più intimo italo-inglese sul terreno delle riparazioni? Questo è stato il proposito del Governo nazionale anche sulla base del progetto Bonar Law. Verrà il giorno in cui sarà possibile dare esaurienti documentazioni su questo argomento e metter in luce chiara l'azione dell'Italia anche dopo la Conferenza di Parigi.
D'altra parte ecco un episodio recente di questa collaborazione italo-inglese. Quando si è trattato di invitare gli Stati Uniti a riprendere parte ad una Conferenza internazionale, l'Italia ha aderito al punto di vista inglese. Oggi, ad esempio, siamo di nuovo innanzi ad un punto drammatico di questa storia. Ieri ed oggi una questione occupa la Conferenza degli ambasciatori a Parigi: il controllo militare ed il ritorno del Kronprinz. Ebbene anche su questo argomento di palpitante attualità, mi si permetta la frase giornalistica, l'Italia e l'Inghilterra sono d'accordo.
Bisogna dire chiaramente che la richiesta di estradizione del Kronprinz è un errore: significa cacciarsi, ancora una volta, in un vicolo cieco dal quale non si potrà uscire se non complicando di nuovo la situazione. E soprattutto mi preme dichiarare, in questo momento, che il Governo italiano non potrebbe approvare un'ulteriore occupazione di territori tedeschi.
Insomma bisogna aver il coraggio di dire che il popolo tedesco esiste; sono sessantun milioni di abitanti sul territorio della Germania, sono altri 10 o 12 milioni tra l'Austria e gli altri paesi; non si può pensare, e non si deve nemmeno pensare, di distruggere questo popolo. È un popolo che ha avuto una sua civiltà e che domani può essere ancora parte integrante della civiltà europea.
Quali sono oggi le direttive del Governo italiano? Sono le seguenti e mi sembrano assai chiare:
1°) riduzione ad una cifra ragionevole del debito tedesco e conseguente proporzionale riduzione dei debiti interalleati;
2°) numero sufficiente di anni di moratoria alla Germania, salvo per le riparazioni in natura;
3°) presa di pegni e garanzie (il Governo tedesco è disposto a darle);
4°) evacuazione della Ruhr a pegni e garanzie ottenute;
5°) nessun intervento nelle faccende interne della Germania, ma appoggio morale e politico a quel Governo che ristabilisca nel Reich l'ordine ed avvii la Germania verso il risanamento finanziario;
6°) nessuno spostamento d'ordine territoriale.
Come un anno fa, così oggi l'Italia è pronta a camminare in questa direzione ed aderire a tutti i tentatici che fossero fatti in tal senso. Aggiungo, senza voler peccare di orgoglio, che al di fuori di questo cammino si segnerà il passo, si renderà cronica la situazione con conseguente disordine e miseria.
La soluzione, che chiamerò italiana, del problema delle riparazioni, si trova sulla linea di equilibrio degli interessi opposti, ed essa risponde anche al superiore interesse della giustizia.
Vengo ora al secondo argomento della mia esposizione: Corfù, Lega delle Nazioni.
Sulla fine di agosto fu commesso nel territorio di Janina l'orribile delitto che tutto il mondo civile ha deplorato.
Bene ha fatto l'altro giorno il Senato a rivolgere un pensiero devoto e riverente verso quei soldati d'Italia che sono caduti nell'adempimento di un dovere che si potrebbe ritenere più sacro di tutti gli altri!
Per uno strano ritardo nelle comunicazioni, che sarebbe facile a spiegare, ebbi notizia dell'assassinio la sera del 28 agosto. Consultai i capi militari e decisi di inviare l'intimazione che conoscete.
Diedi 24 ore di tempo; nel frattempo gli ordini per il raccoglimento delle truppe e della marina venivano diramati ed effettuati; tanto che, con una rapidità, che ha sorpreso l'Europa, scaduto il termine, in appena 36-40 ore, 6000 soldati di fanteria erano sulle nostre navi, e molte unità si dirigevano a Corfù dove ancoravano alle ore 16 del 31 agosto.
Nella comunicazione che io inviai alle Potenze era specificato il carattere dell'occupazione di Corfù: era una presa di pegno, necessariamente temporanea. Se la Grecia avesse fatto fronte alle richieste dell'Italia, la durata di questa presa di pegno sarebbe stata breve, brevissima.
Signori, non dovete credere che l'occupazione di Corfù sia stata fatta soltanto per prendere un pegno; essa è stata fatta anche per rialzare il prestigio dell'Italia.
Io non so se abbiate l'abitudine di leggere i giornali balcanici e specialmente quelli di Atene. Ebbene in questi Stati, fra quelle popolazioni, dopo l'infausto sgombro di Valona, il prestigio dell'Italia era ormai a terra. La Grecia, molto abilmente, fece ricorso alla Società delle Nazioni dicendo che il caso cadeva sotto gli art. 12, 13 e 15 del Patto della Lega stessa. La Lega delle Nazioni si precipitò su questo episodio con vera frenesia; e perché era un episodio drammatico, e perché accadeva mentre la Assemblea sedeva a Ginevra, e perché finalmente era un caso che avrebbe dato la possibilità a questo areopago di emettere un verdetto storico.
Invitai la Commissione italiana a Ginevra a sostenere la tesi dell'incompetenza. Prima di tutto trovavo strano questo zelo della Lega nel giudicare dell'Italia, quando, pochi mesi prima, essendosi ventilata l'idea di un'inchiesta amministrativa nel bacino della Sarre, bastò il malumore della Francia per far cadere questa iniziativa; e poi io non posso ammettere per il prestigio dell'Italia, che gli interessi morali, quindi imponderabili, dell'Italia, siano alla mercé di Stati ignari e lontani.
La battaglia alla Società delle Nazioni a Ginevra fu assai aspra e difficile, anche perché si complicava di due elementi: c'era molta gente in buona fede, più o meno fanatica; ce n'era altra inquieta di questo gesto di autonomia dell'Italia dal punto di vista nazionale. Tutto l'equivoco mondo della democrazia socialistoide e plutocratica era furibonda perché l'Italia è oggi diretta dal Governo Fascista.
La battaglia a Ginevra si concluse vittoriosamente; questo è un giudizio universale. La questione venne portata a Parigi alla Conferenza degli Ambasciatori. Sarebbe stato, a mio avviso, gravissimo errore, essendo sfuggiti alle secche di Ginevra, andare a perire negli scogli di Parigi, anche perché gli Ambasciatori avevano una competenza giuridica che non si poteva negare. La missione Tellini era una missione di italiani, ma era là mandatavi dalla Conferenza degli Ambasciatori. Gli Ambasciatori avevano non solo il diritto, ma il dovere di considerarsi patte in causa; del resto, la Conferenza degli Ambasciatori accettò sostanzialmente le richieste italiane che non erano affatto eccessive, data la gravità enorme del delitto e i precedenti di cui vi ho parlato. Nel 1916. quando avvenne l'eccidio dei marinai francesi ad Atene, le richieste della Francia furono infinitamente più severe.
Dichiaro anche che, senza l'occupazione di Corfù, l'Italia non avrebbe avuto soddisfazioni di sorta.
Fino all'ultimo momento, quando avevo già dato l'ordine alla flotta italiana di sgombrare Corfù, di ritornare in Italia, la Grecia cercava ancora le vie tortuose per rimettere al giudizio del Tribunale dell'Aja il pagamento più o meno immediato di 50.000.000. E solo quando diedi l'ordine alla flotta di tornare nuovamente a Corfù, ed essa si presentò all'una dello stesso giorno colà, la Grecia finalmente si decise a pagare.
Ma intanto l'episodio di Corfù, che a mio avviso è d'importanza capitale nella storia d'Italia, prima di tutto perché ha chiarito più che con molti volumi la situazione a gran parte degli italiani, poneva il problema della Società delle Nazioni davanti alla coscienza nazionale italiana. Il pubblico italiano non si era mai eccessivamente interessato della Società delle Nazioni; si credeva che fosse una cosa morta, accademica, senza importanza alcuna.
In realtà questa Società delle Nazioni, limitandosi al continente europeo, non ha la Germania e non ha la Russia. Singolare il caso degli Stati Uniti che, pur avendo dato il profeta di questo organismo, non ne fanno in alcun modo parte.
Allo stato degli atti la Società delle Nazioni è un duetto franco-inglese; ognuna di queste potenze ha i suoi satelliti e i suoi clienti, e la posizione dell'Italia fino a ieri, nella Lega delle Nazioni, è stata di assoluta inferiorità.
Vi do delle cifre: l'Inghilterra ha 326 impiegati nella Società delle Nazioni; la Francia 180; la Svizzera 178; l'Italia 25. Più importanti ancora sono le cifre che riguardano gli assegni dalle quali risulta, per esempio, che l'Inghilterra prende per i suoi impiegati più di quanto essa paghi. Totale degli assegni dell'Inghilterra: 3.265.000 lire; contributo: 2.583.000 lire; Francia, assegni: 2.499.000; contributo: 2.120.000 lire; l'Italia, assegni: 480.000 lire; contributo: 1.600.000. Su sei Commissioni cinque sono monopolizzate dalla Francia, una dall'Inghilterra, nessuna dall'Italia. Questa è la situazione, come vi dicevo, di netta inferiorità.
Il problema si pone in questi termini: uscire dalla Lega delle Nazioni? In tesi generale preferisco entrare piuttosto che uscire. Poi c'è da considerare che, una volta che si è usciti, non bisogna subito ribattere alla porta per rientrare. Gli italiani non hanno dimenticato l'episodio ingratissimo di Parigi quando i nostri rappresentanti se ne andarono, e poi dovettero, come tutti ricordano, pregare per rientrare.
Proprio nei giorni di Ginevra altri due Stati chiedevano di entrare nella Lega delle Nazioni. C'è ancora da considerare un altro elemento: che la fuoruscita non è immediata, va a due anni data, e durante questi due anni, niente può impedire che altri agiscano all'infuori di noi od anche contro di noi.
Non solo, ma vi sarebbe violazione del trattato di Versailles e di tutti gli altri trattati, perché il patto della Lega delle Nazioni è parte integrante di tutti i trattati di pace. Non si può dunque allo stato degli atti uscire dalla Lega delle Nazioni; ma, a mio avviso, non si può rimanere nelle condizioni avvilenti di inferiorità nelle quali oggi ci troviamo. Io ho avuto a questo riguardo dei colloqui con Drummond ed ho chiarito che le cose non possono continuare in questi termini, che bisogna stabilire un diritto assoluto di uguaglianza fra le tre Nazioni che risultano fondatrici della Lega stessa delle Nazioni.
Vengo a Fiume. Questa è una delle eredità più penose della nostra politica estera. Per non aver Fiume, o signori, noi abbiamo rinunciato alla Dalmazia, abbiamo rinunciato a Sebenico che poteva esserci cara, non solo perché vi è nato Niccolò Tommaseo, ma perché è una base formidabile dal punto di vista navale.
Abbiamo fatto di Zara una povera città perduta, che vivrà soltanto dei nostri soccorsi tanto che, all'ultimo momento, si è dovuto creare una zona grigia attorno a Zara, per dare a questa città la possibilità di vivere. E non abbiamo avuto Fiume! Voi sapete che ho portato gli accordi di Santa Margherita all'approvazione del Senato e della Camera. Non ho portato la lettera Sforza, che esiste e non vale negare, malgrado sia stata per tanto tempo pertinacemente smentita.
La Commissione paritetica si è riunita, ha discusso: non ha concluso, perché il problema di Fiume appartiene alla categoria dei problemi quasi insolubili. Io ho proposto alla Jugoslavia una soluzione semplice, equa, ed oserei dire umana che tiene conto delle necessità dei due popoli, che può essere veramente l'anello di congiunzione tra l'Italia e la Jugoslavia. Su questa proposta si discute in questi giorni col desiderio di giungere ad un accordo.
Ad ogni modo ho il piacere di dirvi che il Governo italiano non si ipnotizza in quell'angolo dell'Adriatico. Fiume più che un problema è una spina nel nostro fianco. La politica di una grande potenza deve avere orizzonti più vasti. Ma intanto mentre queste trattative si svolgevano io ho mandato un Governatore a Fiume: il Generale Giardino. Perché? Dispersa la costituente Zanella, il Governo di Fiume era caduto nelle mani del Dottor De Poli, non perché egli l'avesse cercato, che anzi avrebbe fatto il possibile per evitare questo peso; e da tredici o quattordici mesi il De Poli trascinava faticosamente il suo fardello. La situazione della città era gravissima. Miseria materiale e miseria morale.
Ho mandato il generale Giardino a Fiume anche per un'altra ragione: per avere la certezza matematica che qualsiasi soluzione sarà eseguita. Io ammetto sotto la specie giornalistica e polemica, che uomini e gruppi abbiano una politica estera; ma la politica estera armata, la politica estera che impegna l'avvenire e la vita della Nazione, quella appartiene soltanto ed esclusivamente al Governo responsabile in possesso di tutti gli elementi della situazione.
Quali sono in sintesi le direttive della politica estera del Governo nazionale?
Non è, mi pare, pensabile una politica estera di assoluta autonomia, ma è altresì inammissibile una politica estera di supina collaborazione.
Gl'isolamenti di cui tanto si parla sono più o meno momentanei e non ci devono spaventare. Essi sono il risultato della nostra tendenza ad una politica il più possibile autonoma.
Gli isolamenti avvengono tutte le volte che i nostri interessi contrastano con quelli altrui; quindi politica di autonomia e politica di pace. Ma questa politica di pace non deve essere cieca, non deve essere ottimista e panglossiana; deve essere intelligente e preparata.
Quello che accade, per esempio, nei paesi del Danubio deve attrarre molto la nostra attenzione. È di ieri, ad esempio, il discorso del Sindaco di Vienna in cui si auspicava ad una prossima riunione dell'Austria con la Germania. .
Ad un certo momento la Germania tornerà efficiente nella politica europea.
La Russia sta già rimettendosi da tutte le sue ferite, da tutti i suoi eccessi. Non farà più domani un imperialismo di marca sociale, ma riprenderà forse le strade del suo vecchio imperialismo di marca panslava.
Essendo così inquieta tutta la vita europea, incerto il destino, bisogna essere vigilanti e preparati.
Per fortuna non siamo più ai tempi del 1920, quando si sgombrò Valona, perché il ministro della guerra di allora dovette mandare, in data 6 luglio, un dispaccio al generale Piacentini che cominciava con queste parole, sulle quali bisogna meditare: «Condizioni interne del Paese non consentono prelevamenti truppe per Albania, tentativi invio rinforzi provocherebbero scioperi generali dimostrazioni popolari, con grave nocumento della stessa compagine dell'Esercito che occorre non mettere a dura prova».
Fortunatamente questi tempi sono passati. Quando io seppi dello sgombero di Valona, piansi. E non dico così per usare una frase retorica.
Oggi, grazie al Fascismo, il popolo italiano, che ha ritrovato il suo profondo senso di disciplina unitaria, e l'Esercito e la Marina, che oggi sono in efficienza spirituale semplicemente formidabile, possono essere sottoposti a tutte le prove quando siano in gioco gli interessi, la dignità, l'avvenire della Patria!
Roma, 22 novembre 1923: MUSSOLINI risponde allo spagnolo Primo de Rivera
L'on. MUSSOLINI offrì a Palazzo Venezia una colazione al primo ministro spagnuolo, Primo De Rivera che accompagnava i Sovrani di Spagna nella loro visita alla Capitale d'Italia. Il De Rivera, come è noto, aveva attuato nel suo paese una politica d'autorità, che guardava con simpatia all'esempio fascista, ma se ne differenziava nettamente per la diversa indole dei governanti e del paese. Il De Rivera — che fece molto per il suo paese, morì di dolore quando fu costretto a prendere le vie dell'esilio — non poté dominare la situazione e la sua caduta doveva preparare l'avvento della Repubblica spagnuola. Egli aveva, in quell'occasione, rivolto un fervido saluto a MUSSOLINI, che rispose con le seguenti parole:
Signor Presidente!
Il saluto che mi porgete in nome Vostro e in nome del popolo spagnolo che si è liberato di classi politiche insufficienti ai loro compiti, ha una rispondenza profonda nel cuore di tutti i cittadini italiani che in un modo o nell'altra marciano sulla grande strada aperta dalla Rivoluzione fascista.
Quando nel settembre scorso noi avemmo notizia del vostro movimento, pensammo che pur essendo diverso il metodo corrispondente alla diversità del clima politico dei due paesi, l'obiettivo poteva considerarsi identico: liberare le forze vitali del popolo dalla influenza nefasta di dottrine politiche sorpassate e da uomini incapaci di assumersi la dura responsabilità del comando.
Il Fascismo italiano ha una storia breve ma densissima di battaglie e ricca di sacrifici. Si contano a migliaia i giovani fascisti che sono caduti intrepidamente per strappare la Nazione italiana dal pericolo di cadere nella dissoluzione e nel caos. Pur essendo il Fascismo un fenomeno tipicamente italiano, non vi è dubbio che taluni dei suoi postulati sono di ordine universale, poiché molti paesi hanno sofferto e soffrono per la degenerazione dei sistemi democratici e liberali. L'amore della disciplina, il culto della bellezza e della forza, il coraggio delle responsabilità, il disprezzo per tutti i luoghi comuni, la sete della realtà, l'amore per il popolo, ma senza cortigianerie grottesche, questi capisaldi fondamentali della concezione fascista possono servire anche ad altri paesi.
Vi dichiaro, signor Presidente, che io sono ottimista per quello che riguarda la solidità e la durata del Vostro Governo. Quello che accade a Voi è accaduto anche a noi nei primi tempi: quattro politicanti disoccupati e melanconici aspettavano dalla mattina alla sera il tramonto del mio Governo. Si tratta di durare giorno per giorno, mese per mese, anno per anno, come abbiamo durato noi e come dureremo. Così voi durerete dal momento che il Vostro Governo rispondeva ad un bisogno intimamente sentito da tutta la parte migliore del Vostro popolo.
Fra Spagna e Italia si può oggi veramente parlare di una fraternità latina, e questo viaggio è destinato a rafforzarla sempre più solidamente. Tutti i popoli latini hanno avuto nella loro storia delle soste, ma poi si è ripresa la marcia. Gli è che le razze bagnate dal Mediterraneo hanno germi inesauribili di vitalità.
Signor Presidente!
Voi avete conosciuto Roma immortale: ma fra qualche giorno vedrete altre città italiane ed avrete anche a Firenze, a Bologna, a Napoli la sensazione esatta della forza invincibile del Fascismo e dell'enorme consenso che esso raccoglie in tutti gli strati della popolazione.
Permettetemi, salutando Voi, signor Presidente, di ricordare i Vostri Sovrani, i Vostri colleghi del Direttorio e di levare in alto i nostri gagliardetti bagnati di sangue in onore di tutto il popolo spagnolo che si avvia fieramente a riprendere il suo posto nella vita e nella storia europea.
Roma, 29 novembre 1923: MUSSOLINI chiude la discusione alla Camera sul trattato di commercio con la Svizzera
Nel primo discorso presidenziale, del 16 novembre 1922, MUSSOLINI aveva preannunziato il Trattato di Commercio con la Svizzera. Tale Trattato fu concluso a Zurigo il 27 gennaio 1923, e fu oggetto, alla Camera, di numerose osservazioni alle quali replicò il Ministro della Economia Nazionale on. Corbino. La discussione generale si chiuse, nella tornata del 29 novembre 1923, con la seguente dichiarazione del Capo del Governo:
Il mio collega della Economia Nazionale ha già, a mio avviso, risposto in maniera brillantissima ed esauriente alle critiche mosse dalla Commissione che ha esaminato il trattato di commercio italo-svizzero. Io ho poco da aggiungere. Dirò solo che le difficoltà per condurre in porto questo trattato furono grandissime: si sono tenute a Zurigo decine e decine di riunioni che hanno messo a prova durissima i nervi e la stessa resistenza fisica dei negoziatori.
Per tre o quattro volte si fu sul punto di rompere; una volta a proposito di certificati di origine, un'altra volta sulla questione delle esclusioni e del contingentamento, un'altra volta su voci sulle quali sembrava insormontabile il divario.
Mi preme di ricordare alla Camera che i trattati di commercio non vanno esaminati soltanto dal punto di vista della economia, ma anche dal punto di vista della politica. La stipulazione di un trattato di commercio migliora i rapporti fra due popoli, specie se sono confinanti; viceversa una rottura o, peggio ancora, una guerra, li peggiorano.
Va da sé che il Governo terrà nel dovuto conto tutte le osservazioni che sono state fatte a proposito di questo trattato, ma io prego la Camera di approvarlo, perché in fondo è buono e potrà essere migliorato. Con la sua approvazione la Camera italiana dimostrerà che intende mantenere rapporti di perfetta e cordiale amicizia tra la Svizzera e l'Italia.
Roma, 3 novembre 1923: MUSSOLINI interviene sulle relazioni dell'Italia con la Russia
La discussione dei trattati di commercio si chiuse alla Camera dei Deputati con quella della conversione in legge del D. L. 31 gennaio 1922, n. 137, col quale fu data piena ed intera esecuzione all'accordo preliminare concluso a Roma il 26 dicembre 1921 con la Repubblica federale socialista dei Soviety in Russia.
La Camera, nella quale restavano vecchi elementi, assuefatti alle vane diatribe parlamentari, volle cogliere questa occasione per una vivace discussione, nella quale si notarono i discorsi dei deputati socialisti Bombacci e Lazzari, energicamente interrotti da Mussolini. La discussione si chiuse, nella tornata del 30 novembre 1923, con il seguente discorso del Duce, il quale integrò con esso gli accenni già fatti alla politica verso la Russia nel primo discorso presidenziale del 16 novembre 1922.
I trattati che oggi la Camera è chiamata ad approvare, e che certamente approverà, sono in un certo senso già scontati. Sono vecchi di due anni, e accetto per loro la definizione dell'onorevole Riboldi: devono essere considerati come delle prefazioni di un libro che non è ancora totalmente scritto.
La discussione provocata dalla presentazione di questi due trattati è stata influenzata da preoccupazioni politiche di ordine interno. E credo che tutti si siano compiaciuti delle dichiarazioni dell'onorevole Bombacci, e anche del discorso assai pratico, tecnico, aderente alla realtà concreta, pronunciato dall'onorevole Riboldi.
Quando un anno fa io feci un'esposizione, la prima esposizione in materia di politica estera, dissi che i rapporti con la Russia erano allora in uno stato di incertezza, e, diciamo la parola, di ambiguità.
Io sono nemico delle ambiguità in genere. Dissi allora che non ci dovevano essere pregiudiziali di partito. Il problema era squisitamente di ordine nazionale. Appena questo Governo salì al potere, in taluni strati dell'opinione pubblica russa ci furono dei movimenti di sospetto e anche di ostilità: ci furono casi di rappresaglie nel Mar Nero non gravi: ci fu uno scambio di trattative: la situazione ritornò normale. Venne Krassin a Roma ed io ebbi un lungo colloquio con lui; trattative furono iniziate con Vorowski ed erano giunte già ad un buon punto, quando Worowski fu assassinato a Losanna. L'assassinio di Worowski portò una sospensione nelle trattative dai tre a quattro mesi. Le trattative sono state riprese con Jordanski. Ormai è il segreto di pulcinella, e facciamo pure della diplomazia a carte scoperte: una Commissione partita da Mosca è a Roma e con questa Commissione si sta trattando da alcune settimane appunto per stabilire relazioni normali di ordine commerciale fra la Russia e l'Italia.
Queste trattative non subiscono assolutamente influenze di ordine politico né da parte nostra, né da parte russa. Ma sono necessariamente lente. Non dovete credere che i russi corrano; sono dei minuziosi e vorrei quasi dire pedanti — ma io li ammiro in questa loro pedanteria — minuziosi, zelanti difensori di tutti gli interessi del loro paese, e vanno coi piedi di piombo. Ragione per cui è saggia tattica da parte nostra, se vogliamo fare un trattato di commercio che sia giovevole anche a noi, non mostrare soverchia, eccessiva precipitazione.
Le trattative sono giunte ad una buona tappa: c'è stata una sospensione dovuta ad elementi di ordine puramente obiettivo.
È inutile discutere per vedere che cosa sia la Nepa e quale più o meno profonda trasformazione di ordine sociale ed economico abbia portato in Russia. Questo è affare di ordine interno russo. Ma fino a questo momento, pur avendo abolito il monopolio del commercio dell'interno della Russia, sembra che esista, ed esiste in realtà, il monopolio del commercio estero. Questo crea delle difficoltà a mio avviso non insormontabili: credo che si potrà trovare una soluzione che rispetti questo monopolio russo e dall'altra parte dia a noi la pratica possibilità di stabilire dei commerci e dei traffici.
Altra questione che è sul tappeto è quello dei danni subiti da cittadini italiani in Russia.
Poi ci sono le inevitabili difficoltà inerenti a questo genere di trattative. Forse sorprenderò la Camera, comunicando che nel mese di Corfù l'unica stampa europea orientata simpaticamente verso l'Italia è stata la stampa di Mosca.
Ci sono dei paesi, come ricordava l'onorevole Riboldi, che hanno stabilito con la Russia relazioni normali; ce ne sono altri, come la Cecoslovacchia, che hanno scelto una formula intermedia; c'è finalmente un certo numero di Stati che non ha rapporti ufficiali di sorta. Non v'è dubbio però che all'ora attuale tutti gli Stati europei, e anche non europei, direttamente o indirettamente, cercano di riallacciare rapporti economici con la Russia. Inghilterra e Francia e Stati Uniti sono assai avanti su questa strada.
La Missione De Monzie in fondo era una missione governativa francese e ha portato in Francia delle conclusioni piuttosto ottimiste. In fondo, questa faccenda del riconoscimento dei Soviety è una famosa foglia di fico, con la quale si vuol nascondere la realtà concreta dei fatti Dal mio punto di vista nazionale e politico è più conveniente che io abbia a Roma un ambasciatore in perfetta regola, con tutti gli usi, i costumi e le leggi che regolano questa materia nei rapporti internazionali, piuttosto che un rappresentante che non si sa se sia commerciale, se sia diplomatico, se sia politico e che però viene a Palazzo Chigi a trattare di affari concreti con me, e che quindi è nel fatto e nella pratica quotidiana pienamente riconosciuto.
Per quel che riguarda il riconoscimento così detto de jure della Repubblica Russa, nessuna difficoltà da parte del Governo fascista.
Il problema deve essere posto in questi termini di schietta e, oserei dire, brutale utilità nazionale: è utile per l'Italia, per la economia italiana, per la espansione italiana, per il benessere del popolo italiano, è utile il riconoscimento de jure della Repubblica Russa, in quanto questo riconoscimento faciliti le relazioni economiche e quindi la espansione del popolo italiano? Io rispondo sì.
Naturalmente quando si trattano i problemi della politica estera sulla base della utilità nazionale, ci vuole il do ut des. Io, Italia, Governo italiano, dando prova di spregiudicatezza politica, riconosco il vostro Governo, vi introduco di nuovo nella circolazione politica e diplomatica delle società occidentali; e voi, russi, datemi un corrispettivo concreto, datemi un buon trattato di commercio, datemi delle concessioni per le materie prime, di cui la Nazione italiana ha sommamente difetto.
Se la Russia entra in quest'ordine di idee, se la Russia ci concede quello che noi chiediamo, non vi è dubbio che le trattative attualmente in corso arriveranno ad una felice conclusione.
Non dico e non posso dire che questa conclusione sarà sollecita, perché, vi ripeto, ci sono delle difficoltà di ordine obiettivo inerenti alla situazione generale ed anche alla diversità, sia pure oggi attenuata, delle due economie. Ma il Governo italiano ha la buona volontà di concludere, e, se è vero quello che si è detto da quella parte della Camera che uguale volontà è anche dalla parte dei russi, non vi è dubbio che anche il trattato di commercio italo-russo sarà rapidamente concluso.
Interrompendo un oratore che mi parlava della ricostruzione dell'Europa, ho detto che bisognava cominciare dall'Italia. Mi sono ricordato di una frase di uno degli autori che formò un po' la mia mentalità, parlo di Giorgio Sorel, il quale diceva che prima di interessarsi delle dogane della Cina, si interessava dell'octroi di Parigi.
Ma tutta la politica fatta dal Governo fascista, pur partendo da criteri di utilità nazionale, contribuisce anche a realizzare questo scopo generale di ricostruzione europea. Perché si fanno dei trattati di commercio? Appunto per ristabilire quel tessuto di relazioni economiche che la guerra e le crisi del dopoguerra hanno più o meno profondamente lacerato.
Le due economie, la economia italiana da una parte e la economia russa dall'altra, sono destinate a completarsi.
L'Italia per necessità di cose va verso un potente sviluppo industriale. Chiusa la parentesi jugoslava, io credo che abbiamo le strade aperte, anche d'ordine continentale, verso il Sud Oriente europeo. Stabiliti dei rapporti di normalità con la Russia, avremo aperte le grandi strade del mare.
Ciò, io penso, sarà nell'interesse dei due Paesi.
Roma, 16 dicembre 1923: MUSSOLINI parla ai Fascisti romani.
All'Augusteo, si tenne l'assemblea del Fascio romano. I fascisti sfilarono dinanzi a Palazzo Chigi. MUSSOLINI, udita la relazione dell'assemblea, fatta dall'on. Giunta, pronunziò le seguenti parole:
Fascisti!
La notizia che l'onorevole Giunta mi reca mi allieta, ma non mi sorprende. Io sapevo, ero sicuro, che al disopra degli umani e forse inevitabili dissensi, il Fascismo romano, che è il Fascismo della capitale intangibile, avrebbe ritrovato la sua superba unità di forza e di animi. Questa adunata dimostra che al disopra dei piccoli transfughi e di coloro che sono incoercibili e irriducibili nei loro meschini rancori, il Fascismo rimane una forza formidabile che può permettersi il lusso di sorridere dinanzi a tutte le opposizioni più o meno coalizzate. Io ricevo con lieto animo e con sicura coscienza il vostro giuramento, perché se voi giurate qualche cosa a me, io giuro qualche cosa a voi ed all'Italia; serrate le file e preparatevi a tutte le battaglie perché vogliamo riportare tutte le vittorie. Viva il Fascismo!
Roma, 20 dicembre 1923: MUSSOLINI e le prime basi dello stato corporativo
A Palazzo Chigi ebbe luogo uno storico convegno, presieduto da MUSSOLINI, fra i rappresentanti delle Corporazioni fasciste e quelli della Confederazione dell'Industria, per stabilire quei rapporti fra datori di lavoro e prestatori d'opera da cui doveva sorgere la nuova prassi dell'odierno corporativismo fascista. In tale occasione il MUSSOLIN pronunziò il seguente discorso. In esso MUSSOLINI presentava un ordine del giorno che fu poi discusso e approvato.
Se in questi ultimi tempi non si fosse fatto un uso eccessivo di parole solenni, si potrebbe forse dire che questa riunione ha un'importanza non dirò storica, ma certamente tale da trascendere il semplice fatto di cronaca politico sociale. Non so se ci sian precedenti del genere, se nella nostra storia della Nazione ci sia stata una riunione come quella che avviene oggi in questa sala: la riunione, cioè, di tutte le forze produttive della Nazione, presieduta dal Capo del Governo. Essa è certamente importante, ma a mio avviso è più importante l'ordine del giorno nel quale si riassume quella che si potrebbe chiamare la dottrina economica del Fascismo. Non vi è dubbio che la situazione psicologica delle classi lavoratrici di oggi è mutata. È certo che sulla psicologia delle masse ha influito l'esperimento russo e l'azione fierissima del Fascismo. L'errore del marxismo è quello di credere che vi siano due classi soltanto. Errore maggiore di credere che queste due classi siano in perenne contrasto fra di loro. Il contrasto vi può essere, ma è di un momento e non è sistematico. L'antitesi sistematica sulla quale hanno giuocato tutte le teorie socialistiche non è un dato della realtà. La collaborazione è in atto; si è visto che c'è un limite per il capitale e un limite per il lavoro. Il capitale, pena il suicidio, non può incidere oltre una certa cifra sul dato lavoro e questo non può andare oltre un certo segno nei confronti del capitale.
Siamo in una situazione difficile e bisogna rendersene conto; non possiamo permetterci il lusso di avere dei capricci. Solo un lungo periodo di pace sociale ci rimetterà completamente in piedi. Nei mercati internazionali si lotta accanitamente, ditta contro ditta, economia contro economia. In sintesi siamo in una condizione di inferiorità e dobbiamo lottare perché dobbiamo vivere. Rinunziare alla lotta significa rinunziare alla vita e ciò è impossibile. Affermo che è necessario per l'Italia un lungo periodo di pace sociale. Senza di ciò noi saremo irrimediabilmente perduti nel campo della concorrenza internazionale. La pace sociale è un compito del Governo prima di tutto e il Governo ha una linea di condotta molto esplicita: l'ordine pubblico non deve essere turbato per nessun motivo, a nessun costo. Questo è il lato politico; ma c'è anche il lato economico, quello della collaborazione. Vi sono poi i problemi della esportazione. Essi riguardano particolarmente l'industria italiana che fino ad oggi è stata individualista. È un vecchio sistema che bisogna abbandonare: bisogna costituire il fronte unico della economia italiana, almeno nei confronti dell'estero, come fanno gli altri che hanno un fronte unico finanziario e un fronte unico industriale-economico. Per quello che riguarda l'interno, bisogna eliminare con reciproche intese tutto ciò che può turbare il processo produttivo.
Non vi è dubbio che tutti i dirigenti delle Corporazioni fanno il possibile perché il movimento segua quei criteri di produttività e di nazionalità che sono alla sua base. Non vi dovete stupire se qualche volta la periferia non risponde esattamente al centro, perché il giuoco si svolge sopra un'area vasta e qualche volta gli interessi locali prendono il sopravvento su quelli generali. D'altra parte devo dire però che l'industria e i datori di lavoro devono andare francamente incontro agli operai: la collaborazione deve essere reciproca. Non deve però verificarsi il caso di datori di lavoro che dicono e pensano che ora che c'è il Fascismo si può fare il proprio comodo. Questo no. Anzi ora che c'è il Fascismo, bisogna orientare l'attività dei singoli e dei gruppi in vista di scopi generali, e soltanto generali.
In questo ordine del giorno c'è un riconoscimento concreto. Rossoni non si dorrà se constato che il tentativo del sindacalismo integrale, limitatamente al campo industriale, non è riuscito. E del resto Rossoni ha ben compreso fin dalle prime battute che quel che si può fare, nel campo dell'agricoltura, che ha un'economia speciale, non si può fare nel campo dell'industria, dove il giuoco dell'economia è totalmente diverso. In questo ordine del giorno è constatato che la Confederazione dell'industria deve vivere, prosperare, raccogliere tutti coloro che dell'industria fanno una ragione della loro attività e soprattutto fare di questa Confederazione dell'industria una unità completa, organica, con delle direttive precise e in ispecial modo capaci di costruire quel fronte unico che è la condizione essenziale perché noi possiamo esportare all'estero. Per mettere in pratica le idee, occorre creare un organo di esecuzione. E questo è la commissione permanente di cinque membri della Confederazione e di cinque membri delle Corporazioni, la quale dovrà riunirsi tutte le volte che saranno in discussione questioni di interesse generale, oppure anche soltanto una questione di ordine locale.
Io ho constatato che quando esiste la lealtà reciproca, è possibile discutere e venire a una conclusione. Bisogna considerare gli uomini nella loro realtà e veramente gettare alle ortiche tutto il bagaglio del passato. Bisogna che il sindacalismo operaio e capitalistico si rendano conto della nuova realtà storica: che bisogna evitare di portare le cose al punto dell'irreparabile: bisogna evitare più che sia possibile la guerra fra le classi, perché essa nell'interno di una nazione è distruttiva. Ne abbiamo una esperienza che si potrebbe dire tragica. D'altra parte, al di sopra di quelli che sono contrasti d'interessi umani e legittimi, c'è l'autorità del Governo, il quale è nella condizione propizia per vedere le cose sotto un aspetto generale. Il Governo non è agli ordini degli uni né degli altri. È al di sopra di tutti in quanto riassume in se stesso, non soltanto la coscienza politica della Nazione nel presente, ma anche tutto ciò che la Nazione rappresenta nel futuro. Il Governo ha dimostrato in questi primi quattordici mesi di tenere nel massimo conto le forze produttive della Nazione. Un Governo che segue queste direttive ha diritto di essere ascoltato nell'interesse morale e materiale del Paese.
L'ordine del giorno, concordato dopo le repliche dell'on. Benni per gli industriali e dell'on. Rossoni per le Corporazioni, è il seguente: «-La Confederazione Generale dell'Industria Italiana e la Confederazione Generale delle Corporazioni Sindacali Fasciste; — intendendo armonizzare la propria azione con le direttive del Governo Nazionale che ha ripetutamente dichiarato di ritenere la concorde volontà di lavoro dei dirigenti le industrie, dei tecnici e degli operai, come il mezzo più sicuro per accrescere il benessere di tutte le classi e le fortune della Nazione; — riconoscendo la completa esattezza di questa concezione politica e la necessità che essa sia attuata dalle forze produttive nazionali; — dichiarano che la ricchezza del Paese, condizione prima della sua forza politica, può rapidamente accrescersi e che i lavoratori e le aziende possono evitare i danni e le perdite delle interruzioni lavorative, quando la concordia fra i vari elementi della produzione assicuri la continuità e la tranquillità dello sviluppo industriale; — affermano il principio che l'organizzazione sindacale non deve basarsi sul criterio dell'irriducibile contrasto di interessi tra industriali ed operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere sempre più cordiali rapporti fra i singoli datori di lavoro e lavoratori e fra le loro organizzazioni sindacali, cercando di assicurare a ciascuno degli elementi produttivi le migliori condizioni per lo sviluppo delle rispettive funzioni ed i più equi compensi per l'opera loro, il che si rispecchia anche nella stipulazione di contratti di lavoro secondo lo spirito del sindacalismo nazionale; — decidono: — a) che la Confederazione dell'Industria e la Confederazione delle Corporazioni fasciste intensifichino la loro opera diretta ad organizzare rispettivamente gli industriali ed i lavoratori col reciproco proposito di collaborazione; — b) di nominare una Commissione permanente di cinque membri per parte, la quale provveda alla migliore attuazione dei concetti su esposti sia al centro sia alla periferia, collegando gli organi direttivi delle due Confederazioni, perché l'azione sindacale si svolga secondo le direttive del Capo del Governo-».
Dopo l'approvazione unanime dell'Ordine del giorno, il Duce dichiara chiusi i lavori con le seguenti parole:
È inteso che quest'ordine del giorno è approvato ed è inteso che esso segna una data dalla quale deve dipartirsi un nuovo periodo della nostra storia.
Monterotondo, 23 dicembre 1923: MUSSOLINI interviene nell'inaugurazione della lapide commemorativa della Marcia su Roma.
Il 28 ottobre 1922, le Camicie nere si erano concentrate a Monterotondo; il 23 dicembre 1923 vi si inaugurò una lapide commemorativa. In tale occasione, dopo i discorsi del Sindaco Cav. Del Moro e del Generale Igliori, MUSSOLINI pronunziò le brevi parole che seguono.
Camicie Nere! Popolo di Monterotondo!
Ho voluto, partecipando a questa solenne cerimonia per chiudere degnamente il primo anno delle mie dure fatiche di Governo. Sono passati appena quattordici mesi dai giorni in cui convennero attorno a Roma, marciando da tutte le regioni d'Italia, 100.000 Camicie Nere che erano pronte a tutto dare, a tutto osare. Qui, a Monterotondo, si svolse un'altra pagina della storia e non è senza un profondo significato che il figlio dell'Eroe dei due Mondi, il generale Ricciotti Garibaldi, sia qui presente a questa cerimonia.
Nel 1867, egli, proprio a Monterotondo, aveva il comando di quegli intrepidi garibaldini che puntavano disperatamente su Roma per restituire all'Italia la sua intangibile capitale.
La presenza dell'eroico generale che aveva nel 1867 il comando delle Camicie Rosse sta a significare che tra la tradizione garibaldina, vanto e gloria d'Italia, e l'azione delle Camicie Nere, non solo non vi è antitesi ma vi è continuità storica e ideale.
Invano i nostri avversari si attardano nelle loro piccole manovre: noi abbiamo il dovere di combatterli e il diritto, se sono in mala fede, di disprezzarli. Essi sanno che se la marcia delle Camicie Nere non avesse riscattata la Nazione, molto probabilmente l'Italia sarebbe precipitata nella miseria e nella rovina.
Si dimentica troppo presto in Italia! Ma noi abbiamo il dovere di ricordare! Siamo pronti a stendere la mano all'avversario, purché la mano di questo avversario sia disarmata e ci venga porta con spirito di sincera lealtà.
I fascisti tutti, non solo coloro che hanno le dure responsabilità di Governo, devono essere orgogliosi dell'opera compiuta.
Cittadini di Monterotondo che avete assistito alle gesta delle Camicie Nere, voi oggi potete ripetere il giuramento che i fascisti tutti levano ancora una volta verso il cielo riconquistato della Patria. Questo giuramento dice che per tutti i morti della grande guerra, per tutti i mutilati, per tutti i combattenti, per tutti coloro che alla grande guerra hanno dato del sangue e delle lacrime, per tutti i martiri del Fascismo, giuriamo di essere sempre più degni nel pensiero e nell'opera di questa nostra superba Patria, che dobbiamo avviare ai suoi immancabili gloriosi destini.
MUSSOLINI cogliendo l'occasione dell'interpellanza presentata al Senato del Regno dai Senatori Artom e Mazziotti per conoscere «-le direttive del Governo in relazione alla situazione politica internazionale-». pronuncia la seguente risposta:
Onorevoli Senatori!
Voglio in primo luogo ringraziare gli onorevoli interpellanti i quali hanno provocato questa discussione in tema di politica estera, e sarò lieto se essa sarà ampia, poiché io accetto suggerimenti e consigli da qualunque parte mi vengano, purché siano ispirati dal superiore criterio degli interessi nazionali.
Mi riservo di toccare nell'altro ramo del Parlamento molte questioni che oggi non toccherò. Mi limiterò ad esporre l'azione e le idee del Governo su tre avvenimenti, intorno ai quali si è particolarmente polarizzata l'attenzione del pubblico: la Ruhr, Corfù, Fiume.
Voglia però il Senato concedermi di anticipare in questa sala il benvenuto ai Sovrani di Spagna, che saranno dopodomani a Roma ospiti della capitale intangibile del mondo latino. La loro visita, preceduta dall'ottimo trattato di commercio felicemente concluso, sarà, io credo, feconda di altri tangibili risultati circa i rapporti futuri fra i due grandi popoli bagnati dallo stesso mare.
Ed ora vi prego, onorevoli senatori, di seguirmi molto pazientemente e molto attentamente nel labirinto calamitoso e ormai mitologico delle riparazioni.
Allorquando, nel novembre dello scorso anno, a Governo nazionale assunse il potere, la situazione, per quanto concerne il problema delle riparazioni germaniche, si presentava assai complicata e grave. Ecco le posizioni reciproche di tutte le potenze interessate.
Scadeva nel 31 dicembre l'ultima moratoria concessa alla Germania nel corso del 1922 ed il Governo tedesco notificava alla Commissione internazionale delle riparazioni che non solo non avrebbe potuto uniformarsi pel 1923 allo stato dei pagamenti fissati a Londra nel 1921, ma neanche eseguire il programma di riparazioni grandemente ridotte che era stato indicato con la moratoria del 1922. Chiedeva perciò il Governo tedesco una nuova e più larga proroga dei suoi impegni e la revisione radicale degli impegni stessi in guisa da notevolmente ridurli.
La Francia si opponeva alla concessione di una nuova proroga in modo decisivo. Metteva in evidenza gli innumerevoli tentativi fatti dal Governo di Berlino per sottrarsi agli impegni contratti, dando ragione ad una certa corrente, secondo la quale la Germania era assolutamente decisa di trovar modo di non pagare.
Affermava ancora la Francia la necessità di mezzi coercitivi ed insisteva per la presa di pegni e per l'occupazione di alcuni centri industriali della Germania.
L'Inghilterra invece, preoccupata dal deprezzamento crescente e fantastico del marco e dalle conseguenze per la concorrenza al commercio inglese, assumeva un'attitudine favorevole nei riguardi della moratoria, e anche per le riparazioni in natura sosteneva la riduzione del la situazione politica internazionale debito tedesco e si dichiarava contraria alla presa di pegni.
La situazione era difficile. Incombeva sull'Europa la preoccupazione di ciò che sarebbe accaduto allo scadere della moratoria col 31 dicembre. Si prospettavano le gravi complicazioni a cui avrebbe potuto condurre l'occupazione della Ruhr alla quale la Francia, innanzi ai mancati pagamenti tedeschi, sembrava ormai sempre più decisa.
Per trovare una via di uscita, fu indetta la riunione della Conferenza di Londra nel dicembre del 1922. Parve allora al Governo nazionale che non avrebbe valso a ricondurre la quiete e la normalità in Europa, né l'impiego delle nuove misure temporanee e parziali a cui si era fatto fino allora ricorso, né la continuazione della discussione sulle ragioni prò e contro la occupazione della Ruhr, o dei torti tedeschi e dei diritti francesi e alleati, né tanto meno l'occupazione della Ruhr. Soltanto un piano di sistemazione generale in cui le varie questioni controverse potessero trovare una trattazione e possibilmente una soluzione organica e adeguata, dava affidamento di risultati favorevoli.
A questi intendimenti si ispirò il Governo italiano, presentando alla Conferenza di Londra il proprio piano per le riparazioni. Sono note le sue caratteristiche: connessione delle riparazioni con i debiti interalleati, riduzioni del debito tedesco, presa di pegni economici a garanzia, ed esclusione di ogni occupazione militare, concessione di una moratoria e continuazione delle prestazioni in natura.
Questo progetto era il risultato di lunghi studi e di una vasta esperienza fatta dai nostri rappresentanti in seno alla Commissione delle riparazioni. Esso conciliava i punti di vista opposti; mentre dava delle garanzie alla Francia, accordava con la moratoria un sufficiente respiro alla Germania, un periodo di tempo durante il quale essa avrebbe potuto dimostrare la buona volontà di far fronte ai propri impegni; con la presa di pegni economici intendeva combattere le ragioni per cui la Francia tentava di giustificare i suoi progetti di occupazione politico-militare. È mia convinzione sempre più ferma che le linee fondamentali del progetto italiano restano ancora le sole sulle quali si può trovare la soluzione del problema delle riparazioni.
Al convegno di Londra furono esposti i punti di vista italiano, francese ed inglese. Come risulta dai resoconti stenografici, il signor Theunis constatava che il progetto italiano aveva il merito di porre direttamente la questione della esistenza di uno stretto nesso tra i debiti interalleati e le riparazioni. Quanto al signor Poincaré, egli ebbe a dichiarare che il memorandum italiano forniva le basi per la soluzione del problema delle riparazioni.
In questa conferenza si venne ad un risultato di capitale importanza: si riuscì, cioè, a far riconoscere il punto dell'interdipendenza dei debiti e delle riparazioni posto dall'Italia a base dei suoi progetti e tenacemente sostenuto nella discussione.
Fu così, per usare le parole del signor Theunis, che Poincaré dichiarava che accettava in pagamento i Buoni della serie C.
E il signor Bonar Law accettò che l'Inghilterra corresse il rischio di pagare all'America più di quanto essa potesse ricevere dagli alleati e dalla Germania.
Per il rimanente la discussione fu dominata dalla esposizione delle colpe della Germania e dei diritti degli Alleati, nonostante miei energici richiami a volersi accordare sopra un piano, che solo poteva salvare l'Europa dal pericolo di una grave jattura.
Ma i due Governi francese ed inglese rimasero fermi nelle loro posizioni. Aumentava la preoccupazione per quel che sarebbe avvenuto dopo il 31 dicembre, dopo la scadenza della moratoria.
Per facilitare l'opera dei Governi, la Commissione delle riparazioni, in seguito a speciale insistenza italiana, consentì una ulteriore proroga della moratoria di 15 giorni. Non fu possibile fare ammettere un periodo più lungo; ma essendo intanto la Germania inadempiente, anche per le limitate consegne in natura del 1922, la Francia chiese alla Commissione delle riparazioni la constatazione della inadempienza tedesca per il legname; e la inadempienza fu dovuta constatare dalla Commissione delle riparazioni con l'assenso di tutti i delegati. È vero che il delegato inglese si astenne dal voto, ma egli dichiarò di riconoscere ugualmente l'inadempienza della Germania.
Analoga dichiarazione fu fatta dal rappresentante americano.
La Delegazione italiana tenne a chiarire le conseguenze delle legittime stipulazioni ricordando che con l'accordo del 21 marzo 1922 tra la Commissione delle riparazioni e il Governo tedesco era stato stabilito che, qualora la Germania non eseguisse le consegne in natura, essa avrebbe dovuto soltanto pagare in denaro il valore della parte mancante, e poiché a norma del trattato, la Commissione delle riparazioni ha facoltà di indicare ai Governi le sanzioni da applicare in caso di inadempimento, la Delegazione italiana chiese che la Commissione ricordasse ai Governi stessi che le sanzioni dovevano essere in questo caso esclusivamente finanziarie e consistere, cioè, nell'invito alla Germania di pagare in denaro, come si è detto sopra, il valore del legname da consegnare e non consegnato.
La Commissione delle riparazioni accolse la proposta della Delegazione italiana e notificò ai Governi l'inadempienza della Germania insieme col disposto dell'accordo 21 marzo 1922 concernente le sanzioni.
Pochi giorni dopo, il 3 gennaio, si convocava una nuova conferenza interalleata a Parigi allo scopo di rinnovare il tentativo fatto a Londra nel dicembre precedente per la ricerca di una via di uscita alla situazione. Il proposito della Francia di assicurarsi ad ogni costo le riparazioni tedesche, ricorrendo all'impiego di mezzi coercitivi, era ormai più che manifesto, e il dissidio franco-tedesco, a seguito del persistente mancato adempimento da parte della Germania, pesava più che mai su tutti e rendeva la situazione sempre più difficile. A Parigi l'Inghilterra presentò improvvisamente un proprio progetto di riparazioni non comunicato in precedenza.
Questo progetto, insieme con la moratoria, stabiliva notevoli riduzioni del debito tedesco e quindi della quota proporzionale spettante agli alleati, pur ammettendo facilitazioni nel pagamento dei loro debiti verso la Gran Bretagna. Occorre chiarire un punto fondamentale che non sembra sia stato sufficientemente valutato in taluni ambienti, e cioè che le condizioni prospettate nel progetto Bonar Law potevano trovare applicazione pratica nel solo caso che si giungesse ad una sistemazione generale, di guisa che, anche nell'ipotesi che l'Italia avesse accettato da sola quel progetto, esso sarebbe rimasto nello stato di progetto, perché la sua esecuzione pratica era subordinata al regolamento generale e quindi all'accettazione anche da parte del Belgio e della Francia.
Bisogna inoltre, giunti a questo punto, specificare esattamente che cosa avrebbe importato per l'Italia l'accettazione pura e semplice e immediata del progetto Bonar Law: la cessione all'Inghilterra di un miliardo e mezzo dei quattro assegnati all'Italia a titolo di riparazioni, più la cessione in proprietà inglese dei 650 milioni di lire oro depositati durante la guerra alla Banca d'Inghilterra (articolo 13); rinunzia alla più gran parte delle consegne in natura durante la moratoria, rinunzia inoltre al principio della solidarietà tedesca per le riparazioni degli Stati minori ex nemici e assunzione in suo luogo dell'impegno di accettare per tali riparazioni le proposte inglesi (articolo 14); la quasi certezza che i crediti francesi e inglesi verso la Germania sarebbero stati soddisfatti prima di quelli italiani.
Un articolo del progetto inglese (articolo 12) stabiliva infatti che i prestiti internazionali, su cui esso si fondava, dovessero servire a riscattare le riparazioni assegnate ai paesi nei quali i prestiti stessi venivano emessi. L'Italia, paese non ricco di capitali, si sarebbe potuta trovare così in un determinato momento a essere la sola potenza creditrice verso la Germania tra tutte le grandi nazioni, e sono evidenti le conseguenze di un tale fatto nei riguardi del valore reale attribuito alla quota italiana di riparazioni.
In tutta la costruzione del progetto inglese era inoltre presunto il pieno rispetto, da parte della Germania, dei propri impegni ed esclusa qualsiasi forma di garanzia quale, ad esempio, quella dei pegni economici che lo stesso Governo tedesco avrebbe poi successivamente offerto.
Alla non accettazione del progetto inglese contribuì la circostanza già accennata che esso non fu fatto conoscere preventivamente, ma presentato alla fine della prima seduta, e che la Conferenza si sciolse improvvisamente, dopo due sole riunioni, per l'acuirsi del dissidio franco-inglese.
Il 4 gennaio finì la Conferenza di Parigi; il 7 l'incaricato d'affari di Francia comunicò al Governo italiano che la Francia inviava ad Essen una Missione composta di ingegneri per il controllo delle operazioni di ripartizione del carbone della Ruhr, per curare la stretta applicazione dei programmi fissati dalla Commissione delle riparazioni, e chiedeva se il Governo italiano fosse disposto a partecipare a questa Missione con qualche ingegnere.
Non poteva esservi esitazione. Senza quei pochi ingegneri che il Governo decise di inviare, saremmo rimasti assenti e tagliati fuori da tutto. Non vi è bisogno di lunga dimostrazione per chiarire come tale decisione sia stata utilissima dopo l'esperienza fatta e di quale grande efficacia sia stata per la tutela degli interessi dell'economia nazionale la presenza nella Ruhr dei nostri ingegneri.
Fu pertanto risposto con l'adesione in linea di principio, dichiarandosi che doveva trattarsi in ogni caso di operazione con carattere assolutamente civile.
Qualche giorno dopo (10 gennaio) l'Ambasciata di Francia notificò al Governo italiano che, stante la necessità di proteggere gli ingegneri della missione di controllo, il Governo francese era costretto ad inviare alcune sue truppe nella Ruhr e che una notifica in tal senso era contemporaneamente, nello stesso giorno, fatta al Governo germanico.
La comunicazione aggiungeva che il Governo belga si associava all'invio di truppe in quella zona. La comunicazione venne fatta contemporaneamente all'arrivo delle truppe.
Il Governo francese aveva la cura di dichiarare che non era nelle sue intenzioni di procedere sul momento ad operazioni di carattere militare, né ad una occupazione di ordine politico.
Inviava semplicemente nella Ruhr una missione di ingegneri e di funzionari il cui oggetto era chiaramente definito: la missione doveva assicurare il rispetto, da parte della Germania, delle obbligazioni di riparazione contenute nel Trattato di Versailles e le truppe francesi entravano nella Ruhr per salvaguardare la missione. Nessun mutamento sarebbe stato portato alla vita normale delle popolazioni, le quali avrebbero potuto lavorare in ordine e con calma.
Il Governo italiano, che si era sempre manifestato contrario ad ogni forma di occupazione, sconsigliò in modo esplicito, nell'interesse stesso della Francia, il provvedimento che assumeva carattere militare e dichiarò formalmente che i suoi tecnici avrebbero preso parte soltanto ad azioni di carattere civile ed economico e si sarebbero scrupolosamente astenuti da ogni operazione di carattere politico.
Poco dopo, essendo multato che il Governo francese cercava di porre la missione di controllo, per ragioni di sicurezza, in certa guisa alle dipendenze del comandante militare, il Governo italiano fece presente che tale dipendenza poteva mutare il carattere civile della missione, e che l'Italia, non potendo consentirvi, sarebbe stata costretta a ritirare gli ingegneri.
Il Governo insistette in tale occasione sulla convenienza che le misure coercitive fossero evitate. Ebbe assicurazioni che gli ingegneri della missione dipendevano dai Governi rispettivi e che sarebbero state tenute ne' massimo conto le osservazioni per cui la missione di controllo doveva essere un organo indipendente e civile.
Fissati questi precedenti, non infliggerò al Senato la lunga cronistoria dell'occupazione della Ruhr, né rievocherò il faticoso nonché inutile travaglio diplomatico di questi ultimi mesi; mi limito a dichiarare, con coscienza perfettamente tranquilla, che l'Italia non poteva seguire una diversa linea di condotta.
A miglior dimostrazione della mia tesi, prospettiamo l'ipotesi contraria, cioè del non intervento e del disinteressamento dell'Italia nella Ruhr. Il non intervento dell'Italia non avrebbe impedito l'occupazione della Ruhr che la Francia ha attuato malgrado l'opposizione, del resto più che altro formale, della stessa Inghilterra; avrebbe maggiormente lacerato la già fragile compagine dell'Intesa, e favorito la resistenza passiva tedesca; ci avrebbe tenuto lontani dalla possibilità di accordi a due (franco-tedeschi) che si sarebbero fatti in nostra assenza.
Debbo aggiungere che anche per cautelarmi di fronte a questa ultima evenienza, ottenni, in data 16 gennaio, formale dichiarazione dalla Francia che nessun accordo tra la Francia e la Germania limitatamente alle industrie, si sarebbe fatto senza darne notizia e senza accordare l'eventuale partecipazione dell'Italia. Il disinteressamento dell'Italia avrebbe reso aleatorio il nostro rifornimento di carbone. Nessuno può credere quante difficoltà si siano dovute superare, nonostante la cordiale volontà della Francia e della Germania. Tutte le volte che l'occupazione francese procedeva verso un centro ferroviario, verso un città, verso una parte del bacino, si ponevano per noi problemi delicatissimi e complicati, che abbiamo superato mercé l'abnegazione, la diligenza e lo scrupolo tanto dei nostri rappresentanti in seno alla Commissione delle Riparazioni, quanto per opera dei nostri ingegneri e tecnici che si trovavano nella Ruhr.
A termini del trattato, l'Italia avrebbe potuto avere otto milioni di tonnellate di carbone. È questa una cifra dei primi tempi.
Il quantitativo fu ridotto dalla Commissione delle Riparazioni a 3.600.000 tonnellate. L'Italia, pel periodo che va dal gennaio all'ottobre 1923, ha ricevuto 1.370.000 tonnellate di carbone. Si noti che, salvo a rifornirci sul mercato inglese, non c'era possibilità di grande rifornimento in altre parti di Europa. Abbiamo cercato di rifornirci nell'Alta Slesia prendendo accordi col Governo polacco, ma la cosa, quando si è stati all'atto pratico, non ha avuto seguito.
Il carbone polacco costava molto più dell'altro carbone importato da Cardiff. Da allora, malgrado tutte le vicende diplomatiche e la cessazione della resistenza passiva, la situazione della Ruhr non è sostanzialmente cambiata. Che cosa poteva fare, che cosa può fare l'Italia?
I cultori di certa letteratura europeizzante ricostruzionistica sono pregati di precisare e di rispondere. Escluse le manifestazioni verbali e propagandistiche, che non sono assolutamente nello stile della mia politica estera, e che la stessa Russia non fa perché delega a farle il partito dominante della Nazione, si vuole forse che l'Italia ritiri i suoi tecnici dalla Ruhr? Ebbene ciò non modificherebbe di un ette la politica della Francia. Si ponga ben mente che l'Inghilterra non ha minimamente pensato a ritirare le sue truppe dal suolo germanico.
Si vuole forse che l'Italia rompa con la Francia e si stacchi deliberatamente e definitivamente dai suoi Alleati di guerra e prenda in un certo senso la iniziativa e la responsabilità di annullare il trattato di Versaglia?
Basta porsi la domanda per comprendere l'estrema gravità della cosa che potrebbe condurre ad una conflagrazione europea. Siffatta politica provocherebbe un terribile isolamento dell'Italia nella situazione presente; basta osservare con quanta cautela l'Inghilterra ha evitato fino ad oggi ed eviterà finché le sia possibile la rottura con la Francia, per comprendere che l'Italia deve essere per lo meno altrettanto guardinga quanto l'Inghilterra.
Si pretendevano o si pretendono delle mediazioni? Ma, o signori, si dimentica che le mediazioni sono efficaci in quanto siano cercate ed accettate e si dimentica che l'Italia è parte in causa.
Si vuole che l'Italia compia gesti di francescana rinunzia in favore dei popoli vinti per salvarli dall'abisso? L'Italia ne ha già fatti in confronto dell'Austria, ma ciò non ostante mi accade spesso di leggere sui giornali viennesi articoli enormemente sconvenienti nel confronto del nostro Paese.
La stessa cosa si è fatta nei confronti dell'Ungheria; ci si è dichiarati pronti a farla, ma proporzionalmente con gli altri, nei riguardi della Germania. Del resto tutte le volte che è' stato possibile intervenire in certe situazioni in confronto della Germania, l'Italia è intervenuta; ma può forse l'Italia fare il bel gesto ed in pura perdita rimettere i suoi crediti, se i suoi alleati non rinunciano fino ad oggi ad una lira del loro credito? La cosa rasenterebbe i limiti della pura follia.
Si vuole un accordo più intimo italo-inglese sul terreno delle riparazioni? Questo è stato il proposito del Governo nazionale anche sulla base del progetto Bonar Law. Verrà il giorno in cui sarà possibile dare esaurienti documentazioni su questo argomento e metter in luce chiara l'azione dell'Italia anche dopo la Conferenza di Parigi.
D'altra parte ecco un episodio recente di questa collaborazione italo-inglese. Quando si è trattato di invitare gli Stati Uniti a riprendere parte ad una Conferenza internazionale, l'Italia ha aderito al punto di vista inglese. Oggi, ad esempio, siamo di nuovo innanzi ad un punto drammatico di questa storia. Ieri ed oggi una questione occupa la Conferenza degli ambasciatori a Parigi: il controllo militare ed il ritorno del Kronprinz. Ebbene anche su questo argomento di palpitante attualità, mi si permetta la frase giornalistica, l'Italia e l'Inghilterra sono d'accordo.
Bisogna dire chiaramente che la richiesta di estradizione del Kronprinz è un errore: significa cacciarsi, ancora una volta, in un vicolo cieco dal quale non si potrà uscire se non complicando di nuovo la situazione. E soprattutto mi preme dichiarare, in questo momento, che il Governo italiano non potrebbe approvare un'ulteriore occupazione di territori tedeschi.
Insomma bisogna aver il coraggio di dire che il popolo tedesco esiste; sono sessantun milioni di abitanti sul territorio della Germania, sono altri 10 o 12 milioni tra l'Austria e gli altri paesi; non si può pensare, e non si deve nemmeno pensare, di distruggere questo popolo. È un popolo che ha avuto una sua civiltà e che domani può essere ancora parte integrante della civiltà europea.
Quali sono oggi le direttive del Governo italiano? Sono le seguenti e mi sembrano assai chiare:
1°) riduzione ad una cifra ragionevole del debito tedesco e conseguente proporzionale riduzione dei debiti interalleati;
2°) numero sufficiente di anni di moratoria alla Germania, salvo per le riparazioni in natura;
3°) presa di pegni e garanzie (il Governo tedesco è disposto a darle);
4°) evacuazione della Ruhr a pegni e garanzie ottenute;
5°) nessun intervento nelle faccende interne della Germania, ma appoggio morale e politico a quel Governo che ristabilisca nel Reich l'ordine ed avvii la Germania verso il risanamento finanziario;
6°) nessuno spostamento d'ordine territoriale.
Come un anno fa, così oggi l'Italia è pronta a camminare in questa direzione ed aderire a tutti i tentatici che fossero fatti in tal senso. Aggiungo, senza voler peccare di orgoglio, che al di fuori di questo cammino si segnerà il passo, si renderà cronica la situazione con conseguente disordine e miseria.
La soluzione, che chiamerò italiana, del problema delle riparazioni, si trova sulla linea di equilibrio degli interessi opposti, ed essa risponde anche al superiore interesse della giustizia.
Vengo ora al secondo argomento della mia esposizione: Corfù, Lega delle Nazioni.
Sulla fine di agosto fu commesso nel territorio di Janina l'orribile delitto che tutto il mondo civile ha deplorato.
Bene ha fatto l'altro giorno il Senato a rivolgere un pensiero devoto e riverente verso quei soldati d'Italia che sono caduti nell'adempimento di un dovere che si potrebbe ritenere più sacro di tutti gli altri!
Per uno strano ritardo nelle comunicazioni, che sarebbe facile a spiegare, ebbi notizia dell'assassinio la sera del 28 agosto. Consultai i capi militari e decisi di inviare l'intimazione che conoscete.
Diedi 24 ore di tempo; nel frattempo gli ordini per il raccoglimento delle truppe e della marina venivano diramati ed effettuati; tanto che, con una rapidità, che ha sorpreso l'Europa, scaduto il termine, in appena 36-40 ore, 6000 soldati di fanteria erano sulle nostre navi, e molte unità si dirigevano a Corfù dove ancoravano alle ore 16 del 31 agosto.
Nella comunicazione che io inviai alle Potenze era specificato il carattere dell'occupazione di Corfù: era una presa di pegno, necessariamente temporanea. Se la Grecia avesse fatto fronte alle richieste dell'Italia, la durata di questa presa di pegno sarebbe stata breve, brevissima.
Signori, non dovete credere che l'occupazione di Corfù sia stata fatta soltanto per prendere un pegno; essa è stata fatta anche per rialzare il prestigio dell'Italia.
Io non so se abbiate l'abitudine di leggere i giornali balcanici e specialmente quelli di Atene. Ebbene in questi Stati, fra quelle popolazioni, dopo l'infausto sgombro di Valona, il prestigio dell'Italia era ormai a terra. La Grecia, molto abilmente, fece ricorso alla Società delle Nazioni dicendo che il caso cadeva sotto gli art. 12, 13 e 15 del Patto della Lega stessa. La Lega delle Nazioni si precipitò su questo episodio con vera frenesia; e perché era un episodio drammatico, e perché accadeva mentre la Assemblea sedeva a Ginevra, e perché finalmente era un caso che avrebbe dato la possibilità a questo areopago di emettere un verdetto storico.
Invitai la Commissione italiana a Ginevra a sostenere la tesi dell'incompetenza. Prima di tutto trovavo strano questo zelo della Lega nel giudicare dell'Italia, quando, pochi mesi prima, essendosi ventilata l'idea di un'inchiesta amministrativa nel bacino della Sarre, bastò il malumore della Francia per far cadere questa iniziativa; e poi io non posso ammettere per il prestigio dell'Italia, che gli interessi morali, quindi imponderabili, dell'Italia, siano alla mercé di Stati ignari e lontani.
La battaglia alla Società delle Nazioni a Ginevra fu assai aspra e difficile, anche perché si complicava di due elementi: c'era molta gente in buona fede, più o meno fanatica; ce n'era altra inquieta di questo gesto di autonomia dell'Italia dal punto di vista nazionale. Tutto l'equivoco mondo della democrazia socialistoide e plutocratica era furibonda perché l'Italia è oggi diretta dal Governo Fascista.
La battaglia a Ginevra si concluse vittoriosamente; questo è un giudizio universale. La questione venne portata a Parigi alla Conferenza degli Ambasciatori. Sarebbe stato, a mio avviso, gravissimo errore, essendo sfuggiti alle secche di Ginevra, andare a perire negli scogli di Parigi, anche perché gli Ambasciatori avevano una competenza giuridica che non si poteva negare. La missione Tellini era una missione di italiani, ma era là mandatavi dalla Conferenza degli Ambasciatori. Gli Ambasciatori avevano non solo il diritto, ma il dovere di considerarsi patte in causa; del resto, la Conferenza degli Ambasciatori accettò sostanzialmente le richieste italiane che non erano affatto eccessive, data la gravità enorme del delitto e i precedenti di cui vi ho parlato. Nel 1916. quando avvenne l'eccidio dei marinai francesi ad Atene, le richieste della Francia furono infinitamente più severe.
Dichiaro anche che, senza l'occupazione di Corfù, l'Italia non avrebbe avuto soddisfazioni di sorta.
Fino all'ultimo momento, quando avevo già dato l'ordine alla flotta italiana di sgombrare Corfù, di ritornare in Italia, la Grecia cercava ancora le vie tortuose per rimettere al giudizio del Tribunale dell'Aja il pagamento più o meno immediato di 50.000.000. E solo quando diedi l'ordine alla flotta di tornare nuovamente a Corfù, ed essa si presentò all'una dello stesso giorno colà, la Grecia finalmente si decise a pagare.
Ma intanto l'episodio di Corfù, che a mio avviso è d'importanza capitale nella storia d'Italia, prima di tutto perché ha chiarito più che con molti volumi la situazione a gran parte degli italiani, poneva il problema della Società delle Nazioni davanti alla coscienza nazionale italiana. Il pubblico italiano non si era mai eccessivamente interessato della Società delle Nazioni; si credeva che fosse una cosa morta, accademica, senza importanza alcuna.
In realtà questa Società delle Nazioni, limitandosi al continente europeo, non ha la Germania e non ha la Russia. Singolare il caso degli Stati Uniti che, pur avendo dato il profeta di questo organismo, non ne fanno in alcun modo parte.
Allo stato degli atti la Società delle Nazioni è un duetto franco-inglese; ognuna di queste potenze ha i suoi satelliti e i suoi clienti, e la posizione dell'Italia fino a ieri, nella Lega delle Nazioni, è stata di assoluta inferiorità.
Vi do delle cifre: l'Inghilterra ha 326 impiegati nella Società delle Nazioni; la Francia 180; la Svizzera 178; l'Italia 25. Più importanti ancora sono le cifre che riguardano gli assegni dalle quali risulta, per esempio, che l'Inghilterra prende per i suoi impiegati più di quanto essa paghi. Totale degli assegni dell'Inghilterra: 3.265.000 lire; contributo: 2.583.000 lire; Francia, assegni: 2.499.000; contributo: 2.120.000 lire; l'Italia, assegni: 480.000 lire; contributo: 1.600.000. Su sei Commissioni cinque sono monopolizzate dalla Francia, una dall'Inghilterra, nessuna dall'Italia. Questa è la situazione, come vi dicevo, di netta inferiorità.
Il problema si pone in questi termini: uscire dalla Lega delle Nazioni? In tesi generale preferisco entrare piuttosto che uscire. Poi c'è da considerare che, una volta che si è usciti, non bisogna subito ribattere alla porta per rientrare. Gli italiani non hanno dimenticato l'episodio ingratissimo di Parigi quando i nostri rappresentanti se ne andarono, e poi dovettero, come tutti ricordano, pregare per rientrare.
Proprio nei giorni di Ginevra altri due Stati chiedevano di entrare nella Lega delle Nazioni. C'è ancora da considerare un altro elemento: che la fuoruscita non è immediata, va a due anni data, e durante questi due anni, niente può impedire che altri agiscano all'infuori di noi od anche contro di noi.
Non solo, ma vi sarebbe violazione del trattato di Versailles e di tutti gli altri trattati, perché il patto della Lega delle Nazioni è parte integrante di tutti i trattati di pace. Non si può dunque allo stato degli atti uscire dalla Lega delle Nazioni; ma, a mio avviso, non si può rimanere nelle condizioni avvilenti di inferiorità nelle quali oggi ci troviamo. Io ho avuto a questo riguardo dei colloqui con Drummond ed ho chiarito che le cose non possono continuare in questi termini, che bisogna stabilire un diritto assoluto di uguaglianza fra le tre Nazioni che risultano fondatrici della Lega stessa delle Nazioni.
Vengo a Fiume. Questa è una delle eredità più penose della nostra politica estera. Per non aver Fiume, o signori, noi abbiamo rinunciato alla Dalmazia, abbiamo rinunciato a Sebenico che poteva esserci cara, non solo perché vi è nato Niccolò Tommaseo, ma perché è una base formidabile dal punto di vista navale.
Abbiamo fatto di Zara una povera città perduta, che vivrà soltanto dei nostri soccorsi tanto che, all'ultimo momento, si è dovuto creare una zona grigia attorno a Zara, per dare a questa città la possibilità di vivere. E non abbiamo avuto Fiume! Voi sapete che ho portato gli accordi di Santa Margherita all'approvazione del Senato e della Camera. Non ho portato la lettera Sforza, che esiste e non vale negare, malgrado sia stata per tanto tempo pertinacemente smentita.
La Commissione paritetica si è riunita, ha discusso: non ha concluso, perché il problema di Fiume appartiene alla categoria dei problemi quasi insolubili. Io ho proposto alla Jugoslavia una soluzione semplice, equa, ed oserei dire umana che tiene conto delle necessità dei due popoli, che può essere veramente l'anello di congiunzione tra l'Italia e la Jugoslavia. Su questa proposta si discute in questi giorni col desiderio di giungere ad un accordo.
Ad ogni modo ho il piacere di dirvi che il Governo italiano non si ipnotizza in quell'angolo dell'Adriatico. Fiume più che un problema è una spina nel nostro fianco. La politica di una grande potenza deve avere orizzonti più vasti. Ma intanto mentre queste trattative si svolgevano io ho mandato un Governatore a Fiume: il Generale Giardino. Perché? Dispersa la costituente Zanella, il Governo di Fiume era caduto nelle mani del Dottor De Poli, non perché egli l'avesse cercato, che anzi avrebbe fatto il possibile per evitare questo peso; e da tredici o quattordici mesi il De Poli trascinava faticosamente il suo fardello. La situazione della città era gravissima. Miseria materiale e miseria morale.
Ho mandato il generale Giardino a Fiume anche per un'altra ragione: per avere la certezza matematica che qualsiasi soluzione sarà eseguita. Io ammetto sotto la specie giornalistica e polemica, che uomini e gruppi abbiano una politica estera; ma la politica estera armata, la politica estera che impegna l'avvenire e la vita della Nazione, quella appartiene soltanto ed esclusivamente al Governo responsabile in possesso di tutti gli elementi della situazione.
Quali sono in sintesi le direttive della politica estera del Governo nazionale?
Non è, mi pare, pensabile una politica estera di assoluta autonomia, ma è altresì inammissibile una politica estera di supina collaborazione.
Gl'isolamenti di cui tanto si parla sono più o meno momentanei e non ci devono spaventare. Essi sono il risultato della nostra tendenza ad una politica il più possibile autonoma.
Gli isolamenti avvengono tutte le volte che i nostri interessi contrastano con quelli altrui; quindi politica di autonomia e politica di pace. Ma questa politica di pace non deve essere cieca, non deve essere ottimista e panglossiana; deve essere intelligente e preparata.
Quello che accade, per esempio, nei paesi del Danubio deve attrarre molto la nostra attenzione. È di ieri, ad esempio, il discorso del Sindaco di Vienna in cui si auspicava ad una prossima riunione dell'Austria con la Germania. .
Ad un certo momento la Germania tornerà efficiente nella politica europea.
La Russia sta già rimettendosi da tutte le sue ferite, da tutti i suoi eccessi. Non farà più domani un imperialismo di marca sociale, ma riprenderà forse le strade del suo vecchio imperialismo di marca panslava.
Essendo così inquieta tutta la vita europea, incerto il destino, bisogna essere vigilanti e preparati.
Per fortuna non siamo più ai tempi del 1920, quando si sgombrò Valona, perché il ministro della guerra di allora dovette mandare, in data 6 luglio, un dispaccio al generale Piacentini che cominciava con queste parole, sulle quali bisogna meditare: «Condizioni interne del Paese non consentono prelevamenti truppe per Albania, tentativi invio rinforzi provocherebbero scioperi generali dimostrazioni popolari, con grave nocumento della stessa compagine dell'Esercito che occorre non mettere a dura prova».
Fortunatamente questi tempi sono passati. Quando io seppi dello sgombero di Valona, piansi. E non dico così per usare una frase retorica.
Oggi, grazie al Fascismo, il popolo italiano, che ha ritrovato il suo profondo senso di disciplina unitaria, e l'Esercito e la Marina, che oggi sono in efficienza spirituale semplicemente formidabile, possono essere sottoposti a tutte le prove quando siano in gioco gli interessi, la dignità, l'avvenire della Patria!
Roma, 22 novembre 1923: MUSSOLINI risponde allo spagnolo Primo de Rivera
L'on. MUSSOLINI offrì a Palazzo Venezia una colazione al primo ministro spagnuolo, Primo De Rivera che accompagnava i Sovrani di Spagna nella loro visita alla Capitale d'Italia. Il De Rivera, come è noto, aveva attuato nel suo paese una politica d'autorità, che guardava con simpatia all'esempio fascista, ma se ne differenziava nettamente per la diversa indole dei governanti e del paese. Il De Rivera — che fece molto per il suo paese, morì di dolore quando fu costretto a prendere le vie dell'esilio — non poté dominare la situazione e la sua caduta doveva preparare l'avvento della Repubblica spagnuola. Egli aveva, in quell'occasione, rivolto un fervido saluto a MUSSOLINI, che rispose con le seguenti parole:
Signor Presidente!
Il saluto che mi porgete in nome Vostro e in nome del popolo spagnolo che si è liberato di classi politiche insufficienti ai loro compiti, ha una rispondenza profonda nel cuore di tutti i cittadini italiani che in un modo o nell'altra marciano sulla grande strada aperta dalla Rivoluzione fascista.
Quando nel settembre scorso noi avemmo notizia del vostro movimento, pensammo che pur essendo diverso il metodo corrispondente alla diversità del clima politico dei due paesi, l'obiettivo poteva considerarsi identico: liberare le forze vitali del popolo dalla influenza nefasta di dottrine politiche sorpassate e da uomini incapaci di assumersi la dura responsabilità del comando.
Il Fascismo italiano ha una storia breve ma densissima di battaglie e ricca di sacrifici. Si contano a migliaia i giovani fascisti che sono caduti intrepidamente per strappare la Nazione italiana dal pericolo di cadere nella dissoluzione e nel caos. Pur essendo il Fascismo un fenomeno tipicamente italiano, non vi è dubbio che taluni dei suoi postulati sono di ordine universale, poiché molti paesi hanno sofferto e soffrono per la degenerazione dei sistemi democratici e liberali. L'amore della disciplina, il culto della bellezza e della forza, il coraggio delle responsabilità, il disprezzo per tutti i luoghi comuni, la sete della realtà, l'amore per il popolo, ma senza cortigianerie grottesche, questi capisaldi fondamentali della concezione fascista possono servire anche ad altri paesi.
Vi dichiaro, signor Presidente, che io sono ottimista per quello che riguarda la solidità e la durata del Vostro Governo. Quello che accade a Voi è accaduto anche a noi nei primi tempi: quattro politicanti disoccupati e melanconici aspettavano dalla mattina alla sera il tramonto del mio Governo. Si tratta di durare giorno per giorno, mese per mese, anno per anno, come abbiamo durato noi e come dureremo. Così voi durerete dal momento che il Vostro Governo rispondeva ad un bisogno intimamente sentito da tutta la parte migliore del Vostro popolo.
Fra Spagna e Italia si può oggi veramente parlare di una fraternità latina, e questo viaggio è destinato a rafforzarla sempre più solidamente. Tutti i popoli latini hanno avuto nella loro storia delle soste, ma poi si è ripresa la marcia. Gli è che le razze bagnate dal Mediterraneo hanno germi inesauribili di vitalità.
Signor Presidente!
Voi avete conosciuto Roma immortale: ma fra qualche giorno vedrete altre città italiane ed avrete anche a Firenze, a Bologna, a Napoli la sensazione esatta della forza invincibile del Fascismo e dell'enorme consenso che esso raccoglie in tutti gli strati della popolazione.
Permettetemi, salutando Voi, signor Presidente, di ricordare i Vostri Sovrani, i Vostri colleghi del Direttorio e di levare in alto i nostri gagliardetti bagnati di sangue in onore di tutto il popolo spagnolo che si avvia fieramente a riprendere il suo posto nella vita e nella storia europea.
Roma, 29 novembre 1923: MUSSOLINI chiude la discusione alla Camera sul trattato di commercio con la Svizzera
Nel primo discorso presidenziale, del 16 novembre 1922, MUSSOLINI aveva preannunziato il Trattato di Commercio con la Svizzera. Tale Trattato fu concluso a Zurigo il 27 gennaio 1923, e fu oggetto, alla Camera, di numerose osservazioni alle quali replicò il Ministro della Economia Nazionale on. Corbino. La discussione generale si chiuse, nella tornata del 29 novembre 1923, con la seguente dichiarazione del Capo del Governo:
Il mio collega della Economia Nazionale ha già, a mio avviso, risposto in maniera brillantissima ed esauriente alle critiche mosse dalla Commissione che ha esaminato il trattato di commercio italo-svizzero. Io ho poco da aggiungere. Dirò solo che le difficoltà per condurre in porto questo trattato furono grandissime: si sono tenute a Zurigo decine e decine di riunioni che hanno messo a prova durissima i nervi e la stessa resistenza fisica dei negoziatori.
Per tre o quattro volte si fu sul punto di rompere; una volta a proposito di certificati di origine, un'altra volta sulla questione delle esclusioni e del contingentamento, un'altra volta su voci sulle quali sembrava insormontabile il divario.
Mi preme di ricordare alla Camera che i trattati di commercio non vanno esaminati soltanto dal punto di vista della economia, ma anche dal punto di vista della politica. La stipulazione di un trattato di commercio migliora i rapporti fra due popoli, specie se sono confinanti; viceversa una rottura o, peggio ancora, una guerra, li peggiorano.
Va da sé che il Governo terrà nel dovuto conto tutte le osservazioni che sono state fatte a proposito di questo trattato, ma io prego la Camera di approvarlo, perché in fondo è buono e potrà essere migliorato. Con la sua approvazione la Camera italiana dimostrerà che intende mantenere rapporti di perfetta e cordiale amicizia tra la Svizzera e l'Italia.
Roma, 3 novembre 1923: MUSSOLINI interviene sulle relazioni dell'Italia con la Russia
La discussione dei trattati di commercio si chiuse alla Camera dei Deputati con quella della conversione in legge del D. L. 31 gennaio 1922, n. 137, col quale fu data piena ed intera esecuzione all'accordo preliminare concluso a Roma il 26 dicembre 1921 con la Repubblica federale socialista dei Soviety in Russia.
La Camera, nella quale restavano vecchi elementi, assuefatti alle vane diatribe parlamentari, volle cogliere questa occasione per una vivace discussione, nella quale si notarono i discorsi dei deputati socialisti Bombacci e Lazzari, energicamente interrotti da Mussolini. La discussione si chiuse, nella tornata del 30 novembre 1923, con il seguente discorso del Duce, il quale integrò con esso gli accenni già fatti alla politica verso la Russia nel primo discorso presidenziale del 16 novembre 1922.
I trattati che oggi la Camera è chiamata ad approvare, e che certamente approverà, sono in un certo senso già scontati. Sono vecchi di due anni, e accetto per loro la definizione dell'onorevole Riboldi: devono essere considerati come delle prefazioni di un libro che non è ancora totalmente scritto.
La discussione provocata dalla presentazione di questi due trattati è stata influenzata da preoccupazioni politiche di ordine interno. E credo che tutti si siano compiaciuti delle dichiarazioni dell'onorevole Bombacci, e anche del discorso assai pratico, tecnico, aderente alla realtà concreta, pronunciato dall'onorevole Riboldi.
Quando un anno fa io feci un'esposizione, la prima esposizione in materia di politica estera, dissi che i rapporti con la Russia erano allora in uno stato di incertezza, e, diciamo la parola, di ambiguità.
Io sono nemico delle ambiguità in genere. Dissi allora che non ci dovevano essere pregiudiziali di partito. Il problema era squisitamente di ordine nazionale. Appena questo Governo salì al potere, in taluni strati dell'opinione pubblica russa ci furono dei movimenti di sospetto e anche di ostilità: ci furono casi di rappresaglie nel Mar Nero non gravi: ci fu uno scambio di trattative: la situazione ritornò normale. Venne Krassin a Roma ed io ebbi un lungo colloquio con lui; trattative furono iniziate con Vorowski ed erano giunte già ad un buon punto, quando Worowski fu assassinato a Losanna. L'assassinio di Worowski portò una sospensione nelle trattative dai tre a quattro mesi. Le trattative sono state riprese con Jordanski. Ormai è il segreto di pulcinella, e facciamo pure della diplomazia a carte scoperte: una Commissione partita da Mosca è a Roma e con questa Commissione si sta trattando da alcune settimane appunto per stabilire relazioni normali di ordine commerciale fra la Russia e l'Italia.
Queste trattative non subiscono assolutamente influenze di ordine politico né da parte nostra, né da parte russa. Ma sono necessariamente lente. Non dovete credere che i russi corrano; sono dei minuziosi e vorrei quasi dire pedanti — ma io li ammiro in questa loro pedanteria — minuziosi, zelanti difensori di tutti gli interessi del loro paese, e vanno coi piedi di piombo. Ragione per cui è saggia tattica da parte nostra, se vogliamo fare un trattato di commercio che sia giovevole anche a noi, non mostrare soverchia, eccessiva precipitazione.
Le trattative sono giunte ad una buona tappa: c'è stata una sospensione dovuta ad elementi di ordine puramente obiettivo.
È inutile discutere per vedere che cosa sia la Nepa e quale più o meno profonda trasformazione di ordine sociale ed economico abbia portato in Russia. Questo è affare di ordine interno russo. Ma fino a questo momento, pur avendo abolito il monopolio del commercio dell'interno della Russia, sembra che esista, ed esiste in realtà, il monopolio del commercio estero. Questo crea delle difficoltà a mio avviso non insormontabili: credo che si potrà trovare una soluzione che rispetti questo monopolio russo e dall'altra parte dia a noi la pratica possibilità di stabilire dei commerci e dei traffici.
Altra questione che è sul tappeto è quello dei danni subiti da cittadini italiani in Russia.
Poi ci sono le inevitabili difficoltà inerenti a questo genere di trattative. Forse sorprenderò la Camera, comunicando che nel mese di Corfù l'unica stampa europea orientata simpaticamente verso l'Italia è stata la stampa di Mosca.
Ci sono dei paesi, come ricordava l'onorevole Riboldi, che hanno stabilito con la Russia relazioni normali; ce ne sono altri, come la Cecoslovacchia, che hanno scelto una formula intermedia; c'è finalmente un certo numero di Stati che non ha rapporti ufficiali di sorta. Non v'è dubbio però che all'ora attuale tutti gli Stati europei, e anche non europei, direttamente o indirettamente, cercano di riallacciare rapporti economici con la Russia. Inghilterra e Francia e Stati Uniti sono assai avanti su questa strada.
La Missione De Monzie in fondo era una missione governativa francese e ha portato in Francia delle conclusioni piuttosto ottimiste. In fondo, questa faccenda del riconoscimento dei Soviety è una famosa foglia di fico, con la quale si vuol nascondere la realtà concreta dei fatti Dal mio punto di vista nazionale e politico è più conveniente che io abbia a Roma un ambasciatore in perfetta regola, con tutti gli usi, i costumi e le leggi che regolano questa materia nei rapporti internazionali, piuttosto che un rappresentante che non si sa se sia commerciale, se sia diplomatico, se sia politico e che però viene a Palazzo Chigi a trattare di affari concreti con me, e che quindi è nel fatto e nella pratica quotidiana pienamente riconosciuto.
Per quel che riguarda il riconoscimento così detto de jure della Repubblica Russa, nessuna difficoltà da parte del Governo fascista.
Il problema deve essere posto in questi termini di schietta e, oserei dire, brutale utilità nazionale: è utile per l'Italia, per la economia italiana, per la espansione italiana, per il benessere del popolo italiano, è utile il riconoscimento de jure della Repubblica Russa, in quanto questo riconoscimento faciliti le relazioni economiche e quindi la espansione del popolo italiano? Io rispondo sì.
Naturalmente quando si trattano i problemi della politica estera sulla base della utilità nazionale, ci vuole il do ut des. Io, Italia, Governo italiano, dando prova di spregiudicatezza politica, riconosco il vostro Governo, vi introduco di nuovo nella circolazione politica e diplomatica delle società occidentali; e voi, russi, datemi un corrispettivo concreto, datemi un buon trattato di commercio, datemi delle concessioni per le materie prime, di cui la Nazione italiana ha sommamente difetto.
Se la Russia entra in quest'ordine di idee, se la Russia ci concede quello che noi chiediamo, non vi è dubbio che le trattative attualmente in corso arriveranno ad una felice conclusione.
Non dico e non posso dire che questa conclusione sarà sollecita, perché, vi ripeto, ci sono delle difficoltà di ordine obiettivo inerenti alla situazione generale ed anche alla diversità, sia pure oggi attenuata, delle due economie. Ma il Governo italiano ha la buona volontà di concludere, e, se è vero quello che si è detto da quella parte della Camera che uguale volontà è anche dalla parte dei russi, non vi è dubbio che anche il trattato di commercio italo-russo sarà rapidamente concluso.
Interrompendo un oratore che mi parlava della ricostruzione dell'Europa, ho detto che bisognava cominciare dall'Italia. Mi sono ricordato di una frase di uno degli autori che formò un po' la mia mentalità, parlo di Giorgio Sorel, il quale diceva che prima di interessarsi delle dogane della Cina, si interessava dell'octroi di Parigi.
Ma tutta la politica fatta dal Governo fascista, pur partendo da criteri di utilità nazionale, contribuisce anche a realizzare questo scopo generale di ricostruzione europea. Perché si fanno dei trattati di commercio? Appunto per ristabilire quel tessuto di relazioni economiche che la guerra e le crisi del dopoguerra hanno più o meno profondamente lacerato.
Le due economie, la economia italiana da una parte e la economia russa dall'altra, sono destinate a completarsi.
L'Italia per necessità di cose va verso un potente sviluppo industriale. Chiusa la parentesi jugoslava, io credo che abbiamo le strade aperte, anche d'ordine continentale, verso il Sud Oriente europeo. Stabiliti dei rapporti di normalità con la Russia, avremo aperte le grandi strade del mare.
Ciò, io penso, sarà nell'interesse dei due Paesi.
Roma, 16 dicembre 1923: MUSSOLINI parla ai Fascisti romani.
All'Augusteo, si tenne l'assemblea del Fascio romano. I fascisti sfilarono dinanzi a Palazzo Chigi. MUSSOLINI, udita la relazione dell'assemblea, fatta dall'on. Giunta, pronunziò le seguenti parole:
Fascisti!
La notizia che l'onorevole Giunta mi reca mi allieta, ma non mi sorprende. Io sapevo, ero sicuro, che al disopra degli umani e forse inevitabili dissensi, il Fascismo romano, che è il Fascismo della capitale intangibile, avrebbe ritrovato la sua superba unità di forza e di animi. Questa adunata dimostra che al disopra dei piccoli transfughi e di coloro che sono incoercibili e irriducibili nei loro meschini rancori, il Fascismo rimane una forza formidabile che può permettersi il lusso di sorridere dinanzi a tutte le opposizioni più o meno coalizzate. Io ricevo con lieto animo e con sicura coscienza il vostro giuramento, perché se voi giurate qualche cosa a me, io giuro qualche cosa a voi ed all'Italia; serrate le file e preparatevi a tutte le battaglie perché vogliamo riportare tutte le vittorie. Viva il Fascismo!
Roma, 20 dicembre 1923: MUSSOLINI e le prime basi dello stato corporativo
A Palazzo Chigi ebbe luogo uno storico convegno, presieduto da MUSSOLINI, fra i rappresentanti delle Corporazioni fasciste e quelli della Confederazione dell'Industria, per stabilire quei rapporti fra datori di lavoro e prestatori d'opera da cui doveva sorgere la nuova prassi dell'odierno corporativismo fascista. In tale occasione il MUSSOLIN pronunziò il seguente discorso. In esso MUSSOLINI presentava un ordine del giorno che fu poi discusso e approvato.
Se in questi ultimi tempi non si fosse fatto un uso eccessivo di parole solenni, si potrebbe forse dire che questa riunione ha un'importanza non dirò storica, ma certamente tale da trascendere il semplice fatto di cronaca politico sociale. Non so se ci sian precedenti del genere, se nella nostra storia della Nazione ci sia stata una riunione come quella che avviene oggi in questa sala: la riunione, cioè, di tutte le forze produttive della Nazione, presieduta dal Capo del Governo. Essa è certamente importante, ma a mio avviso è più importante l'ordine del giorno nel quale si riassume quella che si potrebbe chiamare la dottrina economica del Fascismo. Non vi è dubbio che la situazione psicologica delle classi lavoratrici di oggi è mutata. È certo che sulla psicologia delle masse ha influito l'esperimento russo e l'azione fierissima del Fascismo. L'errore del marxismo è quello di credere che vi siano due classi soltanto. Errore maggiore di credere che queste due classi siano in perenne contrasto fra di loro. Il contrasto vi può essere, ma è di un momento e non è sistematico. L'antitesi sistematica sulla quale hanno giuocato tutte le teorie socialistiche non è un dato della realtà. La collaborazione è in atto; si è visto che c'è un limite per il capitale e un limite per il lavoro. Il capitale, pena il suicidio, non può incidere oltre una certa cifra sul dato lavoro e questo non può andare oltre un certo segno nei confronti del capitale.
Siamo in una situazione difficile e bisogna rendersene conto; non possiamo permetterci il lusso di avere dei capricci. Solo un lungo periodo di pace sociale ci rimetterà completamente in piedi. Nei mercati internazionali si lotta accanitamente, ditta contro ditta, economia contro economia. In sintesi siamo in una condizione di inferiorità e dobbiamo lottare perché dobbiamo vivere. Rinunziare alla lotta significa rinunziare alla vita e ciò è impossibile. Affermo che è necessario per l'Italia un lungo periodo di pace sociale. Senza di ciò noi saremo irrimediabilmente perduti nel campo della concorrenza internazionale. La pace sociale è un compito del Governo prima di tutto e il Governo ha una linea di condotta molto esplicita: l'ordine pubblico non deve essere turbato per nessun motivo, a nessun costo. Questo è il lato politico; ma c'è anche il lato economico, quello della collaborazione. Vi sono poi i problemi della esportazione. Essi riguardano particolarmente l'industria italiana che fino ad oggi è stata individualista. È un vecchio sistema che bisogna abbandonare: bisogna costituire il fronte unico della economia italiana, almeno nei confronti dell'estero, come fanno gli altri che hanno un fronte unico finanziario e un fronte unico industriale-economico. Per quello che riguarda l'interno, bisogna eliminare con reciproche intese tutto ciò che può turbare il processo produttivo.
Non vi è dubbio che tutti i dirigenti delle Corporazioni fanno il possibile perché il movimento segua quei criteri di produttività e di nazionalità che sono alla sua base. Non vi dovete stupire se qualche volta la periferia non risponde esattamente al centro, perché il giuoco si svolge sopra un'area vasta e qualche volta gli interessi locali prendono il sopravvento su quelli generali. D'altra parte devo dire però che l'industria e i datori di lavoro devono andare francamente incontro agli operai: la collaborazione deve essere reciproca. Non deve però verificarsi il caso di datori di lavoro che dicono e pensano che ora che c'è il Fascismo si può fare il proprio comodo. Questo no. Anzi ora che c'è il Fascismo, bisogna orientare l'attività dei singoli e dei gruppi in vista di scopi generali, e soltanto generali.
In questo ordine del giorno c'è un riconoscimento concreto. Rossoni non si dorrà se constato che il tentativo del sindacalismo integrale, limitatamente al campo industriale, non è riuscito. E del resto Rossoni ha ben compreso fin dalle prime battute che quel che si può fare, nel campo dell'agricoltura, che ha un'economia speciale, non si può fare nel campo dell'industria, dove il giuoco dell'economia è totalmente diverso. In questo ordine del giorno è constatato che la Confederazione dell'industria deve vivere, prosperare, raccogliere tutti coloro che dell'industria fanno una ragione della loro attività e soprattutto fare di questa Confederazione dell'industria una unità completa, organica, con delle direttive precise e in ispecial modo capaci di costruire quel fronte unico che è la condizione essenziale perché noi possiamo esportare all'estero. Per mettere in pratica le idee, occorre creare un organo di esecuzione. E questo è la commissione permanente di cinque membri della Confederazione e di cinque membri delle Corporazioni, la quale dovrà riunirsi tutte le volte che saranno in discussione questioni di interesse generale, oppure anche soltanto una questione di ordine locale.
Io ho constatato che quando esiste la lealtà reciproca, è possibile discutere e venire a una conclusione. Bisogna considerare gli uomini nella loro realtà e veramente gettare alle ortiche tutto il bagaglio del passato. Bisogna che il sindacalismo operaio e capitalistico si rendano conto della nuova realtà storica: che bisogna evitare di portare le cose al punto dell'irreparabile: bisogna evitare più che sia possibile la guerra fra le classi, perché essa nell'interno di una nazione è distruttiva. Ne abbiamo una esperienza che si potrebbe dire tragica. D'altra parte, al di sopra di quelli che sono contrasti d'interessi umani e legittimi, c'è l'autorità del Governo, il quale è nella condizione propizia per vedere le cose sotto un aspetto generale. Il Governo non è agli ordini degli uni né degli altri. È al di sopra di tutti in quanto riassume in se stesso, non soltanto la coscienza politica della Nazione nel presente, ma anche tutto ciò che la Nazione rappresenta nel futuro. Il Governo ha dimostrato in questi primi quattordici mesi di tenere nel massimo conto le forze produttive della Nazione. Un Governo che segue queste direttive ha diritto di essere ascoltato nell'interesse morale e materiale del Paese.
L'ordine del giorno, concordato dopo le repliche dell'on. Benni per gli industriali e dell'on. Rossoni per le Corporazioni, è il seguente: «-La Confederazione Generale dell'Industria Italiana e la Confederazione Generale delle Corporazioni Sindacali Fasciste; — intendendo armonizzare la propria azione con le direttive del Governo Nazionale che ha ripetutamente dichiarato di ritenere la concorde volontà di lavoro dei dirigenti le industrie, dei tecnici e degli operai, come il mezzo più sicuro per accrescere il benessere di tutte le classi e le fortune della Nazione; — riconoscendo la completa esattezza di questa concezione politica e la necessità che essa sia attuata dalle forze produttive nazionali; — dichiarano che la ricchezza del Paese, condizione prima della sua forza politica, può rapidamente accrescersi e che i lavoratori e le aziende possono evitare i danni e le perdite delle interruzioni lavorative, quando la concordia fra i vari elementi della produzione assicuri la continuità e la tranquillità dello sviluppo industriale; — affermano il principio che l'organizzazione sindacale non deve basarsi sul criterio dell'irriducibile contrasto di interessi tra industriali ed operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere sempre più cordiali rapporti fra i singoli datori di lavoro e lavoratori e fra le loro organizzazioni sindacali, cercando di assicurare a ciascuno degli elementi produttivi le migliori condizioni per lo sviluppo delle rispettive funzioni ed i più equi compensi per l'opera loro, il che si rispecchia anche nella stipulazione di contratti di lavoro secondo lo spirito del sindacalismo nazionale; — decidono: — a) che la Confederazione dell'Industria e la Confederazione delle Corporazioni fasciste intensifichino la loro opera diretta ad organizzare rispettivamente gli industriali ed i lavoratori col reciproco proposito di collaborazione; — b) di nominare una Commissione permanente di cinque membri per parte, la quale provveda alla migliore attuazione dei concetti su esposti sia al centro sia alla periferia, collegando gli organi direttivi delle due Confederazioni, perché l'azione sindacale si svolga secondo le direttive del Capo del Governo-».
Dopo l'approvazione unanime dell'Ordine del giorno, il Duce dichiara chiusi i lavori con le seguenti parole:
È inteso che quest'ordine del giorno è approvato ed è inteso che esso segna una data dalla quale deve dipartirsi un nuovo periodo della nostra storia.
Monterotondo, 23 dicembre 1923: MUSSOLINI interviene nell'inaugurazione della lapide commemorativa della Marcia su Roma.
Il 28 ottobre 1922, le Camicie nere si erano concentrate a Monterotondo; il 23 dicembre 1923 vi si inaugurò una lapide commemorativa. In tale occasione, dopo i discorsi del Sindaco Cav. Del Moro e del Generale Igliori, MUSSOLINI pronunziò le brevi parole che seguono.
Camicie Nere! Popolo di Monterotondo!
Ho voluto, partecipando a questa solenne cerimonia per chiudere degnamente il primo anno delle mie dure fatiche di Governo. Sono passati appena quattordici mesi dai giorni in cui convennero attorno a Roma, marciando da tutte le regioni d'Italia, 100.000 Camicie Nere che erano pronte a tutto dare, a tutto osare. Qui, a Monterotondo, si svolse un'altra pagina della storia e non è senza un profondo significato che il figlio dell'Eroe dei due Mondi, il generale Ricciotti Garibaldi, sia qui presente a questa cerimonia.
Nel 1867, egli, proprio a Monterotondo, aveva il comando di quegli intrepidi garibaldini che puntavano disperatamente su Roma per restituire all'Italia la sua intangibile capitale.
La presenza dell'eroico generale che aveva nel 1867 il comando delle Camicie Rosse sta a significare che tra la tradizione garibaldina, vanto e gloria d'Italia, e l'azione delle Camicie Nere, non solo non vi è antitesi ma vi è continuità storica e ideale.
Invano i nostri avversari si attardano nelle loro piccole manovre: noi abbiamo il dovere di combatterli e il diritto, se sono in mala fede, di disprezzarli. Essi sanno che se la marcia delle Camicie Nere non avesse riscattata la Nazione, molto probabilmente l'Italia sarebbe precipitata nella miseria e nella rovina.
Si dimentica troppo presto in Italia! Ma noi abbiamo il dovere di ricordare! Siamo pronti a stendere la mano all'avversario, purché la mano di questo avversario sia disarmata e ci venga porta con spirito di sincera lealtà.
I fascisti tutti, non solo coloro che hanno le dure responsabilità di Governo, devono essere orgogliosi dell'opera compiuta.
Cittadini di Monterotondo che avete assistito alle gesta delle Camicie Nere, voi oggi potete ripetere il giuramento che i fascisti tutti levano ancora una volta verso il cielo riconquistato della Patria. Questo giuramento dice che per tutti i morti della grande guerra, per tutti i mutilati, per tutti i combattenti, per tutti coloro che alla grande guerra hanno dato del sangue e delle lacrime, per tutti i martiri del Fascismo, giuriamo di essere sempre più degni nel pensiero e nell'opera di questa nostra superba Patria, che dobbiamo avviare ai suoi immancabili gloriosi destini.
Ultima modifica di Admin il Gio 22 Mar 2018, 11:20 - modificato 6 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
Anno - 1924
Roma, 3 gennaio 1924: MUSSOLINI a Capodanno risponde al saluto augurale dell'On. Oviglio.
Roma, 3 gennaio 1924: MUSSOLINI a Capodanno risponde al saluto augurale dell'On. Oviglio.
Con questo breve discorso, pronunziato il 3 gennaio in risposta al saluto augurale dell'On. Oviglio, per la consueta visita di Capodanno dei Ministri e Sottosegretari di Stato, ha inizio l'attività del 1924. È questo uno degli anni più intensi e pugnaci del primo periodo del Regime: in esso il Fascismo fu obbligato a difendersi, nel momento migliore della sua attività elevatrice, da un'ignobile canea calunniatrice intenta a speculare sopra un cadavere; in esso però il Fascismo non interruppe il suo cammino e procedé combattendo, con la visione precisa delle mete da raggiungere. A quest'anno di lotta appartengono infatti alcune delle più alte affermazioni ideali, come il discorso per la Marcia al Cardello e il «-Preludio al Machiavelli-»: al di sopra della lotta politica, al di sopra della calunnia più nefanda, destinata a stroncarsi per la sua stessa ignominia, si riafferma in quest'anno, negli scritti del Duce, la visione luminosa del suscitatore di coscienze, del creatore di civiltà.Colleghi!
Prima di tutto il mio vivo ringraziamento per le parole così vibranti or ora pronunciate dal mio amico Oviglio. E un ringraziamento non meno cordiale a tutti voi che mi siete stati in questa lunga fatica preziosi e devoti collaboratori. Se noi rifacciamo il cammino percorso e stabiliamo quello che si potrebbe dire, in linguaggio contabile, il bilancio della nostra attività politica, non vi è dubbio che esso si chiude con un grande attivo. E lo dico io che sono piuttosto pessimista per natura e non incline al facile ottimismo. Non abbiamo compiuta tutta l'opera: ci vorrà ancora molto tempo. Ma abbiamo preparato tutte le condizioni necessarie e sufficienti perché quest'opera sia compiuta. Già dissi altra volta che la politica non è un'arte facile: è più difficile di tutte le altre, perché lavora la materia più inafferrabile, più oscillante, più incerta. La politica lavora sullo spirito degli uomini che è un'entità assai difficile a definirsi e in ogni caso è mutevole. Sullo spirito agiscono gli egoismi, gli interessi, le passioni. Assommate tutto ciò nella Nazione, e vedrete che lavorare su questo elemento complesso, cioè indirizzare questa massa di uomini verso determinate direzioni, per arrivare a certe mete, non è una cosa semplice: è infinitamente difficile. Si tratta prima di tutto di ristabilire l'idea dello Stato e fissare lo stile del Governo. Abbiamo il merito di aver fatto del Governo una cosa viva, palpitante, operante nel seno della Società Nazionale; non il Governo abulico e amorfo, che si lascia insidiare e insultare in una specie di duello ridicolo per cui l'opposizione sarebbe sacra e intangibile: avrebbe tutti i diritti, mentre il Governo avrebbe l'unico dovere di costituire un comodo e indulgente bersaglio. Dichiaro che questa è una teoria assolutamente suicida e che se in tale teoria si compendia la dottrina del liberalismo, io mi dichiaro nettamente antiliberale. Abbiamo dato una disciplina agli italiani. Non è perfetta, sono io stesso il primo a riconoscerlo. Ma per avere un'idea del cammino percorso, bisogna stabilire dei termini di confronto e vedere che cosa era l'Italia nel '19 e nel '20, che cosa fu nel '21 e '22, che cosa è stata nel '23. Gli episodi sporadici di violenza, che noi deploriamo e reprimiamo con mesi e talvolta con anni di carcere, non si aboliscono in un batter d'occhio, come si presume da taluni. Non bisogna credere che anche prima del 1914 non ci siano stati: non si deve credere che l'Europa prima del 1914 sia sempre vissuta nel latte e miele e che i tempi della violenza coincidano coll'avvento del Fascismo. La storia politica d'Europa, dal '70 al 1914 voi la vedrete tempestata di atti di violenza terribili e individuali e collettivi. Le elezioni scandalose a base di mazzieri — ad esempio — sono nelle cronache politiche dell'Italia prima del 1914. Bisogna introdurre, parlando di disciplina, il criterio del relativo pure tendendo con tutte le forze all'assoluto.
Terzo punto. Non è facile passare da un moto insurrezionale ad una situazione legalizzata: sono dei problemi che mi affaticano, ai quali penso incessantemente quando gli altri dormono. Il problema dello squadrismo, che ora sembra l'uovo di Colombo, non era un problema trascurabile: erano sette od otto organizzazioni a camicie multicolori che passeggiavano più o meno camionalmente per tutte le parti d'Italia. Ognuna di queste formazioni politico-militari era un frammento della autorità dello Stato che andava in rovina. Sopprimere tutti gli squadrismi e lo stesso squadrismo che aveva condotto il Partito Fascista al potere; non uscire dai confini della Costituzione — ed io ho sempre avuto la massima cura di non toccare quelli che sono i pilastri fondamentali dello Stato — o ridurre al minimo le demolizioni perché demolire è facile, ma costruire è difficile: questi sono gli elementi sui quali bisognerebbe meditare senza attardarsi a vedere se nell'ultimo paesucolo, nella giornata di domenica, c'è ancora una rissa, e ricamarvi sopra un pesante capitolo di filosofia della storia. Senza eccessivo orgoglio, noi dobbiamo essere soddisfatti della nostra opera e dobbiamo continuarla. Abbiamo posto le fondamenta. Ora si tratta di costruire l'edificio coi pieni poteri o senza. Sta di fatto che le azioni del Fascismo possono subire delle oscillazioni dipendenti da fenomeni di natura prevalentemente locale, ma ho la coscienza di poter affermare che le azioni del Governo fascista sono in rialzo. Attorno al Governo c'è il consenso delle moltitudini; c'è il popolo italiano, che ci dà ancora nel 1924 tacitamente l'esercizio dei pieni poteri.
Non saprei chiudere questo mio discorso senza rivolgere un pensiero di ammirazione e di gratitudine per il popolo italiano che offre un superbo spettacolo di laboriosità e di disciplina.
Ho la certezza che se noi continueremo a lavorare con quello stesso spirito gagliardo che ci ha sorretto nelle aspre prove del 1923, questo ritmo accelerato della vita italiana diventerà ancora più potente e la ricostruzione nazionale sarà il titolo con cui il Fascismo entrerà gloriosamente e definitivamente nella storia italiana.
Roma, 3 gennaio 1924: MUSSOLINI parla agli impiegati dello stato
Nello stesso giorno, 3 gennaio 1924, S. E. il Capo del Governo ricevette, per la visita d'auguri di Capodanno, i dirigenti delle amministrazioni statali. Per essi parlò il Sen. Pironti, direttore generale dell'amministrazione civile; il Duce rispose nel modo seguente:
Signori!
Ho ascoltato con vera soddisfazione il discorso del senatore Pironti, pronunciato con vigore così giovanile, soprattutto per un riconoscimento contenuto in esso che il clima generale della Nazione è cambiato ed anche il clima morale: di conseguenza lo spirito di coloro che servono lo Stato è profondamente mutato. Siamo tutti servitori della Nazione, a cominciare da colui che vi parla. Dobbiamo avere l'orgoglio sacro di essere i servitori della Nazione. Abbiamo cambiato la mentalità che si era venuta creando in questi ultimi tempi; l'impiegato è un soldato, è un milite che mette tutte le sue energie al servizio dello Stato e della Nazione. Non deve essere considerato come un elemento estraneo, sibbene come parte integrante, essenziale di tutto quel complesso di organismi in cui si attua, in una forma che oserei dire sensibile o fisica, l'idea giuridica dello Stato. È vero quello che ha detto il senatore Pironti, che se molte di queste riforme sono state attuate con la rapidità e la inflessibilità necessarie, ciò lo si deve all'opera devota, assidua, tenace, intelligente di tutta la burocrazia italiana, dai sommi agli ultimi gradi. Di ciò do ampia lode. Di ciò do altissimo riconoscimento in faccia alla Nazione. L'esperienza del 1923 mi autorizza a credere che la vostra opera, sotto ogni aspetto preziosa, sarà continuata per l'anno che incomincia oggi. Sono lieto di constatare che la Nazione non considera più l'impiegato come un perditempo più o meno superfluo che pesa sull'erario. Oggi lo considera come l'elemento indispensabile, come un uomo che qualche volta nell'esercizio del suo dovere tocca le vette dell'eroismo civile. Mi piace di fare questa constatazione parlando a voi oggi, sapendo che le mie parole saranno domani diffuse in tutta la Nazione.
Signori, ora si tratta di continuare con la stessa energia, con lo stesso zelo, con la stessa devozione. Tutti, dal primo all'ultimo. È soltanto camminando su questa strada che arriveremo alla meta che ci è comune: la grandezza e la prosperità della Patria.
Roma, 12 gennaio 1924: MUSSOLINI commemora Francesco Crispi.
Per l'inaugurazione della lapide a Francesco Crispi, fatta in Roma il 12 gennaio 1924. La lapide contiene le seguenti parole, dettate da Enrico Corradini: «MCMXXIV - Roma e l'Italia vittoriosa - governando la forza del Fascio - qui ricordano - Francesco Crispi - ultimo eroe del Risorgimento - primo della grandezza». Dopo le parole del Principe di Scalea, Presidente del Comitato promotore, il Duce pronunciò il seguente discorso:
Signori!
Prendo in consegna questa lapide nella mia qualità di italiano, di fascista e di Capo del Governo. Non solo prendo in consegna questa pietra sulla quale stanno incise delle parole solenni, ma oserei dire che prendo in consegna lo spirito di Francesco Crispi. Forse le più fresche generazioni ignorano che Francesco Crispi è una delle figure dominanti e centrali del Risorgimento italiano. Bisognerebbe metterlo subito accanto ai quattro e fare una pentarchia: con ciò si rispetterebbe la storia.
Francesco Crispi esordisce nel giornalismo; giovanissimo, appena laureato in legge, a diciotto anni, stampa a Palermo un giornale che prendeva nome da un piccolo torrente che deve scorrere nelle vicinanze della città. Era un giornale letterario, ma tutto pervaso da spiriti antiborbonici. Ciò accade nel 1843. Nel 1848 il 12 gennaio Palermo insorse: Crispi partecipa alla insurrezione e di nuovo si dà al giornalismo stampando un giornale che aveva il titolo superbo: Apostolato, fallisce la insurrezione: l'esilio! Durante l'esilio, ancora giornalismo: a Torino un giornale che era diretto dal Valerio, che si chiamava la Concordia: non faceva per Crispi, che passa in un altro giornale diretto dal Correnti: il Progresso. Fa del giornalismo anche a Parigi dove si maturavano i destini d'Europa. E nel 1859 Francesco Crispi prepara la spedizione dei Mille. La prepara lui. La impone lui al generale Garibaldi. Niente di più drammatico del colloquio che si svolge fra Garibaldi e Francesco Crispi. Garibaldi dice: «Mi garantite voi la insurrezione della Sicilia?» e Francesco Crispi risponde: «-Sì, generale! Anche con la vita! Anche con la vita!-».
Notate la mobilità di questo grande ingegno. Nel 1848 diceva: «-Bisogna portare la insurrezione dalla Sicilia al Continente-». Ma la esperienza storica apprende qualche cosa agli uomini di ingegno. Nel 1859 dice: «-Bisogna portare viceversa ora dal Continente la insurrezione in Sicilia-». E portarla in che modo? Anche qui si rivela lo spirito dell'Uomo. Perché era fallita la sommossa del 1848? Perché era incoerente, anonima: perché aveva appena trecento fucili e trecento uomini armati di falcetti e di coltelli.
Perché, viceversa, nel 1860, la Sicilia vince e con la Sicilia tutto il Mezzogiorno? Perché c'è un nucleo di forza armata ed inquadrata a cui dà lo spirito incomparabile di animatore Giuseppe Garibaldi.
Francesco Crispi parte da Quarto, arriva a Marsala, fa tutta la campagna, è il segretario di fiducia di Garibaldi.
Nel 1860 diventa Primo Ministro dell'Interno a Napoli e in brevissimo tempo vara molte leggi che io oggi, a distanza di 60 anni, vorrei dire fasciste; in una di esse prescriveva che i figli dei morti in guerra fossero adottati dalla Nazione.
Ma Francesco Crispi aveva un concetto assai severo dello Stato. Lo Stato sovrano su tutti e contro tutti. Nel suo territorio non c'è nessuna sovranità che sia al di sopra di quella dello Stato. Ciò è molto importante e ciò va ripetuto perché non nascano equivoci. Aveva uno stile di Governo che si rivelava anche nelle piccole cose.
Anticipatore, perché fu un africanista. 22 milioni di italiani allora, oggi 40, anzi 48. Crispi sentiva, presentiva che l'Italia non poteva vivere se non si lanciava sulla strada di un impero coloniale. Il sogno era superbo: forse le spalle di quell'Italia non erano sufficientemente forti per reggerlo. Ho un'impressione vaga di quegli avvenimenti, perché ero ancora giovanetto, ma ricordo che ho sofferto molto per la battaglia di Adua e di più ancora ricordo di aver sofferto per quel movimento per cui invece di chiedere che si continuasse, il popolo italiano, che pure si era battuto eroicamente sulle ambe, finì sotto l'influenza nefasta delle demagogie coalizzate per subire la disfatta che per un ventennio ha pesato sulla storia italiana.
Certamente Crispi è una delle personalità più importanti del secolo scorso: non si pecca di esagerazione affermando che è della statura di Bismarck. Conobbe nella sua vita tutti i momenti: quello dell'attività frenetica, come quando preparò la spedizione dei Mille; conobbe anche le amarezze dell'ingratitudine. Accade sempre che ci sia una coalizione di viltà e di miserie per ferire le anime che si distinguono e si elevano sulla moltitudine.
Per tutto ciò e per altro ancora che richiederebbe più lungo discorso, noi ricordiamo Francesco Crispi. E ricordandolo intendiamo di onorare il popolo italiano, che noi faremo marciare sulle vie della libertà e della grandezza.
Roma, 12 gennaio 1924: Il discorso di MUSSOLINI in occasione della consegna della tessera di mutilato
Nello stesso giorno, 12 gennaio 1924, dopo lo scoprimento della lapide a Francesco Crispi, il Duce ricevette la tessera di mutilato, presso l'Opera Nazionale Invalidi di Guerra. Parlarono il Sen. Lustig e Titta Madia; ad essi il Capo del Governo rispose con le seguenti parole:
Senatore! Commilitoni!
Veramente questa visita era necessaria, perché pur conoscendo le linee generali, lo scopo e l'importanza dell'Opera di assistenza agli invalidi di guerra, essa mi era forse un po' ignota nei suoi particolari, e il discorso del vostro presidente, che ho testé ascoltato con molta attenzione, mi ha dato tutti quei dettagli che erano necessari perché io ne avessi una nozione completa. È un'opera santa, questa, alla quale vi applicate; un'opera nobilissima, un'opera degna di avere tutto il concorso morale e, se sia necessario, materiale del Governo e tutto il concorso morale e materiale del popolo italiano.
Bisogna, a mio avviso, dare delle prove di solidarietà e in modo concreto. Le parole sono bellissime, qualche volta scendono al cuore, vi suscitano dei sentimenti e delle passioni gagliarde, ma l'uomo deve pur vivere: c'è una realtà dura nella vita. Ebbene, bisogna che accanto alle parole ci siano i fatti, che accanto le prove spirituali ci sia la documentazione materiale di questo amore che la Nazione tutta deve per coloro che hanno versato il sangue e sacrificato le loro membra per la sua grandezza.
Io le assicuro, on. Senatore, assicuro voi, mio caro commilitone Madia, e tutti che sono orgogliosissimo di appartenere a questa Associazione, che considero il momento più bello della mia vita quello in cui fui lacerato dalle ferite e che voglio continuare a darvi le prove concrete di questo mio amore profondissimo, che non si può mutare col volgere né degli eventi né delle fortune.
Roma, 14 gennaio 1924: Il discorso di MUSSOLINI in occassione della nuova commissione per il contenzioso diplomatico
Con R. D. 3 gennaio 1924 n. 3 veniva riformato il Consiglio del Contenzioso Diplomatico del Ministero degli Esteri. Il 14 gennaio 1924 S. E. il Capo del Governo insediava il nuovo Consiglio, pronunciando questo discorso, a cui rispose il Vice-presidente, On. Scialoja.
Eccellenze e Signori!
Inaugurando i lavori del nuovo Consiglio del Contenzioso Diplomatico — ricostituito dopo la riforma degli ordinamenti da me preparati — il mio primo pensiero si rivolge, con devoto ossequio, al Conte di Cavour, che, tornando dal Congresso di Parigi del 1856, ammaestrato dalle recenti esperienze, si affrettò ad organizzare uno speciale corpo consultivo per il Contenzioso Diplomatico, dettandone i primi ordinamenti sui quali però rimase perplesso, onde li riesaminò e li riformò nell'anno successivo, con quel R. Decreto del 29 novembre 1857, che ha stabilito le basi fondamentali dell'istituzione. Essa subì molti e vari ritocchi rimanendo immutata nella sostanza fino alla riforma del Mancini del 1883 la quale fu a sua volta riveduta cinque anni dopo da un altro cui non può non rivolgersi il pensiero con commossa reverenza: Francesco Crispi. Gli ordinamenti Mancini-Crispi rimasero in vigore, salvo lievissime varianti, fino allo scoppio del conflitto mondiale. In tali momenti l'on. Sonnino soppresse il Contenzioso col fermo proposito però di riorganizzarlo su nuove basi al termine della guerra. La ricostituzione avvenne soltanto nel 1920, ma il nuovo Consiglio, sia a causa degli avvenimenti internazionali, sia a causa dei suoi non agili ed efficaci ordinamenti, funzionò poco.
La riforma deliberata in questi giorni modifica radicalmente la fisionomia del Consiglio. Ne allarga le basi, accentua la sua natura non esclusivamente limitata al campo giuridico, lo ricolloca nell'ambito dell'attività del Ministro degli Esteri, tende a mantenerlo strettamente in contatto col Ministero per il tramite del Segretario Generale del Ministero stesso. Conserva un organismo più limitato per gli affari urgenti, la Giunta; istituisce il Comitato dei Giuristi per le questioni essenzialmente giuridiche, che non possono efficacemente trattarsi in troppo largo consesso; consente la creazione di speciali Comitati, integrando le organizzazioni permanenti con l'aggregazione ad esse di esperti per problemi speciali; rafforza infine il segretariato, facendone un organismo consultivo quotidiano degli affari del Ministero. Il funzionamento agile di tali speciali congegni, in coordinamento con quello del Consiglio plenario, mette il Ministro in condizione di servirsi tutte le volte che sia necessario del Consiglio stesso, chiamando a collaborare ad esso i più autorevoli cultori dei problemi internazionali, con evidente utilità per quanto riguarda la preparazione degli affari.
Larga, vasta, importantissima, è dunque l'opera che dal Consiglio si attende. Rafforzandolo, facendone l'organismo fondamentale consultivo del Ministero degli Esteri, io conto di servirmene proficuamente, e non poco, nel mio arduo compito.
Eccellenze e Signori, la riforma attuata ritorna largamente al passato.
Trae dagli ordinamenti di Cavour, di Mancini, di Crispi, quanto apparve utile di conservare e inquadra tali norme in un ordinamento più largo, più complesso e, credo, più vitale. È mio intendimento che l'Istituto torni al passato anche nelle sue nobilissime tradizioni di attivo lavoro, e di alta autorità, fin da quando, cioè, mosse i primi passi sotto la sapiente guida del Conte di Cavour, negli anni definitivi e conclusivi del Risorgimento italiano.
È con tali auspici e con tali intendimenti che io dichiaro oggi insediato il ricostituito Consiglio del Contenzioso Diplomatico e rivolgo ai suoi autorevolissimi componenti il mio deferente saluto.
Roma, 15 gennaio 1924: MUSSOLINI parla nell'occassione dell'apertura dei lavori del nuovo anno giuridico del Consiglio di Stato.
Il 15 gennaio 1924 venivano inaugurati in Roma, a Palazzo Spada, i lavori del nuovo anno del Consiglio di Stato. In tale occasione, il Capo del Governo pronunciò questo discorso, a cui rispose l'on. Perla, Presidente del Consiglio di Stato.
Eccellenza e Onorevoli Signori!
Ho voluto portare personalmente nella solennità odierna la mia parola che è di saluto augurale e di conferma del profondo rispetto che il Governo tributa a questo Alto Consesso.
È ben noto quale immane lavoro il Governo ha dovuto compiere nell'anno ora trascorso, per stabilire l'ordine e la disciplina sociale nell'interno, onde costituire un ambiente di pace propizio allo svolgersi delle attività produttrici, e per sollevare il prestigio dell'Italia all'estero.
Esso ha voluto che il ristabilimento pieno dell'autorità dello Stato fosse accompagnato da una revisione di tutti gli Istituti amministrativi e giuridici, affinché quello spirito rinnovatore che aveva portato il Fascismo al potere si trasfondesse in tutto l'ordinamento dello Stato, al quale si è cercato, in un anno, di dare una organizzazione più che sia possibile corrispondente alla funzione che deve compiere in questo periodo storico e alle reali necessità politiche e sociali del Paese.
Accanto alla vasta riforma finanziaria, accanto all'opera di semplificazione di tutti gli organismi centrali e al nuovo ordinamento burocratico, accanto alla riforma della scuola e a quella giudiziaria, sta quest'altra non meno ampia e importante dell'amministrazione degli enti autarchici, nelle quali il Governo ha portato unità di pensiero e di metodo.
Questo eminente collegio che è completamente dell'organismo politico-amministrativo dello Stato, non poteva non richiamare l'attenzione del Governo. E il Governo volle che il Consiglio di Stato fosse rinvigorito e restituito all'integrità della sua originaria funzione di organo della consulenza giuridica, che sa, nel miglior modo, garantire regolarità e maturità negli atti più gravi della pubblica amministrazione, e coordinare sotto principi comuni e unitari gli atti giuridici più importanti, che più da vicino interessano la vita dello Stato.
Le riforme che il Governo ha avuto l'onore di sottoporre all'augusta firma di S. M. il Re, sono adeguate appunto a questi principi.
Ma il Governo, a cui è preposta la ricostruzione di uno Stato forte e capace nell'organismo e pronto ed efficace nell'azione, non è rimasto insensibile al bisogno, generalmente sentito, di un riordinamento dell'altra elevatissima funzione del Consiglio, che è quella della giustizia amministrativa.
Gravi erano i problemi, che su questo argomento agitavano la dottrina e la giurisprudenza, dopo che l'una e l'altra riconobbero indole giurisdizionale alla nuova forma di giustizia nella amministrazione instaurata da Francesco Crispi e da Silvio Spaventa.
Si voleva un tribunale supremo amministrativo. Ma data l'indole speciale di giustizia che esso deve rendere, non è possibile concepirlo come organo separato ed estraneo all'amministrazione, senza menomare o indebolire la libertà e la responsabilità del potere esecutivo.
La riforma, testé deliberata, risolve l'arduo problema, unificando la competenza delle sue sezioni giurisdizionali, e formando di esse l'invocato tribunale supremo, che è lo stesso Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale.
Era anche grave il disagio, nel quale si svolgeva la funzione di giustizia amministrativa per l'attrito prodotto dal concorso della giurisdizione amministrativa e di quella giudiziaria nella revisione, pur sotto diversi aspetti, dello stesso atto amministrativo. Quest'altro grave problema, la riforma ha cautamente risolto, rispettando i principi fondamentali dell'ordinamento giurisdizionale generale, ma introducendo in pari tempo le deroghe strettamente necessarie per dare alla giurisdizione amministrativa quella pratica efficienza che le leggi precedenti non interamente le consentivano, con risultato, anche di semplificazione, di acceleramento e di economia dei giudizi.
Il Governo nazionale fascista, con queste sostanziali riforme, ha corrisposto a sentiti e reali bisogni pubblici, ma ha anche reso omaggio alla sapienza e alla prudenza del supremo collegio amministrativo dello Stato, mai smentite dalla sua istituzione, e dal quale si attende l'immancabile ausilio del saggio consiglio nell'opera non meno grave che resta da compiere, relativa all'applicazione delle riforme deliberate, in vista d'un'Italia meglio ordinata per svolgere ed affermare le sue grandi inesauribili giovani forze morali e materiali.
È con questi auspici che io formulo i migliori auguri per il vostro lavoro, che sarà, ne sono certissimo, come quello di tutti noi, ispirato dall'ardente amore per la nostra Patria.
Roma, 27 gennaio 1924: MUSSOLINI parla al Congresso del Sindacato Nazionale della stampa.
Per l'inaugurazione del Congresso del Sindacato Nazionale della Stampa, il 27 gennaio 1924, in Roma, in risposta al discorso del Presidente del Comitato Ordinatore, On. Roberto Forges Davanzati.
Colleghi! Signori!
Vi parlo non come Capo del Governo, ma come giornalista che ha vissuto tutta la gamma delle emozioni giornalistiche, che ha vissuto tutte quelle che si chiamano le battaglie giornalistiche, che ha conosciuto la trepidazione di leggere attentamente la «piccola posta» per sapere se l'articolo sarebbe stato o no pubblicato, che ha conosciuto anche il grande orgoglio di sentire che attorno ad un giornale si scatenavano le grandi e nobili passioni di un intero popolo.
Ben fate a giustiziare certo professionalismo amorfo, ambiguo, senza spina dorsale, mortificatore dello spirito. Le idee non sono dei cappelli che si appendono nell'anticamera. Non si può dire: «-io entro qui e non ho più le mie idee-». Le idee sono la parte essenziale della vita di un uomo e quel professionalismo che intendeva di annullarle, in realtà lo faceva, perché, come abbiamo visto, il professionalismo era una specie di passaporto e di maschera per poter compiere al riparo un'azione di sabotaggio e di disgregazione. Basta di questo professionalismo, che è indegno di uomini veramente liberi.
Voi costituite un Sindacato della Stampa. Farete bene a mettere nel vostro Sindacato quelli che sono i collaboratori più diretti del giornale: gli operai tipografi. Così la famiglia è perfetta. I rapporti fra giornalisti ed operai sono sempre corretti, cordiali, fraterni: bisogna renderli ancor più fraterni. Bisogna chiamare questi operai, elevarli, renderli partecipi delle nostre battaglie e del nostro destino.
Certamente, fra tutti quelli che si possono chiamare i prodigi della nostra civiltà, forse troppo meccanica, il giornale tiene il primo posto. Il giornale è in realtà lo specchio del mondo. Sul giornale, come sopra una grande strada, passa tutto quello che accade nel vasto genere umano: dalla politica altissima al fattaccio di cronaca. È quindi bene ripetere che la cosiddetta «-libertà di stampa-» non è soltanto un diritto: è un dovere! È bene ripetere che oggi una semplice notizia di un giornale può essere apportatrice di danni incalcolabili alla Nazione, sia essa vera, sia essa tendenziosa. Se si vuole, come si vuole, che il giornalismo sia una missione, ebbene, ogni missione è accompagnata irrevocabilmente da un senso altissimo di responsabilità. Al di fuori di qui non c'è missione, ma c'è mestiere.
Bisogna avere coraggio, signori, di fare giustizia di tutti questi luoghi comuni. Luoghi comuni che sono degli inciampi, che sono delle mistificazioni e che appartengono a un complesso di manovre con le quali si vorrebbe truffare la nostra Rivoluzione, che è la Rivoluzione del Fascismo e delle Camicie Nere.
Dopo di che permettetemi, come collega, che io vi rechi il mio saluto cordialissimo, insieme con l'augurio di buon lavoro e di un'attività feconda di risultati. E permettetemi che, come Capo del Governo, io accolga l'alto auspicio testé elevato con mirabili parole da un vecchio e provato combattente della causa nazionale.
Sì! La grande Italia che noi abbiamo sognato sta forgiandosi. E se la disciplina sarà ferma, se la passione sarà pura, l'Italia sarà sempre più grande!
Roma, 27 gennaio 1924: MUSSOLINI parla dopo la firma d'accordo fra Italia e Jugoslavia.
Nello stesso giorno, 27 gennaio 1924, S. E. il Capo del Governo, in seguito alla firma degli accordi fra l'Italia e la Jugoslavia, offerse un pranzo a Palazzo Venezia agli On. Pasic e Nincic. In tale occasione il Duce pronunziò questo discorso, e l'on. Pasic rispose con le seguenti parole: «-Signor Presidente, in questo solenne giorno nel quale abbiamo concluso e firmato l'alleanza di pace tra i nostri due popoli vicini, permettetemi, o illustre Uomo di Stato, di presentarvi i miei ringraziamenti e in pari tempo esprimervi la mia gratitudine per il Popolo Italiano, che volle venire a salutarmi durante il mio viaggio e ad esprimermi i suoi voli per il successo della nostra missione. «-Noi desideriamo che il Trattato d'amicizia e di pace che abbiamo concluso nella gloriosa ed eterna Città di Roma rimanga un atto storico, che affermerà la pace e l'amicizia perpetuata tra i nostri due popoli e che servirà allo sviluppo dei loro rapporti commerciali e al riavvicinamento culturale come pure al mantenimento della pace mondiale, ottenuta dopo tanti sacrifici comuni.
«-Io levo il mio calice alla salute e alla felicità di S. M. il Re Vittorio Emanuele III, alla felicità e prosperità del Popolo Italiano e alla Vostra felicità personale, Signor Presidente, eminente rappresentante del vostro Popolo-».
Signor Presidente!
Le attestazioni di simpatia cordiale che il popolo italiano Vi ha spontaneamente tributato durante il Vostro viaggio dalla frontiera a Roma, Vi dimostrano, più delle mie parole, quali sono in questo momento i sentimenti della mia Nazione nei confronti Vostri e del Vostro Paese, il viaggio che avete con mirabile resistenza giovanile intrapreso, il Vostro omaggio al Milite Ignoto Italiano e soprattutto i patti che noi abbiamo — qui in Roma — solennemente firmato, hanno suscitato la più grande soddisfazione in tutta Italia.
I nostri accordi chiudono un periodo nella storia tormentosa del dopoguerra e ne aprono un altro. Una saggia valutazione degli interessi reciproci ci ha condotto a realizzare una intesa che abbraccia tutte le relazioni fra i due Paesi e le rende feconde ai fini dello sviluppo crescente dei nostri popoli, la cui collaborazione economica, politica, spirituale, costituisce un elemento essenziale per la pace europea.
Vogliate, Signor Presidente, gradire l'attestazione profonda della mia personale simpatia e permettere che io levi l'augurio per la salute del Vostro Sovrano e per la prosperità e l'avvenire della Vostra Patria.
Roma, 28 gennaio 1924: MUSSOLINI parla all'assemblea del Partito Nazionale Fascista
La Camera dei Deputati viene sciolta per rendere possibile un plebiscito che dimostrasse il reale sentimento del popolo italiano, di fronte al nuovo Regime, basato su la forza, sì, ma anche sul consenso. All'indomani dello scioglimento, iniziandosi la nuova campagna elettorale - particolarmente significativa perché era la prima attuata in Regime Fascista - si adunò in Roma, il 28 gennaio 1924, nella Sala del Concistoro a Palazzo Venezia, la grande Assemblea Fascista. Erano passati quindici mesi dalla Marcia su Roma, e il Duce, in tale occasione, pronunciò il seguente discorso:
Il discorso che ho l'onore di pronunziare dinanzi a voi potrà apparirvi piuttosto arido, poiché la materia che imprendo a trattare mi ha sempre scarsamente interessato durante la mia vita politica. Aggiungo, a scanso di illusioni comiziali, che non pronunzierò altri discorsi di genere elettorale dopo questo nei prossimi due mesi che io segno già con «-nigro lapillo-», perché li considero fra i più mortificanti della mia vita. È bastato l'annunzio elettorale perché affiorasse alla superficie tutto quanto di più torbido, di più vanitoso e di più imbelle fermenta negli spiriti. Di ciò ho disgusto profondissimo. Non bisogna sopravalutare quella che si chiama la battaglia delle urne. Ma errerebbe chi volesse svalutarla. Troppo la lotta che comincia da questa sera è squisitamente politica. Deve essere quindi ingaggiata con la massima serietà, perché potrebbe avere, a seconda dello sviluppo degli avvenimenti, conseguenze di grande portata. Bisogna accingersi a questa «-corvée-» elettorale con disciplina e con senso di responsabilità. Anche le «-corvées-» erano necessarie prima, durante e dopo le battaglie, quando o si pulivano i camminamenti o si rifornivano di munizioni le linee o si portavano le plance per i ricoveri o i reticolati per le trincee.
A quindici mesi di distanza dalla Marcia su Roma, noi dobbiamo esaminare la situazione del Paese; né mi sembra superfluo gettare anche uno sguardo su quella che è la situazione europea.
Ci sono, a proposito del Partito, alcune cose sulle quali intendo soffermarmi domani sera, in separata sede, in più raccolta assemblea e presenti coloro che, come segretari provinciali, hanno la responsabilità massima del buono o cattivo andamento dei Fasci nelle loro provincie. Il travaglio del Partito durante tutto l'anno 1923 è stato formidabile. Oggi che la parola non suscita più emozione si può dire che, sia pure a scaglioni e sia pure in successione di tempi, tutto il Partito è stato sciolto e quindi ricomposto. Sintomatico e confortante è il fatto che questo complesso travaglio di trasformazione non abbia diminuito la efficienza politica del Partito pur determinando degli alti e dei bassi nelle situazioni locali. Quella che si potrebbe chiamare «intelligente selezione del Partito» non ha dato ancora i suoi frutti, perché qua e là permangono crisi locali più o meno importanti: ma li darà. Ci sono però dei luoghi comuni che devono essere tolti immediatamente dalla nostra circolazione. Bisogna dire senza eufemismi che la mania del purismo e del diciannovesimo, a base di vecchie guardie, di fascismo della prima ora o della ventiquattresima, è semplicemente ridicola.
Il veteranismo in un movimento che avrà, soltanto fra due mesi, e cioè il 23 marzo 1924, appena cinque anni di vita, pur avendo riempito in sì breve lasso di tempo tanta parte della storia d'Italia, e si potrebbe dire del mondo, il veteranismo, dicevo, non ha alcuna giustificazione. I fascisti della prima ora erano letteralmente poche diecine. Al Congresso di Firenze, che si tenne nell'ottobre dell'infausto 1919, i Fascisti rappresentanti di tutta Italia non arrivavano a 40. Finiamola, dunque, coi fascisti della prima e dell'ultima ora: questo criterio non può bastare e non basta nella pratica dei casi a distinguere i migliori dai peggiori. Così pure deve essere bandito il concetto del purismo fascista, del quale sarebbero banditori e portatori certi spiriti privilegiati, specie di asceti frigidi e incorrotti della politica. Certo puritanesimo è altamente sospetto. Non è la prima volta che accade, strappando la maschera, di trovare invece che il volto dell'apostolo, la faccia ambigua e sorniona del mistificatore.
Un altro punto sul quale conviene fermare il discorso è l'antitesi che si vuole creare tra Fascismo e Mussolinismo. Io mi spiego il fenomeno, ma dichiaro che non lo accetto. Me lo spiego, dicevo, pensando che questi mussoliniani si dividono in due categorie, una delle quali, quella in mala fede, supera di gran lunga l'altra dei mussoliniani in buona fede. In realtà il Mussolinismo dovrebbe essere per certa gente una specie di viatico e di passaporto per poter in un primo tempo combattere Mussolini, il quale da persona discretamente dotata di esperienza politica, diffida di questi Mussoliniani e dichiara che il più deciso degli anti-mussoliniani è Mussolini. Certi dissidenti sono pregati di non abusare più oltre del mio nome.
Davanti a questa Assemblea è altresì necessario sfatare diverse leggende attorno alle quali si fantastica, specialmente in provincia: la leggenda, ad esempio, dei reticolati che circonderebbero la mia persona per impedirmi ogni contatto col mondo fascista in ispecie, e col mondo esterno in genere. Questa favola dei reticolati è di una stupidità desolante. Durante quindici mesi posso dire che a Palazzo Chigi è passata tutta Italia in quella che è la sua espressione politica ed amministrativa. Sono venute da me Commissioni a centinaia, migliaia di rappresentanti di tutti i ceti e di tutti i valori professionali della Nazione. Mi vanto di non aver respinto nessuno, nemmeno quelli che venivano a parlarmi di cose assolutamente personali o ad espormi questioni di una evidente futilità.
Con quella dei reticolati va smontata l'altra favola che consiste nel dipingermi come un buon dittatore che sarebbe tuttavia circondato da cattivi consiglieri, dei quali subirei la misteriosa e nefasta influenza. Tutto ciò, prima ancora di essere fantastico, è idiota. Una ormai lunga esperienza sta a dimostrare che io sono individuo assolutamente refrattario a pressioni di qualsiasi natura. Le mie decisioni maturano, spesso, di notte, nella solitudine della mia vita piuttosto arida perché scarsissimamente socievole. Quelli che sarebbero i cattivi consiglieri del buon tiranno sono cinque o sei persone che vengono da me tutte le mattine al quotidiano rapporto per farmi conoscere tutto quanto succede in Italia, dopo di che se ne vanno. Questo rapporto, salvo casi eccezionali, non dura mai più di mezz'ora. Ad ogni modo devo dichiarare che a questi che sono i collaboratori più diretti della mia fatica quotidiana e che specialmente spartiscono con me il pane salato della diretta responsabilità del Governo Fascista, esprimo qui in vostra presenza tutti i sensi della mia amicizia e della mia gratitudine.
In questi ultimi tempi si è parlato ancora di illegalismo e di ritorno alla normalità assoluta. Bisogna avere il coraggio di dire che l'illegalismo di cui si parla, pur essendo ormai ridotto a proporzioni minuscole e sporadiche e pur dovendo i fascisti obbedire ai moniti del Partito per finirlo, sarebbe definitivamente scomparso se non fosse provocato da certa opposizione incosciente e criminale, e se la cronaca non fosse troppo spesso costellata da agguati e da uccisioni in cui cadono ancora una volta i Militi fascisti, come in questi giorni è avvenuto in Piemonte, in Toscana ed in Sardegna.
Quanto alla normalità bisogna intenderci. Se la cosiddetta normalità costituzionale deve, come sembra, risolversi in una gigantesca truffa all'americana ai danni del Fascismo sino a farne qualche cosa di incolore e di insapore, senza più rispondenza nell'animo delle nuove generazioni, senza più capacità di ripercussioni nel mondo, dichiaro che questa normalità non è nei miei gusti e non è nei miei scopi.
Se, per spiegarmi chiaro, per normalità si intende lo scioglimento della Milizia che non è di Partito, ma è nazionale e che deve servire a tenere a bada tutti coloro che abbiamo risparmiato, dichiaro fin da questo momento che non cadrò mai vittima di questo trucco della normalità, che non per nulla è avanzato dai signori della opposizione costituzionale, i quali devono essere considerati tra i più pericolosi e i più torbidi nemici del Governo e del Partito Fascista. Tanto più che tale richiesta di un ritorno alla normalità si associa a lamentazioni che noi conosciamo: lamentazioni funerarie per la libertà che sarebbe calpestata dalla mia bieca tirannia. Conosco molti Paesi dove queste lamentazioni per le libertà conculcate sarebbero pienamente giustificate.
La Rivoluzione fascista non si è inghirlandata con sacrifici di vittime umane: non ha creato finora tribunali speciali: non c'è stato crepitio di plotoni di esecuzione. Non si è esercitato il terrore, non si sono promulgate le leggi eccezionali. Così dovevasi fare; ma sarà forse per questo che diecine e diecine di latitanti, i quali parevano scomparsi dalla circolazione, oggi rispuntano sotto le specie più diverse nelle riviste, nei giornali, nella diffamazione sotterranea, nella congrega segreta, nella vociferazione clandestina ed anonima. Nessuna di quelle libertà che lo Stato assicura ai cittadini è stata manomessa. Naturalmente il Governo si vale dei suoi poteri per prevenire e reprimere non le manifestazioni della libertà contemperata dalla disciplina, ma le espressioni di una licenza che il Fascismo non può tollerare e che io non tollererò mai.
A coloro che vorrebbero che il Fascismo si svirilizzasse e procedesse per la strada con le braccia ricolme di ramoscelli di ulivo, io metto sotto gli occhi la lista di tutte le aggressioni consumate in questo mese a danno dei farcisti:
6 gennaio 1924, Caltanissetta. — A Villarosa, durante una dimostrazione contro il Commissario prefettizio, vennero esplosi vari colpi di arma da fuoco contro i Militi accorsi per prestare man forte ai due soli carabinieri presenti.
7 gennaio 1924, Treviso. — Nella frazione Frangemeo di Gaiarine un gruppo di comunisti armati aggredì e percosse per la pubblica via principale un decurione della Milizia e poi cinque fascisti. Da ambo le parti vi furono feriti per colpi di rivoltella esplosi. Indi gli stessi comunisti recatisi alla abitazione di un altro fascista lo percossero a sangue, producendogli contusioni e ferite in tutto il corpo con prognosi riservata.
11 gennaio 1924, Pisa. — In Asciano ignoti lanciarono contro la sede del Fascio una bomba che esplose producendo rottura di vetri senza altre conseguenze.
13 gennaio 1924, Spezia. — In Falcinelle di Sarzana un sovversivo, per odio politico, sparò un colpo di rivoltella contro un fascista diciassettenne producendogli gravi lesioni al viso.
14 gennaio 1924, Alessandria. — In Antignano d'Asti alcuni sconosciuti spararono colpi di rivoltella contro l'abitazione di un fascista che vi si trovava insieme ad alcuni compagni.
15 gennaio 1924, Modena. — Nella località Cetro di Montese alcuni socialisti, precedentemente invitati ad uscire da un pubblico esercizio per l'orario di chiusura, aggredirono tre fascisti ferendoli con corpi contundenti e lanciarono mattoni contro l'esercizio.
15 gennaio 1924, Sondrio. — In Chiavenna, durante la notte, ignoti lordarono lo stemma del Fascio ed affissero striscie contenenti invito all'allontanamento di quel R. Commissario.
15 gennaio 1924, Milano. — In Legnano alcuni sovversivi spararono un colpo di rivoltella, senza conseguenze, contro un gruppo di fascisti.
18 gennaio 1924, Alessandria. — A Cisterna di Asti, dopo un comizio contro l'Amministrazione comunale, furono aggrediti alcuni fascisti, dei quali uno rimase ferito da un colpo di rivoltella ed un altro da arma da taglio.
20 gennaio 1924, Torino. — Ad Inverno Pinasca alcuni fascisti vennero fatti segno a colpi di arma da fuoco da sovversivi appiattati. Rimase ucciso un fascista ed altri due gravemente feriti.
21 gennaio 1924, Lucca. — In Gragnano alcuni fascisti furono fatti segno a due colpi di fucile da uno sconosciuto datosi alla fuga. Rimasero feriti due fascisti.
21 gennaio 1924, Roma. — Nella località Ponte Colemindo di Rieti due militi della M. V. vennero fatti segno a quattro colpi di arma da fuoco da un gruppo di sovversivi che, identificati, furono arrestati
25 gennaio 1924, Cagliari. — Sulla strada provinciale di Serrenti Samassi è stato rinvenuto assassinato a pugnalate il fascista Salvatore Talloru presidente della sezione mutilati. Il Talloru pare sia stato ucciso in paese e trasportato sulla strada provinciale ed abbandonato.
E passo alla seconda parte del mio discorso. Qualcuno si è meravigliato come io non abbia chiesto la proroga dei pieni poteri sapendo che io avrei potuto averli con facilità: appunto per questo. Non è nel mio costume chiedere ciò che si può ottenere senza sforzo, né prorogare situazioni storiche una volta che siano storicamente liquidate.
Se un anno di esercizio di pieni poteri, durante il quale si tennero ben 77 Consigli dei Ministri, non mi avesse permesso di portare a realtà le riforme che costituivano il bagaglio dottrinale del Partito Fascista, io avrei chiesto la proroga dei pieni poteri: ma sta di fatto che durante l'esercizio dei pieni poteri, il Governo fascista non ha perduto il suo tempo: ed esso ha profondamente rinnovato tutta la compagine della Nazione: ha profondamente riformato le istituzioni militari, ha sistemato gli ufficiali usciti dall'Esercito, i combattenti venuti dalle trincee, i mutilati e gli invalidi che nelle trincee stesse avevano lasciato brandelli delle loro carni. Il Fascismo ha rinnovato radicalmente gli ordinamenti delle amministrazioni civili, dei servizi pubblici, degli esteri, dell'economia nazionale, ecc.
I risultati di questo enorme cumulo di riforme, che in sintesi costituiscono una rivoluzione grandiosa, si vedranno in tutta la loro plasticità fra qualche tempo. Ma già voi vedete che tutto il ritmo della vita italiana si è accelerato. La ragione fondamentale, dunque, della rinunzia alla richiesta di proroga dei pieni poteri è nella constatazione che l'opera è bene avviata e che ormai non è più possibile tornare indietro. C'è qualche cosa in Italia che è morto e ben morto.
Va da sé che rifiutandomi di chiedere questa proroga, io non potevo più oltre prolungare la vita d'una Camera la cui maggioranza era ostile a me ed al Fascismo, di una Camera che veniva considerata come una specie di ultima trincea nella quale si erano nascosti tutti i nemici della nostra rivoluzione. Ci sono ancora in tutto il territorio dei centri di infezione, degli uomini che credono di essere immutabili, dei piccoli gruppi di vespe che si illudono che io li abbia dimenticati. Di quando in quando do prova che anche i dettagli non sfuggono al mio controllo. Così era urgente a mio avviso di buttar fuori dalla comoda trincea di Montecitorio tutti quelli che vi si erano annidati. In secondo luogo dovevo dimostrare che il Fascismo non temeva di rivolgersi direttamente al Paese per avere un'attestazione consensuale, quantunque la forza di cui gode il Fascismo sia di per se stessa una espressione inequivocabile di consenso. Così avvenne fra la sorpresa generale che io rinunciassi ai pieni poteri, mentre avrei potuto tranquillamente ottenerli. Fin da quei giorni considerai come ineluttabile lo scioglimento della Camera. Il fatto che a metà dicembre, scrivendo al collega Carnazza, io abbia detto che la cosa non era ancora decisa, deve essere considerato come un accorgimento tattico dovuto al desiderio di non mettere anzi tempo in stato di eccitazione elettorale il Paese, considerato che questo staio di eccitazione spesso si riduce ad una specie di masturbazione solitaria a base di ambizioni deluse e di sedicenti ideali infranti.
Non sono mancati in queste ultime settimane i soliti zelatori della costituzionalità i quali si domandavano: «Il decreto di scioglimento verrà prima o dopo l'Assemblea fascista?» Io ho dimostrato ancora una volta coi fatti che so scindere l'azione e la responsabilità di Partito dall'azione e dalla responsabilità di Governo. Il Fascismo ed il Governo sono tutto uno; ma le loro funzioni, e quindi le loro responsabilità sono necessariamente diverse.
Oggi, davanti allo scioglimento della Camera, si impone il problema della nostra strategia elettorale. Prima di tutto diamo uno sguardo alla situazione dei Partiti in Italia.
All'Estrema Sinistra ci sono delle minoranze rumorose e trascurabili. I diversi Partiti socialisti, con le inevitabili loro frazioni e tendenze, non possono costituire una seria minaccia per noi ed un serio impedimento alla nostra vittoria. È da augurare ad ogni modo che essi facciano blocco: che essi rinnovino ancora una volta sul terreno elettorale quella Alleanza del lavoro che il Fascismo stroncò nell'agosto del 1922, ultimo tentativo sovversivo in grande stile compiutosi in Italia a due anni di distanza dalla occupazione delle fabbriche: il che dimostra come non sia vero che il Fascismo sia venuto a reprimere il bolscevismo in ritardo e quindi senza gloria.
Esclusi i Partiti di sinistra, che noi combatteremo col vecchio vigore delle Camicie Nere, restano tutti gli altri Partiti più o meno costituzionali: ebbene, a proposito di costoro la posizione politica del Fascismo è stabilita da quanto ho il piacere di leggervi e che costituisce la prima parte dell'ordine del giorno che sarà certo, credo io, approvato domani dal Consiglio Nazionale:
Il Partito Nazionale Fascista per le sue origini, per i suoi metodi, per i suoi scopi ed anche per la sua esperienza vissuta dal 1921 in poi, respinge nettamente ogni proposta di alleanza elettorale e meno ancora politica, con vecchi Partiti di qualsiasi nome e specie, anche perché il loro atteggiamento non è stato mai univoco nei confronti del Partito e del Governo Fascista; decide tuttavia, in conformità coi suoi metodi, di includere nella lista elettorale uomini di tutti i Partiti, ed anche di nessun Partito, i quali per il loro passato, specie durante l'intervento, la guerra ed il dopoguerra o per le loro eminenti qualità di tecnici, di studiosi, siano in grado di rendere utili servigi alla Nazione.
Questa dichiarazione è di una logica impeccabile ed è di una perfetta coerenza. Se dall'ottobre del 1922 ad oggi non ci fossero stati cambiamenti nella situazione politica dei Partiti, il Fascismo avrebbe potuto considerare la possibilità di accordi o di blocco con quei partiti che diedero i loro uomini al Governo sorto dopo la Marcia su Roma. Quei Partiti sono tre: il Partito Popolare, il Partito Democratico-Sociale ed il Partito Liberale. Ognuno di questi tre Partiti, nel corso della esperienza fascista, si è scisso in due o diverse frazioni. Primo a passare all'opposizione, in questi ultimi giorni compiutamente smascherata, è stato il Partito Popolare, il quale, oggi si presenta diviso in ben quattro frammenti che corrispondono ad una estrema destra, ad una estrema sinistra e ad un centro che a sua volta e diviso in due frazioni.
Anche la democrazia sociale non ci presenta una impronta di atteggiamenti nei confronti col Fascismo.
Altrettanto dicasi del Liberalismo. Come si può parlare di contatti e di alleanze con Partiti che hanno la loro organizzazione divisa fra elementi favorevoli al Fascismo ed elementi più o meno decisamente contro il Fascismo? Quali sono i veri democratici sociali? Quelli che appoggiano il Governo Fascista o gli altri che sabotano questo appoggio? E chi sono gli autentici liberali? Quelli che hanno marciato con noi francamente e lealmente, oppure quelli che per quindici mesi, quotidianamente, diabolicamente, hanno suscitato fantasmi, hanno esasperato le opposizioni, hanno diffamato l'Italia in faccia al mondo? E quale è la distribuzione di tutte queste forze sul territorio nazionale? Come si può parlare di alleanze con dei Partiti la cui distribuzione di forze sul territorio è assolutamente disuguale, poiché mentre il liberalismo è discretamente efficiente in talune zone, non è mai arrivato a darsi una organizzazione veramente e nazionalmente unitaria avvalorando la tesi secondo cui organizzazione e liberalismo sono elementi necessariamente, irreducibilmente inconciliabili?
Accoglieremo quindi, al di fuori, al di sopra e contro i Partiti, nelle nostre file, tutti quegli uomini che sono disposti a darci la loro attiva disinteressata collaborazione, restando bene inteso che la maggioranza dev'essere riservata al nostro Partito.
Né vale la pena di disputar attorno a nominalismi privi di senso, come la transigenza e la intransigenza. Siamo di una coerenza che si può veramente chiamare perfetta, perché siamo sulla linea che promana dal modo di governo imposta con la entrata vittoriosa delle Camicie Nere in Roma: la costituzione del Governo Fascista al di fuori di tutti i Partiti e al di fuori di qualsiasi designazione di ordine parlamentare. Bisogna ricordare che allora io mi rifiutai di fare un Governo, non dico dittatoriale di pochissimi elementi, non dico composto in totalità di fascisti, ma feci un Governo di coalizione e fummo allora così spregiudicati in questo nostro criterio di utilizzare gli uomini, che taluni elementi del vecchio Governo entrarono a far parte del nuovo e, aggiungo, che di essi non ho avuto a dolermi. La nostra intransigenza non è formale, è sostanziale; e a questa intransigenza sostanziale, che io chiamerò strategica, non rinunceremo mai.
Se mi fosse concesso di chiudere in sintesi quello che sembra il dato fondamentale di questi ultimi tempi, io direi che essi segnano il declino fatale ed inevitabile di tutte le dottrine e di tutte le esperienze socialistiche. Mentre la Russia attraverso la «Nep» torna al capitalismo e chiede al capitalismo occidentale i mezzi per la sua ricostruzione economica, in Germania gli ultimi conati di sinistra sono ridicolmente falliti senza resistenza di sorta e spesso, come in Sassonia, nello scandalo e nella vergogna: in Francia la lotta tra frazioni sindacali e frazioni politiche ha ormai raggiunto il parossismo: in Inghilterra l'avvento del Labour Party non è destinato a scardinare il mondo e nemmeno l'Impero Britannico. Mac Donald non realizzerà il socialismo e non andrà a sinistra. Il monito agli insorti indiani è di una straordinaria significazione e deve avere gelato il cuore a molti melanconici di casa nostra.
Il Fascismo, come dottrina di potenziazione nazionale, come dottrina di forza, di bellezza, di disciplina, di senso della responsabilità, di repugnanza per tutti i luoghi comuni della democrazia, di schifo par tutte quelle manifestazioni che costituiscono la vita politica e politicante di gran parte dei mondo, è ormai un faro che splende a Roma, ed al quale guardano tutti i popoli della terra, specie quelli che soffrono dei mali che noi abbiamo sofferto e superato.
Alle nostre giovani generazioni è toccato l'arduo compito di vivere e sostenere questa esperienza, il cui interesse ha ormai varcato i confini della nostra terra. Bisogna avere il senso religioso di questa enorme responsabilità storica in tutte le manifestazioni della nostra vita, e privata e pubblica; in tutte le battaglie che la politica impone, non escluse quelle elettorali. Dobbiamo sgominare anche su questo terreno i nostri avversari: quelli che ci insidiano all'interno e quelli che ci insidiano all'estero, aspettando ormai vanamente da cinque anni il nostro tramonto. Sono sicuro che ci riusciremo. I nostri avversari saranno ancora una volta irreparabilmente battuti, perché si ostinano a negare la realtà che li acceca, perché si ostinano a pascersi d'illusioni stolte: le piccole crisi di ordine locale, gli episodi insignificanti che scoppiano qua e là nella penisola, sono elevati a sintomi di crisi mortale del Fascismo. Molte smentite clamorosissime sono venute in questi cinque anni: ma le speranze sono veramente tenaci a morire.
Questa Grande Assemblea che raccoglie il fior fiore del Fascismo italiano, cioè tutti coloro che nel Fascismo hanno un posto di responsabilità politica o militare o sindacale od amministrativa, deve far riflettere i nostri avversari. In un partito di giovani, di impetuosi e di passionali ogni contrasto può assumere forme drammatiche. Ma io credo che se domani si rendesse necessario di lanciare un appello a tutte le forze, i contrasti scomparirebbero. Molti di questi stessi che furono espulsi dal Fascismo e che pure ne hanno serbata l'acuta nostalgia nel cuore, ritornerebbero per chiedere di combattere.
Ondate di consenso avvolgeranno i nostri gagliardetti gloriosi bagnati dal purissimo sangue dei nostri martiri ed il Fascismo apparirà ancora una volta nel suo maestoso aspetto di movimento travolgente ed invincibile dotato della virtù per affrontare qualsiasi sacrificio, deciso fermamente a tenere ciò che fu conquistato, deciso non meno fermamente a conquistare nuove e più fulgenti vittorie.
Tutti hanno bene meritato. Tutti si sono prodigati ed hanno accettato una disciplina che si può dire soldatesca. I risultati si vedono e più ancora si vedranno. Un elogio particolare è dovuto al popolo italiano; a questo popolo laborioso e prolifico che ha dato e darà molti soldati all'Esercito, marinai alle navi, operai alle officine e molti contadini ai campi; a questo popolo italiano che ha accettato la nostra rude disciplina ed anche i sacrifici della nostra politica.
Quanto a me ho la coscienza di aver compiuto il mio dovere. Mi sono considerato e mi considero come un soldato che ha la consegna: la consegna severa che egli deve osservare a qualunque costo. Questa consegna è sacra ed io le sarò fedele. Il Governo è anche un problema di volontà. Se si vuole, si resta al Governo, e non è già, o Signori, per una piccola soddisfazione che io desidero, che io voglio restare al Governo.
Ho piacere di lavorare parecchie ore al giorno: di essere qualche volta, molto spesso, angosciato da problemi e responsabilità che fanno tremare le vene ed i polsi. Accetto questa servitù come il più alto premio che possa avere. Non credete agli stolti: io sono Fascista e resto fedele al Fascismo. I dissidenti non abusino più oltre del mio nome. Chi è contro il Fascismo, chi è contro il Partito, è necessariamente contro il Governo e contro me.
Rivolgendosi quindi verso il padre del fascista Berta che, commosso, ha le lacrime agli occhi, il Presidente così continua:
Giuro, a voi, Berta, che siete il padre di uno dei nostri martiri più cari, di uno che fu ucciso nel più atroce dei modi — credo che l'Arno in tanti secoli non abbia mai visto delitto più abominevole — ebbene giuro a voi, giuro alla memoria di tutti i nostri martiri, giuro, sicuro di interpretare il vostro intimo pensiero, che noi, ieri come oggi ed oggi come domani, quando si tratta della Patria e del Fascismo, siamo pronti ad uccidere come pronti a morire.
Prima di tutto il mio vivo ringraziamento per le parole così vibranti or ora pronunciate dal mio amico Oviglio. E un ringraziamento non meno cordiale a tutti voi che mi siete stati in questa lunga fatica preziosi e devoti collaboratori. Se noi rifacciamo il cammino percorso e stabiliamo quello che si potrebbe dire, in linguaggio contabile, il bilancio della nostra attività politica, non vi è dubbio che esso si chiude con un grande attivo. E lo dico io che sono piuttosto pessimista per natura e non incline al facile ottimismo. Non abbiamo compiuta tutta l'opera: ci vorrà ancora molto tempo. Ma abbiamo preparato tutte le condizioni necessarie e sufficienti perché quest'opera sia compiuta. Già dissi altra volta che la politica non è un'arte facile: è più difficile di tutte le altre, perché lavora la materia più inafferrabile, più oscillante, più incerta. La politica lavora sullo spirito degli uomini che è un'entità assai difficile a definirsi e in ogni caso è mutevole. Sullo spirito agiscono gli egoismi, gli interessi, le passioni. Assommate tutto ciò nella Nazione, e vedrete che lavorare su questo elemento complesso, cioè indirizzare questa massa di uomini verso determinate direzioni, per arrivare a certe mete, non è una cosa semplice: è infinitamente difficile. Si tratta prima di tutto di ristabilire l'idea dello Stato e fissare lo stile del Governo. Abbiamo il merito di aver fatto del Governo una cosa viva, palpitante, operante nel seno della Società Nazionale; non il Governo abulico e amorfo, che si lascia insidiare e insultare in una specie di duello ridicolo per cui l'opposizione sarebbe sacra e intangibile: avrebbe tutti i diritti, mentre il Governo avrebbe l'unico dovere di costituire un comodo e indulgente bersaglio. Dichiaro che questa è una teoria assolutamente suicida e che se in tale teoria si compendia la dottrina del liberalismo, io mi dichiaro nettamente antiliberale. Abbiamo dato una disciplina agli italiani. Non è perfetta, sono io stesso il primo a riconoscerlo. Ma per avere un'idea del cammino percorso, bisogna stabilire dei termini di confronto e vedere che cosa era l'Italia nel '19 e nel '20, che cosa fu nel '21 e '22, che cosa è stata nel '23. Gli episodi sporadici di violenza, che noi deploriamo e reprimiamo con mesi e talvolta con anni di carcere, non si aboliscono in un batter d'occhio, come si presume da taluni. Non bisogna credere che anche prima del 1914 non ci siano stati: non si deve credere che l'Europa prima del 1914 sia sempre vissuta nel latte e miele e che i tempi della violenza coincidano coll'avvento del Fascismo. La storia politica d'Europa, dal '70 al 1914 voi la vedrete tempestata di atti di violenza terribili e individuali e collettivi. Le elezioni scandalose a base di mazzieri — ad esempio — sono nelle cronache politiche dell'Italia prima del 1914. Bisogna introdurre, parlando di disciplina, il criterio del relativo pure tendendo con tutte le forze all'assoluto.
Terzo punto. Non è facile passare da un moto insurrezionale ad una situazione legalizzata: sono dei problemi che mi affaticano, ai quali penso incessantemente quando gli altri dormono. Il problema dello squadrismo, che ora sembra l'uovo di Colombo, non era un problema trascurabile: erano sette od otto organizzazioni a camicie multicolori che passeggiavano più o meno camionalmente per tutte le parti d'Italia. Ognuna di queste formazioni politico-militari era un frammento della autorità dello Stato che andava in rovina. Sopprimere tutti gli squadrismi e lo stesso squadrismo che aveva condotto il Partito Fascista al potere; non uscire dai confini della Costituzione — ed io ho sempre avuto la massima cura di non toccare quelli che sono i pilastri fondamentali dello Stato — o ridurre al minimo le demolizioni perché demolire è facile, ma costruire è difficile: questi sono gli elementi sui quali bisognerebbe meditare senza attardarsi a vedere se nell'ultimo paesucolo, nella giornata di domenica, c'è ancora una rissa, e ricamarvi sopra un pesante capitolo di filosofia della storia. Senza eccessivo orgoglio, noi dobbiamo essere soddisfatti della nostra opera e dobbiamo continuarla. Abbiamo posto le fondamenta. Ora si tratta di costruire l'edificio coi pieni poteri o senza. Sta di fatto che le azioni del Fascismo possono subire delle oscillazioni dipendenti da fenomeni di natura prevalentemente locale, ma ho la coscienza di poter affermare che le azioni del Governo fascista sono in rialzo. Attorno al Governo c'è il consenso delle moltitudini; c'è il popolo italiano, che ci dà ancora nel 1924 tacitamente l'esercizio dei pieni poteri.
Non saprei chiudere questo mio discorso senza rivolgere un pensiero di ammirazione e di gratitudine per il popolo italiano che offre un superbo spettacolo di laboriosità e di disciplina.
Ho la certezza che se noi continueremo a lavorare con quello stesso spirito gagliardo che ci ha sorretto nelle aspre prove del 1923, questo ritmo accelerato della vita italiana diventerà ancora più potente e la ricostruzione nazionale sarà il titolo con cui il Fascismo entrerà gloriosamente e definitivamente nella storia italiana.
Roma, 3 gennaio 1924: MUSSOLINI parla agli impiegati dello stato
Nello stesso giorno, 3 gennaio 1924, S. E. il Capo del Governo ricevette, per la visita d'auguri di Capodanno, i dirigenti delle amministrazioni statali. Per essi parlò il Sen. Pironti, direttore generale dell'amministrazione civile; il Duce rispose nel modo seguente:
Signori!
Ho ascoltato con vera soddisfazione il discorso del senatore Pironti, pronunciato con vigore così giovanile, soprattutto per un riconoscimento contenuto in esso che il clima generale della Nazione è cambiato ed anche il clima morale: di conseguenza lo spirito di coloro che servono lo Stato è profondamente mutato. Siamo tutti servitori della Nazione, a cominciare da colui che vi parla. Dobbiamo avere l'orgoglio sacro di essere i servitori della Nazione. Abbiamo cambiato la mentalità che si era venuta creando in questi ultimi tempi; l'impiegato è un soldato, è un milite che mette tutte le sue energie al servizio dello Stato e della Nazione. Non deve essere considerato come un elemento estraneo, sibbene come parte integrante, essenziale di tutto quel complesso di organismi in cui si attua, in una forma che oserei dire sensibile o fisica, l'idea giuridica dello Stato. È vero quello che ha detto il senatore Pironti, che se molte di queste riforme sono state attuate con la rapidità e la inflessibilità necessarie, ciò lo si deve all'opera devota, assidua, tenace, intelligente di tutta la burocrazia italiana, dai sommi agli ultimi gradi. Di ciò do ampia lode. Di ciò do altissimo riconoscimento in faccia alla Nazione. L'esperienza del 1923 mi autorizza a credere che la vostra opera, sotto ogni aspetto preziosa, sarà continuata per l'anno che incomincia oggi. Sono lieto di constatare che la Nazione non considera più l'impiegato come un perditempo più o meno superfluo che pesa sull'erario. Oggi lo considera come l'elemento indispensabile, come un uomo che qualche volta nell'esercizio del suo dovere tocca le vette dell'eroismo civile. Mi piace di fare questa constatazione parlando a voi oggi, sapendo che le mie parole saranno domani diffuse in tutta la Nazione.
Signori, ora si tratta di continuare con la stessa energia, con lo stesso zelo, con la stessa devozione. Tutti, dal primo all'ultimo. È soltanto camminando su questa strada che arriveremo alla meta che ci è comune: la grandezza e la prosperità della Patria.
Roma, 12 gennaio 1924: MUSSOLINI commemora Francesco Crispi.
Per l'inaugurazione della lapide a Francesco Crispi, fatta in Roma il 12 gennaio 1924. La lapide contiene le seguenti parole, dettate da Enrico Corradini: «MCMXXIV - Roma e l'Italia vittoriosa - governando la forza del Fascio - qui ricordano - Francesco Crispi - ultimo eroe del Risorgimento - primo della grandezza». Dopo le parole del Principe di Scalea, Presidente del Comitato promotore, il Duce pronunciò il seguente discorso:
Signori!
Prendo in consegna questa lapide nella mia qualità di italiano, di fascista e di Capo del Governo. Non solo prendo in consegna questa pietra sulla quale stanno incise delle parole solenni, ma oserei dire che prendo in consegna lo spirito di Francesco Crispi. Forse le più fresche generazioni ignorano che Francesco Crispi è una delle figure dominanti e centrali del Risorgimento italiano. Bisognerebbe metterlo subito accanto ai quattro e fare una pentarchia: con ciò si rispetterebbe la storia.
Francesco Crispi esordisce nel giornalismo; giovanissimo, appena laureato in legge, a diciotto anni, stampa a Palermo un giornale che prendeva nome da un piccolo torrente che deve scorrere nelle vicinanze della città. Era un giornale letterario, ma tutto pervaso da spiriti antiborbonici. Ciò accade nel 1843. Nel 1848 il 12 gennaio Palermo insorse: Crispi partecipa alla insurrezione e di nuovo si dà al giornalismo stampando un giornale che aveva il titolo superbo: Apostolato, fallisce la insurrezione: l'esilio! Durante l'esilio, ancora giornalismo: a Torino un giornale che era diretto dal Valerio, che si chiamava la Concordia: non faceva per Crispi, che passa in un altro giornale diretto dal Correnti: il Progresso. Fa del giornalismo anche a Parigi dove si maturavano i destini d'Europa. E nel 1859 Francesco Crispi prepara la spedizione dei Mille. La prepara lui. La impone lui al generale Garibaldi. Niente di più drammatico del colloquio che si svolge fra Garibaldi e Francesco Crispi. Garibaldi dice: «Mi garantite voi la insurrezione della Sicilia?» e Francesco Crispi risponde: «-Sì, generale! Anche con la vita! Anche con la vita!-».
Notate la mobilità di questo grande ingegno. Nel 1848 diceva: «-Bisogna portare la insurrezione dalla Sicilia al Continente-». Ma la esperienza storica apprende qualche cosa agli uomini di ingegno. Nel 1859 dice: «-Bisogna portare viceversa ora dal Continente la insurrezione in Sicilia-». E portarla in che modo? Anche qui si rivela lo spirito dell'Uomo. Perché era fallita la sommossa del 1848? Perché era incoerente, anonima: perché aveva appena trecento fucili e trecento uomini armati di falcetti e di coltelli.
Perché, viceversa, nel 1860, la Sicilia vince e con la Sicilia tutto il Mezzogiorno? Perché c'è un nucleo di forza armata ed inquadrata a cui dà lo spirito incomparabile di animatore Giuseppe Garibaldi.
Francesco Crispi parte da Quarto, arriva a Marsala, fa tutta la campagna, è il segretario di fiducia di Garibaldi.
Nel 1860 diventa Primo Ministro dell'Interno a Napoli e in brevissimo tempo vara molte leggi che io oggi, a distanza di 60 anni, vorrei dire fasciste; in una di esse prescriveva che i figli dei morti in guerra fossero adottati dalla Nazione.
Ma Francesco Crispi aveva un concetto assai severo dello Stato. Lo Stato sovrano su tutti e contro tutti. Nel suo territorio non c'è nessuna sovranità che sia al di sopra di quella dello Stato. Ciò è molto importante e ciò va ripetuto perché non nascano equivoci. Aveva uno stile di Governo che si rivelava anche nelle piccole cose.
Anticipatore, perché fu un africanista. 22 milioni di italiani allora, oggi 40, anzi 48. Crispi sentiva, presentiva che l'Italia non poteva vivere se non si lanciava sulla strada di un impero coloniale. Il sogno era superbo: forse le spalle di quell'Italia non erano sufficientemente forti per reggerlo. Ho un'impressione vaga di quegli avvenimenti, perché ero ancora giovanetto, ma ricordo che ho sofferto molto per la battaglia di Adua e di più ancora ricordo di aver sofferto per quel movimento per cui invece di chiedere che si continuasse, il popolo italiano, che pure si era battuto eroicamente sulle ambe, finì sotto l'influenza nefasta delle demagogie coalizzate per subire la disfatta che per un ventennio ha pesato sulla storia italiana.
Certamente Crispi è una delle personalità più importanti del secolo scorso: non si pecca di esagerazione affermando che è della statura di Bismarck. Conobbe nella sua vita tutti i momenti: quello dell'attività frenetica, come quando preparò la spedizione dei Mille; conobbe anche le amarezze dell'ingratitudine. Accade sempre che ci sia una coalizione di viltà e di miserie per ferire le anime che si distinguono e si elevano sulla moltitudine.
Per tutto ciò e per altro ancora che richiederebbe più lungo discorso, noi ricordiamo Francesco Crispi. E ricordandolo intendiamo di onorare il popolo italiano, che noi faremo marciare sulle vie della libertà e della grandezza.
Roma, 12 gennaio 1924: Il discorso di MUSSOLINI in occasione della consegna della tessera di mutilato
Nello stesso giorno, 12 gennaio 1924, dopo lo scoprimento della lapide a Francesco Crispi, il Duce ricevette la tessera di mutilato, presso l'Opera Nazionale Invalidi di Guerra. Parlarono il Sen. Lustig e Titta Madia; ad essi il Capo del Governo rispose con le seguenti parole:
Senatore! Commilitoni!
Veramente questa visita era necessaria, perché pur conoscendo le linee generali, lo scopo e l'importanza dell'Opera di assistenza agli invalidi di guerra, essa mi era forse un po' ignota nei suoi particolari, e il discorso del vostro presidente, che ho testé ascoltato con molta attenzione, mi ha dato tutti quei dettagli che erano necessari perché io ne avessi una nozione completa. È un'opera santa, questa, alla quale vi applicate; un'opera nobilissima, un'opera degna di avere tutto il concorso morale e, se sia necessario, materiale del Governo e tutto il concorso morale e materiale del popolo italiano.
Bisogna, a mio avviso, dare delle prove di solidarietà e in modo concreto. Le parole sono bellissime, qualche volta scendono al cuore, vi suscitano dei sentimenti e delle passioni gagliarde, ma l'uomo deve pur vivere: c'è una realtà dura nella vita. Ebbene, bisogna che accanto alle parole ci siano i fatti, che accanto le prove spirituali ci sia la documentazione materiale di questo amore che la Nazione tutta deve per coloro che hanno versato il sangue e sacrificato le loro membra per la sua grandezza.
Io le assicuro, on. Senatore, assicuro voi, mio caro commilitone Madia, e tutti che sono orgogliosissimo di appartenere a questa Associazione, che considero il momento più bello della mia vita quello in cui fui lacerato dalle ferite e che voglio continuare a darvi le prove concrete di questo mio amore profondissimo, che non si può mutare col volgere né degli eventi né delle fortune.
Roma, 14 gennaio 1924: Il discorso di MUSSOLINI in occassione della nuova commissione per il contenzioso diplomatico
Con R. D. 3 gennaio 1924 n. 3 veniva riformato il Consiglio del Contenzioso Diplomatico del Ministero degli Esteri. Il 14 gennaio 1924 S. E. il Capo del Governo insediava il nuovo Consiglio, pronunciando questo discorso, a cui rispose il Vice-presidente, On. Scialoja.
Eccellenze e Signori!
Inaugurando i lavori del nuovo Consiglio del Contenzioso Diplomatico — ricostituito dopo la riforma degli ordinamenti da me preparati — il mio primo pensiero si rivolge, con devoto ossequio, al Conte di Cavour, che, tornando dal Congresso di Parigi del 1856, ammaestrato dalle recenti esperienze, si affrettò ad organizzare uno speciale corpo consultivo per il Contenzioso Diplomatico, dettandone i primi ordinamenti sui quali però rimase perplesso, onde li riesaminò e li riformò nell'anno successivo, con quel R. Decreto del 29 novembre 1857, che ha stabilito le basi fondamentali dell'istituzione. Essa subì molti e vari ritocchi rimanendo immutata nella sostanza fino alla riforma del Mancini del 1883 la quale fu a sua volta riveduta cinque anni dopo da un altro cui non può non rivolgersi il pensiero con commossa reverenza: Francesco Crispi. Gli ordinamenti Mancini-Crispi rimasero in vigore, salvo lievissime varianti, fino allo scoppio del conflitto mondiale. In tali momenti l'on. Sonnino soppresse il Contenzioso col fermo proposito però di riorganizzarlo su nuove basi al termine della guerra. La ricostituzione avvenne soltanto nel 1920, ma il nuovo Consiglio, sia a causa degli avvenimenti internazionali, sia a causa dei suoi non agili ed efficaci ordinamenti, funzionò poco.
La riforma deliberata in questi giorni modifica radicalmente la fisionomia del Consiglio. Ne allarga le basi, accentua la sua natura non esclusivamente limitata al campo giuridico, lo ricolloca nell'ambito dell'attività del Ministro degli Esteri, tende a mantenerlo strettamente in contatto col Ministero per il tramite del Segretario Generale del Ministero stesso. Conserva un organismo più limitato per gli affari urgenti, la Giunta; istituisce il Comitato dei Giuristi per le questioni essenzialmente giuridiche, che non possono efficacemente trattarsi in troppo largo consesso; consente la creazione di speciali Comitati, integrando le organizzazioni permanenti con l'aggregazione ad esse di esperti per problemi speciali; rafforza infine il segretariato, facendone un organismo consultivo quotidiano degli affari del Ministero. Il funzionamento agile di tali speciali congegni, in coordinamento con quello del Consiglio plenario, mette il Ministro in condizione di servirsi tutte le volte che sia necessario del Consiglio stesso, chiamando a collaborare ad esso i più autorevoli cultori dei problemi internazionali, con evidente utilità per quanto riguarda la preparazione degli affari.
Larga, vasta, importantissima, è dunque l'opera che dal Consiglio si attende. Rafforzandolo, facendone l'organismo fondamentale consultivo del Ministero degli Esteri, io conto di servirmene proficuamente, e non poco, nel mio arduo compito.
Eccellenze e Signori, la riforma attuata ritorna largamente al passato.
Trae dagli ordinamenti di Cavour, di Mancini, di Crispi, quanto apparve utile di conservare e inquadra tali norme in un ordinamento più largo, più complesso e, credo, più vitale. È mio intendimento che l'Istituto torni al passato anche nelle sue nobilissime tradizioni di attivo lavoro, e di alta autorità, fin da quando, cioè, mosse i primi passi sotto la sapiente guida del Conte di Cavour, negli anni definitivi e conclusivi del Risorgimento italiano.
È con tali auspici e con tali intendimenti che io dichiaro oggi insediato il ricostituito Consiglio del Contenzioso Diplomatico e rivolgo ai suoi autorevolissimi componenti il mio deferente saluto.
Roma, 15 gennaio 1924: MUSSOLINI parla nell'occassione dell'apertura dei lavori del nuovo anno giuridico del Consiglio di Stato.
Il 15 gennaio 1924 venivano inaugurati in Roma, a Palazzo Spada, i lavori del nuovo anno del Consiglio di Stato. In tale occasione, il Capo del Governo pronunciò questo discorso, a cui rispose l'on. Perla, Presidente del Consiglio di Stato.
Eccellenza e Onorevoli Signori!
Ho voluto portare personalmente nella solennità odierna la mia parola che è di saluto augurale e di conferma del profondo rispetto che il Governo tributa a questo Alto Consesso.
È ben noto quale immane lavoro il Governo ha dovuto compiere nell'anno ora trascorso, per stabilire l'ordine e la disciplina sociale nell'interno, onde costituire un ambiente di pace propizio allo svolgersi delle attività produttrici, e per sollevare il prestigio dell'Italia all'estero.
Esso ha voluto che il ristabilimento pieno dell'autorità dello Stato fosse accompagnato da una revisione di tutti gli Istituti amministrativi e giuridici, affinché quello spirito rinnovatore che aveva portato il Fascismo al potere si trasfondesse in tutto l'ordinamento dello Stato, al quale si è cercato, in un anno, di dare una organizzazione più che sia possibile corrispondente alla funzione che deve compiere in questo periodo storico e alle reali necessità politiche e sociali del Paese.
Accanto alla vasta riforma finanziaria, accanto all'opera di semplificazione di tutti gli organismi centrali e al nuovo ordinamento burocratico, accanto alla riforma della scuola e a quella giudiziaria, sta quest'altra non meno ampia e importante dell'amministrazione degli enti autarchici, nelle quali il Governo ha portato unità di pensiero e di metodo.
Questo eminente collegio che è completamente dell'organismo politico-amministrativo dello Stato, non poteva non richiamare l'attenzione del Governo. E il Governo volle che il Consiglio di Stato fosse rinvigorito e restituito all'integrità della sua originaria funzione di organo della consulenza giuridica, che sa, nel miglior modo, garantire regolarità e maturità negli atti più gravi della pubblica amministrazione, e coordinare sotto principi comuni e unitari gli atti giuridici più importanti, che più da vicino interessano la vita dello Stato.
Le riforme che il Governo ha avuto l'onore di sottoporre all'augusta firma di S. M. il Re, sono adeguate appunto a questi principi.
Ma il Governo, a cui è preposta la ricostruzione di uno Stato forte e capace nell'organismo e pronto ed efficace nell'azione, non è rimasto insensibile al bisogno, generalmente sentito, di un riordinamento dell'altra elevatissima funzione del Consiglio, che è quella della giustizia amministrativa.
Gravi erano i problemi, che su questo argomento agitavano la dottrina e la giurisprudenza, dopo che l'una e l'altra riconobbero indole giurisdizionale alla nuova forma di giustizia nella amministrazione instaurata da Francesco Crispi e da Silvio Spaventa.
Si voleva un tribunale supremo amministrativo. Ma data l'indole speciale di giustizia che esso deve rendere, non è possibile concepirlo come organo separato ed estraneo all'amministrazione, senza menomare o indebolire la libertà e la responsabilità del potere esecutivo.
La riforma, testé deliberata, risolve l'arduo problema, unificando la competenza delle sue sezioni giurisdizionali, e formando di esse l'invocato tribunale supremo, che è lo stesso Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale.
Era anche grave il disagio, nel quale si svolgeva la funzione di giustizia amministrativa per l'attrito prodotto dal concorso della giurisdizione amministrativa e di quella giudiziaria nella revisione, pur sotto diversi aspetti, dello stesso atto amministrativo. Quest'altro grave problema, la riforma ha cautamente risolto, rispettando i principi fondamentali dell'ordinamento giurisdizionale generale, ma introducendo in pari tempo le deroghe strettamente necessarie per dare alla giurisdizione amministrativa quella pratica efficienza che le leggi precedenti non interamente le consentivano, con risultato, anche di semplificazione, di acceleramento e di economia dei giudizi.
Il Governo nazionale fascista, con queste sostanziali riforme, ha corrisposto a sentiti e reali bisogni pubblici, ma ha anche reso omaggio alla sapienza e alla prudenza del supremo collegio amministrativo dello Stato, mai smentite dalla sua istituzione, e dal quale si attende l'immancabile ausilio del saggio consiglio nell'opera non meno grave che resta da compiere, relativa all'applicazione delle riforme deliberate, in vista d'un'Italia meglio ordinata per svolgere ed affermare le sue grandi inesauribili giovani forze morali e materiali.
È con questi auspici che io formulo i migliori auguri per il vostro lavoro, che sarà, ne sono certissimo, come quello di tutti noi, ispirato dall'ardente amore per la nostra Patria.
Roma, 27 gennaio 1924: MUSSOLINI parla al Congresso del Sindacato Nazionale della stampa.
Per l'inaugurazione del Congresso del Sindacato Nazionale della Stampa, il 27 gennaio 1924, in Roma, in risposta al discorso del Presidente del Comitato Ordinatore, On. Roberto Forges Davanzati.
Colleghi! Signori!
Vi parlo non come Capo del Governo, ma come giornalista che ha vissuto tutta la gamma delle emozioni giornalistiche, che ha vissuto tutte quelle che si chiamano le battaglie giornalistiche, che ha conosciuto la trepidazione di leggere attentamente la «piccola posta» per sapere se l'articolo sarebbe stato o no pubblicato, che ha conosciuto anche il grande orgoglio di sentire che attorno ad un giornale si scatenavano le grandi e nobili passioni di un intero popolo.
Ben fate a giustiziare certo professionalismo amorfo, ambiguo, senza spina dorsale, mortificatore dello spirito. Le idee non sono dei cappelli che si appendono nell'anticamera. Non si può dire: «-io entro qui e non ho più le mie idee-». Le idee sono la parte essenziale della vita di un uomo e quel professionalismo che intendeva di annullarle, in realtà lo faceva, perché, come abbiamo visto, il professionalismo era una specie di passaporto e di maschera per poter compiere al riparo un'azione di sabotaggio e di disgregazione. Basta di questo professionalismo, che è indegno di uomini veramente liberi.
Voi costituite un Sindacato della Stampa. Farete bene a mettere nel vostro Sindacato quelli che sono i collaboratori più diretti del giornale: gli operai tipografi. Così la famiglia è perfetta. I rapporti fra giornalisti ed operai sono sempre corretti, cordiali, fraterni: bisogna renderli ancor più fraterni. Bisogna chiamare questi operai, elevarli, renderli partecipi delle nostre battaglie e del nostro destino.
Certamente, fra tutti quelli che si possono chiamare i prodigi della nostra civiltà, forse troppo meccanica, il giornale tiene il primo posto. Il giornale è in realtà lo specchio del mondo. Sul giornale, come sopra una grande strada, passa tutto quello che accade nel vasto genere umano: dalla politica altissima al fattaccio di cronaca. È quindi bene ripetere che la cosiddetta «-libertà di stampa-» non è soltanto un diritto: è un dovere! È bene ripetere che oggi una semplice notizia di un giornale può essere apportatrice di danni incalcolabili alla Nazione, sia essa vera, sia essa tendenziosa. Se si vuole, come si vuole, che il giornalismo sia una missione, ebbene, ogni missione è accompagnata irrevocabilmente da un senso altissimo di responsabilità. Al di fuori di qui non c'è missione, ma c'è mestiere.
Bisogna avere coraggio, signori, di fare giustizia di tutti questi luoghi comuni. Luoghi comuni che sono degli inciampi, che sono delle mistificazioni e che appartengono a un complesso di manovre con le quali si vorrebbe truffare la nostra Rivoluzione, che è la Rivoluzione del Fascismo e delle Camicie Nere.
Dopo di che permettetemi, come collega, che io vi rechi il mio saluto cordialissimo, insieme con l'augurio di buon lavoro e di un'attività feconda di risultati. E permettetemi che, come Capo del Governo, io accolga l'alto auspicio testé elevato con mirabili parole da un vecchio e provato combattente della causa nazionale.
Sì! La grande Italia che noi abbiamo sognato sta forgiandosi. E se la disciplina sarà ferma, se la passione sarà pura, l'Italia sarà sempre più grande!
Roma, 27 gennaio 1924: MUSSOLINI parla dopo la firma d'accordo fra Italia e Jugoslavia.
Nello stesso giorno, 27 gennaio 1924, S. E. il Capo del Governo, in seguito alla firma degli accordi fra l'Italia e la Jugoslavia, offerse un pranzo a Palazzo Venezia agli On. Pasic e Nincic. In tale occasione il Duce pronunziò questo discorso, e l'on. Pasic rispose con le seguenti parole: «-Signor Presidente, in questo solenne giorno nel quale abbiamo concluso e firmato l'alleanza di pace tra i nostri due popoli vicini, permettetemi, o illustre Uomo di Stato, di presentarvi i miei ringraziamenti e in pari tempo esprimervi la mia gratitudine per il Popolo Italiano, che volle venire a salutarmi durante il mio viaggio e ad esprimermi i suoi voli per il successo della nostra missione. «-Noi desideriamo che il Trattato d'amicizia e di pace che abbiamo concluso nella gloriosa ed eterna Città di Roma rimanga un atto storico, che affermerà la pace e l'amicizia perpetuata tra i nostri due popoli e che servirà allo sviluppo dei loro rapporti commerciali e al riavvicinamento culturale come pure al mantenimento della pace mondiale, ottenuta dopo tanti sacrifici comuni.
«-Io levo il mio calice alla salute e alla felicità di S. M. il Re Vittorio Emanuele III, alla felicità e prosperità del Popolo Italiano e alla Vostra felicità personale, Signor Presidente, eminente rappresentante del vostro Popolo-».
Signor Presidente!
Le attestazioni di simpatia cordiale che il popolo italiano Vi ha spontaneamente tributato durante il Vostro viaggio dalla frontiera a Roma, Vi dimostrano, più delle mie parole, quali sono in questo momento i sentimenti della mia Nazione nei confronti Vostri e del Vostro Paese, il viaggio che avete con mirabile resistenza giovanile intrapreso, il Vostro omaggio al Milite Ignoto Italiano e soprattutto i patti che noi abbiamo — qui in Roma — solennemente firmato, hanno suscitato la più grande soddisfazione in tutta Italia.
I nostri accordi chiudono un periodo nella storia tormentosa del dopoguerra e ne aprono un altro. Una saggia valutazione degli interessi reciproci ci ha condotto a realizzare una intesa che abbraccia tutte le relazioni fra i due Paesi e le rende feconde ai fini dello sviluppo crescente dei nostri popoli, la cui collaborazione economica, politica, spirituale, costituisce un elemento essenziale per la pace europea.
Vogliate, Signor Presidente, gradire l'attestazione profonda della mia personale simpatia e permettere che io levi l'augurio per la salute del Vostro Sovrano e per la prosperità e l'avvenire della Vostra Patria.
Roma, 28 gennaio 1924: MUSSOLINI parla all'assemblea del Partito Nazionale Fascista
La Camera dei Deputati viene sciolta per rendere possibile un plebiscito che dimostrasse il reale sentimento del popolo italiano, di fronte al nuovo Regime, basato su la forza, sì, ma anche sul consenso. All'indomani dello scioglimento, iniziandosi la nuova campagna elettorale - particolarmente significativa perché era la prima attuata in Regime Fascista - si adunò in Roma, il 28 gennaio 1924, nella Sala del Concistoro a Palazzo Venezia, la grande Assemblea Fascista. Erano passati quindici mesi dalla Marcia su Roma, e il Duce, in tale occasione, pronunciò il seguente discorso:
Il discorso che ho l'onore di pronunziare dinanzi a voi potrà apparirvi piuttosto arido, poiché la materia che imprendo a trattare mi ha sempre scarsamente interessato durante la mia vita politica. Aggiungo, a scanso di illusioni comiziali, che non pronunzierò altri discorsi di genere elettorale dopo questo nei prossimi due mesi che io segno già con «-nigro lapillo-», perché li considero fra i più mortificanti della mia vita. È bastato l'annunzio elettorale perché affiorasse alla superficie tutto quanto di più torbido, di più vanitoso e di più imbelle fermenta negli spiriti. Di ciò ho disgusto profondissimo. Non bisogna sopravalutare quella che si chiama la battaglia delle urne. Ma errerebbe chi volesse svalutarla. Troppo la lotta che comincia da questa sera è squisitamente politica. Deve essere quindi ingaggiata con la massima serietà, perché potrebbe avere, a seconda dello sviluppo degli avvenimenti, conseguenze di grande portata. Bisogna accingersi a questa «-corvée-» elettorale con disciplina e con senso di responsabilità. Anche le «-corvées-» erano necessarie prima, durante e dopo le battaglie, quando o si pulivano i camminamenti o si rifornivano di munizioni le linee o si portavano le plance per i ricoveri o i reticolati per le trincee.
A quindici mesi di distanza dalla Marcia su Roma, noi dobbiamo esaminare la situazione del Paese; né mi sembra superfluo gettare anche uno sguardo su quella che è la situazione europea.
Ci sono, a proposito del Partito, alcune cose sulle quali intendo soffermarmi domani sera, in separata sede, in più raccolta assemblea e presenti coloro che, come segretari provinciali, hanno la responsabilità massima del buono o cattivo andamento dei Fasci nelle loro provincie. Il travaglio del Partito durante tutto l'anno 1923 è stato formidabile. Oggi che la parola non suscita più emozione si può dire che, sia pure a scaglioni e sia pure in successione di tempi, tutto il Partito è stato sciolto e quindi ricomposto. Sintomatico e confortante è il fatto che questo complesso travaglio di trasformazione non abbia diminuito la efficienza politica del Partito pur determinando degli alti e dei bassi nelle situazioni locali. Quella che si potrebbe chiamare «intelligente selezione del Partito» non ha dato ancora i suoi frutti, perché qua e là permangono crisi locali più o meno importanti: ma li darà. Ci sono però dei luoghi comuni che devono essere tolti immediatamente dalla nostra circolazione. Bisogna dire senza eufemismi che la mania del purismo e del diciannovesimo, a base di vecchie guardie, di fascismo della prima ora o della ventiquattresima, è semplicemente ridicola.
Il veteranismo in un movimento che avrà, soltanto fra due mesi, e cioè il 23 marzo 1924, appena cinque anni di vita, pur avendo riempito in sì breve lasso di tempo tanta parte della storia d'Italia, e si potrebbe dire del mondo, il veteranismo, dicevo, non ha alcuna giustificazione. I fascisti della prima ora erano letteralmente poche diecine. Al Congresso di Firenze, che si tenne nell'ottobre dell'infausto 1919, i Fascisti rappresentanti di tutta Italia non arrivavano a 40. Finiamola, dunque, coi fascisti della prima e dell'ultima ora: questo criterio non può bastare e non basta nella pratica dei casi a distinguere i migliori dai peggiori. Così pure deve essere bandito il concetto del purismo fascista, del quale sarebbero banditori e portatori certi spiriti privilegiati, specie di asceti frigidi e incorrotti della politica. Certo puritanesimo è altamente sospetto. Non è la prima volta che accade, strappando la maschera, di trovare invece che il volto dell'apostolo, la faccia ambigua e sorniona del mistificatore.
Un altro punto sul quale conviene fermare il discorso è l'antitesi che si vuole creare tra Fascismo e Mussolinismo. Io mi spiego il fenomeno, ma dichiaro che non lo accetto. Me lo spiego, dicevo, pensando che questi mussoliniani si dividono in due categorie, una delle quali, quella in mala fede, supera di gran lunga l'altra dei mussoliniani in buona fede. In realtà il Mussolinismo dovrebbe essere per certa gente una specie di viatico e di passaporto per poter in un primo tempo combattere Mussolini, il quale da persona discretamente dotata di esperienza politica, diffida di questi Mussoliniani e dichiara che il più deciso degli anti-mussoliniani è Mussolini. Certi dissidenti sono pregati di non abusare più oltre del mio nome.
Davanti a questa Assemblea è altresì necessario sfatare diverse leggende attorno alle quali si fantastica, specialmente in provincia: la leggenda, ad esempio, dei reticolati che circonderebbero la mia persona per impedirmi ogni contatto col mondo fascista in ispecie, e col mondo esterno in genere. Questa favola dei reticolati è di una stupidità desolante. Durante quindici mesi posso dire che a Palazzo Chigi è passata tutta Italia in quella che è la sua espressione politica ed amministrativa. Sono venute da me Commissioni a centinaia, migliaia di rappresentanti di tutti i ceti e di tutti i valori professionali della Nazione. Mi vanto di non aver respinto nessuno, nemmeno quelli che venivano a parlarmi di cose assolutamente personali o ad espormi questioni di una evidente futilità.
Con quella dei reticolati va smontata l'altra favola che consiste nel dipingermi come un buon dittatore che sarebbe tuttavia circondato da cattivi consiglieri, dei quali subirei la misteriosa e nefasta influenza. Tutto ciò, prima ancora di essere fantastico, è idiota. Una ormai lunga esperienza sta a dimostrare che io sono individuo assolutamente refrattario a pressioni di qualsiasi natura. Le mie decisioni maturano, spesso, di notte, nella solitudine della mia vita piuttosto arida perché scarsissimamente socievole. Quelli che sarebbero i cattivi consiglieri del buon tiranno sono cinque o sei persone che vengono da me tutte le mattine al quotidiano rapporto per farmi conoscere tutto quanto succede in Italia, dopo di che se ne vanno. Questo rapporto, salvo casi eccezionali, non dura mai più di mezz'ora. Ad ogni modo devo dichiarare che a questi che sono i collaboratori più diretti della mia fatica quotidiana e che specialmente spartiscono con me il pane salato della diretta responsabilità del Governo Fascista, esprimo qui in vostra presenza tutti i sensi della mia amicizia e della mia gratitudine.
In questi ultimi tempi si è parlato ancora di illegalismo e di ritorno alla normalità assoluta. Bisogna avere il coraggio di dire che l'illegalismo di cui si parla, pur essendo ormai ridotto a proporzioni minuscole e sporadiche e pur dovendo i fascisti obbedire ai moniti del Partito per finirlo, sarebbe definitivamente scomparso se non fosse provocato da certa opposizione incosciente e criminale, e se la cronaca non fosse troppo spesso costellata da agguati e da uccisioni in cui cadono ancora una volta i Militi fascisti, come in questi giorni è avvenuto in Piemonte, in Toscana ed in Sardegna.
Quanto alla normalità bisogna intenderci. Se la cosiddetta normalità costituzionale deve, come sembra, risolversi in una gigantesca truffa all'americana ai danni del Fascismo sino a farne qualche cosa di incolore e di insapore, senza più rispondenza nell'animo delle nuove generazioni, senza più capacità di ripercussioni nel mondo, dichiaro che questa normalità non è nei miei gusti e non è nei miei scopi.
Se, per spiegarmi chiaro, per normalità si intende lo scioglimento della Milizia che non è di Partito, ma è nazionale e che deve servire a tenere a bada tutti coloro che abbiamo risparmiato, dichiaro fin da questo momento che non cadrò mai vittima di questo trucco della normalità, che non per nulla è avanzato dai signori della opposizione costituzionale, i quali devono essere considerati tra i più pericolosi e i più torbidi nemici del Governo e del Partito Fascista. Tanto più che tale richiesta di un ritorno alla normalità si associa a lamentazioni che noi conosciamo: lamentazioni funerarie per la libertà che sarebbe calpestata dalla mia bieca tirannia. Conosco molti Paesi dove queste lamentazioni per le libertà conculcate sarebbero pienamente giustificate.
La Rivoluzione fascista non si è inghirlandata con sacrifici di vittime umane: non ha creato finora tribunali speciali: non c'è stato crepitio di plotoni di esecuzione. Non si è esercitato il terrore, non si sono promulgate le leggi eccezionali. Così dovevasi fare; ma sarà forse per questo che diecine e diecine di latitanti, i quali parevano scomparsi dalla circolazione, oggi rispuntano sotto le specie più diverse nelle riviste, nei giornali, nella diffamazione sotterranea, nella congrega segreta, nella vociferazione clandestina ed anonima. Nessuna di quelle libertà che lo Stato assicura ai cittadini è stata manomessa. Naturalmente il Governo si vale dei suoi poteri per prevenire e reprimere non le manifestazioni della libertà contemperata dalla disciplina, ma le espressioni di una licenza che il Fascismo non può tollerare e che io non tollererò mai.
A coloro che vorrebbero che il Fascismo si svirilizzasse e procedesse per la strada con le braccia ricolme di ramoscelli di ulivo, io metto sotto gli occhi la lista di tutte le aggressioni consumate in questo mese a danno dei farcisti:
6 gennaio 1924, Caltanissetta. — A Villarosa, durante una dimostrazione contro il Commissario prefettizio, vennero esplosi vari colpi di arma da fuoco contro i Militi accorsi per prestare man forte ai due soli carabinieri presenti.
7 gennaio 1924, Treviso. — Nella frazione Frangemeo di Gaiarine un gruppo di comunisti armati aggredì e percosse per la pubblica via principale un decurione della Milizia e poi cinque fascisti. Da ambo le parti vi furono feriti per colpi di rivoltella esplosi. Indi gli stessi comunisti recatisi alla abitazione di un altro fascista lo percossero a sangue, producendogli contusioni e ferite in tutto il corpo con prognosi riservata.
11 gennaio 1924, Pisa. — In Asciano ignoti lanciarono contro la sede del Fascio una bomba che esplose producendo rottura di vetri senza altre conseguenze.
13 gennaio 1924, Spezia. — In Falcinelle di Sarzana un sovversivo, per odio politico, sparò un colpo di rivoltella contro un fascista diciassettenne producendogli gravi lesioni al viso.
14 gennaio 1924, Alessandria. — In Antignano d'Asti alcuni sconosciuti spararono colpi di rivoltella contro l'abitazione di un fascista che vi si trovava insieme ad alcuni compagni.
15 gennaio 1924, Modena. — Nella località Cetro di Montese alcuni socialisti, precedentemente invitati ad uscire da un pubblico esercizio per l'orario di chiusura, aggredirono tre fascisti ferendoli con corpi contundenti e lanciarono mattoni contro l'esercizio.
15 gennaio 1924, Sondrio. — In Chiavenna, durante la notte, ignoti lordarono lo stemma del Fascio ed affissero striscie contenenti invito all'allontanamento di quel R. Commissario.
15 gennaio 1924, Milano. — In Legnano alcuni sovversivi spararono un colpo di rivoltella, senza conseguenze, contro un gruppo di fascisti.
18 gennaio 1924, Alessandria. — A Cisterna di Asti, dopo un comizio contro l'Amministrazione comunale, furono aggrediti alcuni fascisti, dei quali uno rimase ferito da un colpo di rivoltella ed un altro da arma da taglio.
20 gennaio 1924, Torino. — Ad Inverno Pinasca alcuni fascisti vennero fatti segno a colpi di arma da fuoco da sovversivi appiattati. Rimase ucciso un fascista ed altri due gravemente feriti.
21 gennaio 1924, Lucca. — In Gragnano alcuni fascisti furono fatti segno a due colpi di fucile da uno sconosciuto datosi alla fuga. Rimasero feriti due fascisti.
21 gennaio 1924, Roma. — Nella località Ponte Colemindo di Rieti due militi della M. V. vennero fatti segno a quattro colpi di arma da fuoco da un gruppo di sovversivi che, identificati, furono arrestati
25 gennaio 1924, Cagliari. — Sulla strada provinciale di Serrenti Samassi è stato rinvenuto assassinato a pugnalate il fascista Salvatore Talloru presidente della sezione mutilati. Il Talloru pare sia stato ucciso in paese e trasportato sulla strada provinciale ed abbandonato.
E passo alla seconda parte del mio discorso. Qualcuno si è meravigliato come io non abbia chiesto la proroga dei pieni poteri sapendo che io avrei potuto averli con facilità: appunto per questo. Non è nel mio costume chiedere ciò che si può ottenere senza sforzo, né prorogare situazioni storiche una volta che siano storicamente liquidate.
Se un anno di esercizio di pieni poteri, durante il quale si tennero ben 77 Consigli dei Ministri, non mi avesse permesso di portare a realtà le riforme che costituivano il bagaglio dottrinale del Partito Fascista, io avrei chiesto la proroga dei pieni poteri: ma sta di fatto che durante l'esercizio dei pieni poteri, il Governo fascista non ha perduto il suo tempo: ed esso ha profondamente rinnovato tutta la compagine della Nazione: ha profondamente riformato le istituzioni militari, ha sistemato gli ufficiali usciti dall'Esercito, i combattenti venuti dalle trincee, i mutilati e gli invalidi che nelle trincee stesse avevano lasciato brandelli delle loro carni. Il Fascismo ha rinnovato radicalmente gli ordinamenti delle amministrazioni civili, dei servizi pubblici, degli esteri, dell'economia nazionale, ecc.
I risultati di questo enorme cumulo di riforme, che in sintesi costituiscono una rivoluzione grandiosa, si vedranno in tutta la loro plasticità fra qualche tempo. Ma già voi vedete che tutto il ritmo della vita italiana si è accelerato. La ragione fondamentale, dunque, della rinunzia alla richiesta di proroga dei pieni poteri è nella constatazione che l'opera è bene avviata e che ormai non è più possibile tornare indietro. C'è qualche cosa in Italia che è morto e ben morto.
Va da sé che rifiutandomi di chiedere questa proroga, io non potevo più oltre prolungare la vita d'una Camera la cui maggioranza era ostile a me ed al Fascismo, di una Camera che veniva considerata come una specie di ultima trincea nella quale si erano nascosti tutti i nemici della nostra rivoluzione. Ci sono ancora in tutto il territorio dei centri di infezione, degli uomini che credono di essere immutabili, dei piccoli gruppi di vespe che si illudono che io li abbia dimenticati. Di quando in quando do prova che anche i dettagli non sfuggono al mio controllo. Così era urgente a mio avviso di buttar fuori dalla comoda trincea di Montecitorio tutti quelli che vi si erano annidati. In secondo luogo dovevo dimostrare che il Fascismo non temeva di rivolgersi direttamente al Paese per avere un'attestazione consensuale, quantunque la forza di cui gode il Fascismo sia di per se stessa una espressione inequivocabile di consenso. Così avvenne fra la sorpresa generale che io rinunciassi ai pieni poteri, mentre avrei potuto tranquillamente ottenerli. Fin da quei giorni considerai come ineluttabile lo scioglimento della Camera. Il fatto che a metà dicembre, scrivendo al collega Carnazza, io abbia detto che la cosa non era ancora decisa, deve essere considerato come un accorgimento tattico dovuto al desiderio di non mettere anzi tempo in stato di eccitazione elettorale il Paese, considerato che questo staio di eccitazione spesso si riduce ad una specie di masturbazione solitaria a base di ambizioni deluse e di sedicenti ideali infranti.
Non sono mancati in queste ultime settimane i soliti zelatori della costituzionalità i quali si domandavano: «Il decreto di scioglimento verrà prima o dopo l'Assemblea fascista?» Io ho dimostrato ancora una volta coi fatti che so scindere l'azione e la responsabilità di Partito dall'azione e dalla responsabilità di Governo. Il Fascismo ed il Governo sono tutto uno; ma le loro funzioni, e quindi le loro responsabilità sono necessariamente diverse.
Oggi, davanti allo scioglimento della Camera, si impone il problema della nostra strategia elettorale. Prima di tutto diamo uno sguardo alla situazione dei Partiti in Italia.
All'Estrema Sinistra ci sono delle minoranze rumorose e trascurabili. I diversi Partiti socialisti, con le inevitabili loro frazioni e tendenze, non possono costituire una seria minaccia per noi ed un serio impedimento alla nostra vittoria. È da augurare ad ogni modo che essi facciano blocco: che essi rinnovino ancora una volta sul terreno elettorale quella Alleanza del lavoro che il Fascismo stroncò nell'agosto del 1922, ultimo tentativo sovversivo in grande stile compiutosi in Italia a due anni di distanza dalla occupazione delle fabbriche: il che dimostra come non sia vero che il Fascismo sia venuto a reprimere il bolscevismo in ritardo e quindi senza gloria.
Esclusi i Partiti di sinistra, che noi combatteremo col vecchio vigore delle Camicie Nere, restano tutti gli altri Partiti più o meno costituzionali: ebbene, a proposito di costoro la posizione politica del Fascismo è stabilita da quanto ho il piacere di leggervi e che costituisce la prima parte dell'ordine del giorno che sarà certo, credo io, approvato domani dal Consiglio Nazionale:
Il Partito Nazionale Fascista per le sue origini, per i suoi metodi, per i suoi scopi ed anche per la sua esperienza vissuta dal 1921 in poi, respinge nettamente ogni proposta di alleanza elettorale e meno ancora politica, con vecchi Partiti di qualsiasi nome e specie, anche perché il loro atteggiamento non è stato mai univoco nei confronti del Partito e del Governo Fascista; decide tuttavia, in conformità coi suoi metodi, di includere nella lista elettorale uomini di tutti i Partiti, ed anche di nessun Partito, i quali per il loro passato, specie durante l'intervento, la guerra ed il dopoguerra o per le loro eminenti qualità di tecnici, di studiosi, siano in grado di rendere utili servigi alla Nazione.
Questa dichiarazione è di una logica impeccabile ed è di una perfetta coerenza. Se dall'ottobre del 1922 ad oggi non ci fossero stati cambiamenti nella situazione politica dei Partiti, il Fascismo avrebbe potuto considerare la possibilità di accordi o di blocco con quei partiti che diedero i loro uomini al Governo sorto dopo la Marcia su Roma. Quei Partiti sono tre: il Partito Popolare, il Partito Democratico-Sociale ed il Partito Liberale. Ognuno di questi tre Partiti, nel corso della esperienza fascista, si è scisso in due o diverse frazioni. Primo a passare all'opposizione, in questi ultimi giorni compiutamente smascherata, è stato il Partito Popolare, il quale, oggi si presenta diviso in ben quattro frammenti che corrispondono ad una estrema destra, ad una estrema sinistra e ad un centro che a sua volta e diviso in due frazioni.
Anche la democrazia sociale non ci presenta una impronta di atteggiamenti nei confronti col Fascismo.
Altrettanto dicasi del Liberalismo. Come si può parlare di contatti e di alleanze con Partiti che hanno la loro organizzazione divisa fra elementi favorevoli al Fascismo ed elementi più o meno decisamente contro il Fascismo? Quali sono i veri democratici sociali? Quelli che appoggiano il Governo Fascista o gli altri che sabotano questo appoggio? E chi sono gli autentici liberali? Quelli che hanno marciato con noi francamente e lealmente, oppure quelli che per quindici mesi, quotidianamente, diabolicamente, hanno suscitato fantasmi, hanno esasperato le opposizioni, hanno diffamato l'Italia in faccia al mondo? E quale è la distribuzione di tutte queste forze sul territorio nazionale? Come si può parlare di alleanze con dei Partiti la cui distribuzione di forze sul territorio è assolutamente disuguale, poiché mentre il liberalismo è discretamente efficiente in talune zone, non è mai arrivato a darsi una organizzazione veramente e nazionalmente unitaria avvalorando la tesi secondo cui organizzazione e liberalismo sono elementi necessariamente, irreducibilmente inconciliabili?
Accoglieremo quindi, al di fuori, al di sopra e contro i Partiti, nelle nostre file, tutti quegli uomini che sono disposti a darci la loro attiva disinteressata collaborazione, restando bene inteso che la maggioranza dev'essere riservata al nostro Partito.
Né vale la pena di disputar attorno a nominalismi privi di senso, come la transigenza e la intransigenza. Siamo di una coerenza che si può veramente chiamare perfetta, perché siamo sulla linea che promana dal modo di governo imposta con la entrata vittoriosa delle Camicie Nere in Roma: la costituzione del Governo Fascista al di fuori di tutti i Partiti e al di fuori di qualsiasi designazione di ordine parlamentare. Bisogna ricordare che allora io mi rifiutai di fare un Governo, non dico dittatoriale di pochissimi elementi, non dico composto in totalità di fascisti, ma feci un Governo di coalizione e fummo allora così spregiudicati in questo nostro criterio di utilizzare gli uomini, che taluni elementi del vecchio Governo entrarono a far parte del nuovo e, aggiungo, che di essi non ho avuto a dolermi. La nostra intransigenza non è formale, è sostanziale; e a questa intransigenza sostanziale, che io chiamerò strategica, non rinunceremo mai.
Se mi fosse concesso di chiudere in sintesi quello che sembra il dato fondamentale di questi ultimi tempi, io direi che essi segnano il declino fatale ed inevitabile di tutte le dottrine e di tutte le esperienze socialistiche. Mentre la Russia attraverso la «Nep» torna al capitalismo e chiede al capitalismo occidentale i mezzi per la sua ricostruzione economica, in Germania gli ultimi conati di sinistra sono ridicolmente falliti senza resistenza di sorta e spesso, come in Sassonia, nello scandalo e nella vergogna: in Francia la lotta tra frazioni sindacali e frazioni politiche ha ormai raggiunto il parossismo: in Inghilterra l'avvento del Labour Party non è destinato a scardinare il mondo e nemmeno l'Impero Britannico. Mac Donald non realizzerà il socialismo e non andrà a sinistra. Il monito agli insorti indiani è di una straordinaria significazione e deve avere gelato il cuore a molti melanconici di casa nostra.
Il Fascismo, come dottrina di potenziazione nazionale, come dottrina di forza, di bellezza, di disciplina, di senso della responsabilità, di repugnanza per tutti i luoghi comuni della democrazia, di schifo par tutte quelle manifestazioni che costituiscono la vita politica e politicante di gran parte dei mondo, è ormai un faro che splende a Roma, ed al quale guardano tutti i popoli della terra, specie quelli che soffrono dei mali che noi abbiamo sofferto e superato.
Alle nostre giovani generazioni è toccato l'arduo compito di vivere e sostenere questa esperienza, il cui interesse ha ormai varcato i confini della nostra terra. Bisogna avere il senso religioso di questa enorme responsabilità storica in tutte le manifestazioni della nostra vita, e privata e pubblica; in tutte le battaglie che la politica impone, non escluse quelle elettorali. Dobbiamo sgominare anche su questo terreno i nostri avversari: quelli che ci insidiano all'interno e quelli che ci insidiano all'estero, aspettando ormai vanamente da cinque anni il nostro tramonto. Sono sicuro che ci riusciremo. I nostri avversari saranno ancora una volta irreparabilmente battuti, perché si ostinano a negare la realtà che li acceca, perché si ostinano a pascersi d'illusioni stolte: le piccole crisi di ordine locale, gli episodi insignificanti che scoppiano qua e là nella penisola, sono elevati a sintomi di crisi mortale del Fascismo. Molte smentite clamorosissime sono venute in questi cinque anni: ma le speranze sono veramente tenaci a morire.
Questa Grande Assemblea che raccoglie il fior fiore del Fascismo italiano, cioè tutti coloro che nel Fascismo hanno un posto di responsabilità politica o militare o sindacale od amministrativa, deve far riflettere i nostri avversari. In un partito di giovani, di impetuosi e di passionali ogni contrasto può assumere forme drammatiche. Ma io credo che se domani si rendesse necessario di lanciare un appello a tutte le forze, i contrasti scomparirebbero. Molti di questi stessi che furono espulsi dal Fascismo e che pure ne hanno serbata l'acuta nostalgia nel cuore, ritornerebbero per chiedere di combattere.
Ondate di consenso avvolgeranno i nostri gagliardetti gloriosi bagnati dal purissimo sangue dei nostri martiri ed il Fascismo apparirà ancora una volta nel suo maestoso aspetto di movimento travolgente ed invincibile dotato della virtù per affrontare qualsiasi sacrificio, deciso fermamente a tenere ciò che fu conquistato, deciso non meno fermamente a conquistare nuove e più fulgenti vittorie.
Tutti hanno bene meritato. Tutti si sono prodigati ed hanno accettato una disciplina che si può dire soldatesca. I risultati si vedono e più ancora si vedranno. Un elogio particolare è dovuto al popolo italiano; a questo popolo laborioso e prolifico che ha dato e darà molti soldati all'Esercito, marinai alle navi, operai alle officine e molti contadini ai campi; a questo popolo italiano che ha accettato la nostra rude disciplina ed anche i sacrifici della nostra politica.
Quanto a me ho la coscienza di aver compiuto il mio dovere. Mi sono considerato e mi considero come un soldato che ha la consegna: la consegna severa che egli deve osservare a qualunque costo. Questa consegna è sacra ed io le sarò fedele. Il Governo è anche un problema di volontà. Se si vuole, si resta al Governo, e non è già, o Signori, per una piccola soddisfazione che io desidero, che io voglio restare al Governo.
Ho piacere di lavorare parecchie ore al giorno: di essere qualche volta, molto spesso, angosciato da problemi e responsabilità che fanno tremare le vene ed i polsi. Accetto questa servitù come il più alto premio che possa avere. Non credete agli stolti: io sono Fascista e resto fedele al Fascismo. I dissidenti non abusino più oltre del mio nome. Chi è contro il Fascismo, chi è contro il Partito, è necessariamente contro il Governo e contro me.
Rivolgendosi quindi verso il padre del fascista Berta che, commosso, ha le lacrime agli occhi, il Presidente così continua:
Giuro, a voi, Berta, che siete il padre di uno dei nostri martiri più cari, di uno che fu ucciso nel più atroce dei modi — credo che l'Arno in tanti secoli non abbia mai visto delitto più abominevole — ebbene giuro a voi, giuro alla memoria di tutti i nostri martiri, giuro, sicuro di interpretare il vostro intimo pensiero, che noi, ieri come oggi ed oggi come domani, quando si tratta della Patria e del Fascismo, siamo pronti ad uccidere come pronti a morire.
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Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1924
Roma, 1 febbraio 1924: MUSSOLINI Arringa gli ufficiali della Milizia
Roma, 1 febbraio 1924: MUSSOLINI Arringa gli ufficiali della Milizia
Circa tremilacinquecento ufficiali della M.V.S.N. si adunarono in Roma, all'Augusteo, il 1° febbraio 1924, al Gran Rapporto delle Camicie Nere. Parlò il triumviro Italo Balbo, quindi il Duce pronunziò questo discorso. Infine, gli ufficiali della Milizia prestarono giuramento e andarono a rendere omaggio al Milite Ignoto.
Ufficiali! Camicie Nere!
Davanti alla moltitudine inquadrata, i discorsi, quando non siano di una concisione spartana, sono delle superfluità assurde. Permettete, però, a me che ho visto la vostra storia e che vi ho voluto e creato così, che evochi in rapida sintesi il cammino percorso dalle origini ad oggi.
Tutte le volte che entro in questa specie di tempio dell'arte non posso dimenticare il Congresso di Roma del 1921, quando si riunì la più viva e gagliarda giovinezza d'Italia per lanciare, ad un anno di distanza, il primo guanto di sfida contro la piccola Italia dei politicanti e dei parassiti.
I pussisti ci gettaron allora fra le gambe una specie di sciopero generale, con la solita imboscata criminale ove perde la vita un fascista appartenente alle squadre milanesi.
Parve allora che il Fascismo non avrebbe superato la solita crisi attorno alla quale favoleggiavano tutti i bighelloni della opposizione.
Già si pregustava la gioia del declino e si tessevano gli elogi funebri. Poche settimane dopo, il Fascismo in efficienza perfetta nel Trentino, a Bologna, a Ravenna, a Ferrara, occupando le piazze, si preparava al cimento supremo, e appena due mesi prima della Marcia su Roma il Fascismo era così armato negli spiriti e nei mezzi che stroncava, una volta per sempre, l'ultima grottesca parodia di uno sciopero generale, cosiddetto legalitario e nel quale affluiva tutto ciò che di infetto e di stupido si coagulava in quel momento nella vita politica italiana.
Poi marciammo su Roma e non senza sangue. Non fu così incruenta la rivoluzione, come si va dicendo. Avemmo anche allora i nostri morti, i nostri feriti; e si sa, del resto, che una volta gettato il dado, avremmo rischiato il tutto per tutto.
Due mesi dopo risolvevo il problema dello squadrismo, creando la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che non è soltanto, come si va dicendo da taluni, una Milizia di Partito; non è soltanto agli ordini del Partito, ma agli ordini del Governo e dello Stato, perché io non so quali interessi di Partito stiano difendendo in questo momento le tre Legioni che combattono in Libia. Non so quali interessi precipui di Partito servirono le Legioni quando andarono per l'eruzione dell'Etna in Sicilia o pel disastro del Gleno in Lombardia. Né so a quali interessi di Partito obbediscano quando si assoggettano ai servizi di ordine pubblico e tengono in freno molte, troppe canaglie che tenterebbero di ricacciare l'Italia ai tempi che per noi sono tramontati per sempre.
Così stando le cose, non vi parrà affatto strano, ma vi sembrerà di una logica spietata la semplice frase che io ho pronunziata l'altra sera alla grande adunata e che ripeto:
Chi tocca la Milizia avrà del piombo!
Certamente voi e coloro che stanno dietro di voi imponete dei problemi; ma, o signori dell'opposizione, mi sapete voi dire se ci sia un solo problema che non imponga altri problemi? Se ci sia una sola soluzione che sia soddisfacente e comoda e facile?
Mi associo col cuore di un soldato fedele al saluto inviato dal vostro Capo a Sua Maestà il Re ed al saluto inviato all'Esercito di Vittorio Veneto.
I capi dell'Esercito sono venuti verso di noi. Stiamo ora studiando come inserire la Milizia nel complesso di tutte le forze armate che presidiano l'ordine all'interno e garantiscono la Patria all'estero. Non so ancora oggi come avverrà questa saldatura. Il problema è delicato, perché non intendo, sino a quando le condizioni ambientali non siano totalmente cangiate, togliere alla Milizia il suo carattere. Anzi io credo che i militi, i quali hanno il privilegio di indossare il grigioverde e di portare il moschetto, debbono essere i super-fascisti, gli asceti del Fascismo, quelli che obbediscono al Fascismo idea, passione, fede, apostolato e che qualche volta si disinteressano del Fascismo Partito con tutto ciò che la parola Partito fatalmente significa.
Voi continuate ad essere la grande forza che presidia la rivoluzione delle Camicie Nere. Vorrei usare una frase del gergo delle trincee: c'è della gente che vorrebbe truffarci il nostro sacrificio montando i macchinosi fantasmi della costituzionalità, della libertà, della democrazia e simile gramigna di immortali principi. Tante grazie. Ma io conosco dove si vuole andare a parare: ed è evidente che quando le nebbie si accumulano e si cerca di alterare la vera natura delle cose, è evidente ed è fatale che io pronunci discorsi durissimi, i quali appaiono come un raggio di luce potente che disperde tutta la nuvolaglia.
Dopo i miei discorsi si sa che cosa significhi fascismo, rivoluzione, milizia e si sa pure che cosa significhi la cosiddetta lotta elettorale.
Molti domandano quale sarà la vostra funzione nel prossimo periodo elettorale. Non vi scaldate troppo per questi ludi elettorali. Considerateli come piccole necessità della vita quotidiana.
Non dovete correre dietro questo episodio. Tutto ciò è vecchia Italia, è ancora ancien regime, tutto ciò deve essere lontano dalle vostre anime come è lontano dalla mia. E niente è più ridicolo di pensare ad un Mussolini che stia faticosamente compilando le liste elettorali.
Mi occupo in questi giorni di altri problemi ben più interessanti per la vita dell'avvenire della Nazione che non sia quello di scegliere i nomi di coloro che domani si autoproclameranno i rappresentanti della Nazione.
Voi sentite ancora una volta che il potere non mi ammollisce. Se avevo molti spigoli nel mio pessimo temperamento, questi spigoli aumentano, non diminuiscono. Voi conoscete la meta. Intendiamo fare della nostra Nazione una creatura piena di vita, di forza, piena di bellezza. Questo noi vogliamo. Per questo c'è una Milizia Per questo c'è il Fascismo. Questi sono i doveri, i sacri doveri ai quali voi non dovete mai mancare. Dovete considerarvi come dei portatori di una nuova civiltà, come gli anticipatori di un tempo che verrà, come i costruttori che gettano oggi le basi dell'edificio, che creano, che realizzano tutto quello che fu il sogno di tante generazioni durante il Risorgimento italiano: il sogno di coloro che combatterono e morirono dal 1915 al 1918 e dei nostri giovinetti dal sangue vermiglio e purissimo che sono spesso caduti nelle imboscate tragiche tese dagli elementi antinazionali.
Portiamo la loro memoria nel profondo dei nostri cuori. Essi costituiscono, più di tutte le tessere, il cemento sacro che avvince tutti i fascisti, dal Capo all'ultimo dei gregari.
Generale! Voi avete tracciato la storia breve ma già luminosa della Milizia. Voi sapete che io non vivo del passato: per me il passato non è che una pedana dalla quale si prende lo slancio verso il più superbo avvenire.
Chiamate questi uomini a gridare, attraverso il giuramento, la loro purissima fede. Sia il grido alto come una fiamma che sgorga da tutti i cuori, sia veramente non un atto formale ma una dedizione totale per la vita e per la morte!
Roma, 21 febbraio 1924: MUSSOLINI parla ai convenuti a Palazzo Chigi in rappresentanza della Corporazione Nazionale Agricoltura.
Il 21 febbraio 1924 si adunò in Roma, a Palazzo Chigi, la Corporazione Nazionale dell'Agricoltura, sotto la presidenza di S. E. il Capo del Governo, e con l'intervento del ministro dell'Economia Nazionale, on. Corbino, dei Sottosegretari di Stato, Acerbo e Serpieri, del comm. Rossoni, segretario generale della Confederazione delle Corporazioni sindacali fasciste. Parlarono il dott. Cacciari ed il comm. Rossoni; quindi il Duce pronunciò il seguente discorso:
Ecco un'altra riunione che, dopo quella tenuta alcuni mesi fa in questa stessa Sala severa e fastosa, potrebbe chiamarsi storica; è una riunione che può segnare e segna infatti l'inizio di un nuovo corso nelle relazioni sociali. Quando voi pensate che questo nuovo corso interessa milioni e milioni di Italiani, voi afferrate subito che chiamando storica questa riunione non si commette peccato di esagerata retorica. Credo che bisogna rialzare i valori dell'agricoltura italiana. Dobbiamo dirci qui che è stata un po' negletta l'agricoltura.
C'è stato in questi ultimi tempi uno sviluppo industriale in Italia fortissimo, prodigioso: ma la ricchezza dell'Italia, la stabilità della Nazione e l'avvenire di essa sono, a mio avviso, intimamente legati alle sorti ed all'avvenire dell'agricoltura italiana. Ragione per cui vorrei che gli Italiani e tutti coloro che si occupano di questioni sociali, ed anche i legislatori passati e futuri, tenessero al primo piano della loro considerazione le cose dell'agricoltura. Io ho la coscienza tranquilla a questo riguardo, perché tutte le volte che si sono discussi Trattati di commercio ho fatto sempre larghissimo posto agli interessi dell'agricoltura italiana.
A questo punto io devo rallegrarmi del nuovo indirizzo che si dà all'agricoltura italiana: indirizzo tecnico, diretto a industrializzare l'agricoltura, a esercitarla razionalmente. Io credo che l'Italia sia in grado, sia pure attraverso la compensazione delle diverse culture, di produrre tutto ciò che le è necessario e di avere anche la possibilità di esportare. Le Nazioni solide, le Nazioni ferme sono quelle che stanno poggiate sulla terra: sono quelle che hanno il maggior numero di piccoli proprietari. Le masse agricole italiane si sono portate bene durante la guerra. In realtà la guerra è stata fatta dai contadini italiani almeno nella misura del 70-75 per cento dei fanti che stavano in trincea.
Considero fausta questa riunione anche per il fatto che vedo qui presenti i rappresentanti della Confederazione dell'agricoltura: il che significa che si è stabilita la unità di tutti gli sforzi e di tutte le energie: unità che è completa perché abbraccia i proprietari, i tecnici e i lavoratori: completa anche dal punto di vista morale in quanto che i proprietari riconoscono che la proprietà non è più soltanto un diritto ma un dovere; non è un bene egoistico, ma è piuttosto un bene che bisogna impiegare e sviluppare in senso umano e sociale. D'altra parte i lavoratori riconoscono che la proprietà non è già un furto, come si legge nella bassa letteratura socialista, ma è il risultato di risparmi, di fatiche da parte di gente che si è spesso privata del necessario, si è sottoposta a fatiche durissime, pur di raggranellare quel peculio che poi ha il sacrosanto diritto di trasmettere a coloro che verranno dopo.
Per tutte queste ragioni io sono sicuro che il periodo di pace sociale che si è iniziato col 1922 continuerà ancora per molto tempo. Ciò è necessario. L'errore di molti Italiani è di credere che si sia in tempi di pace: che la nave sia giunta in porto e che l'equipaggio possa sbizzarrirsi. Niente affatto. Dobbiamo considerarci ancora in istato di guerra; dobbiamo serrare i denti, imporci la più severa disciplina. Siamo ancora in tempi tempestosi. Si intravede già il porto, ed è certo che la nave è indirizzata egregiamente a raggiungerlo. Ma occorre però che tutti si rendano conto che è necessario ancora e sempre subordinare gli interessi dei singoli agli interessi della Nazione. Perché la Nazione li comprende tutti. Se la Nazione è pacifica, è concorde, è laboriosa, è prospera ed è ricca, è evidente che tutti coloro che sono in essa ne trarranno benessere.
Vi porto quindi il mio saluto fraterno e cordiale, il mio saluto di Fascista, di Italiano e di Capo del Governo. Voi potete contare su di me ed io credo di poter contare su di voi.
Roma, 21 febbraio 1924: MUSSOLINI interviene al convegno dei Sindacati del Commercio.
Nello stesso giorno, 21 febbraio 1924, dopo l'adunanza per la Corporazione dell'agricoltura, si tenne un convegno per i Sindacati del Commercio. Parlò il Gr. uff. Cartoni, presidente dei Sindacati nazionali del Commercio e della media e piccola industria, e il Duce rispose con le seguenti parole:
Accolgo con animo grato le dichiarazioni convincenti del signor Cartoni, che ora apprezzo ancor di più e sono lieto di avere introdotto nella lista nazionale, il che significa che uno dei postulati richiesti, quello della collaborazione, io l'ho quasi praticamente risolto.
È evidente che tutte le volte che saranno in discussione, in Parlamento e fuori, questioni che vi interessano, voi avete già uno che vi rappresenta. D'altra parte quando i Consigli tecnici e le organizzazioni corporative in genere avranno preso una figura giuridica definita, non è da escludere che si trovino gli istituti per rendere permanente la loro collaborazione col Governo.
Il Governo ha già fatto qualche cosa per voi: vi garantisce il libero uso delle vostre proprietà: violenze non se ne tollerano più.
Quanto al fiscalismo, io sono il primo a riconoscere che può essere anche pesante, ma qui siamo alla quadratura del circolo. D'altra parte credo che fra qualche tempo si potranno allentare le maglie. Non dovete credere che il Governo ed il mio amico onorevole De' Stefani mettano tasse per il piacere discutibile di far strillare i contribuenti: ci sono delle necessità inderogabili davanti alle quali non si può transigere, pena il fallimento dello Stato, il che significa la catastrofe della Nazione. Non appena le finanze italiane saranno arrivate al pareggio o in vista del pareggio, verso il quale noi marciamo tenacemente, è evidente che ci sarà un sollievo e che cadranno le ragioni per cui era necessario in un determinato periodo della storia italiana di gravare in particolar modo su tutti i cittadini, del resto, e non su una sola determinata categoria. Il Governo chiede a voi di continuare a dar prova della vostra perfetta disciplina, che non è imposta dalla volontà degli uomini, ma dalle obiettive circostanze storiche. Io ho la certezza che fra qualche tempo, fra tutte le nazioni europee, percorse da crisi sociali acutissime, l'Italia sarà la sola tranquilla, laboriosa, ordinata, avviata verso un prospero avvenire.
Roma, 9 marzo 1924: MUSSOLINI ringrazia l'Associazione degli ex bersaglieri, per la pergamena che lo nomina Presidente della stessa associazione.
Nel museo storico dei Bersaglieri nella Caserma di San Francesco a Ripa in Roma, il 9 marzo 1924, fu consegnata a S. E. il Capo del Governo una pergamena per la sua nomina a Presidente dell'Associazione fra gli ex bersaglieri. Parlò il Generale Zoppi, presidente dell'Associazione e il Duce rispose con le seguenti parole:
Generale! Commilitoni!
Tutte le volte che mi accade di incontrare un reparto di bersaglieri e sento squillare le trombe che suonano la nostra caratteristica marcia, nel mio animo si alternano i sentimenti di melanconia e di orgoglio. Melanconia, perché ricordo i miei venti anni, di cui due trascorsi a Verona tra le caserme Castel vecchio e Catena; e ricordo le bellissime corse, al mattino, lungo le rive dell'Adige, corse che allargavano i polmoni e fortificavano i garretti.
Sono poi fieramente orgoglioso di avere partecipato negli anni lontani della pace e in quelli vicini e non dimenticabili della guerra al corpo dei bersaglieri; orgoglioso perché sul Carso, in Carnia, sull'Jaworcek, sul Cuckla, sul Rombon, ho visto con i miei propri occhi tutta la vicenda silenziosa ed eroica del bersagliere italiano.
È per me fonte di viva commozione ritrovarmi in queste sale, in questo museo, in questo tempio così ricco di ricordi. Ognuno di essi parla al nostro spirito, ognuno di essi ci dice che quando si è stati bersaglieri a vent'anni, si resta bersaglieri per tutta la vita, vale a dire si porta nella vita quello spirito che chiamerei bersaglieresco di sollecitudine e di dedizione nell'adempimento del proprio dovere.
Sono lieto che il mio caro e grande amico Duca della Vittoria abbia accolto il mio desiderio di conservare i bersaglieri. Egli si rese subito conto, nella sua squisita sensibilità di capo e di soldato, che non bisogna disperdere le tradizioni, che le tradizioni sono una grandissima forza nella storia dei popoli e che se voi andate togliendo quelle tradizioni, voi togliete una delle basi sulle quali si può edificare la storia futura, che non è che il compimento e il perfezionamento della storia passata. La scomparsa dei bersaglieri sarebbe stata interpretata nella maniera più equivoca; sarebbe stata interpretata come una specie di castigo inflitto a un corpo che pure aveva un secolo di storia gloriosa.
Approvo che accanto all'Esercito, e quasi in relazione coll'Esercito, sorgano istituzioni come la vostra, una associazione di bersaglieri che accoglie tutti i bersaglieri, che si affiata, che mantiene in essi vive le tradizioni del corpo e ne fa una specie di esercito smobilitato, che domani sarebbe pronto a rifluire nei quadri e nei reggimenti.
La ringrazio, Generale, per il dono; ma soprattutto per il significato del dono. Questo simbolo dice che tra il bersagliere Mussolini e i bersaglieri di tutta Italia c'è un vincolo di fraternità indistruttibile.
Roma, 24 marzo 1924: MUSSOLINI interviene nella manifestazione che celebra i Cinque anni trascorsi dopo San Sepolcro
In poco più d'un anno d'intensa attività, il Duce e il Regime avevano dimostrato, e dimostravano ogni giorno, la loro capacità di rinnovare nella sua essenza la vita del Paese e di elevare la dignità d'Italia nel mondo. Ma i vecchi partiti - vinti ma non aboliti, in combutta con la Massoneria - non disarmarono: volutamente ciechi dinanzi alla realtà dei fatti, non rassegnati alla sconfitta, chiusi nelle strettoie intellettualoidi dei loro capi, rinfocolati dall'imminente campagna elettorale facevano pessimo uso della libertà generosamente concessa dal Fascismo ai loro giornali e alla loro attività politica. Di fronte al Fascismo che operava, si sentiva la sordida opera dissolvente di chi, fuori d'ogni responsabilità, s'abbandonava soltanto alla critica, all'intrigo, alla calunnia. Si preparava un'atmosfera di battaglia. Il Duce, celebrando al Teatro Costanzi in Roma, il 24 marzo 1924, il quinto anniversario della storica adunata di Piazza San Sepolcro, davanti a cinquemila sindaci adunati da tutte le regioni d'Italia, reagì energicamente alle prime avvisaglie della campagna avversaria, pronunziando il seguente discorso:
Signori!
E' con un senso composto di commozione e di orgoglio che io mi accingo a parlare dinanzi a voi, o primi magistrati dei nobili comuni d'Italia. Credo di non esagerare se affermo che da molti secoli Roma, la nostra Roma, non vide spettacolo più imponente e più solenne di questa adunata. Ho quasi l'impressione fisica di parlare non soltanto a voi, ma a tutte le popolazioni che voi rappresentate, all'intera Nazione. L'amministrazione è politica e la politica è amministrazione. Io vi prego di seguirmi con benevolo raccoglimento, perché non ho scritto nulla onde evitare il pericolo di scrivere un discorso che non avrei pronunziato e di pronunziare un discorso che non ho scritto.
L'idea di convocarvi a Roma per celebrare il quinto anniversario della fondazione dei Fasci è mia. Si può dire che sino a ieri Roma era la capitale avulsa un poco dal resto della Nazione. Da quando il Fascismo tiene il potere, esso tende a concentrare nella capitale tutte le più grandi e le più alte manifestazioni della politica italiana. Il quinto anniversario della fondazione dei Fasci doveva essere celebrato a Roma.
Quando cinque anni fa noi ci riunimmo in una oscura sala di Piazza San Sepolcro, a Milano, eravamo poche diecine di persone: arditi, legionari, combattenti. Non si abusi dunque della frase di fascisti della prima ora. Cerchiamo di non tenere sempre in mano l'orologio per constatare a quale ora precisa appartengono i fascisti, perché i fascisti della prima ora sono pochissimi. Bisogna avere il coraggio di aggiungere che per tutto il 1919 i fascisti d'Italia non arrivavano alla cifra di diecimila. Ciò non ostante, pure essendo in pochi, in pochissimi, avemmo il coraggio di affrontare immediatamente il sovversivismo che allora spacciava tutte le favole dei paradisi della sua demagogia. I Fasci si costituiscono il 23 marzo e il 15 aprile, tre settimane dopo, essi sono già così audaci e potenti che infrangono uno sciopero generale, disperdono una minacciosa dimostrazione bolscevica, e, fatto che sembra oggi straordinario, vanno direttamente all'assalto del fortilizio nemico e l'incendiano.
Pochi mesi dopo avemmo le elezioni infauste del 1919. Molto coraggio anche allora, ma pochissimi voti: Milano me ne diede 4064. Ci fu anche una specie di funerale simbolico. Si disse e si stampò che oramai ero liquidato e sepolto. Ci raccogliemmo all'indomani di quelle elezioni, i soliti, i pochi, gli audacissimi, e decidemmo di riprendere la battaglia senza esitazione e senza pausa. Nel 1920 tenemmo il primo congresso a Milano. Già l'idea si era diffusa perché gli iscritti assommavano a 20.615. Nel 1921 erano già 248.936. Fu allora che, preceduto da polemiche vivacissime, tenemmo a Roma il nostro terzo grande congresso, che fu la rivelazione dell'immensa forza del Fascismo italiano. Lo tenemmo all'Augusteo, costituimmo un partito e spezzammo uno sciopero generale che ci era stato gettato fra i piedi dai soliti elementi antinazionali.
Ricordo questo congresso perché feci allora un primo tentativo infruttuoso di spersonalizzare il Fascismo, di smussolinizzare il Fascismo. A quella grande assemblea io dissi: «-Guarite di me, fate il partito con una direzione collettiva, ignoratemi e, se volete, anche dimenticatemi-». Non è stato possibile. Bisogna constatare come io constato, che questa è una assemblea imponente. Che cosa ci dice questo? Che i grandi movimenti storici non sono già soltanto il risultato di una addizione numerica, ma anche l'epilogo di una volontà tenacissima.
Nel 1922 io mi convinsi fin dall'estate che bisognava fare la rivoluzione. Lo Stato si disintegrava. Ogni giorno di più il Parlamento non era capace di dare un Governo alla Nazione. Le crisi si prolungavano e si ripetevano, suscitando sempre più profonda la nausea della Nazione. Nessuno, nessuno voleva portare sulle spalle la croce del potere. All'ultimo, poiché un gerente responsabile ci voleva in questa amministrazione, si prelevò Facta e gli si disse: «-Tu devi essere il Presidente del Consiglio dei Ministri-». E costui accettò la corvée sapendo, o intuendo, o presagendo che di lì a poco ne sarebbe stato liberato per sempre. Intanto il Fascismo accresceva se stesso come massa e come quadri, si dava una sua organizzazione militare, occupava Bologna, Ferrara, Bolzano, Trento, troncava nell'agosto l'ultimo tentativo di sovversivismo nazionale, il famoso sciopero dell'Alleanza del lavoro, e finalmente si accingeva a compiere la marcia su Roma.
Sono io che l'ho voluta, questa marcia, io che l'ho imposta, io che ho tagliato corto a tutti gli indugi. Il 16 ottobre ho convocato a Milano quelli che dovevano essere i capi militari della insurrezione e dissi loro che non ammettevo more ulteriori e che bisognava marciare prima che la Nazione piombasse nel ridicolo e nella vergogna.
Perché io chiamo rivoluzione quella dell'ottobre? Se levar le masse in armi, se condurle ad occupare gli edifici pubblici, se farle convergere armate verso la capitale non significa compiere quello che è l'atto specifico di ogni rivoluzione, cioè una insurrezione, allora bisognerà cambiar tutto il vocabolario della lingua italiana.
E perché io insisto a proclamare che quella dell'ottobre è stata storicamente una rivoluzione? Perché le parole hanno la loro tremenda magia, perché è grottesco tentare di far credere che è stata una semplice crisi ministeriale. Ho voluto, sin da allora, che la rivoluzione avesse dei limiti, non oltrepassasse certi confini. Distruggere è facile, non altrettanto ricostruire. Forse, se noi avessimo dato alle nostre masse il diritto che ha ogni vittorioso, quello di spezzare il nemico, sarebbe passato, per certe schiene, quel brivido di terrore, per cui oggi non ci sarebbe più discussione possibile sulla rivoluzione o meno compiuta dal Fascismo.
Mi domando: «La nostra longanimità è stata un bene o un male?». La domanda è provocata dal fatto che molti, troppi, di questi avversari, di questi nemici, noi li ritroviamo in circolazione. Qualche volta sono insolenti, qualche altra compiono vere e proprie opere di sovversivismo e di disintegrazione nazionale. Ho risolto questo interrogativo che mi ha inquietato parecchio tempo.
Ritengo che allora sia stato un bene di contenere la nostra insurrezione trionfante; ritengo che sia stato un bene di non avere, alle nostre spalle, un corteo più o meno imponente di giustiziati. Ma ritengo anche, e bisogna gridarlo perché tutti intendano, che se fosse necessario domani per difendere la nostra rivoluzione di fare quello che non facemmo, lo faremo!
Andai chiamato dal Re, al Quirinale. I fumi della vittoria non mi sono mai andati alla testa. Io non ero sul balcone del Quirinale quando 52.000 fascisti armati di tutto punto sfilarono per rendere omaggio alla Maestà del Re. Io ero già alla Consulta, al mio tavolo da lavoro. Né all'indomani mi andarono i fumi alla testa, quando seppi che gli ufficiali della guarnigione di Roma si ripromettevano di venire sotto le finestre dell'Hotel Savoia a rendermi omaggio. Dissi allora in una lettera, che certi sovversivi dell'opposizione costituzionale hanno evidentemente dimenticato, che l'Esercito non poteva parteggiare, che nella disciplina cieca ed assoluta era il suo privilegio, la sua forza, la sua gloria. E feci un ministero di coalizione.
Tutte le rivoluzioni si sono presi i ministri del vecchio regime, li hanno incarcerati, qualche volta anche fucilati. Io invece ne presi uno, non so se il più ingenuo o il più innocuo, certamente il più abbondevole, lo feci ministro dell'industria e del commercio e non ebbi a penarmene. Sin d'allora io ero nella costituzione.
Che cosa è la costituzione di cui si parla anche troppo? La costituzione è un patto giurato in determinate circostanze di tempo e di luogo fra il Sovrano ed il popolo. La costituzione, Signori, non è già una camicia di Nesso e non è nemmeno una specie di feto che deve essere conservato prudentemente, gelosamente, in una scatola di vetro. I popoli camminano, si trasformano, hanno, nel prosieguo del tempo, nuovi bisogni e nuove passioni. Noi siamo rispettosissimi della costituzione in quello che è lo spirito immortale della costituzione. Ma la forma di essa, come la lettera della costituzione, non è altrettanto intangibile. Un capitolo interessante della storia politica sarebbe quello che fosse dedicato a constatare quante volte la costituzione Albertina fu violata dal 1848 in poi. E permettetemi di trovare strano che si affannino oggi a difendere la costituzione, che il Fascismo non minaccia, coloro che ieri volevano togliere alla Maestà del Re il diritto di grazia e di amnistia, che volevano fare del Re, non pure il notaio del Parlamento, ma il notaio delle miserabili ambizioni dei gruppi parlamentari.
Sempre per stare nella costituzione, formato il ministero, l'ho presentato alla Camera. Potevo sciogliere questa Camera, potevo ottenere una proroga indefinita della sessione; invece chiesi dei pieni poteri e anche questi nettamente delimitati nel loro esercizio e non meno nettamente delimitati nel loro tempo poiché scadevano, come sono scaduti il 31 dicembre 1923.
Bisogna fare il bilancio di questo anno di pieni poteri. Ebbene, il bilancio si chiude in un grande attivo. Nell'interno io mi sono trovato di fronte al problema assai delicato che può essere prospettato in questi termini: «-Come riassorbire nello Stato tutta l'autorità dello Stato?-». Non era, ve lo assicuro, un compito assai semplice, poiché ogni formazione politica a base militare sottraeva una particella all'autorità dello Stato. Ora vi rendete perfettamente conto come da una parte io abbia convertito lo squadrismo in Milizia Nazionale e dall'altra abbia soppresso gli squadrismi di ogni colore.
Avevo creato gli alti commissari politici. Quando mi accorsi che questi diventavano dei superprefetti, li soppressi perché pensai che soltanto il prefetto dovesse rappresentare il Governo nelle provincie. Per non creare equivoci pure tra fiduciario politico del Fascismo e segretario politico del partito, anche il termine fiduciario è stato abolito. Tutto ciò viene dimenticato dai sovversivi della opposizione costituzionale.
Non devo invadere il campo delle finanze perché il mio eccellente amico De' Stefani sta preparando un discorso che sarà soddisfacente per tutti gli italiani. Ma in un discorso degli ultimi giorni si è fatto del pessimismo sulla questione dei cambi, si sono invitati gli italiani a meditare sulle cifre dei cambi. Orbene, i cambi denotano un miglioramento della situazione finanziaria italiana.
L'area di miglioramento della nostra lira è cresciuta dall'ottobre in poi; ed il miracoloso è che la barca della nostra lira abbia potuto reggere in mezzo ai tempestosi flutti del 1923 che ha avuto la caratteristica di una nuova guerra, sotto forma speciale, tra la Francia e la Germania. Se non ci fosse stata l'occupazione della Ruhr, con tutto quello che questa occupazione pericolosa significa, credo che oggi la quotazione del cambio della nostra lira sarebbe ancora molto migliore.
Si è detto: «-Bisogna andare verso il popolo che lavora-»; ma noi ci siamo andati. L'Italia è la prima Nazione che ha già ratificato tutte le convenzioni sociali di Washington. Alberto Thomas, non so se ancora socialista e di quale tinta, è venuto a Roma l'altro giorno in nome dell'Ufficio internazionale del lavoro presso la Società delle Nazioni a raccomandarsi che il Governo fascista continui a dare l'esempio in materia di legislazione sociale.
Non abbiamo fatto della demagogia; siamo andati incontro al lavoro, con animo aperto e generoso. Abbiamo inquadrato tutta la burocrazia; abbiamo delle colonie e non soltanto sulle carte degli uffici ministeriali; abbiamo riformato la giustizia. Nessuno più del Governo fascista è rispettoso della indipendenza della giustizia. Vi prego di riflettere che la punta di spillo della piramide della gerarchia nazionale è occupata da un uomo solo, dal Primo Presidente della Unica Cassazione del Regno. Con questo, meglio che con ciarle oblique, abbiamo dimostrato quale sia il rispetto della giustizia. Abbiamo realizzato quello che per cinquanta anni è stato il voto di tutti i giuristi italiani: l'unificazione delle Cassazioni. Ho chiesto al primo Presidente della Corte di Cassazione notizie sui risultati della coraggiosa riforma giudiziaria preparata dal mio amico Oviglio. Ed in data di ieri il Primo Presidente della Corte di Cassazione così mi risponde: «-L'unificazione delle Cassazioni del Regno, invocata da oltre 50 anni da magistrati, giuristi ed uomini politici, è stata il coronamento di tutte le riforme giuridiche compiute nel campo nazionale. Essa è tra gli atti legislativi più rilevanti del Governo stesso. La Cassazione Unica aveva ereditato dalle antiche corti soppresse un arretramento di circa seimila processi civili. Grazie ad alcune riforme legislative, soprattutto grazie al ritmo accelerato dei lavori, al concorso volonteroso degli avvocati d'Italia, si può fin d'ora prevedere che il lavoro continuerà in condizioni normali, rendendo il funzionamento della giustizia ancora più rapido di quello che non fosse al tempo delle cinque Corti-».
Per i lavori pubblici abbiamo stabilito una somma imponente che deve attrezzare l'Italia per i compiti del futuro.
In politica estera il Fascismo ha avuto sulle braccia delle pesanti eredità: delle eredità pesanti nell'Adriatico e non meno pesanti nel Mediterraneo. Intanto sia detto che il Governo fascista, tacciato di reazione e di antidemocrazia, ha realizzato nel ministero degli esteri l'abolizione della rendita ed ha aperto a tutti i cittadini volonterosi, intelligenti e preparati la carriera diplomatica e consolare.
Nell'Adriatico, ve lo dico subito, non abbiamo fatto grandi cose. Abbiamo salvato Fiume; ma Fiume ci è venuta mutilata. Credo che anche gli uomini di Governo responsabili jugoslavi debbano essere d'accordo con me nel riconoscere che certi tratti del confine sono assurdi. Un confine che drizza il suo muro separatorio a due o tre metri dalle case della città, mi fa pensare o dubitare che coloro che a Rapallo trattarono questo problema e ora la fan da maestri, non abbiano mai consultato una carta geografica.
Le direttive della politica estera del Fascismo sono note. Non temete o non credete agli isolamenti; di quando in quando salta su l'ultimo degli imbecilli a dire che l'Italia è isolata. Ebbene, o signori, bisogna scegliere: o voi volete, come dite di volere, una politica di autonomia; e allora saranno inevitabili periodi più o meno brevi di cosiddetto isolamento; o voi vorrete legarvi indissolubilmente; e allora avrete perduto la vostra autonomia.
Del resto non ci è stato né ci può essere nessun atto di portata internazionale in cui non sia rappresentata l'Italia. Nessuno può ignorare l'Italia. L'Italia è rappresentata, come sapete, nel Comitato dei periti che stanno per consegnare il loro rapporto; è naturalmente rappresentata nella Commissione delle riparazioni; e nessuna decisione oggi — il dirlo è lapalissiano — nessuna decisione può essere presa che impegni in qualche modo l'avvenire d'Europa, senza consultare e tenere in conto gli interessi e la volontà della nazione italiana.
Si è detto dall'on. Giolitti che bisogna fare una politica di pace. La facciamo. Che bisogna riallacciare i rapporti economici con gli altri popoli. L'abbiamo fatto. Che bisogna considerare la Russia come una entità esistente nella carta politica d'Europa. L'abbiamo riconosciuta. Che sarà bene di non essere contrari ad una eventuale ammissione della Germania nella Lega delle Nazioni. Non sarà certo l'Italia che porrà dei veti infrangibili. Tutto quello che gli avversari ci additano come un programma futuro è già un fatto acquisito. Naturalmente non si può fare una politica estera se il Paese non è disciplinato e se il Paese non è armato.
Un uomo di Governo ha delle responsabilità spaventevoli. Qualche volta queste responsabilità mi danno il senso fisico dell'oppressione, come se tutte queste preoccupazioni pesassero del loro peso fisico sulle spalle. Non si ha il diritto di credere alle ideologie umanitarie pacifiste. Bellissime, notate, bellissime in teoria, utopie magnifiche, poetiche. Ma la realtà dei fatti ci ammonisce di essere assai vigilanti e di considerare il terreno della politica estera come un terreno di mobilità massima. Per essere pronti a tutti gli eventi, è necessario avere un Esercito, una Marina, un'Aviazione. Quando io penso allo stato lacrimevole, nefando in cui fu lasciata l'aviazione italiana, che pure aveva scritto pagine memorabili in guerra; quando io penso agli hangars deserti, alle ali spezzate, ai piloti dispersi ed umiliati, io dico che colui, o coloro, che avevano condotta l'Italia a questo baratro, sono veramente traditori della Patria.
Il discorso più sovversivo è stato pronunciato l'altro giorno a Napoli. Discorso sovversivo, e non per nulla i repubblicani hanno aperto al nuovo eretico della costituzione le porte dei loro asili solitari. Si è tacciata di illegalità la legge elettorale. Si è parlato di un Senato elettivo e sopra tutto si è parlato di un quarto, di un quinto misterioso potere supremo giudiziario che dovrebbe controllare Governo e Parlamento. Mi domando se mai si pensò più bassa e balorda violazione della costituzione.
Signori, la legge elettorale ha tutti i crismi della legalità. È stata votata da un Consiglio dei Ministri all'unanimità. Non sarà inopportuno ripetere che fu presentata alla Camera, che la Camera nominò una Commissione, che in questa Commissione i fascisti erano rappresentati da un solo deputato, che il Presidente di questa Commissione era Giolitti, che si discusse a lungo prima del passaggio agli articoli, che si discusse non meno a lungo sui singoli articoli, che la legge fu approvata per appello nominale e fu approvata a scrutinio segreto con cento voti di maggioranza, e, dopo avere avuto il suggello della legalità della Camera, ebbe quello del Senato con l'unanimità meno quaranta voti contrari. Dopo di che fu firmata da Sua Maestà il Re, e, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, diventò legge dello Stato. Mi domando come si può tacciare in buona fede di anticostituzionalità la legge elettorale, la quale del resto è molto meno antidemocratica e reazionaria di quello che non sembri ai nostri contradditori.
Si era chiesto di togliere il limite di età? Fatto. La scheda di Stato? Concessa. E non sentite d'altra parte che l'avere un poco sradicati i cittadini italiani dai loro piccoli collegi in cui intristivano ha dato alla lotta elettorale odierna una ampiezza non mai supposta e un elaterio nazionale che forse era follia sperare? Questa lotta elettorale porge ai cittadini italiani l'occasione di votare o prò o contro.
Non voglio indugiarmi a fare l'elogio dell'opera mia e di quella dei miei collaboratori. Ma mi è capitato fra le mani, proprio in questi giorni, edito dal mio amico Ciarlantini, un libro del prof. Rignano che è un positivista, un socialista, un uomo di valore. È strano che questo libro che doveva scagliare la democrazia contro il Fascismo finisca con una esaltazione del Fascismo, il che potrebbe farmi supporre che l'autore covi delle tendenze senatoriali. Il primo e principale vantaggio — dice Rignano — dell'avvento del Fascismo al Governo non è che troppo evidente a tutti. Al disordine interno, all'anarchia, un Governo; al disfacimento sociale, il rinsaldamento della compagine nazionale; cessato il sabotamento del lavoro da parte degli operai più riottosi, cessata la indisciplina nelle officine; cessati i continui scioperi; cessati gli scioperi nei pubblici servizi; cessata la guerra civile, salvo ancora alcuni fatti sporadici che accennano a diminuire di numero; rimessa in attività tutta la produzione del Paese; ispirato ai funzionari dello Stato un maggior senso di dovere e responsabilità; impresso un andamento più severo ed energico alle funzioni dello Stato, delle provincie e dei comuni. Tutta questa ripresa di un ritmo produttivo, di un funzionamento statale più ordinato, più intenso, non si può negare abbia portato ottimi frutti nella ricostruzione finanziaria ed economica del paese. Questo signore mi avverte: badate che ogni regime ha in sé la legge dei propri confini. Oltre un certo limite, il bene che può dare la dittatura diventa male. Ma è appunto per questo che io, tiranno, ho rinunziato ai pieni poteri al 31 dicembre 1923. Lo stesso consiglio me lo aveva dato uno dei miei maestri, il più illustre, Vilfredo Pareto. Ogni regime ha in sé la sua giustificazione a patto però che non si prolunghi oltre le sue obiettive necessità storiche, oltre le quali diventerebbe un anacronismo politico. Badate che io li potevo avere, i pieni poteri. Quei certi popolari che fanno ora i draghi che sputano fuoco, prima che io avessi parlato di chiedere la proroga dei pieni poteri, me li avevano offerti. Avevano votato, come si dice, l'analogo ordine del giorno. Credo che tutto il resto della Camera, compresi i socialisti, sarebbe stata lietissima di farmi fare il tiranno per un altro anno ancora. Io invece ho pensato che ormai tutto quello che i pieni poteri potevano dare lo avevano dato.
E ho convocato le elezioni.
Inutilmente durante questo periodo elettorale si rinnovano le vecchie accuse al Fascismo, quello che io chiamo il prodotto dell'infantilismo avversario. Prima di tutto si è detto: «-Passerà il Fascismo, il Fascismo è un fenomeno transitorio...-». È un transitorio che dura da cinque anni! Ma soprattutto ciò che mi stupisce è questo voler rinnegare la più evidente e palpabile realtà. Si è molto chiacchierato sulle così dette beghe del dissidentismo. Può essere noioso. Ma quando penso che nel Fascismo sono irreggimentati circa due milioni di individui, mi rendo conto come sia difficile pretendere che essi marcino sempre per tre come dei soldatini di piombo.
Si è detto anche: «-Voi non avete dottrina-». Ebbene, io affermo che non vi è nessun movimento politico che abbia una dottrina più salda e determinata della dottrina fascista. Abbiamo delle verità e delle realtà precise dinanzi al nostro spirito e sono: lo Stato, che deve essere forte; il Governo, che deve difendersi e difendere la Nazione da tutti gli attacchi disintegratori; la collaborazione delle classi; il rispetto della religione; la esaltazione di tutte le energie nazionali. Questa dottrina è una dottrina di vita, non una dottrina di morte.
E che cosa ci pongono di fronte gli avversari? Niente; delle miserie. Sono ancora in arretrato di 50 anni in fatto di filosofia. Stanno postillando tutte le fantasie dei positivisti; fantasie, dico, poiché come non vi è un uomo più pericoloso del pacifista, così non vi è un ideologo più pericoloso del positivista. Tutto il processo di rinnovazione spirituale delle nuove generazioni è a loro ignoto. Che dottrina ci pone innanzi il socialismo? E quale è il vero socialismo? Perché delle etichette sulle bottiglie se ne vedono parecchie. C'è un socialismo massimalista, uno comunista, uno unitario ed anche uno che si dice nazionale e forse lo è.
Altrettanto dicasi del liberalismo. Si è detto: «-Il liberalismo ha fatto l'Italia-». Adagio, non esageriamo. Io intanto contesto che ci sia stato un partito liberale durante il Risorgimento, un partito, dico, nella concezione moderna del termine. Ci sono stati gruppi e correnti liberali. Ma accanto al partito liberale rappresentato magnificamente da Camillo Cavour, ci sono stati uomini non liberali come Mazzini, Garibaldi, i fratelli Bandiera e Carlo Pisacane ed i suoi compagni che sono andati a farsi massacrare per un sogno di libertà e di resurrezione.
Prima dell'ultima guerra, abbiamo avuto almeno due liberalismi: il liberalismo di Antonio Salandra che voleva l'intervento e il liberalismo del «parecchio».
Mi fanno ridere adesso questi venditori del sole di agosto. È vero, il tricolore è sul Nevoso. Ma se avessimo obbedito alla suggestione del liberalismo di Dronero, il tricolore sarebbe tutt'al più sulla stazione di Cervignano: forse non si sarebbe arrivati fino a Salorno. Il monte Nevoso lo avremmo visto, permettetemi la espressione trincerista, con il binoccolo. Vi avremmo messo simbolicamente il palamidone di Giovanni Giolitti, mentre oggi vi sventola il glorioso tricolore.
E vengo, o signori, a bucare con la mia logica spietata la più ventosa delle vesciche di tutte le opposizioni: la libertà.
Noi guardiamo in faccia questa dea e vogliamo vederla esattamente nei suoi connotati.
Il concetto di libertà non è assoluto perché nella vita nulla vi è di assoluto. La libertà non è un diritto: è un dovere.
Non è una elargizione: è una conquista; non è una uguaglianza, è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C'è una libertà in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C'è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria. C'è la lotta, la grande lotta fra lo Stato e l'individuo, fra lo Stato che accentra e l'individuo che tenta di evadere, perché l'individuo lasciato a se stesso è l'individuo che, a meno che non sia un santo o un eroe, si rifiuta di pagare le tasse, si rifiuta di obbedire alle leggi, o di andare in guerra. Quando la Nazione, come ieri e come oggi, è impegnata per la vita e per la morte, inseguirete ancora le vostre rovinose chimere? Io dico: No.
Di che libertà si parla? Quando in un paese è permesso fare una campagna per la libertà, questa è la miglior prova che la libertà esiste. Nei paesi veramente tirannici che noi conosciamo, là non è permesso nemmeno di invocarla nei libri, la libertà. C'è l'indice che brucia i libri proibiti. Gli è che ogni rivoluzione, o signori, ha i suoi emigrati: gli emigrati di Coblenza, che possono essere gli emigrati di Dronero, di Sarno o di altri paesi più o meno illustri. Costoro si sentono veramente limitati nella loro libertà. Costoro sono un poco diminuiti; non sono più dei grandi uomini: lo erano quando potevano provocare una crisi ministeriale al mese, lo erano quando si pensava che dal discorso del signor X dipendessero le sorti del Governo. Adesso il Governo proclama la sua assoluta indifferenza davanti a queste sterili manifestazioni.
C'è un altro argomento che mi interessa assai: la forza e il consenso.
Si dice: «-Voi governate con la forza-». Ma tutti i Governi sono basati sulla forza. «Con le parole non si mantengono gli Stati» dice il maestro dei maestri della politica. Del resto la forza è consenso. Non vi può essere forza se non c'è consenso e il consenso non esiste se non c'è la forza. Ma voi che siete qui in cinquemila e rappresentate certamente i due terzi dei comuni italiani, non siete la mirabile, la magnifica, la indiscutibile prova del consenso delle popolazioni italiane per il Governo fascista?
Si domanda: «-Che farete dopo le elezioni?-» Prima della rivoluzione ci domandavano: «-Che cosa volete?-» Il Governo. La risposta è ora semplicissima. Adesso vogliamo conservare il Governo e governare. Sembra di dire una cosa quasi banale, ma governare è invece una fatica terribile; governare significa essere sottoposti ad un martellamento quotidiano dalle prime ore del mattino fino alle ultime della sera; governare significa avere la visione di tutti i bisogni della Nazione; governare significa sentire nel proprio cuore battere il cuore di tutto il popolo. E del resto che cosa importa snocciolare un bel programma? Io mi rifiuto allo smercio minuto della paccottiglia politica. Quello che mi propongo domani ve lo dico: far funzionare il Parlamento, purché il Parlamento funzioni.
Signori, non dovete prendere troppo alla lettera le mie parole antiparlamentaristiche. Le mie antipatie e le mie simpatie sono note, ma su di esse non costruisco la mia politica. Quando ho parlato di ludi cartacei e ho detto che le legioni valgono più dei collegi, io lo ho fatto per frenare un poco le impazienze schedaiole. Perché non voglio che tutto il partito sia affetto in un breve lasso di Tempo di questa malattia. Voglio che un reparto del partito funzioni nel Parlamento, ma che il partito resti fuori intatto a controllare e sospingere i suoi rappresentanti. Essere quello che deve essere, e cioè una riserva sempre intatta della Rivoluzione fascista.
E che cosa faremo facendo regolarmente funzionare il Parlamento? Perfezioneremo la riforma. Non è il mio un eccesso di onestà politica, se vi dico che non tutte le riforme del Governo fascista, che ha varato mille e settecento leggi, sono perfette, perfettissime. Le perfezioneremo.
Andremo incontro al Mezzogiorno. Non lo dico per cattivarmi le vostre simpatie, per aumentare il numero dei voti. La realtà è questa. L'Alta Italia ormai è giunta ad un elevato grado di civiltà meccanica, è ormai allo stato di saturazione. Il Mezzogiorno d'Italia è ancora in ritardo. Le regioni sulle quali si è appuntato il mio occhio di Capo del Governo sono: nell'Alta Italia, l'Istria; nel Meridionale, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. Quando si parlava della questione meridionale, si diceva: «-La questione dell'Italia Meridionale è una questione di ordine pratico: case, strade, ponti, acqua-». Ebbene, il Governo fascista ha agito su questo terreno. Il Governo fascista ha dato 240 milioni per l'acquedotto pugliese, 85 milioni per il porto di Bari, 3 milioni per l'acquedotto della Basilicata, 500 milioni per le strade della Calabria, 500 milioni per la ricostruzione dei paesi devastati dal terremoto.
Battuti sul terreno pratico, gli avversari dicono: «-Il Mezzogiorno d'Italia ha bisogno di risolvere il problema dello spirito-». Credo di interpretare il pensiero delle popolazioni del Mezzogiorno d'Italia verso le quali vanno le simpatie concrete del Fascismo. Io dichiaro che esse hanno ferma fiducia nel Governo fascista, perché solo il Governo fascista ha incominciato a risolvere il problema del Mezzogiorno.
Richiamo la vostra attenzione su un altro punto del programma futuro. Io mi propongo, e credo di avere in ciò consenziente tutto il Governo e anche il Ministro delle Finanze, mi propongo di alleggerire la pressione di ordine tributario fiscale che abbiamo imposta al popolo italiano. Credo che si debba sempre marciare verso il pareggio, ma che bisogna arrivare al pareggio in condizioni di discreta salute. Non credo che sia nei piani del mio amico De' Stefani fare arrivare la Nazione al pareggio boccheggiante, onde non si dica, come per certe operazioni, che la clinica ha trionfato ma che il paziente è morto.
Faremo questo anche perché il popolo italiano è stato meraviglioso di abnegazione, di spirito eroico, di sacrifici, ha accettato queste dure necessità che gli abbiamo imposte con alto spirito di solidarietà nazionale.
E quanto alla pressione politica?
Molti dei nostri avversari si domandano che cosa farà la Rivoluzione fascista domani. Certo sono interessati a saperlo. Anche qui bisogna essere in due. Se si vuole che il Fascismo, Governo e Partito, Partito e Milizia, alleggerisca la sua pressione, bisogna che gli avversari si rassegnino al fatto compiuto. Ma quando io leggo sopra un giornale stampato ieri sera che i sovversivi debbono moltiplicare le energie per insidiare la vita e lo sviluppo del Fascismo in tutti i campi, per suscitare opposizioni, per risvegliare il sentimento combattivo delle masse, richiamare gli operai alla visione dei loro interessi, quando mi capitano sotto gli occhi questi documenti, allora dichiaro solennemente che invece di alleggerire è il caso di dare un altro giro alla vite. Bisogna rendersi conto ancora una volta che noi abbiamo il sacro dovere di difendere le nostre idee, di esaltare il sacrificio dei nostri martiri, di tenere fede alla nostra Rivoluzione. Se i nemici, o isolati o in blocco, vengono contro di noi, noi abbiamo un solo dovere: di vincerli e di stroncarli.
Signori, bisogna essere o prò o contro, o Fascismo o antifascismo. Chi non è con noi è contro di noi. La lotta politica in Italia non ebbe mai una semplificazione più precisa di questa. Il passato è la garanzia dell'avvenire. Non possiamo deflettere. La marcia può avere dei rallentamenti o delle accelerazioni, ma marciare bisogna. Bisogna andare innanzi. Bisogna fare grande l'Italia. Questa è la meta infallibile del Fascismo. Lo stato unitario esiste. Oserei dire che esiste, da quando il Fascismo ha innalzato i suoi gagliardetti di battaglia e di vittoria. Voi siete la testimonianza che lo Stato in Italia esiste, voi che rappresentate tutte le città, che rappresentate tutti i Comuni, dall'Alpi alla Sicilia, anche i Comuni così detti allogeni, dove stanno dei cittadini che devono essere devoti all'Italia perché ormai le loro sorti sono legate indissolubilmente alle sorti della Patria comune. Signori Sindaci, ritornate ai vostri paesi, convocate il popolo nelle piazze, portate ai fascisti e al popolo tutto il saluto del Governo. Agite con me, collaborate con me per dare agli italiani il senso gioioso, eroico e umano della vita. Suonate a stormo le vostre gloriose campane, innalzate nel cielo purissimo i vostri gagliardetti e i vostri gonfaloni e dite: «-Giovinezza d'Italia, anche nella giornata del 6 aprile noi ti vogliamo vedere incoronata coi lauri della vittoria!-».
Milano, 31 marzo 1924: MUSSOLINI commemora il corrispondente da Parigi de "Il Popolo d'Italia" Nicola Bonservizi, assassinato dai fuoriusciti rossi.
All'inane lotta dei Partiti all'interno corrispondeva, all'estero, la propaganda dei fuorusciti e dei comunisti, materiata di menzogne e di calunnie. I cosiddetti intellettuali dei debellati Partiti storici, dal liberalismo al comunismo, diffondevano il veleno dei loro rancori e - sicuri nei loro rifugi - armavano la mani dei sicari incoscienti. La loro penna era seminatrice di sangue. Il giorno 20 febbraio 1924, il corrispondente del «Popolo d'Italia» a Parigi, Nicola Bonservizi, da Urbisaglia nelle Marche, veniva colpito a morte da due revolverate sparategli proditoriamente, in un ristorante, da un comunista di nascita italiana, che rimase impunito. Dopo dolorosa agonia il Bonservizi spirava a Parigi il giorno 26 marzo. La sua salma veniva trasportata in Italia, prima a Milano, poi al Cimitero di Urbisaglia. In tale occasione, dal Famedio del Cimitero monumentale di Milano, il 31 marzo 1924, il Duce pronunziò il seguente discorso:
Camicie Nere!
Tutto un popolo ha partecipato commosso al nostro rito d'amore e di compianto per Nicola Bonservizi, un fascista di purissima fede, di coraggio indomito, che ha santificato la causa con la vita e con la morte. Se l'omaggio di tutto un popolo non rendesse superfluo il mio discorso, io vorrei tessere un lungo elogio di questo mio giovane amico che mi fu fedele e devoto durante dieci anni, non solo nelle grandi ma anche nelle ore mediocri ed ingrate. Egli praticò la vera, la saggia, la santa disciplina, che consiste nell'obbedire quando ciò ci dispiace, quando ciò rappresenta sacrificio. I responsabili non sono soltanto gli assassini di Parigi. Ce ne sono altri e ce ne sono anche tra noi, fra coloro che in questi ultimi tempi si sono abbandonati al litigio fazioso, dando l'illusione al nemico che poteva riprendere la sua offensiva di massacri e di agguati.
Se un monito sale da questa bara è un monito che ci richiama tutti al senso austero del dovere e della disciplina.
Altri responsabili sono coloro che vanno raccogliendo in tutti i villaggi d'Italia più o meno oscuri la cronaca di violenze insignificanti per montare l'opinione pubblica e per armare il braccio ai criminali, che in questi ultimi tempi hanno ucciso cinque dei nostri migliori amici, cinque dei nostri migliori gregari.
Io vi dico che nel mio spirito stanno forse maturando le decisioni gravi e irrevocabili. Salutate questo nostro caduto. Egli lottava a Parigi dove è difficile fare il fascista. Egli lo ha fatto per tre anni sfidando tutti i pericoli fino al giorno in cui lo ha colto la morte e la gloria.
Roma, 10 aprile 1924: MUSSOLINI dopo il risultato dell'elezioni politiche ringrazia il Popolo di Roma.
Le elezioni politiche ebbero luogo il 6 aprile 1924: rappresentarono una schiacciante vittoria per il Regime e delusero le illusorie speranze degli avversari. Quattro giorni dopo il Duce, che si era recato a Milano, ritornò a Roma. Nel pomeriggio dello stesso giorno un'enorme folla accorse ad acclamarlo; ed Egli da un balcone di Palazzo Chigi, dopo il saluto del Regio Commissario, pronunziò le seguenti parole:
Popolo di Roma!
Il saluto che mi è porto da questa imponente moltitudine va diritto al mio cuore. Mi è grato il vostro saluto, ma più mi è grato manifestarvi tutta la mia devozione e dichiararvi che anche prima di oggi mi sono sempre sentito un cittadino e un figlio devotissimo di Roma. Questa adunata, alla quale nessuno dei mistificatori avversari vorrà negare l'attributo di adunata di popolo, questa adunata viene a completarne molte altre: ieri attraverso le città della Valle Padana, lungo i piccoli borghi e gli sperduti casolari dell'Appennino, nelle città gentili della Toscana ho sentito — dico ho sentito — vibrare attorno a me il consenso formidabile di quel popolo anonimo e minuto che è la base granitica della Patria. E il consenso è balzato anche dalla eloquenza rigida, ma solenne e severa, delle cifre delle urne. Cinque milioni di cittadini italiani, veramente liberi e veramente coscienti, si sono raccolti attorno ai simboli del Littorio. Io non permetto, e noi non permetteremo, che si insulti il popolo italiano, facendo credere che si tratti di gente mandata alle urne come una mandria informe di bestie senza coscienza.
E Roma ha ritrovato nella giornata del 6 aprile il suo spirito intatto delle grandi ore: Roma ha magnificamente marciato. Si diceva che gli impiegati non avrebbero votato per il Governo: hanno votato. Si diceva anche che a Roma non esiste un popolo lavoratore. Voglio una volta per sempre, come Capo del Governo, disperdere questa imbecillissima menzogna: Roma lavora! A Roma ci sono per lo meno cento mila autentici lavoratori: forse più equilibrati, più coscienti, più devoti al loro dovere che non altrove! Roma non è già la Capitale di un piccolo popolo di antiquari. Guardatevi attorno, e vedrete già tumultuosi nelle strade di questa incomparabile città una somma sempre più intensa di traffici, un compito sempre maggiore di energie. La Roma che noi sogniamo non deve essere soltanto il centro vivo e pulsante della rinnovata Nazione Italiana, ma anche la Capitale meravigliosa di tutto il mondo latino.
Dopo Roma, permettetemi che io saluti le nobili e generose fanterie del Mezzogiorno d'Italia che hanno marciato in serrate falangi come quando si aggrappavano alle doline del Carso sacro e memorabile.
È dunque sfatata quest'altra grossa menzogna per cui si diceva che il Mezzogiorno d'Italia era refrattario al Fascismo! Dichiaro che dal responso delle urne risulta che il Mezzogiorno d'Italia può dare la mano ai fratelli della Toscana, della Valle del Po e può prendere il suo posto degnamente fra le avanguardie del Fascismo italiano.
Popolo di Roma! Quale è il monito imperioso che esce dalla prova di domenica scorsa? Il monito è solenne ed è questo: bisogna che tutti si arrendano al fatto compiuto perché è irrevocabile.
Il Partito ha dichiarato: «-Vogliamo dare cinque anni di pace e di fecondo lavoro al popolo italiano-». Questa dichiarazione è mia! Perché se altri può dire «Perisca la Patria pur che si salvi la fazione», noi fascisti diciamo: «-Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, ma sia grande, sia rispettata la Patria italiana-».
Voi vedete che anche questa vittoria mi lascia perfettamente tranquillo: più grande è la vittoria, o cittadini, e più alti sono i doveri; doveri di lavoro, di disciplina, di concordia nazionale. Io vi domando: «-Li assolverete voi questi doveri?-».
Sì, sì! — risponde la immensa folla.
— Ebbene, io accolgo questo vostro monosillabo come la formula di un giuramento sacro e vi invito ad elevare un triplice grido:
«-Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!-».
Roma, 16 aprile 1924: MUSSOLINI parla ai funzionari del Ministero degli Esteri
S. E. il Capo del Governo fu nominato Cavaliere della SS. Annunziata. In tale occasione i funzionari del Ministero degli Affari Esteri gli offrirono in dono, il 16 aprile 1924, un calamaio d'argento. Il Segretario Generale del Ministero degli Esteri, sen. Contarmi, presentò il dono con un breve discorso, a cui il Duce rispose con le seguenti parole:
Eccellenza! Signori!
Dopo 18 mesi è questa la prima volta in cui mi trovo insieme a tutti i miei collaboratori del Ministero degli Esteri. Se ciò non è avvenuto prima di oggi, si deve al fatto delle condizioni eccezionali del momento.
Voi sapete che cosa io penso dello Stato e della burocrazia: ne penso bene. Penso che l'Amministrazione dello Stato cammina quando ognuno, al suo posto, è occupato nel suo preciso dovere. Si ottengono dei risultati fecondi quando tutte le parti di questo delicato meccanismo si muovono in armonia e sono tutte quante dirette al medesimo scopo.
Il vostro gesto è significativo, non solo per il dono, ma per le parole dalle quali è accompagnato. La collaborazione di tutti è necessaria, specialmente nel Ministero degli Esteri, il più delicato fra tutte le Amministrazioni dello Stato. Dico tutti, cominciando da quelli che occupano i primi posti negli uffici, dal Segretario generale fino agli archivisti che tengono in diligente ordine le pratiche, e fino ai dattilografi che battono e riproducono gli scritti in maniera nitidamente leggibile.
In questo tempo abbiamo risoluto dei problemi d'ordine politico e altri d'ordine economico: oso dire, e non credo di peccare di eccessivo orgoglio, che in questi 18 mesi abbiamo lavorato, abbiamo fatto del cammino. L'edificio non è sulla carta: è in gran parte costruito. Ricorderò l'annessione di Fiume, i Trattati di commercio che hanno riaperto all'Italia feconde relazioni con i principali paesi d'Europa. Inoltre si è risollevato il prestigio della Nazione nel mondo.
Così come voi mi avete dato fino ad oggi la vostra solerte collaborazione, conto su di voi anche e soprattutto per il futuro.
Ognuno compia il proprio dovere con diligenza e con purità di spirito. Se tutti i servitori dello Stato e tutti i cittadini che lo compongono si ispireranno a questo criterio, credo che l'avvenire della nostra Patria sarà grande.
Ufficiali! Camicie Nere!
Davanti alla moltitudine inquadrata, i discorsi, quando non siano di una concisione spartana, sono delle superfluità assurde. Permettete, però, a me che ho visto la vostra storia e che vi ho voluto e creato così, che evochi in rapida sintesi il cammino percorso dalle origini ad oggi.
Tutte le volte che entro in questa specie di tempio dell'arte non posso dimenticare il Congresso di Roma del 1921, quando si riunì la più viva e gagliarda giovinezza d'Italia per lanciare, ad un anno di distanza, il primo guanto di sfida contro la piccola Italia dei politicanti e dei parassiti.
I pussisti ci gettaron allora fra le gambe una specie di sciopero generale, con la solita imboscata criminale ove perde la vita un fascista appartenente alle squadre milanesi.
Parve allora che il Fascismo non avrebbe superato la solita crisi attorno alla quale favoleggiavano tutti i bighelloni della opposizione.
Già si pregustava la gioia del declino e si tessevano gli elogi funebri. Poche settimane dopo, il Fascismo in efficienza perfetta nel Trentino, a Bologna, a Ravenna, a Ferrara, occupando le piazze, si preparava al cimento supremo, e appena due mesi prima della Marcia su Roma il Fascismo era così armato negli spiriti e nei mezzi che stroncava, una volta per sempre, l'ultima grottesca parodia di uno sciopero generale, cosiddetto legalitario e nel quale affluiva tutto ciò che di infetto e di stupido si coagulava in quel momento nella vita politica italiana.
Poi marciammo su Roma e non senza sangue. Non fu così incruenta la rivoluzione, come si va dicendo. Avemmo anche allora i nostri morti, i nostri feriti; e si sa, del resto, che una volta gettato il dado, avremmo rischiato il tutto per tutto.
Due mesi dopo risolvevo il problema dello squadrismo, creando la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che non è soltanto, come si va dicendo da taluni, una Milizia di Partito; non è soltanto agli ordini del Partito, ma agli ordini del Governo e dello Stato, perché io non so quali interessi di Partito stiano difendendo in questo momento le tre Legioni che combattono in Libia. Non so quali interessi precipui di Partito servirono le Legioni quando andarono per l'eruzione dell'Etna in Sicilia o pel disastro del Gleno in Lombardia. Né so a quali interessi di Partito obbediscano quando si assoggettano ai servizi di ordine pubblico e tengono in freno molte, troppe canaglie che tenterebbero di ricacciare l'Italia ai tempi che per noi sono tramontati per sempre.
Così stando le cose, non vi parrà affatto strano, ma vi sembrerà di una logica spietata la semplice frase che io ho pronunziata l'altra sera alla grande adunata e che ripeto:
Chi tocca la Milizia avrà del piombo!
Certamente voi e coloro che stanno dietro di voi imponete dei problemi; ma, o signori dell'opposizione, mi sapete voi dire se ci sia un solo problema che non imponga altri problemi? Se ci sia una sola soluzione che sia soddisfacente e comoda e facile?
Mi associo col cuore di un soldato fedele al saluto inviato dal vostro Capo a Sua Maestà il Re ed al saluto inviato all'Esercito di Vittorio Veneto.
I capi dell'Esercito sono venuti verso di noi. Stiamo ora studiando come inserire la Milizia nel complesso di tutte le forze armate che presidiano l'ordine all'interno e garantiscono la Patria all'estero. Non so ancora oggi come avverrà questa saldatura. Il problema è delicato, perché non intendo, sino a quando le condizioni ambientali non siano totalmente cangiate, togliere alla Milizia il suo carattere. Anzi io credo che i militi, i quali hanno il privilegio di indossare il grigioverde e di portare il moschetto, debbono essere i super-fascisti, gli asceti del Fascismo, quelli che obbediscono al Fascismo idea, passione, fede, apostolato e che qualche volta si disinteressano del Fascismo Partito con tutto ciò che la parola Partito fatalmente significa.
Voi continuate ad essere la grande forza che presidia la rivoluzione delle Camicie Nere. Vorrei usare una frase del gergo delle trincee: c'è della gente che vorrebbe truffarci il nostro sacrificio montando i macchinosi fantasmi della costituzionalità, della libertà, della democrazia e simile gramigna di immortali principi. Tante grazie. Ma io conosco dove si vuole andare a parare: ed è evidente che quando le nebbie si accumulano e si cerca di alterare la vera natura delle cose, è evidente ed è fatale che io pronunci discorsi durissimi, i quali appaiono come un raggio di luce potente che disperde tutta la nuvolaglia.
Dopo i miei discorsi si sa che cosa significhi fascismo, rivoluzione, milizia e si sa pure che cosa significhi la cosiddetta lotta elettorale.
Molti domandano quale sarà la vostra funzione nel prossimo periodo elettorale. Non vi scaldate troppo per questi ludi elettorali. Considerateli come piccole necessità della vita quotidiana.
Non dovete correre dietro questo episodio. Tutto ciò è vecchia Italia, è ancora ancien regime, tutto ciò deve essere lontano dalle vostre anime come è lontano dalla mia. E niente è più ridicolo di pensare ad un Mussolini che stia faticosamente compilando le liste elettorali.
Mi occupo in questi giorni di altri problemi ben più interessanti per la vita dell'avvenire della Nazione che non sia quello di scegliere i nomi di coloro che domani si autoproclameranno i rappresentanti della Nazione.
Voi sentite ancora una volta che il potere non mi ammollisce. Se avevo molti spigoli nel mio pessimo temperamento, questi spigoli aumentano, non diminuiscono. Voi conoscete la meta. Intendiamo fare della nostra Nazione una creatura piena di vita, di forza, piena di bellezza. Questo noi vogliamo. Per questo c'è una Milizia Per questo c'è il Fascismo. Questi sono i doveri, i sacri doveri ai quali voi non dovete mai mancare. Dovete considerarvi come dei portatori di una nuova civiltà, come gli anticipatori di un tempo che verrà, come i costruttori che gettano oggi le basi dell'edificio, che creano, che realizzano tutto quello che fu il sogno di tante generazioni durante il Risorgimento italiano: il sogno di coloro che combatterono e morirono dal 1915 al 1918 e dei nostri giovinetti dal sangue vermiglio e purissimo che sono spesso caduti nelle imboscate tragiche tese dagli elementi antinazionali.
Portiamo la loro memoria nel profondo dei nostri cuori. Essi costituiscono, più di tutte le tessere, il cemento sacro che avvince tutti i fascisti, dal Capo all'ultimo dei gregari.
Generale! Voi avete tracciato la storia breve ma già luminosa della Milizia. Voi sapete che io non vivo del passato: per me il passato non è che una pedana dalla quale si prende lo slancio verso il più superbo avvenire.
Chiamate questi uomini a gridare, attraverso il giuramento, la loro purissima fede. Sia il grido alto come una fiamma che sgorga da tutti i cuori, sia veramente non un atto formale ma una dedizione totale per la vita e per la morte!
Roma, 21 febbraio 1924: MUSSOLINI parla ai convenuti a Palazzo Chigi in rappresentanza della Corporazione Nazionale Agricoltura.
Il 21 febbraio 1924 si adunò in Roma, a Palazzo Chigi, la Corporazione Nazionale dell'Agricoltura, sotto la presidenza di S. E. il Capo del Governo, e con l'intervento del ministro dell'Economia Nazionale, on. Corbino, dei Sottosegretari di Stato, Acerbo e Serpieri, del comm. Rossoni, segretario generale della Confederazione delle Corporazioni sindacali fasciste. Parlarono il dott. Cacciari ed il comm. Rossoni; quindi il Duce pronunciò il seguente discorso:
Ecco un'altra riunione che, dopo quella tenuta alcuni mesi fa in questa stessa Sala severa e fastosa, potrebbe chiamarsi storica; è una riunione che può segnare e segna infatti l'inizio di un nuovo corso nelle relazioni sociali. Quando voi pensate che questo nuovo corso interessa milioni e milioni di Italiani, voi afferrate subito che chiamando storica questa riunione non si commette peccato di esagerata retorica. Credo che bisogna rialzare i valori dell'agricoltura italiana. Dobbiamo dirci qui che è stata un po' negletta l'agricoltura.
C'è stato in questi ultimi tempi uno sviluppo industriale in Italia fortissimo, prodigioso: ma la ricchezza dell'Italia, la stabilità della Nazione e l'avvenire di essa sono, a mio avviso, intimamente legati alle sorti ed all'avvenire dell'agricoltura italiana. Ragione per cui vorrei che gli Italiani e tutti coloro che si occupano di questioni sociali, ed anche i legislatori passati e futuri, tenessero al primo piano della loro considerazione le cose dell'agricoltura. Io ho la coscienza tranquilla a questo riguardo, perché tutte le volte che si sono discussi Trattati di commercio ho fatto sempre larghissimo posto agli interessi dell'agricoltura italiana.
A questo punto io devo rallegrarmi del nuovo indirizzo che si dà all'agricoltura italiana: indirizzo tecnico, diretto a industrializzare l'agricoltura, a esercitarla razionalmente. Io credo che l'Italia sia in grado, sia pure attraverso la compensazione delle diverse culture, di produrre tutto ciò che le è necessario e di avere anche la possibilità di esportare. Le Nazioni solide, le Nazioni ferme sono quelle che stanno poggiate sulla terra: sono quelle che hanno il maggior numero di piccoli proprietari. Le masse agricole italiane si sono portate bene durante la guerra. In realtà la guerra è stata fatta dai contadini italiani almeno nella misura del 70-75 per cento dei fanti che stavano in trincea.
Considero fausta questa riunione anche per il fatto che vedo qui presenti i rappresentanti della Confederazione dell'agricoltura: il che significa che si è stabilita la unità di tutti gli sforzi e di tutte le energie: unità che è completa perché abbraccia i proprietari, i tecnici e i lavoratori: completa anche dal punto di vista morale in quanto che i proprietari riconoscono che la proprietà non è più soltanto un diritto ma un dovere; non è un bene egoistico, ma è piuttosto un bene che bisogna impiegare e sviluppare in senso umano e sociale. D'altra parte i lavoratori riconoscono che la proprietà non è già un furto, come si legge nella bassa letteratura socialista, ma è il risultato di risparmi, di fatiche da parte di gente che si è spesso privata del necessario, si è sottoposta a fatiche durissime, pur di raggranellare quel peculio che poi ha il sacrosanto diritto di trasmettere a coloro che verranno dopo.
Per tutte queste ragioni io sono sicuro che il periodo di pace sociale che si è iniziato col 1922 continuerà ancora per molto tempo. Ciò è necessario. L'errore di molti Italiani è di credere che si sia in tempi di pace: che la nave sia giunta in porto e che l'equipaggio possa sbizzarrirsi. Niente affatto. Dobbiamo considerarci ancora in istato di guerra; dobbiamo serrare i denti, imporci la più severa disciplina. Siamo ancora in tempi tempestosi. Si intravede già il porto, ed è certo che la nave è indirizzata egregiamente a raggiungerlo. Ma occorre però che tutti si rendano conto che è necessario ancora e sempre subordinare gli interessi dei singoli agli interessi della Nazione. Perché la Nazione li comprende tutti. Se la Nazione è pacifica, è concorde, è laboriosa, è prospera ed è ricca, è evidente che tutti coloro che sono in essa ne trarranno benessere.
Vi porto quindi il mio saluto fraterno e cordiale, il mio saluto di Fascista, di Italiano e di Capo del Governo. Voi potete contare su di me ed io credo di poter contare su di voi.
Roma, 21 febbraio 1924: MUSSOLINI interviene al convegno dei Sindacati del Commercio.
Nello stesso giorno, 21 febbraio 1924, dopo l'adunanza per la Corporazione dell'agricoltura, si tenne un convegno per i Sindacati del Commercio. Parlò il Gr. uff. Cartoni, presidente dei Sindacati nazionali del Commercio e della media e piccola industria, e il Duce rispose con le seguenti parole:
Accolgo con animo grato le dichiarazioni convincenti del signor Cartoni, che ora apprezzo ancor di più e sono lieto di avere introdotto nella lista nazionale, il che significa che uno dei postulati richiesti, quello della collaborazione, io l'ho quasi praticamente risolto.
È evidente che tutte le volte che saranno in discussione, in Parlamento e fuori, questioni che vi interessano, voi avete già uno che vi rappresenta. D'altra parte quando i Consigli tecnici e le organizzazioni corporative in genere avranno preso una figura giuridica definita, non è da escludere che si trovino gli istituti per rendere permanente la loro collaborazione col Governo.
Il Governo ha già fatto qualche cosa per voi: vi garantisce il libero uso delle vostre proprietà: violenze non se ne tollerano più.
Quanto al fiscalismo, io sono il primo a riconoscere che può essere anche pesante, ma qui siamo alla quadratura del circolo. D'altra parte credo che fra qualche tempo si potranno allentare le maglie. Non dovete credere che il Governo ed il mio amico onorevole De' Stefani mettano tasse per il piacere discutibile di far strillare i contribuenti: ci sono delle necessità inderogabili davanti alle quali non si può transigere, pena il fallimento dello Stato, il che significa la catastrofe della Nazione. Non appena le finanze italiane saranno arrivate al pareggio o in vista del pareggio, verso il quale noi marciamo tenacemente, è evidente che ci sarà un sollievo e che cadranno le ragioni per cui era necessario in un determinato periodo della storia italiana di gravare in particolar modo su tutti i cittadini, del resto, e non su una sola determinata categoria. Il Governo chiede a voi di continuare a dar prova della vostra perfetta disciplina, che non è imposta dalla volontà degli uomini, ma dalle obiettive circostanze storiche. Io ho la certezza che fra qualche tempo, fra tutte le nazioni europee, percorse da crisi sociali acutissime, l'Italia sarà la sola tranquilla, laboriosa, ordinata, avviata verso un prospero avvenire.
Roma, 9 marzo 1924: MUSSOLINI ringrazia l'Associazione degli ex bersaglieri, per la pergamena che lo nomina Presidente della stessa associazione.
Nel museo storico dei Bersaglieri nella Caserma di San Francesco a Ripa in Roma, il 9 marzo 1924, fu consegnata a S. E. il Capo del Governo una pergamena per la sua nomina a Presidente dell'Associazione fra gli ex bersaglieri. Parlò il Generale Zoppi, presidente dell'Associazione e il Duce rispose con le seguenti parole:
Generale! Commilitoni!
Tutte le volte che mi accade di incontrare un reparto di bersaglieri e sento squillare le trombe che suonano la nostra caratteristica marcia, nel mio animo si alternano i sentimenti di melanconia e di orgoglio. Melanconia, perché ricordo i miei venti anni, di cui due trascorsi a Verona tra le caserme Castel vecchio e Catena; e ricordo le bellissime corse, al mattino, lungo le rive dell'Adige, corse che allargavano i polmoni e fortificavano i garretti.
Sono poi fieramente orgoglioso di avere partecipato negli anni lontani della pace e in quelli vicini e non dimenticabili della guerra al corpo dei bersaglieri; orgoglioso perché sul Carso, in Carnia, sull'Jaworcek, sul Cuckla, sul Rombon, ho visto con i miei propri occhi tutta la vicenda silenziosa ed eroica del bersagliere italiano.
È per me fonte di viva commozione ritrovarmi in queste sale, in questo museo, in questo tempio così ricco di ricordi. Ognuno di essi parla al nostro spirito, ognuno di essi ci dice che quando si è stati bersaglieri a vent'anni, si resta bersaglieri per tutta la vita, vale a dire si porta nella vita quello spirito che chiamerei bersaglieresco di sollecitudine e di dedizione nell'adempimento del proprio dovere.
Sono lieto che il mio caro e grande amico Duca della Vittoria abbia accolto il mio desiderio di conservare i bersaglieri. Egli si rese subito conto, nella sua squisita sensibilità di capo e di soldato, che non bisogna disperdere le tradizioni, che le tradizioni sono una grandissima forza nella storia dei popoli e che se voi andate togliendo quelle tradizioni, voi togliete una delle basi sulle quali si può edificare la storia futura, che non è che il compimento e il perfezionamento della storia passata. La scomparsa dei bersaglieri sarebbe stata interpretata nella maniera più equivoca; sarebbe stata interpretata come una specie di castigo inflitto a un corpo che pure aveva un secolo di storia gloriosa.
Approvo che accanto all'Esercito, e quasi in relazione coll'Esercito, sorgano istituzioni come la vostra, una associazione di bersaglieri che accoglie tutti i bersaglieri, che si affiata, che mantiene in essi vive le tradizioni del corpo e ne fa una specie di esercito smobilitato, che domani sarebbe pronto a rifluire nei quadri e nei reggimenti.
La ringrazio, Generale, per il dono; ma soprattutto per il significato del dono. Questo simbolo dice che tra il bersagliere Mussolini e i bersaglieri di tutta Italia c'è un vincolo di fraternità indistruttibile.
Roma, 24 marzo 1924: MUSSOLINI interviene nella manifestazione che celebra i Cinque anni trascorsi dopo San Sepolcro
In poco più d'un anno d'intensa attività, il Duce e il Regime avevano dimostrato, e dimostravano ogni giorno, la loro capacità di rinnovare nella sua essenza la vita del Paese e di elevare la dignità d'Italia nel mondo. Ma i vecchi partiti - vinti ma non aboliti, in combutta con la Massoneria - non disarmarono: volutamente ciechi dinanzi alla realtà dei fatti, non rassegnati alla sconfitta, chiusi nelle strettoie intellettualoidi dei loro capi, rinfocolati dall'imminente campagna elettorale facevano pessimo uso della libertà generosamente concessa dal Fascismo ai loro giornali e alla loro attività politica. Di fronte al Fascismo che operava, si sentiva la sordida opera dissolvente di chi, fuori d'ogni responsabilità, s'abbandonava soltanto alla critica, all'intrigo, alla calunnia. Si preparava un'atmosfera di battaglia. Il Duce, celebrando al Teatro Costanzi in Roma, il 24 marzo 1924, il quinto anniversario della storica adunata di Piazza San Sepolcro, davanti a cinquemila sindaci adunati da tutte le regioni d'Italia, reagì energicamente alle prime avvisaglie della campagna avversaria, pronunziando il seguente discorso:
Signori!
E' con un senso composto di commozione e di orgoglio che io mi accingo a parlare dinanzi a voi, o primi magistrati dei nobili comuni d'Italia. Credo di non esagerare se affermo che da molti secoli Roma, la nostra Roma, non vide spettacolo più imponente e più solenne di questa adunata. Ho quasi l'impressione fisica di parlare non soltanto a voi, ma a tutte le popolazioni che voi rappresentate, all'intera Nazione. L'amministrazione è politica e la politica è amministrazione. Io vi prego di seguirmi con benevolo raccoglimento, perché non ho scritto nulla onde evitare il pericolo di scrivere un discorso che non avrei pronunziato e di pronunziare un discorso che non ho scritto.
L'idea di convocarvi a Roma per celebrare il quinto anniversario della fondazione dei Fasci è mia. Si può dire che sino a ieri Roma era la capitale avulsa un poco dal resto della Nazione. Da quando il Fascismo tiene il potere, esso tende a concentrare nella capitale tutte le più grandi e le più alte manifestazioni della politica italiana. Il quinto anniversario della fondazione dei Fasci doveva essere celebrato a Roma.
Quando cinque anni fa noi ci riunimmo in una oscura sala di Piazza San Sepolcro, a Milano, eravamo poche diecine di persone: arditi, legionari, combattenti. Non si abusi dunque della frase di fascisti della prima ora. Cerchiamo di non tenere sempre in mano l'orologio per constatare a quale ora precisa appartengono i fascisti, perché i fascisti della prima ora sono pochissimi. Bisogna avere il coraggio di aggiungere che per tutto il 1919 i fascisti d'Italia non arrivavano alla cifra di diecimila. Ciò non ostante, pure essendo in pochi, in pochissimi, avemmo il coraggio di affrontare immediatamente il sovversivismo che allora spacciava tutte le favole dei paradisi della sua demagogia. I Fasci si costituiscono il 23 marzo e il 15 aprile, tre settimane dopo, essi sono già così audaci e potenti che infrangono uno sciopero generale, disperdono una minacciosa dimostrazione bolscevica, e, fatto che sembra oggi straordinario, vanno direttamente all'assalto del fortilizio nemico e l'incendiano.
Pochi mesi dopo avemmo le elezioni infauste del 1919. Molto coraggio anche allora, ma pochissimi voti: Milano me ne diede 4064. Ci fu anche una specie di funerale simbolico. Si disse e si stampò che oramai ero liquidato e sepolto. Ci raccogliemmo all'indomani di quelle elezioni, i soliti, i pochi, gli audacissimi, e decidemmo di riprendere la battaglia senza esitazione e senza pausa. Nel 1920 tenemmo il primo congresso a Milano. Già l'idea si era diffusa perché gli iscritti assommavano a 20.615. Nel 1921 erano già 248.936. Fu allora che, preceduto da polemiche vivacissime, tenemmo a Roma il nostro terzo grande congresso, che fu la rivelazione dell'immensa forza del Fascismo italiano. Lo tenemmo all'Augusteo, costituimmo un partito e spezzammo uno sciopero generale che ci era stato gettato fra i piedi dai soliti elementi antinazionali.
Ricordo questo congresso perché feci allora un primo tentativo infruttuoso di spersonalizzare il Fascismo, di smussolinizzare il Fascismo. A quella grande assemblea io dissi: «-Guarite di me, fate il partito con una direzione collettiva, ignoratemi e, se volete, anche dimenticatemi-». Non è stato possibile. Bisogna constatare come io constato, che questa è una assemblea imponente. Che cosa ci dice questo? Che i grandi movimenti storici non sono già soltanto il risultato di una addizione numerica, ma anche l'epilogo di una volontà tenacissima.
Nel 1922 io mi convinsi fin dall'estate che bisognava fare la rivoluzione. Lo Stato si disintegrava. Ogni giorno di più il Parlamento non era capace di dare un Governo alla Nazione. Le crisi si prolungavano e si ripetevano, suscitando sempre più profonda la nausea della Nazione. Nessuno, nessuno voleva portare sulle spalle la croce del potere. All'ultimo, poiché un gerente responsabile ci voleva in questa amministrazione, si prelevò Facta e gli si disse: «-Tu devi essere il Presidente del Consiglio dei Ministri-». E costui accettò la corvée sapendo, o intuendo, o presagendo che di lì a poco ne sarebbe stato liberato per sempre. Intanto il Fascismo accresceva se stesso come massa e come quadri, si dava una sua organizzazione militare, occupava Bologna, Ferrara, Bolzano, Trento, troncava nell'agosto l'ultimo tentativo di sovversivismo nazionale, il famoso sciopero dell'Alleanza del lavoro, e finalmente si accingeva a compiere la marcia su Roma.
Sono io che l'ho voluta, questa marcia, io che l'ho imposta, io che ho tagliato corto a tutti gli indugi. Il 16 ottobre ho convocato a Milano quelli che dovevano essere i capi militari della insurrezione e dissi loro che non ammettevo more ulteriori e che bisognava marciare prima che la Nazione piombasse nel ridicolo e nella vergogna.
Perché io chiamo rivoluzione quella dell'ottobre? Se levar le masse in armi, se condurle ad occupare gli edifici pubblici, se farle convergere armate verso la capitale non significa compiere quello che è l'atto specifico di ogni rivoluzione, cioè una insurrezione, allora bisognerà cambiar tutto il vocabolario della lingua italiana.
E perché io insisto a proclamare che quella dell'ottobre è stata storicamente una rivoluzione? Perché le parole hanno la loro tremenda magia, perché è grottesco tentare di far credere che è stata una semplice crisi ministeriale. Ho voluto, sin da allora, che la rivoluzione avesse dei limiti, non oltrepassasse certi confini. Distruggere è facile, non altrettanto ricostruire. Forse, se noi avessimo dato alle nostre masse il diritto che ha ogni vittorioso, quello di spezzare il nemico, sarebbe passato, per certe schiene, quel brivido di terrore, per cui oggi non ci sarebbe più discussione possibile sulla rivoluzione o meno compiuta dal Fascismo.
Mi domando: «La nostra longanimità è stata un bene o un male?». La domanda è provocata dal fatto che molti, troppi, di questi avversari, di questi nemici, noi li ritroviamo in circolazione. Qualche volta sono insolenti, qualche altra compiono vere e proprie opere di sovversivismo e di disintegrazione nazionale. Ho risolto questo interrogativo che mi ha inquietato parecchio tempo.
Ritengo che allora sia stato un bene di contenere la nostra insurrezione trionfante; ritengo che sia stato un bene di non avere, alle nostre spalle, un corteo più o meno imponente di giustiziati. Ma ritengo anche, e bisogna gridarlo perché tutti intendano, che se fosse necessario domani per difendere la nostra rivoluzione di fare quello che non facemmo, lo faremo!
Andai chiamato dal Re, al Quirinale. I fumi della vittoria non mi sono mai andati alla testa. Io non ero sul balcone del Quirinale quando 52.000 fascisti armati di tutto punto sfilarono per rendere omaggio alla Maestà del Re. Io ero già alla Consulta, al mio tavolo da lavoro. Né all'indomani mi andarono i fumi alla testa, quando seppi che gli ufficiali della guarnigione di Roma si ripromettevano di venire sotto le finestre dell'Hotel Savoia a rendermi omaggio. Dissi allora in una lettera, che certi sovversivi dell'opposizione costituzionale hanno evidentemente dimenticato, che l'Esercito non poteva parteggiare, che nella disciplina cieca ed assoluta era il suo privilegio, la sua forza, la sua gloria. E feci un ministero di coalizione.
Tutte le rivoluzioni si sono presi i ministri del vecchio regime, li hanno incarcerati, qualche volta anche fucilati. Io invece ne presi uno, non so se il più ingenuo o il più innocuo, certamente il più abbondevole, lo feci ministro dell'industria e del commercio e non ebbi a penarmene. Sin d'allora io ero nella costituzione.
Che cosa è la costituzione di cui si parla anche troppo? La costituzione è un patto giurato in determinate circostanze di tempo e di luogo fra il Sovrano ed il popolo. La costituzione, Signori, non è già una camicia di Nesso e non è nemmeno una specie di feto che deve essere conservato prudentemente, gelosamente, in una scatola di vetro. I popoli camminano, si trasformano, hanno, nel prosieguo del tempo, nuovi bisogni e nuove passioni. Noi siamo rispettosissimi della costituzione in quello che è lo spirito immortale della costituzione. Ma la forma di essa, come la lettera della costituzione, non è altrettanto intangibile. Un capitolo interessante della storia politica sarebbe quello che fosse dedicato a constatare quante volte la costituzione Albertina fu violata dal 1848 in poi. E permettetemi di trovare strano che si affannino oggi a difendere la costituzione, che il Fascismo non minaccia, coloro che ieri volevano togliere alla Maestà del Re il diritto di grazia e di amnistia, che volevano fare del Re, non pure il notaio del Parlamento, ma il notaio delle miserabili ambizioni dei gruppi parlamentari.
Sempre per stare nella costituzione, formato il ministero, l'ho presentato alla Camera. Potevo sciogliere questa Camera, potevo ottenere una proroga indefinita della sessione; invece chiesi dei pieni poteri e anche questi nettamente delimitati nel loro esercizio e non meno nettamente delimitati nel loro tempo poiché scadevano, come sono scaduti il 31 dicembre 1923.
Bisogna fare il bilancio di questo anno di pieni poteri. Ebbene, il bilancio si chiude in un grande attivo. Nell'interno io mi sono trovato di fronte al problema assai delicato che può essere prospettato in questi termini: «-Come riassorbire nello Stato tutta l'autorità dello Stato?-». Non era, ve lo assicuro, un compito assai semplice, poiché ogni formazione politica a base militare sottraeva una particella all'autorità dello Stato. Ora vi rendete perfettamente conto come da una parte io abbia convertito lo squadrismo in Milizia Nazionale e dall'altra abbia soppresso gli squadrismi di ogni colore.
Avevo creato gli alti commissari politici. Quando mi accorsi che questi diventavano dei superprefetti, li soppressi perché pensai che soltanto il prefetto dovesse rappresentare il Governo nelle provincie. Per non creare equivoci pure tra fiduciario politico del Fascismo e segretario politico del partito, anche il termine fiduciario è stato abolito. Tutto ciò viene dimenticato dai sovversivi della opposizione costituzionale.
Non devo invadere il campo delle finanze perché il mio eccellente amico De' Stefani sta preparando un discorso che sarà soddisfacente per tutti gli italiani. Ma in un discorso degli ultimi giorni si è fatto del pessimismo sulla questione dei cambi, si sono invitati gli italiani a meditare sulle cifre dei cambi. Orbene, i cambi denotano un miglioramento della situazione finanziaria italiana.
L'area di miglioramento della nostra lira è cresciuta dall'ottobre in poi; ed il miracoloso è che la barca della nostra lira abbia potuto reggere in mezzo ai tempestosi flutti del 1923 che ha avuto la caratteristica di una nuova guerra, sotto forma speciale, tra la Francia e la Germania. Se non ci fosse stata l'occupazione della Ruhr, con tutto quello che questa occupazione pericolosa significa, credo che oggi la quotazione del cambio della nostra lira sarebbe ancora molto migliore.
Si è detto: «-Bisogna andare verso il popolo che lavora-»; ma noi ci siamo andati. L'Italia è la prima Nazione che ha già ratificato tutte le convenzioni sociali di Washington. Alberto Thomas, non so se ancora socialista e di quale tinta, è venuto a Roma l'altro giorno in nome dell'Ufficio internazionale del lavoro presso la Società delle Nazioni a raccomandarsi che il Governo fascista continui a dare l'esempio in materia di legislazione sociale.
Non abbiamo fatto della demagogia; siamo andati incontro al lavoro, con animo aperto e generoso. Abbiamo inquadrato tutta la burocrazia; abbiamo delle colonie e non soltanto sulle carte degli uffici ministeriali; abbiamo riformato la giustizia. Nessuno più del Governo fascista è rispettoso della indipendenza della giustizia. Vi prego di riflettere che la punta di spillo della piramide della gerarchia nazionale è occupata da un uomo solo, dal Primo Presidente della Unica Cassazione del Regno. Con questo, meglio che con ciarle oblique, abbiamo dimostrato quale sia il rispetto della giustizia. Abbiamo realizzato quello che per cinquanta anni è stato il voto di tutti i giuristi italiani: l'unificazione delle Cassazioni. Ho chiesto al primo Presidente della Corte di Cassazione notizie sui risultati della coraggiosa riforma giudiziaria preparata dal mio amico Oviglio. Ed in data di ieri il Primo Presidente della Corte di Cassazione così mi risponde: «-L'unificazione delle Cassazioni del Regno, invocata da oltre 50 anni da magistrati, giuristi ed uomini politici, è stata il coronamento di tutte le riforme giuridiche compiute nel campo nazionale. Essa è tra gli atti legislativi più rilevanti del Governo stesso. La Cassazione Unica aveva ereditato dalle antiche corti soppresse un arretramento di circa seimila processi civili. Grazie ad alcune riforme legislative, soprattutto grazie al ritmo accelerato dei lavori, al concorso volonteroso degli avvocati d'Italia, si può fin d'ora prevedere che il lavoro continuerà in condizioni normali, rendendo il funzionamento della giustizia ancora più rapido di quello che non fosse al tempo delle cinque Corti-».
Per i lavori pubblici abbiamo stabilito una somma imponente che deve attrezzare l'Italia per i compiti del futuro.
In politica estera il Fascismo ha avuto sulle braccia delle pesanti eredità: delle eredità pesanti nell'Adriatico e non meno pesanti nel Mediterraneo. Intanto sia detto che il Governo fascista, tacciato di reazione e di antidemocrazia, ha realizzato nel ministero degli esteri l'abolizione della rendita ed ha aperto a tutti i cittadini volonterosi, intelligenti e preparati la carriera diplomatica e consolare.
Nell'Adriatico, ve lo dico subito, non abbiamo fatto grandi cose. Abbiamo salvato Fiume; ma Fiume ci è venuta mutilata. Credo che anche gli uomini di Governo responsabili jugoslavi debbano essere d'accordo con me nel riconoscere che certi tratti del confine sono assurdi. Un confine che drizza il suo muro separatorio a due o tre metri dalle case della città, mi fa pensare o dubitare che coloro che a Rapallo trattarono questo problema e ora la fan da maestri, non abbiano mai consultato una carta geografica.
Le direttive della politica estera del Fascismo sono note. Non temete o non credete agli isolamenti; di quando in quando salta su l'ultimo degli imbecilli a dire che l'Italia è isolata. Ebbene, o signori, bisogna scegliere: o voi volete, come dite di volere, una politica di autonomia; e allora saranno inevitabili periodi più o meno brevi di cosiddetto isolamento; o voi vorrete legarvi indissolubilmente; e allora avrete perduto la vostra autonomia.
Del resto non ci è stato né ci può essere nessun atto di portata internazionale in cui non sia rappresentata l'Italia. Nessuno può ignorare l'Italia. L'Italia è rappresentata, come sapete, nel Comitato dei periti che stanno per consegnare il loro rapporto; è naturalmente rappresentata nella Commissione delle riparazioni; e nessuna decisione oggi — il dirlo è lapalissiano — nessuna decisione può essere presa che impegni in qualche modo l'avvenire d'Europa, senza consultare e tenere in conto gli interessi e la volontà della nazione italiana.
Si è detto dall'on. Giolitti che bisogna fare una politica di pace. La facciamo. Che bisogna riallacciare i rapporti economici con gli altri popoli. L'abbiamo fatto. Che bisogna considerare la Russia come una entità esistente nella carta politica d'Europa. L'abbiamo riconosciuta. Che sarà bene di non essere contrari ad una eventuale ammissione della Germania nella Lega delle Nazioni. Non sarà certo l'Italia che porrà dei veti infrangibili. Tutto quello che gli avversari ci additano come un programma futuro è già un fatto acquisito. Naturalmente non si può fare una politica estera se il Paese non è disciplinato e se il Paese non è armato.
Un uomo di Governo ha delle responsabilità spaventevoli. Qualche volta queste responsabilità mi danno il senso fisico dell'oppressione, come se tutte queste preoccupazioni pesassero del loro peso fisico sulle spalle. Non si ha il diritto di credere alle ideologie umanitarie pacifiste. Bellissime, notate, bellissime in teoria, utopie magnifiche, poetiche. Ma la realtà dei fatti ci ammonisce di essere assai vigilanti e di considerare il terreno della politica estera come un terreno di mobilità massima. Per essere pronti a tutti gli eventi, è necessario avere un Esercito, una Marina, un'Aviazione. Quando io penso allo stato lacrimevole, nefando in cui fu lasciata l'aviazione italiana, che pure aveva scritto pagine memorabili in guerra; quando io penso agli hangars deserti, alle ali spezzate, ai piloti dispersi ed umiliati, io dico che colui, o coloro, che avevano condotta l'Italia a questo baratro, sono veramente traditori della Patria.
Il discorso più sovversivo è stato pronunciato l'altro giorno a Napoli. Discorso sovversivo, e non per nulla i repubblicani hanno aperto al nuovo eretico della costituzione le porte dei loro asili solitari. Si è tacciata di illegalità la legge elettorale. Si è parlato di un Senato elettivo e sopra tutto si è parlato di un quarto, di un quinto misterioso potere supremo giudiziario che dovrebbe controllare Governo e Parlamento. Mi domando se mai si pensò più bassa e balorda violazione della costituzione.
Signori, la legge elettorale ha tutti i crismi della legalità. È stata votata da un Consiglio dei Ministri all'unanimità. Non sarà inopportuno ripetere che fu presentata alla Camera, che la Camera nominò una Commissione, che in questa Commissione i fascisti erano rappresentati da un solo deputato, che il Presidente di questa Commissione era Giolitti, che si discusse a lungo prima del passaggio agli articoli, che si discusse non meno a lungo sui singoli articoli, che la legge fu approvata per appello nominale e fu approvata a scrutinio segreto con cento voti di maggioranza, e, dopo avere avuto il suggello della legalità della Camera, ebbe quello del Senato con l'unanimità meno quaranta voti contrari. Dopo di che fu firmata da Sua Maestà il Re, e, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, diventò legge dello Stato. Mi domando come si può tacciare in buona fede di anticostituzionalità la legge elettorale, la quale del resto è molto meno antidemocratica e reazionaria di quello che non sembri ai nostri contradditori.
Si era chiesto di togliere il limite di età? Fatto. La scheda di Stato? Concessa. E non sentite d'altra parte che l'avere un poco sradicati i cittadini italiani dai loro piccoli collegi in cui intristivano ha dato alla lotta elettorale odierna una ampiezza non mai supposta e un elaterio nazionale che forse era follia sperare? Questa lotta elettorale porge ai cittadini italiani l'occasione di votare o prò o contro.
Non voglio indugiarmi a fare l'elogio dell'opera mia e di quella dei miei collaboratori. Ma mi è capitato fra le mani, proprio in questi giorni, edito dal mio amico Ciarlantini, un libro del prof. Rignano che è un positivista, un socialista, un uomo di valore. È strano che questo libro che doveva scagliare la democrazia contro il Fascismo finisca con una esaltazione del Fascismo, il che potrebbe farmi supporre che l'autore covi delle tendenze senatoriali. Il primo e principale vantaggio — dice Rignano — dell'avvento del Fascismo al Governo non è che troppo evidente a tutti. Al disordine interno, all'anarchia, un Governo; al disfacimento sociale, il rinsaldamento della compagine nazionale; cessato il sabotamento del lavoro da parte degli operai più riottosi, cessata la indisciplina nelle officine; cessati i continui scioperi; cessati gli scioperi nei pubblici servizi; cessata la guerra civile, salvo ancora alcuni fatti sporadici che accennano a diminuire di numero; rimessa in attività tutta la produzione del Paese; ispirato ai funzionari dello Stato un maggior senso di dovere e responsabilità; impresso un andamento più severo ed energico alle funzioni dello Stato, delle provincie e dei comuni. Tutta questa ripresa di un ritmo produttivo, di un funzionamento statale più ordinato, più intenso, non si può negare abbia portato ottimi frutti nella ricostruzione finanziaria ed economica del paese. Questo signore mi avverte: badate che ogni regime ha in sé la legge dei propri confini. Oltre un certo limite, il bene che può dare la dittatura diventa male. Ma è appunto per questo che io, tiranno, ho rinunziato ai pieni poteri al 31 dicembre 1923. Lo stesso consiglio me lo aveva dato uno dei miei maestri, il più illustre, Vilfredo Pareto. Ogni regime ha in sé la sua giustificazione a patto però che non si prolunghi oltre le sue obiettive necessità storiche, oltre le quali diventerebbe un anacronismo politico. Badate che io li potevo avere, i pieni poteri. Quei certi popolari che fanno ora i draghi che sputano fuoco, prima che io avessi parlato di chiedere la proroga dei pieni poteri, me li avevano offerti. Avevano votato, come si dice, l'analogo ordine del giorno. Credo che tutto il resto della Camera, compresi i socialisti, sarebbe stata lietissima di farmi fare il tiranno per un altro anno ancora. Io invece ho pensato che ormai tutto quello che i pieni poteri potevano dare lo avevano dato.
E ho convocato le elezioni.
Inutilmente durante questo periodo elettorale si rinnovano le vecchie accuse al Fascismo, quello che io chiamo il prodotto dell'infantilismo avversario. Prima di tutto si è detto: «-Passerà il Fascismo, il Fascismo è un fenomeno transitorio...-». È un transitorio che dura da cinque anni! Ma soprattutto ciò che mi stupisce è questo voler rinnegare la più evidente e palpabile realtà. Si è molto chiacchierato sulle così dette beghe del dissidentismo. Può essere noioso. Ma quando penso che nel Fascismo sono irreggimentati circa due milioni di individui, mi rendo conto come sia difficile pretendere che essi marcino sempre per tre come dei soldatini di piombo.
Si è detto anche: «-Voi non avete dottrina-». Ebbene, io affermo che non vi è nessun movimento politico che abbia una dottrina più salda e determinata della dottrina fascista. Abbiamo delle verità e delle realtà precise dinanzi al nostro spirito e sono: lo Stato, che deve essere forte; il Governo, che deve difendersi e difendere la Nazione da tutti gli attacchi disintegratori; la collaborazione delle classi; il rispetto della religione; la esaltazione di tutte le energie nazionali. Questa dottrina è una dottrina di vita, non una dottrina di morte.
E che cosa ci pongono di fronte gli avversari? Niente; delle miserie. Sono ancora in arretrato di 50 anni in fatto di filosofia. Stanno postillando tutte le fantasie dei positivisti; fantasie, dico, poiché come non vi è un uomo più pericoloso del pacifista, così non vi è un ideologo più pericoloso del positivista. Tutto il processo di rinnovazione spirituale delle nuove generazioni è a loro ignoto. Che dottrina ci pone innanzi il socialismo? E quale è il vero socialismo? Perché delle etichette sulle bottiglie se ne vedono parecchie. C'è un socialismo massimalista, uno comunista, uno unitario ed anche uno che si dice nazionale e forse lo è.
Altrettanto dicasi del liberalismo. Si è detto: «-Il liberalismo ha fatto l'Italia-». Adagio, non esageriamo. Io intanto contesto che ci sia stato un partito liberale durante il Risorgimento, un partito, dico, nella concezione moderna del termine. Ci sono stati gruppi e correnti liberali. Ma accanto al partito liberale rappresentato magnificamente da Camillo Cavour, ci sono stati uomini non liberali come Mazzini, Garibaldi, i fratelli Bandiera e Carlo Pisacane ed i suoi compagni che sono andati a farsi massacrare per un sogno di libertà e di resurrezione.
Prima dell'ultima guerra, abbiamo avuto almeno due liberalismi: il liberalismo di Antonio Salandra che voleva l'intervento e il liberalismo del «parecchio».
Mi fanno ridere adesso questi venditori del sole di agosto. È vero, il tricolore è sul Nevoso. Ma se avessimo obbedito alla suggestione del liberalismo di Dronero, il tricolore sarebbe tutt'al più sulla stazione di Cervignano: forse non si sarebbe arrivati fino a Salorno. Il monte Nevoso lo avremmo visto, permettetemi la espressione trincerista, con il binoccolo. Vi avremmo messo simbolicamente il palamidone di Giovanni Giolitti, mentre oggi vi sventola il glorioso tricolore.
E vengo, o signori, a bucare con la mia logica spietata la più ventosa delle vesciche di tutte le opposizioni: la libertà.
Noi guardiamo in faccia questa dea e vogliamo vederla esattamente nei suoi connotati.
Il concetto di libertà non è assoluto perché nella vita nulla vi è di assoluto. La libertà non è un diritto: è un dovere.
Non è una elargizione: è una conquista; non è una uguaglianza, è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C'è una libertà in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C'è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria. C'è la lotta, la grande lotta fra lo Stato e l'individuo, fra lo Stato che accentra e l'individuo che tenta di evadere, perché l'individuo lasciato a se stesso è l'individuo che, a meno che non sia un santo o un eroe, si rifiuta di pagare le tasse, si rifiuta di obbedire alle leggi, o di andare in guerra. Quando la Nazione, come ieri e come oggi, è impegnata per la vita e per la morte, inseguirete ancora le vostre rovinose chimere? Io dico: No.
Di che libertà si parla? Quando in un paese è permesso fare una campagna per la libertà, questa è la miglior prova che la libertà esiste. Nei paesi veramente tirannici che noi conosciamo, là non è permesso nemmeno di invocarla nei libri, la libertà. C'è l'indice che brucia i libri proibiti. Gli è che ogni rivoluzione, o signori, ha i suoi emigrati: gli emigrati di Coblenza, che possono essere gli emigrati di Dronero, di Sarno o di altri paesi più o meno illustri. Costoro si sentono veramente limitati nella loro libertà. Costoro sono un poco diminuiti; non sono più dei grandi uomini: lo erano quando potevano provocare una crisi ministeriale al mese, lo erano quando si pensava che dal discorso del signor X dipendessero le sorti del Governo. Adesso il Governo proclama la sua assoluta indifferenza davanti a queste sterili manifestazioni.
C'è un altro argomento che mi interessa assai: la forza e il consenso.
Si dice: «-Voi governate con la forza-». Ma tutti i Governi sono basati sulla forza. «Con le parole non si mantengono gli Stati» dice il maestro dei maestri della politica. Del resto la forza è consenso. Non vi può essere forza se non c'è consenso e il consenso non esiste se non c'è la forza. Ma voi che siete qui in cinquemila e rappresentate certamente i due terzi dei comuni italiani, non siete la mirabile, la magnifica, la indiscutibile prova del consenso delle popolazioni italiane per il Governo fascista?
Si domanda: «-Che farete dopo le elezioni?-» Prima della rivoluzione ci domandavano: «-Che cosa volete?-» Il Governo. La risposta è ora semplicissima. Adesso vogliamo conservare il Governo e governare. Sembra di dire una cosa quasi banale, ma governare è invece una fatica terribile; governare significa essere sottoposti ad un martellamento quotidiano dalle prime ore del mattino fino alle ultime della sera; governare significa avere la visione di tutti i bisogni della Nazione; governare significa sentire nel proprio cuore battere il cuore di tutto il popolo. E del resto che cosa importa snocciolare un bel programma? Io mi rifiuto allo smercio minuto della paccottiglia politica. Quello che mi propongo domani ve lo dico: far funzionare il Parlamento, purché il Parlamento funzioni.
Signori, non dovete prendere troppo alla lettera le mie parole antiparlamentaristiche. Le mie antipatie e le mie simpatie sono note, ma su di esse non costruisco la mia politica. Quando ho parlato di ludi cartacei e ho detto che le legioni valgono più dei collegi, io lo ho fatto per frenare un poco le impazienze schedaiole. Perché non voglio che tutto il partito sia affetto in un breve lasso di Tempo di questa malattia. Voglio che un reparto del partito funzioni nel Parlamento, ma che il partito resti fuori intatto a controllare e sospingere i suoi rappresentanti. Essere quello che deve essere, e cioè una riserva sempre intatta della Rivoluzione fascista.
E che cosa faremo facendo regolarmente funzionare il Parlamento? Perfezioneremo la riforma. Non è il mio un eccesso di onestà politica, se vi dico che non tutte le riforme del Governo fascista, che ha varato mille e settecento leggi, sono perfette, perfettissime. Le perfezioneremo.
Andremo incontro al Mezzogiorno. Non lo dico per cattivarmi le vostre simpatie, per aumentare il numero dei voti. La realtà è questa. L'Alta Italia ormai è giunta ad un elevato grado di civiltà meccanica, è ormai allo stato di saturazione. Il Mezzogiorno d'Italia è ancora in ritardo. Le regioni sulle quali si è appuntato il mio occhio di Capo del Governo sono: nell'Alta Italia, l'Istria; nel Meridionale, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. Quando si parlava della questione meridionale, si diceva: «-La questione dell'Italia Meridionale è una questione di ordine pratico: case, strade, ponti, acqua-». Ebbene, il Governo fascista ha agito su questo terreno. Il Governo fascista ha dato 240 milioni per l'acquedotto pugliese, 85 milioni per il porto di Bari, 3 milioni per l'acquedotto della Basilicata, 500 milioni per le strade della Calabria, 500 milioni per la ricostruzione dei paesi devastati dal terremoto.
Battuti sul terreno pratico, gli avversari dicono: «-Il Mezzogiorno d'Italia ha bisogno di risolvere il problema dello spirito-». Credo di interpretare il pensiero delle popolazioni del Mezzogiorno d'Italia verso le quali vanno le simpatie concrete del Fascismo. Io dichiaro che esse hanno ferma fiducia nel Governo fascista, perché solo il Governo fascista ha incominciato a risolvere il problema del Mezzogiorno.
Richiamo la vostra attenzione su un altro punto del programma futuro. Io mi propongo, e credo di avere in ciò consenziente tutto il Governo e anche il Ministro delle Finanze, mi propongo di alleggerire la pressione di ordine tributario fiscale che abbiamo imposta al popolo italiano. Credo che si debba sempre marciare verso il pareggio, ma che bisogna arrivare al pareggio in condizioni di discreta salute. Non credo che sia nei piani del mio amico De' Stefani fare arrivare la Nazione al pareggio boccheggiante, onde non si dica, come per certe operazioni, che la clinica ha trionfato ma che il paziente è morto.
Faremo questo anche perché il popolo italiano è stato meraviglioso di abnegazione, di spirito eroico, di sacrifici, ha accettato queste dure necessità che gli abbiamo imposte con alto spirito di solidarietà nazionale.
E quanto alla pressione politica?
Molti dei nostri avversari si domandano che cosa farà la Rivoluzione fascista domani. Certo sono interessati a saperlo. Anche qui bisogna essere in due. Se si vuole che il Fascismo, Governo e Partito, Partito e Milizia, alleggerisca la sua pressione, bisogna che gli avversari si rassegnino al fatto compiuto. Ma quando io leggo sopra un giornale stampato ieri sera che i sovversivi debbono moltiplicare le energie per insidiare la vita e lo sviluppo del Fascismo in tutti i campi, per suscitare opposizioni, per risvegliare il sentimento combattivo delle masse, richiamare gli operai alla visione dei loro interessi, quando mi capitano sotto gli occhi questi documenti, allora dichiaro solennemente che invece di alleggerire è il caso di dare un altro giro alla vite. Bisogna rendersi conto ancora una volta che noi abbiamo il sacro dovere di difendere le nostre idee, di esaltare il sacrificio dei nostri martiri, di tenere fede alla nostra Rivoluzione. Se i nemici, o isolati o in blocco, vengono contro di noi, noi abbiamo un solo dovere: di vincerli e di stroncarli.
Signori, bisogna essere o prò o contro, o Fascismo o antifascismo. Chi non è con noi è contro di noi. La lotta politica in Italia non ebbe mai una semplificazione più precisa di questa. Il passato è la garanzia dell'avvenire. Non possiamo deflettere. La marcia può avere dei rallentamenti o delle accelerazioni, ma marciare bisogna. Bisogna andare innanzi. Bisogna fare grande l'Italia. Questa è la meta infallibile del Fascismo. Lo stato unitario esiste. Oserei dire che esiste, da quando il Fascismo ha innalzato i suoi gagliardetti di battaglia e di vittoria. Voi siete la testimonianza che lo Stato in Italia esiste, voi che rappresentate tutte le città, che rappresentate tutti i Comuni, dall'Alpi alla Sicilia, anche i Comuni così detti allogeni, dove stanno dei cittadini che devono essere devoti all'Italia perché ormai le loro sorti sono legate indissolubilmente alle sorti della Patria comune. Signori Sindaci, ritornate ai vostri paesi, convocate il popolo nelle piazze, portate ai fascisti e al popolo tutto il saluto del Governo. Agite con me, collaborate con me per dare agli italiani il senso gioioso, eroico e umano della vita. Suonate a stormo le vostre gloriose campane, innalzate nel cielo purissimo i vostri gagliardetti e i vostri gonfaloni e dite: «-Giovinezza d'Italia, anche nella giornata del 6 aprile noi ti vogliamo vedere incoronata coi lauri della vittoria!-».
Milano, 31 marzo 1924: MUSSOLINI commemora il corrispondente da Parigi de "Il Popolo d'Italia" Nicola Bonservizi, assassinato dai fuoriusciti rossi.
All'inane lotta dei Partiti all'interno corrispondeva, all'estero, la propaganda dei fuorusciti e dei comunisti, materiata di menzogne e di calunnie. I cosiddetti intellettuali dei debellati Partiti storici, dal liberalismo al comunismo, diffondevano il veleno dei loro rancori e - sicuri nei loro rifugi - armavano la mani dei sicari incoscienti. La loro penna era seminatrice di sangue. Il giorno 20 febbraio 1924, il corrispondente del «Popolo d'Italia» a Parigi, Nicola Bonservizi, da Urbisaglia nelle Marche, veniva colpito a morte da due revolverate sparategli proditoriamente, in un ristorante, da un comunista di nascita italiana, che rimase impunito. Dopo dolorosa agonia il Bonservizi spirava a Parigi il giorno 26 marzo. La sua salma veniva trasportata in Italia, prima a Milano, poi al Cimitero di Urbisaglia. In tale occasione, dal Famedio del Cimitero monumentale di Milano, il 31 marzo 1924, il Duce pronunziò il seguente discorso:
Camicie Nere!
Tutto un popolo ha partecipato commosso al nostro rito d'amore e di compianto per Nicola Bonservizi, un fascista di purissima fede, di coraggio indomito, che ha santificato la causa con la vita e con la morte. Se l'omaggio di tutto un popolo non rendesse superfluo il mio discorso, io vorrei tessere un lungo elogio di questo mio giovane amico che mi fu fedele e devoto durante dieci anni, non solo nelle grandi ma anche nelle ore mediocri ed ingrate. Egli praticò la vera, la saggia, la santa disciplina, che consiste nell'obbedire quando ciò ci dispiace, quando ciò rappresenta sacrificio. I responsabili non sono soltanto gli assassini di Parigi. Ce ne sono altri e ce ne sono anche tra noi, fra coloro che in questi ultimi tempi si sono abbandonati al litigio fazioso, dando l'illusione al nemico che poteva riprendere la sua offensiva di massacri e di agguati.
Se un monito sale da questa bara è un monito che ci richiama tutti al senso austero del dovere e della disciplina.
Altri responsabili sono coloro che vanno raccogliendo in tutti i villaggi d'Italia più o meno oscuri la cronaca di violenze insignificanti per montare l'opinione pubblica e per armare il braccio ai criminali, che in questi ultimi tempi hanno ucciso cinque dei nostri migliori amici, cinque dei nostri migliori gregari.
Io vi dico che nel mio spirito stanno forse maturando le decisioni gravi e irrevocabili. Salutate questo nostro caduto. Egli lottava a Parigi dove è difficile fare il fascista. Egli lo ha fatto per tre anni sfidando tutti i pericoli fino al giorno in cui lo ha colto la morte e la gloria.
Roma, 10 aprile 1924: MUSSOLINI dopo il risultato dell'elezioni politiche ringrazia il Popolo di Roma.
Le elezioni politiche ebbero luogo il 6 aprile 1924: rappresentarono una schiacciante vittoria per il Regime e delusero le illusorie speranze degli avversari. Quattro giorni dopo il Duce, che si era recato a Milano, ritornò a Roma. Nel pomeriggio dello stesso giorno un'enorme folla accorse ad acclamarlo; ed Egli da un balcone di Palazzo Chigi, dopo il saluto del Regio Commissario, pronunziò le seguenti parole:
Popolo di Roma!
Il saluto che mi è porto da questa imponente moltitudine va diritto al mio cuore. Mi è grato il vostro saluto, ma più mi è grato manifestarvi tutta la mia devozione e dichiararvi che anche prima di oggi mi sono sempre sentito un cittadino e un figlio devotissimo di Roma. Questa adunata, alla quale nessuno dei mistificatori avversari vorrà negare l'attributo di adunata di popolo, questa adunata viene a completarne molte altre: ieri attraverso le città della Valle Padana, lungo i piccoli borghi e gli sperduti casolari dell'Appennino, nelle città gentili della Toscana ho sentito — dico ho sentito — vibrare attorno a me il consenso formidabile di quel popolo anonimo e minuto che è la base granitica della Patria. E il consenso è balzato anche dalla eloquenza rigida, ma solenne e severa, delle cifre delle urne. Cinque milioni di cittadini italiani, veramente liberi e veramente coscienti, si sono raccolti attorno ai simboli del Littorio. Io non permetto, e noi non permetteremo, che si insulti il popolo italiano, facendo credere che si tratti di gente mandata alle urne come una mandria informe di bestie senza coscienza.
E Roma ha ritrovato nella giornata del 6 aprile il suo spirito intatto delle grandi ore: Roma ha magnificamente marciato. Si diceva che gli impiegati non avrebbero votato per il Governo: hanno votato. Si diceva anche che a Roma non esiste un popolo lavoratore. Voglio una volta per sempre, come Capo del Governo, disperdere questa imbecillissima menzogna: Roma lavora! A Roma ci sono per lo meno cento mila autentici lavoratori: forse più equilibrati, più coscienti, più devoti al loro dovere che non altrove! Roma non è già la Capitale di un piccolo popolo di antiquari. Guardatevi attorno, e vedrete già tumultuosi nelle strade di questa incomparabile città una somma sempre più intensa di traffici, un compito sempre maggiore di energie. La Roma che noi sogniamo non deve essere soltanto il centro vivo e pulsante della rinnovata Nazione Italiana, ma anche la Capitale meravigliosa di tutto il mondo latino.
Dopo Roma, permettetemi che io saluti le nobili e generose fanterie del Mezzogiorno d'Italia che hanno marciato in serrate falangi come quando si aggrappavano alle doline del Carso sacro e memorabile.
È dunque sfatata quest'altra grossa menzogna per cui si diceva che il Mezzogiorno d'Italia era refrattario al Fascismo! Dichiaro che dal responso delle urne risulta che il Mezzogiorno d'Italia può dare la mano ai fratelli della Toscana, della Valle del Po e può prendere il suo posto degnamente fra le avanguardie del Fascismo italiano.
Popolo di Roma! Quale è il monito imperioso che esce dalla prova di domenica scorsa? Il monito è solenne ed è questo: bisogna che tutti si arrendano al fatto compiuto perché è irrevocabile.
Il Partito ha dichiarato: «-Vogliamo dare cinque anni di pace e di fecondo lavoro al popolo italiano-». Questa dichiarazione è mia! Perché se altri può dire «Perisca la Patria pur che si salvi la fazione», noi fascisti diciamo: «-Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, ma sia grande, sia rispettata la Patria italiana-».
Voi vedete che anche questa vittoria mi lascia perfettamente tranquillo: più grande è la vittoria, o cittadini, e più alti sono i doveri; doveri di lavoro, di disciplina, di concordia nazionale. Io vi domando: «-Li assolverete voi questi doveri?-».
Sì, sì! — risponde la immensa folla.
— Ebbene, io accolgo questo vostro monosillabo come la formula di un giuramento sacro e vi invito ad elevare un triplice grido:
«-Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!-».
Roma, 16 aprile 1924: MUSSOLINI parla ai funzionari del Ministero degli Esteri
S. E. il Capo del Governo fu nominato Cavaliere della SS. Annunziata. In tale occasione i funzionari del Ministero degli Affari Esteri gli offrirono in dono, il 16 aprile 1924, un calamaio d'argento. Il Segretario Generale del Ministero degli Esteri, sen. Contarmi, presentò il dono con un breve discorso, a cui il Duce rispose con le seguenti parole:
Eccellenza! Signori!
Dopo 18 mesi è questa la prima volta in cui mi trovo insieme a tutti i miei collaboratori del Ministero degli Esteri. Se ciò non è avvenuto prima di oggi, si deve al fatto delle condizioni eccezionali del momento.
Voi sapete che cosa io penso dello Stato e della burocrazia: ne penso bene. Penso che l'Amministrazione dello Stato cammina quando ognuno, al suo posto, è occupato nel suo preciso dovere. Si ottengono dei risultati fecondi quando tutte le parti di questo delicato meccanismo si muovono in armonia e sono tutte quante dirette al medesimo scopo.
Il vostro gesto è significativo, non solo per il dono, ma per le parole dalle quali è accompagnato. La collaborazione di tutti è necessaria, specialmente nel Ministero degli Esteri, il più delicato fra tutte le Amministrazioni dello Stato. Dico tutti, cominciando da quelli che occupano i primi posti negli uffici, dal Segretario generale fino agli archivisti che tengono in diligente ordine le pratiche, e fino ai dattilografi che battono e riproducono gli scritti in maniera nitidamente leggibile.
In questo tempo abbiamo risoluto dei problemi d'ordine politico e altri d'ordine economico: oso dire, e non credo di peccare di eccessivo orgoglio, che in questi 18 mesi abbiamo lavorato, abbiamo fatto del cammino. L'edificio non è sulla carta: è in gran parte costruito. Ricorderò l'annessione di Fiume, i Trattati di commercio che hanno riaperto all'Italia feconde relazioni con i principali paesi d'Europa. Inoltre si è risollevato il prestigio della Nazione nel mondo.
Così come voi mi avete dato fino ad oggi la vostra solerte collaborazione, conto su di voi anche e soprattutto per il futuro.
Ognuno compia il proprio dovere con diligenza e con purità di spirito. Se tutti i servitori dello Stato e tutti i cittadini che lo compongono si ispireranno a questo criterio, credo che l'avvenire della nostra Patria sarà grande.
Ultima modifica di Admin il Gio 22 Mar 2018, 15:20 - modificato 4 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1924
Roma, 21 aprile 1924: MUSSOLINI celebra il Natale di Roma, parlando alla cittadinanza romana.
Roma, 21 aprile 1924: MUSSOLINI celebra il Natale di Roma, parlando alla cittadinanza romana.
La città di Roma volle offrire la cittadinanza al Duce, e scelse per tale cerimonia il 21 aprile, giorno del Natale di Roma. La solenne celebrazione ebbe luogo nella Sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio. Il Regio Commissario della Città, Sen. Cremonesi, illustrò i motivi dell'offerta. A lui rispose S. E. il Capo del Governo con il seguente discorso:
Onorevole Senatore! Eccellenza! Signori!
Voi mi rendete, oggi, l'onore più alto, forse, che possa capitare a un uomo e a un italiano e non vi stupirà se vi dico che si avvicendano nel mio spirito sensi di trepidazione e di orgoglio e che la commozione turba il mio cuore per triplice via. Mi è consentito di dire «civis romanus sum», oggi, annuale di Roma, oggi, festa del lavoro italiano e su questo colle che, dopo il Golgota, è certamente da secoli il più sacro alle genti del mondo civile.
Ond'è che io mi domando: «-Merito io questo riconoscimento solenne? sono degno di essere annoverato tra i figli della città incomparabile?-». In verità, avrei preferito che Roma madre mi avesse accolto cittadino del suo popolo, a opera finita. Che cosa ho fatto per l'Italia? Poco. Per Roma? Nulla o quasi. L'opera è appena incominciata. Mi premiate in anticipo. Ma se questo gesto eccezionale e inaspettato intende essere la vostra testimonianza del mio amore grandissimo per Roma, allora io lo accolgo con coscienza grata e tranquilla.
Sino dai giorni della mia lontana giovinezza, Roma era immensa nel mio spirito che si affacciava alla vita, e dell'amore di Roma ho sognato e sofferto e di Roma ho sentito tutte le nostalgie. Roma! e la semplice parola aveva un rimbombo di tuono nella mia anima. Più tardi, quando potei peregrinare tra le viventi reliquie del Foro e lungo la Via Appia o presso i grandi templi, sovente mi accadde di meditare sul mistero di Roma, sul mistero della continuità di Roma. Mistero è l'origine. La cosiddetta critica storica può industriarsi a sfrondare la leggenda, ma sempre una zona d'ombra rimane, dove la leggenda — insostituibile dal freddo e spesso assurdo ragionamento — torna superbamente a fiorire. La critica non può dirci per quali doti segrete, o per quale disegno di una intelligenza suprema, un piccolo popolo di contadini e di pastori poté grado a grado assurgere a potenza imperiale e tramutare, nel corso di pochi secoli, l'oscuro villaggio di capanne sulle rive del Tevere in una città gigantesca che contava i suoi cittadini a milioni e dominava il mondo con le sue leggi.
Altro elemento di mistero, nella storia di Roma, la tragedia di Cristo, che a Roma trova la sua consacrazione, nuovamente universale e imperiale. Crolla l'impero, i barbari valicano le Alpi, passano e ripassano lungo la penisola devastandola. Roma ridiventa un villaggio di appena diciassettemila anime che si aggruppano disperatamente ai ruderi, che tengono vivo il nome, poiché il nome di Roma è immortale: la nave che fu lanciata «ver l'imperio del mondo», emerse ancora sui flutti delle età oscure, attendendo le luminose ore che verranno: ecco Dante e la Rinascenza, ecco Roma giganteggiare ancora e sempre nello spirito dei popoli.
L'Italia è ancora per secoli divisa, ma Roma è la Capitale predestinata: è l'unica città d'Italia e del mondo che abbia una storia universale.
Nel Risorgimento si grida: «-Roma o Morte!-» È il grido che sale dalle profondità della stirpe, che in Roma e solo in Roma si riconosce: è il grido che sarà ripreso, dopo Vittorio Veneto, dalle generazioni delle trincee, che spezzano definitivamente ogni inciampo, disperdono ogni equivoco, frantumano i residui orgogli di un localismo, retaggio di età ingrate, e innalzano a Roma un altare splendente nel cuore di tutto un popolo e del Natale di Roma fanno il Natale della Nazione, che lavora e cammina.
Ecco che il Fascismo si trova di fronte al problema della Capitale. I problemi di Roma, la Roma di questo XX secolo, mi piace dividerli in due categorie: i problemi della necessità e i problemi della grandezza. Non si possono affrontare questi ultimi, se i primi non siano stati risoluti. I problemi della necessità sgorgano dallo sviluppo di Roma e si racchiudono in questo binomio: case e comunicazioni. I problemi della grandezza sono d'altra specie: bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tutta la Roma antica, ma accanto alla antica e alla medioevale, bisogna creare la monumentale Roma del XX secolo. Roma non può, non deve essere soltanto una città moderna, nel senso ormai banale della parola; dev'essere una città degna della sua gloria e questa gloria deve rinnovare incessantemente per tramandarla, come retaggio dell'età fascista, alle generazioni che verranno.
Non è questo il momento per scendere a dettagli. I buoni artieri non mancano, e voi siete il più alacre, signor Senatore, né, fra qualche tempo, mancheranno gli ingenti mezzi necessari. Basti il dirvi che il problema di Roma sarà affrontato e risolto.
Già la visione di questa Roma futura sorride al mio spirito. Vive già come una certezza. Occorre, perciò, la virtù tipicamente romana: la dura silenziosa tenacia. Questa virtù deve diventare sacro patrimonio di tutto il popolo italiano.
È questo l'auspicio che traggo oggi, annuale del giorno in cui Romolo tracciò, col solco nella terra e col comandamento dei compagni della sua tribù, il segno del primo infallibile destino.
Salve, Dea Roma! Salve per quei che furono, sono e saranno i tuoi figli pronti a soffrire e a morire, per la tua potenza e per la tua gloria!
Roma, 22 aprile 1924: MUSSOLINI parla al Congresso internazionale di legislazione aerea
Il 22 aprile 1924 fu inaugurato nell'Aula massima del palazzo Senatoriale, in Campidoglio, il sesto Congresso giuridico internazionale di legislazione aerea, promosso dal Comité Juridique International de l'Aviation. Il Regio Commissario di Roma, Sen. Cremonesi, portò il saluto dell'Urbe; parlò poi il Prof. Cogliolo, Presidente del Congresso. Quindi S. E. il Capo del Governo pronunziò questo discorso, a cui risposero, per il Comité Juridique, i congressisti Delayn e Talamon.
Signori!
Sono lieto di inaugurare questo Congresso, non solo come Capo del Governo, ma anche come Commissario Generale dell'Aeronautica. Esso segue a pochi mesi di distanza la quinta sessione della Commissione Internazionale per l'Aviazione, che ha lavorato qui in Roma assai proficuamente per elaborare ulteriori accordi internazionali per la navigazione aerea.
È questo il sesto Congresso che è promosso dal Comité juridique international dell'aviation, ed i tre problemi che sono all'ordine del giorno concernono questioni fondamentali, per le quali è indispensabile un'ulteriore e più precisa elaborazione giuridica.
Io non posso fare a meno di ricordare il fatto che tutta l'elaborazione giuridica della navigazione aerea ha avuto in Italia un impulso notevole nel Congresso giuridico internazionale per il regolamento della locomozione aerea. In esso, sotto la guida sapiente e illuminata di un insigne giurista, il prof. Vittorio Scialoja, furono poste precisamente quasi tutte le principali questioni che concernono il diritto aereo e per alcune di esse l'elaborazione dei principi fondamentali giuridici fu portata a tal punto, che, in realtà, ben poco si è aggiunto in sostanza posteriormente. Tanto più importante fu quel congresso in quanto che i suoi lavori ebbero luogo quando non esistevano in materia norme di legge interna in alcuno Stato, né accordi internazionali, e servirono perciò moltissimo a preparare quei principi fondamentali che furono accolti dalla convenzione di Parigi del 1919 e poi dalle leggi speciali per la navigazione aerea, che i vari Stati hanno successivamente emanato. Ad esso parteciparono i giuristi di tutti i principali Stati del mondo e fu perciò la prima espressione della coscienza giuridica del mondo intero nei riguardi del nuovissimo problema del diritto aereo che costituisce uno dei fatti più importanti della storia giuridica contemporanea.
Un grave pericolo che occorre, a mio avviso, evitare, è la smania di troppo legiferare. La navigazione aerea non ha raggiunto ancora tecnicamente quel grado che avrà indubbiamente domani, né il traffico a scopi civili è così ampio e intenso che possano dirsi già posti tutti i vari problemi che il suo intensificarsi, specialmente a scopi civili, porrà indubbiamente in rilievo. È perciò necessario non creare degli archetipi legislativi che gli eventi dimostreranno praticamente inadeguati e inutili, ma lasciare che la coscienza giuridica affronti i problemi man mano che si presenteranno nei loro nuovi aspetti, di modo che i bisogni e l'esperienza precedano le norme di legge.
Così fecero i Romani nella loro alta sapienza giuridica. La vita precedette sempre il diritto. Il diritto così poté adeguarsi alle necessità della vita ed esprimere i bisogni, senza comprimerla né deprimerla nelle strettoie di norme troppo rigide, perché aprioristiche. Io annetto ai problemi dell'aviazione una singolare importanza, poiché, come ho già detto altra volta, ritengo che l'aviazione abbia un campo assai vasto d'azione nel futuro.
Ho perciò voluto dare un impulso notevole alla navigazione aerea e sotto il mio Governo l'Italia ha finalmente avuto le prime leggi che la regolano e fra non molto sarà emanato un regolamento fondamentale che disciplinerà tutti i problemi di esecuzione delle norme legislative. La nostra legge non è perfetta, poiché niuna legge è perfetta, ma essa costituisce indubbiamente un contributo fondamentale per la legislazione aerea e lo prova il fatto che è servita di esempio ad altri Stati.
Signori!
Il Comité juridique international de l'Aviation è veramente benemerito per l'elaborazione del nuovo diritto aereo. Io vi auguro che il Congresso che oggi si inaugura — e che segue quelli notevolissimi di Parigi, Ginevra, Francoforte, Monaco e Praga — segni un'altra tappa nelle sue benemerenze. È con questo sentimento che io vi porgo il mio deferente e augurale saluto.
Firenze, 26 aprile 1924: MUSSOLINI parla agli invalidi di guerra
Il 26 aprile 1924, a Firenze, al Politeama Fiorentino ebbe luogo l'adunata dei grandi invalidi e mutilati di guerra. Pronunziò un'orazione Carlo Delcroix e quindi il Duce disse le seguenti parole:
Concittadini!
Perché volete che con la mia parola necessariamente un poco arida io disperda la magnifica impressione di poesia che in voi tutti è stata suscitata dall'alato splendido discorso del grande amico Delcroix?
Io non ho nulla da aggiungere. Egli ha parlato per tutti, anche per me. Egli ha detto che questi martiri, questi gloriosissimi mutilati costituiscono la decima legione, la legione fedelissima, che chiede soltanto di combattere e di morire in devozione e in silenzio.
Veramente l'Italia ha riscattato se stessa; veramente sembrano lontani, ma non sono dimenticati, i tempi in cui era possibile, in un eccesso di abbiezione, irridere al dolore e insultare l'eroismo. Il popolo si è riscattato. Noi siamo le guardie di questo riscatto e non permetteremo a nessun costo un ritorno, sia pure soltanto indiretto, a tempi che consideriamo sepolti per sempre.
E nessuno si faccia delle illusioni. Guai a coloro che volessero fermare nel suo fatai cammino la generazione che ha assunto nelle trincee i suoi privilegi di nobiltà, i suoi titoli di grandezza! Indietro non si torna!
Il popolo italiano marcerà sulla strada della sua grandezza e rovescerà tutti gli ostacoli che gli sbarrassero il cammino.
Accostatevi, o Delcroix, venite verso di me: io voglio abbracciare in voi tutti coloro che hanno lottato e che hanno sofferto per la grandezza della Patria!
Faenza, 27 aprile 1924: MUSSOLINI commemora il Patriota Alfredo Oriani
Nel grigio periodo della Terza Italia - quando l'atmosfera politica sembrava aver annientato lo spirito volitivo ed eroico del Risorgimento - solo pochi isolati avevano saputo reagire e presentire i tempi nuovi. Fra questi - con Carducci e Crispi - fu lo scrittore romagnolo Alfredo Oriani (1885-1909), pensatore politico, critico, romanziere, poeta. Disdegnoso di quel facile successo che si ottiene con le transazioni e le indulgenze, si ritrasse in solitudine nella sua villa al Cardello presso Casola Valsenio (Faenza) e lanciò alla Nazione il suo monito e il suo preannunzio. Fu ascoltato da pochi; lo si lasciò morire fra l'indifferenza e il disconoscimento. Ma il Duce volle rendere giustizia all'Uomo della sua terra che aveva preferito l'insuccesso e la solitudine ai facili lenocinii della politica e della pseudo-letteratura dominanti. E lo celebrò con una Marcia di Fascisti al Cardello, avvenuta il 27 aprile 1924. In tale occasione Egli pronunziò il seguente discorso, che oggi serve di prefazione alle Opera Omnia di Alfredo Oriani, pubblicate sotto gli auspici del Capo del Governo:
Siamo venuti noi che apparteniamo alla generazione di Alfredo Oriani a rendergli il nostro reverente omaggio. Si dirà dai nostri avversari, da quelli che appartengono all'Italia paralitica, che noi celebriamo i nostri eroi marciando lungo le grandi strade. È appunto questa la caratteristica delle nuove generazioni: quella di marciare; di essere sempre pronti a marciare: di non sostare se non per il tempo strettamente necessario, a precisare le mete per più rapidamente raggiungerle.
I soliti pedanti che sono incapaci della sintesi e si perdono troppo spesso nelle analisi, hanno domandato se noi fascisti avessimo le carte in regola per commemorare il grandissimo Oriani. Il fatto che il figlio di Alfredo Oriani indossi la camicia nera è la risposta più eloquente che si possa dare ai nostri avversari di tutti i colori.
Più gli anni passano, più le generazioni si susseguono e più splende questo astro, luminoso, anche quando i tempi sembravano oscuri. Nei tempi in cui la politica del «-piede di casa-» sembrava il capolavoro della saggezza umana, Alfredo Oriani sognò l'impero; in tempi in cui si credeva alla pace universale perpetua, Alfredo Oriani avvertì che grandi bufere erano imminenti le quali avrebbero sconvolto i popoli di tutto il mondo; in tempi in cui i nostri dirigenti esibivano la loro debolezza più o meno congenita, Alfredo Oriani fu un esaltatore di tutte le energie della razza; in tempi in cui trionfava un sordido anticlericalismo, che non aveva alcuna luce ideale, Alfredo Oriani volle morire col Crocifisso sul petto a dimostrare che dopo le grandi parole dettate dal Cristianesimo, altre così solenni, così universali non furono più pronunciate sulla faccia della terra.
Noi che, dal punto di vista della cronologia, non siamo più fra i giovani che si affacciano ora alla vita, ma, dal punto di vista del coraggio e della solidità fisica, ci sentiamo sempre giovanissimi, noi ci siamo nutriti delle pagine di Alfredo Oriani. Quella storia d'Italia così accidentata e tormentata, che è tutto un seguito di guerre civili e di rivoluzioni — e mai il genio italiano fu così potente come quando i cittadini lottavano dentro le mura delle loro stesse città — quella storia che a taluni può apparire misteriosa e paradossale, a noi fu chiara ed apparve logica, di una logica formidabile attraverso i volumi della Lotta politica. Intristiva la coscienza italiana: Garibaldi era morto, Mazzini sembrava lontanissimo alle nuove generazioni che correvano dietro ad un profeta di dubbia razza tedesca. La politica del materialismo e del positivismo trionfava dalle cattedre, dai giornali; nei partiti e nelle coscienze intorpidiva l'anima italiana; fu questo il momento in cui Alfredo Oriani gettò alle folle italiane il volume de La rivolta ideale, nel quale tutti i problemi, tutte le passioni, tutte le angoscie e tutte le speranze del nostro tempo vengono prospettate, illustrate, in uno stile conciso, tacitiano, che basterebbe da solo a costituire la gloria di uno scrittore.
Ci siamo nutriti di quelle pagine e consideriamo Alfredo Oriani come un Poeta della Patria, come un anticipatore del Fascismo, come un esaltatore delle energie italiane. Oso affermare che, se Alfredo Oriani fosse ancora fra i vivi, egli avrebbe preso il suo posto all'ombra dei gloriosi gagliardetti del littorio.
Ben fa il popolo di Romagna a rendergli onore, perché egli, e nel fisico e nel morale, aveva le specifiche qualità della nostra stirpe. Non è soltanto una gloria della Romagna, ma una gloria dell'Italia: non solo una gloria dell'Italia, ma a poco a poco il suo nome viene conosciuto anche oltre le frontiere e si considera la sua opera di letterato, di filosofo, di storico, come uno dei momenti più singolari della storia nello spirito italiano dell'ultimo cinquantennio.
Salutiamo la sua memoria, o giovani camicie nere, alziamo in suo onore i nostri gagliardetti e giuriamo su questo tumulo glorioso che a qualunque costo noi vogliamo che l'Italia sia grande.
Nel viaggio di ritorno a Roma, nella stazione di Laterina, la folla fece fermare il treno presidenziale. L'on. Marchi portò il saluto della cittadinanza e l'on. Mussolini rispose con le seguenti parole:
Camicie Nere! Cittadini!
Il vostro entusiasmo è così fervido e le vostre accoglienze sono così sincere e fraterne, che io apro una eccezione a quella che dovrebbe essere la mia regola di non fare due discorsi nello stesso giorno. Ieri il Fascismo ha compiuto il suo dovere recando a mezzo mio il saluto ai martiri della nostra grande guerra vittoriosa; oggi il Fascismo universitario si è recato alla tomba solitaria del Cardello ad onorare un grande pensatore che l'Italia di ieri aveva dimenticato. Così il Fascismo si inserisce sempre più profondamente nella vita della Nazione e si prepara a raggiungere tutte le mete infallibili.
A chi l'Italia?
A chi Roma?
A chi tutte le vittorie? («A noi!», rispondono i presenti).
Roma, 30 aprile 1924: MUSSOLINI presenta la tesi di laurea in Legge che ha per tema Machiavelli.
Alla lotta e al lavoro politico il Duce continuava ad alternare lo studio. Volle conseguire la laurea in Legge, non ad honorem ma con la presentazione di una tesi di laurea. Scelse come tema il Machiavelli, il massimo pensatore politico italiano, troppo spesso misconosciuto e deformato, in buona o in mala fede, dalla critica italiana e straniera. E alla sua tesi premise questo «Preludio», che fu pubblicato dalla rivista «-Gerarchia-» alla fine d'aprile del 1924.
Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola — dalle legioni nere di Imola — il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli «-Cum parole non si mantengono li Stati-». Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo «-Commento dell'anno 1924, al "Principe" di Machiavelli-», al libro che io vorrei chiamare: «-Vademecum per l'uomo di governo-». Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi e nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di governo.
Quella che mi onoro di leggervi non è quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi.
Non dirò nulla di nuovo.
La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe è circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduto, o non è invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli è viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde variazioni nello spirito degli individui e dei popoli.
Se la politica è l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, è l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo «-uomini-» dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito «sotto la specie della eternità»? Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, è l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli come verrò fra poco documentando — nei loro aspetti più negativi e mortificanti.
Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: «-Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati volubili simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e si rivoltano... E quel principe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore è tenuto da uno vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai.-» Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: «-Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione è pronta; perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' può bene riavere il suo podere.-» E al capitolo III dei Discorsi: «-Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine.-»
Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli. È anche evidente che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne è passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe è lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII e XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo. C'è una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione. Vi imaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia — che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra forza organizzata dello Staio e il frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio oramai famoso articolo «Forza e consenso» Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: «-Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono-». Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. «-E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati.-»
Roma, 2 maggio 1924: MUSSOLINI interviene all'assemblea dell'Istituto Internazionale di Agricoltura
Il 2 maggio 1924 s'inaugurò a Roma, alla presenza di S. M. il Re, la VII Assemblea dell'Istituto Internazionale di Agricoltura.
La cerimonia ebbe luogo nella sede dell'Istituto stesso, a Villa Umberto. In tale occasione, S. E. il Capo del Governo, rispondendo alle parole del Vice-presidente Dop, pronunciò il seguente discorso:
Sire! Signori Delegati!
Con grande soddisfazione intima auguro il benvenuto agli invitati dei settanta Stati aderenti all'Istituto di Agricoltura, qui convenuti per divisare i mezzi migliori ad assicurargli una vita feconda e ricca di sempre maggiori benefici per gli interessi dell'agricoltura nel mondo. Il Governo italiano è fedele interprete dell'anima e della coscienza nazionale nell'esprimere il senso vivo dell'importanza primordiale dell'industria agricola fra tutte le occupazioni umane. L'anima della nostra razza, che ha storicamente vissuto il passaggio dalla vita agreste a quella dell'urbe e che ne ha tratto mirabili espressioni di arte, di vita sociale e religiosa, ispirazioni ed istituzioni che sono non piccola parte nel patrimonio comune di ogni popolo, ben sa come sull'agricoltura sia costruito l'intero edificio della prosperità sociale, come altre attività produttive possano essere più impressionanti nella grandiosità localizzata delle loro manifestazioni, più facili apportatrici di guadagno, ma nessuna altrettanto augusta ed essenziale. Poi che infine tutto potrebbe immaginarsi ritolto all'umanità delle sue superbe espressioni di forza e di conquista, ma non mai, o signori, finché la razza umana esista, non mai l'arte di trarre dalla terra madre quanto è necessario a sostentare la vita.
Unire gli sforzi di tutti i paesi del mondo per la prosperità della scienza agraria, per la migliore e più pronta conoscenza delle sue condizioni e dei migliori metodi di coltura, per lo studio delle leggi e delle istituzioni che mirano al suo miglioramento ed a quello di tutti coloro che vi spendono la loro diuturna fatica è compito grande; è il compito di questo Istituto. Ed io ascrivo a grande ventura per l'Italia che in essa l'Istituto abbia sede; ventura meritata, poi che soltanto sul nostro suolo la geniale idea dell'Americano, la cui figura è sempre qui presente ed il posto segnato, trovò accoglienza presso il primo cittadino d'Italia, presso la Maestà Vostra che ne acquistò nuovi diritti di riconoscenza verso il nostro Paese ed il mondo intero. Fecondo suolo quello d'Italia, Sire, Signori, non meno per le idee che per le messi!
Ed ecco per quale ordine di ragioni, internazionali e nazionali ad un tempo, il Governo italiano considera con la più grande simpatia questo Istituto, ne auspica e fermamente ne vuole la maggiore prosperità e l'incremento progressivo. Mi è grato affermarlo ed assicurare che a tali scopi tenderemo con costante intendimento e con energia, animati dalla bontà dell'intento e dalla cooperazione di tutti gli Stati civili. Qui infatti non competizioni se non feconde, non lotta di interessi politici ed economici, ma vastità di idee ed armonia rispondenti al ritmo ampio ed armonioso del lavoro dei campi ed al grande quadro in cui esso si svolge, immutato nei secoli, quanto mutevole ad ogni cangiamento del tempo e del cielo.
Questa Assemblea Generale, la settima dall'inizio, la terza del dopoguerra, può per importanza di argomenti all'ordine del giorno segnare una data nella storia dell'Istituto. L'assestamento delle sue basi finanziarie, la collaborazione colle associazioni libere e con i congressi, la preparazione di censimenti contemporanei della produzione agricola nei vari paesi, il miglioramento dei servizi, ed in particolare di quelli di documentazione, sono questioni che escono dall'insieme del vostro ordine del giorno con un netto rilievo di importanza non solo relativa, ma anche assoluta. Esse costituiscono un insieme tale da giustificare la frase, che ho sentito adoperare da taluno, di «momento storico» nella vita dell'Istituto. E sia di storia fausta per questa grande istituzione, per gli interessi solidali dell'agricoltura mondiale.
Sire! Signori!
È questo il voto del Governo, questo il mio voto personale per l'esito dei lavori dell'Assemblea ora inaugurata.
Palermo, 5 maggio 1924: MUSSOLINI parla al Popolo palermitano.
Il 5 maggio 1924, il Duce iniziava un giro per la Sicilia, sbarcando a Palermo. Nello stesso giorno, Egli pronunziò, dalla terrazza del Palazzo Reale di Palermo, il seguente discorso:
Nobile e fierissimo popolo di Palermo!
Non ti meravigliare se la mia voce ti giungerà rotta e spezzata. Non ti stupire se sul mio volto di rude combattitore vedrai scendere le lacrime di commozione. Lo spettacolo che tu mi hai offerto stamane e che mi offri in questo momento supera ogni aspettativa e non vi è parola che possa tradurre i sentimenti che tumultuano nel mio spirito. Stamane all'alba si profilava appena dal Mare nostro la linea della tua Isola e già veniva verso di me l'effluvio dolcissimo dei tuoi mille giardini! Poi tu mi hai offerto su di un vassoio simbolico non già le chiavi ed il sale della ospitalità ma tutto il tuo fervidissimo cuore italiano. Ti siano rese grazie dal profondo del mio animo!
E un antico giuramento quello che oggi assolvo, è una promessa che oggi finalmente, dopo un'attesa che parve lunga non soltanto a voi, viene ad essere adempiuta. Fino dai primi mesi del mio Governo fu mio proposito di visitare la vostra terra, non già per cercarvi della popolarità; meno ancora per accattale dei voti! Ma oggi che la battaglia delle urne è passata e si è conclusa in un modo trionfale, oggi vengo a te, popolo palermitano, con la coscienza tranquilla perché non è soltanto da oggi che tu sei l'oggetto della mia devozione e del mio profondo amore.
Sceso a terra, uno dei primi saluti mi è stato porto da un uomo della vostra gente, che dopo una giornata infausta per la Patria, seppe trovare una semplice ma altrettanto solenne parola: Resistere! Resistere sul Piave, resistere all'interno, resistere dovunque era la Patria, dovunque erano cuori d'Italiani, resistere per la vittoria del Giugno, resistere per la vittoria dell'Ottobre, quando le armate di un Impero potente, che avevano dominato l'Europa per secoli e secoli, volsero in disordinata rotta, sospinte da quell'Esercito Italiano in cui il fiore del silenzioso eroismo era rappresentato dalle vostre mirabili e invincibili fanterie.
Ho reso omaggio alla tomba di Crispi, non soltanto gloria palermitana e siciliana, ma gloria italiana. Non importa se egli abbia subito il destino durissimo di vivere in un'età oscura; questo, se mai, aumenta la verità del suo verbo di energia, di potenza, di dignità, oggi accolto trionfalmente dalle generazioni di Vittorio Veneto uscite dalle sanguinose e indimenticabili trincee.
Ed ho reso omaggio all'Eroe degli Eroi, al vostro Cascino. C'è forse pietra del Carso, pietra di quelle doline dove noi abbiamo sofferto e dove il popolo è diventato grande, c'è forse zolla di tutto l'arco di trincee che andava dallo Stelvio al mare che non sia stata bagnata da stille di purissimo sangue siciliano?
Molto vi deve la Patria; molto vi deve l'Italia nell'epoca del Risorgimento, molto vi deve l'Italia durante le guerre coloniali che voi particolarmente sentivate, molto vi deve l'Italia per il vostro ammirevole contegno durante la guerra di redenzione e molto ancora vi deve per il contegno di equilibrio e di saggezza che avete serbato negli anni incerti del dopoguerra. Qui ove gli spiriti sono abituati alla luce solare e ai dettami della saggezza antica e moderna, qui non vi furono oscuramenti di civiltà, qui non vi fu imbestialimento collettivo; qui era la riserva, qui era la valanga che sarebbe fatalmente salita se l'Italia avesse veramente raggiunto l'orlo estremo dell'abisso!
Quello che io compio, o Palermitani, è in primo luogo un pellegrinaggio di amore. In secondo luogo è una ricognizione. Oh! io conosco i vostri bisogni. So quello che vi occorre. Potrei numerare i paesi ed i comuni che non hanno strade, che non hanno acqua: non ignoro la desolazione del latifondo, né mi è sconosciuta la tragedia oscura della zolfara. Ma un conto è leggere, sia pure attraverso i rapporti, un conto è vedere, constatare, scendere in mezzo al popolo, al popolo che è buono, sobrio, tenace, laborioso. Un conto è ascoltare le voci che salgono dalla profondità di un popolo.
Direi cosa assurda se affermassi che tutti i problemi che angustiano la vostra Isola bellissima sono stati affrontati e risolti; ma quello che con sicura coscienza vi posso dire è che la sintesi di tutti i vostri problemi è presente nella mia coscienza. E un'altra cosa voglio aggiungere, questa: ho la volontà di risolverli e li risolverò.
Qualche cosa si è fatto, ma molto ancora resta da fare. Per fortuna, a quella che io vorrei chiamare la coscienza del dovere e della responsabilità di Governo, si aggiunge oggi l'assillo delle nuove forze e delle nuove generazioni. Siete voi, e soprattutto voi, che dovete porre con tenacia instancabile, con diligenza inflessibile i problemi della vostra Isola, in modo che da problemi regionali appaiano in un dato momento nella loro vera essenza di problemi nazionali.
Ed ora, o popolo palermitano, voglio scendere a colloquio con te. È questo insieme costume antico, da quando i tribuni parlavano dall'arengo, e moderno perché fu ripreso a Fiume. (Grida di: Viva D'Annunzio!).
Ebbene, o popolo palermitano, se l'Italia ti chiede ed esige da te la disciplina necessaria, il lavoro concorde, la devozione alla Patria, che cosa rispondi tu, o popolo palermitano? (Tutto il popolo prorompe in un formidabile «-sì!-»).
E se domani è necessario che la valanga dei tuoi petti salga ancora, se è necessario ripulire tutto quanto non ha più ragione di esistere, sei tu pronto a marciare? (La folla prorompe in un nuovo, poderoso «-sì!-»).
Popolo palermitano, sei veramente degno della tua storia e della tua gloria. Sei veramente un popolo garibaldino! Poiché non ancora furono impegnate tutte le battaglie, non ancora può dirsi finita l'opera di redenzione e di ricostruzione.
Tu sai che quando la libertà non è tutelata dall'ordine, diventa licenza e caos. Tu sai che non si possono governare le Nazioni senza avere polsi di ferro e volontà d'acciaio. Ma questo stile di governo, che è il mio stile e del quale rivendico orgogliosamente tutta la responsabilità, non impedisce di andare al popolo, di andare verso il popolo che lavora e che soffre, che non turba l'ordine pubblico, verso il popolo che è la base granitica sulla quale si costruisce la grandezza delle Nazioni, di andare verso questo popolo non vendendogli del fumo, ma dicendogli la verità aperta con cuore fraterno.
Questo, o Palermitani, è il Fascismo. Questo vuole il Partito fascista! Noi abbiamo Roma per diritto di rivoluzione! Soltanto da un'altra forza, e solo dopo un combattimento che non potrebbe non essere asperrimo, ci potrebbe essere tolta!
Non so se la mia parola sia giunta a tutti voi. Ma il mio cuore sì!
In quest'ora solenne, mentre il mio dire si avvia alla fine, voglio elevare il pensiero reverente alla Maestà del Re, al Re, nel cui nome la Patria simboleggia e la stirpe consacra le sue fortune. Vogliamo fare e faremo ogni sforzo perché il popolo della Sicilia possa rapidamente mettersi all'avanguardia di tutto il popolo italiano.
Conto anche su voi, o Palermitani! Siamo un grande esercito in marcia, siamo una Nazione che riprende a vivere dopo secoli di divisioni e di tirannia. Abbiamo frantumato tutti gli ostacoli all'interno: affronteremo con la disciplinata tenacia dei forti quelli che ci venissero dall'estero. Ed il nostro sogno diventerà vita e storia!
Onorevole Senatore! Eccellenza! Signori!
Voi mi rendete, oggi, l'onore più alto, forse, che possa capitare a un uomo e a un italiano e non vi stupirà se vi dico che si avvicendano nel mio spirito sensi di trepidazione e di orgoglio e che la commozione turba il mio cuore per triplice via. Mi è consentito di dire «civis romanus sum», oggi, annuale di Roma, oggi, festa del lavoro italiano e su questo colle che, dopo il Golgota, è certamente da secoli il più sacro alle genti del mondo civile.
Ond'è che io mi domando: «-Merito io questo riconoscimento solenne? sono degno di essere annoverato tra i figli della città incomparabile?-». In verità, avrei preferito che Roma madre mi avesse accolto cittadino del suo popolo, a opera finita. Che cosa ho fatto per l'Italia? Poco. Per Roma? Nulla o quasi. L'opera è appena incominciata. Mi premiate in anticipo. Ma se questo gesto eccezionale e inaspettato intende essere la vostra testimonianza del mio amore grandissimo per Roma, allora io lo accolgo con coscienza grata e tranquilla.
Sino dai giorni della mia lontana giovinezza, Roma era immensa nel mio spirito che si affacciava alla vita, e dell'amore di Roma ho sognato e sofferto e di Roma ho sentito tutte le nostalgie. Roma! e la semplice parola aveva un rimbombo di tuono nella mia anima. Più tardi, quando potei peregrinare tra le viventi reliquie del Foro e lungo la Via Appia o presso i grandi templi, sovente mi accadde di meditare sul mistero di Roma, sul mistero della continuità di Roma. Mistero è l'origine. La cosiddetta critica storica può industriarsi a sfrondare la leggenda, ma sempre una zona d'ombra rimane, dove la leggenda — insostituibile dal freddo e spesso assurdo ragionamento — torna superbamente a fiorire. La critica non può dirci per quali doti segrete, o per quale disegno di una intelligenza suprema, un piccolo popolo di contadini e di pastori poté grado a grado assurgere a potenza imperiale e tramutare, nel corso di pochi secoli, l'oscuro villaggio di capanne sulle rive del Tevere in una città gigantesca che contava i suoi cittadini a milioni e dominava il mondo con le sue leggi.
Altro elemento di mistero, nella storia di Roma, la tragedia di Cristo, che a Roma trova la sua consacrazione, nuovamente universale e imperiale. Crolla l'impero, i barbari valicano le Alpi, passano e ripassano lungo la penisola devastandola. Roma ridiventa un villaggio di appena diciassettemila anime che si aggruppano disperatamente ai ruderi, che tengono vivo il nome, poiché il nome di Roma è immortale: la nave che fu lanciata «ver l'imperio del mondo», emerse ancora sui flutti delle età oscure, attendendo le luminose ore che verranno: ecco Dante e la Rinascenza, ecco Roma giganteggiare ancora e sempre nello spirito dei popoli.
L'Italia è ancora per secoli divisa, ma Roma è la Capitale predestinata: è l'unica città d'Italia e del mondo che abbia una storia universale.
Nel Risorgimento si grida: «-Roma o Morte!-» È il grido che sale dalle profondità della stirpe, che in Roma e solo in Roma si riconosce: è il grido che sarà ripreso, dopo Vittorio Veneto, dalle generazioni delle trincee, che spezzano definitivamente ogni inciampo, disperdono ogni equivoco, frantumano i residui orgogli di un localismo, retaggio di età ingrate, e innalzano a Roma un altare splendente nel cuore di tutto un popolo e del Natale di Roma fanno il Natale della Nazione, che lavora e cammina.
Ecco che il Fascismo si trova di fronte al problema della Capitale. I problemi di Roma, la Roma di questo XX secolo, mi piace dividerli in due categorie: i problemi della necessità e i problemi della grandezza. Non si possono affrontare questi ultimi, se i primi non siano stati risoluti. I problemi della necessità sgorgano dallo sviluppo di Roma e si racchiudono in questo binomio: case e comunicazioni. I problemi della grandezza sono d'altra specie: bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tutta la Roma antica, ma accanto alla antica e alla medioevale, bisogna creare la monumentale Roma del XX secolo. Roma non può, non deve essere soltanto una città moderna, nel senso ormai banale della parola; dev'essere una città degna della sua gloria e questa gloria deve rinnovare incessantemente per tramandarla, come retaggio dell'età fascista, alle generazioni che verranno.
Non è questo il momento per scendere a dettagli. I buoni artieri non mancano, e voi siete il più alacre, signor Senatore, né, fra qualche tempo, mancheranno gli ingenti mezzi necessari. Basti il dirvi che il problema di Roma sarà affrontato e risolto.
Già la visione di questa Roma futura sorride al mio spirito. Vive già come una certezza. Occorre, perciò, la virtù tipicamente romana: la dura silenziosa tenacia. Questa virtù deve diventare sacro patrimonio di tutto il popolo italiano.
È questo l'auspicio che traggo oggi, annuale del giorno in cui Romolo tracciò, col solco nella terra e col comandamento dei compagni della sua tribù, il segno del primo infallibile destino.
Salve, Dea Roma! Salve per quei che furono, sono e saranno i tuoi figli pronti a soffrire e a morire, per la tua potenza e per la tua gloria!
Roma, 22 aprile 1924: MUSSOLINI parla al Congresso internazionale di legislazione aerea
Il 22 aprile 1924 fu inaugurato nell'Aula massima del palazzo Senatoriale, in Campidoglio, il sesto Congresso giuridico internazionale di legislazione aerea, promosso dal Comité Juridique International de l'Aviation. Il Regio Commissario di Roma, Sen. Cremonesi, portò il saluto dell'Urbe; parlò poi il Prof. Cogliolo, Presidente del Congresso. Quindi S. E. il Capo del Governo pronunziò questo discorso, a cui risposero, per il Comité Juridique, i congressisti Delayn e Talamon.
Signori!
Sono lieto di inaugurare questo Congresso, non solo come Capo del Governo, ma anche come Commissario Generale dell'Aeronautica. Esso segue a pochi mesi di distanza la quinta sessione della Commissione Internazionale per l'Aviazione, che ha lavorato qui in Roma assai proficuamente per elaborare ulteriori accordi internazionali per la navigazione aerea.
È questo il sesto Congresso che è promosso dal Comité juridique international dell'aviation, ed i tre problemi che sono all'ordine del giorno concernono questioni fondamentali, per le quali è indispensabile un'ulteriore e più precisa elaborazione giuridica.
Io non posso fare a meno di ricordare il fatto che tutta l'elaborazione giuridica della navigazione aerea ha avuto in Italia un impulso notevole nel Congresso giuridico internazionale per il regolamento della locomozione aerea. In esso, sotto la guida sapiente e illuminata di un insigne giurista, il prof. Vittorio Scialoja, furono poste precisamente quasi tutte le principali questioni che concernono il diritto aereo e per alcune di esse l'elaborazione dei principi fondamentali giuridici fu portata a tal punto, che, in realtà, ben poco si è aggiunto in sostanza posteriormente. Tanto più importante fu quel congresso in quanto che i suoi lavori ebbero luogo quando non esistevano in materia norme di legge interna in alcuno Stato, né accordi internazionali, e servirono perciò moltissimo a preparare quei principi fondamentali che furono accolti dalla convenzione di Parigi del 1919 e poi dalle leggi speciali per la navigazione aerea, che i vari Stati hanno successivamente emanato. Ad esso parteciparono i giuristi di tutti i principali Stati del mondo e fu perciò la prima espressione della coscienza giuridica del mondo intero nei riguardi del nuovissimo problema del diritto aereo che costituisce uno dei fatti più importanti della storia giuridica contemporanea.
Un grave pericolo che occorre, a mio avviso, evitare, è la smania di troppo legiferare. La navigazione aerea non ha raggiunto ancora tecnicamente quel grado che avrà indubbiamente domani, né il traffico a scopi civili è così ampio e intenso che possano dirsi già posti tutti i vari problemi che il suo intensificarsi, specialmente a scopi civili, porrà indubbiamente in rilievo. È perciò necessario non creare degli archetipi legislativi che gli eventi dimostreranno praticamente inadeguati e inutili, ma lasciare che la coscienza giuridica affronti i problemi man mano che si presenteranno nei loro nuovi aspetti, di modo che i bisogni e l'esperienza precedano le norme di legge.
Così fecero i Romani nella loro alta sapienza giuridica. La vita precedette sempre il diritto. Il diritto così poté adeguarsi alle necessità della vita ed esprimere i bisogni, senza comprimerla né deprimerla nelle strettoie di norme troppo rigide, perché aprioristiche. Io annetto ai problemi dell'aviazione una singolare importanza, poiché, come ho già detto altra volta, ritengo che l'aviazione abbia un campo assai vasto d'azione nel futuro.
Ho perciò voluto dare un impulso notevole alla navigazione aerea e sotto il mio Governo l'Italia ha finalmente avuto le prime leggi che la regolano e fra non molto sarà emanato un regolamento fondamentale che disciplinerà tutti i problemi di esecuzione delle norme legislative. La nostra legge non è perfetta, poiché niuna legge è perfetta, ma essa costituisce indubbiamente un contributo fondamentale per la legislazione aerea e lo prova il fatto che è servita di esempio ad altri Stati.
Signori!
Il Comité juridique international de l'Aviation è veramente benemerito per l'elaborazione del nuovo diritto aereo. Io vi auguro che il Congresso che oggi si inaugura — e che segue quelli notevolissimi di Parigi, Ginevra, Francoforte, Monaco e Praga — segni un'altra tappa nelle sue benemerenze. È con questo sentimento che io vi porgo il mio deferente e augurale saluto.
Firenze, 26 aprile 1924: MUSSOLINI parla agli invalidi di guerra
Il 26 aprile 1924, a Firenze, al Politeama Fiorentino ebbe luogo l'adunata dei grandi invalidi e mutilati di guerra. Pronunziò un'orazione Carlo Delcroix e quindi il Duce disse le seguenti parole:
Concittadini!
Perché volete che con la mia parola necessariamente un poco arida io disperda la magnifica impressione di poesia che in voi tutti è stata suscitata dall'alato splendido discorso del grande amico Delcroix?
Io non ho nulla da aggiungere. Egli ha parlato per tutti, anche per me. Egli ha detto che questi martiri, questi gloriosissimi mutilati costituiscono la decima legione, la legione fedelissima, che chiede soltanto di combattere e di morire in devozione e in silenzio.
Veramente l'Italia ha riscattato se stessa; veramente sembrano lontani, ma non sono dimenticati, i tempi in cui era possibile, in un eccesso di abbiezione, irridere al dolore e insultare l'eroismo. Il popolo si è riscattato. Noi siamo le guardie di questo riscatto e non permetteremo a nessun costo un ritorno, sia pure soltanto indiretto, a tempi che consideriamo sepolti per sempre.
E nessuno si faccia delle illusioni. Guai a coloro che volessero fermare nel suo fatai cammino la generazione che ha assunto nelle trincee i suoi privilegi di nobiltà, i suoi titoli di grandezza! Indietro non si torna!
Il popolo italiano marcerà sulla strada della sua grandezza e rovescerà tutti gli ostacoli che gli sbarrassero il cammino.
Accostatevi, o Delcroix, venite verso di me: io voglio abbracciare in voi tutti coloro che hanno lottato e che hanno sofferto per la grandezza della Patria!
Faenza, 27 aprile 1924: MUSSOLINI commemora il Patriota Alfredo Oriani
Nel grigio periodo della Terza Italia - quando l'atmosfera politica sembrava aver annientato lo spirito volitivo ed eroico del Risorgimento - solo pochi isolati avevano saputo reagire e presentire i tempi nuovi. Fra questi - con Carducci e Crispi - fu lo scrittore romagnolo Alfredo Oriani (1885-1909), pensatore politico, critico, romanziere, poeta. Disdegnoso di quel facile successo che si ottiene con le transazioni e le indulgenze, si ritrasse in solitudine nella sua villa al Cardello presso Casola Valsenio (Faenza) e lanciò alla Nazione il suo monito e il suo preannunzio. Fu ascoltato da pochi; lo si lasciò morire fra l'indifferenza e il disconoscimento. Ma il Duce volle rendere giustizia all'Uomo della sua terra che aveva preferito l'insuccesso e la solitudine ai facili lenocinii della politica e della pseudo-letteratura dominanti. E lo celebrò con una Marcia di Fascisti al Cardello, avvenuta il 27 aprile 1924. In tale occasione Egli pronunziò il seguente discorso, che oggi serve di prefazione alle Opera Omnia di Alfredo Oriani, pubblicate sotto gli auspici del Capo del Governo:
Siamo venuti noi che apparteniamo alla generazione di Alfredo Oriani a rendergli il nostro reverente omaggio. Si dirà dai nostri avversari, da quelli che appartengono all'Italia paralitica, che noi celebriamo i nostri eroi marciando lungo le grandi strade. È appunto questa la caratteristica delle nuove generazioni: quella di marciare; di essere sempre pronti a marciare: di non sostare se non per il tempo strettamente necessario, a precisare le mete per più rapidamente raggiungerle.
I soliti pedanti che sono incapaci della sintesi e si perdono troppo spesso nelle analisi, hanno domandato se noi fascisti avessimo le carte in regola per commemorare il grandissimo Oriani. Il fatto che il figlio di Alfredo Oriani indossi la camicia nera è la risposta più eloquente che si possa dare ai nostri avversari di tutti i colori.
Più gli anni passano, più le generazioni si susseguono e più splende questo astro, luminoso, anche quando i tempi sembravano oscuri. Nei tempi in cui la politica del «-piede di casa-» sembrava il capolavoro della saggezza umana, Alfredo Oriani sognò l'impero; in tempi in cui si credeva alla pace universale perpetua, Alfredo Oriani avvertì che grandi bufere erano imminenti le quali avrebbero sconvolto i popoli di tutto il mondo; in tempi in cui i nostri dirigenti esibivano la loro debolezza più o meno congenita, Alfredo Oriani fu un esaltatore di tutte le energie della razza; in tempi in cui trionfava un sordido anticlericalismo, che non aveva alcuna luce ideale, Alfredo Oriani volle morire col Crocifisso sul petto a dimostrare che dopo le grandi parole dettate dal Cristianesimo, altre così solenni, così universali non furono più pronunciate sulla faccia della terra.
Noi che, dal punto di vista della cronologia, non siamo più fra i giovani che si affacciano ora alla vita, ma, dal punto di vista del coraggio e della solidità fisica, ci sentiamo sempre giovanissimi, noi ci siamo nutriti delle pagine di Alfredo Oriani. Quella storia d'Italia così accidentata e tormentata, che è tutto un seguito di guerre civili e di rivoluzioni — e mai il genio italiano fu così potente come quando i cittadini lottavano dentro le mura delle loro stesse città — quella storia che a taluni può apparire misteriosa e paradossale, a noi fu chiara ed apparve logica, di una logica formidabile attraverso i volumi della Lotta politica. Intristiva la coscienza italiana: Garibaldi era morto, Mazzini sembrava lontanissimo alle nuove generazioni che correvano dietro ad un profeta di dubbia razza tedesca. La politica del materialismo e del positivismo trionfava dalle cattedre, dai giornali; nei partiti e nelle coscienze intorpidiva l'anima italiana; fu questo il momento in cui Alfredo Oriani gettò alle folle italiane il volume de La rivolta ideale, nel quale tutti i problemi, tutte le passioni, tutte le angoscie e tutte le speranze del nostro tempo vengono prospettate, illustrate, in uno stile conciso, tacitiano, che basterebbe da solo a costituire la gloria di uno scrittore.
Ci siamo nutriti di quelle pagine e consideriamo Alfredo Oriani come un Poeta della Patria, come un anticipatore del Fascismo, come un esaltatore delle energie italiane. Oso affermare che, se Alfredo Oriani fosse ancora fra i vivi, egli avrebbe preso il suo posto all'ombra dei gloriosi gagliardetti del littorio.
Ben fa il popolo di Romagna a rendergli onore, perché egli, e nel fisico e nel morale, aveva le specifiche qualità della nostra stirpe. Non è soltanto una gloria della Romagna, ma una gloria dell'Italia: non solo una gloria dell'Italia, ma a poco a poco il suo nome viene conosciuto anche oltre le frontiere e si considera la sua opera di letterato, di filosofo, di storico, come uno dei momenti più singolari della storia nello spirito italiano dell'ultimo cinquantennio.
Salutiamo la sua memoria, o giovani camicie nere, alziamo in suo onore i nostri gagliardetti e giuriamo su questo tumulo glorioso che a qualunque costo noi vogliamo che l'Italia sia grande.
Nel viaggio di ritorno a Roma, nella stazione di Laterina, la folla fece fermare il treno presidenziale. L'on. Marchi portò il saluto della cittadinanza e l'on. Mussolini rispose con le seguenti parole:
Camicie Nere! Cittadini!
Il vostro entusiasmo è così fervido e le vostre accoglienze sono così sincere e fraterne, che io apro una eccezione a quella che dovrebbe essere la mia regola di non fare due discorsi nello stesso giorno. Ieri il Fascismo ha compiuto il suo dovere recando a mezzo mio il saluto ai martiri della nostra grande guerra vittoriosa; oggi il Fascismo universitario si è recato alla tomba solitaria del Cardello ad onorare un grande pensatore che l'Italia di ieri aveva dimenticato. Così il Fascismo si inserisce sempre più profondamente nella vita della Nazione e si prepara a raggiungere tutte le mete infallibili.
A chi l'Italia?
A chi Roma?
A chi tutte le vittorie? («A noi!», rispondono i presenti).
Roma, 30 aprile 1924: MUSSOLINI presenta la tesi di laurea in Legge che ha per tema Machiavelli.
Alla lotta e al lavoro politico il Duce continuava ad alternare lo studio. Volle conseguire la laurea in Legge, non ad honorem ma con la presentazione di una tesi di laurea. Scelse come tema il Machiavelli, il massimo pensatore politico italiano, troppo spesso misconosciuto e deformato, in buona o in mala fede, dalla critica italiana e straniera. E alla sua tesi premise questo «Preludio», che fu pubblicato dalla rivista «-Gerarchia-» alla fine d'aprile del 1924.
Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola — dalle legioni nere di Imola — il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli «-Cum parole non si mantengono li Stati-». Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo «-Commento dell'anno 1924, al "Principe" di Machiavelli-», al libro che io vorrei chiamare: «-Vademecum per l'uomo di governo-». Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi e nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di governo.
Quella che mi onoro di leggervi non è quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi.
Non dirò nulla di nuovo.
La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe è circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduto, o non è invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli è viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde variazioni nello spirito degli individui e dei popoli.
Se la politica è l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, è l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo «-uomini-» dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito «sotto la specie della eternità»? Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, è l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli come verrò fra poco documentando — nei loro aspetti più negativi e mortificanti.
Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: «-Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati volubili simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e si rivoltano... E quel principe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore è tenuto da uno vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai.-» Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: «-Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione è pronta; perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' può bene riavere il suo podere.-» E al capitolo III dei Discorsi: «-Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine.-»
Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli. È anche evidente che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne è passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe è lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII e XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo. C'è una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione. Vi imaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia — che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra forza organizzata dello Staio e il frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio oramai famoso articolo «Forza e consenso» Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: «-Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono-». Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. «-E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati.-»
Roma, 2 maggio 1924: MUSSOLINI interviene all'assemblea dell'Istituto Internazionale di Agricoltura
Il 2 maggio 1924 s'inaugurò a Roma, alla presenza di S. M. il Re, la VII Assemblea dell'Istituto Internazionale di Agricoltura.
La cerimonia ebbe luogo nella sede dell'Istituto stesso, a Villa Umberto. In tale occasione, S. E. il Capo del Governo, rispondendo alle parole del Vice-presidente Dop, pronunciò il seguente discorso:
Sire! Signori Delegati!
Con grande soddisfazione intima auguro il benvenuto agli invitati dei settanta Stati aderenti all'Istituto di Agricoltura, qui convenuti per divisare i mezzi migliori ad assicurargli una vita feconda e ricca di sempre maggiori benefici per gli interessi dell'agricoltura nel mondo. Il Governo italiano è fedele interprete dell'anima e della coscienza nazionale nell'esprimere il senso vivo dell'importanza primordiale dell'industria agricola fra tutte le occupazioni umane. L'anima della nostra razza, che ha storicamente vissuto il passaggio dalla vita agreste a quella dell'urbe e che ne ha tratto mirabili espressioni di arte, di vita sociale e religiosa, ispirazioni ed istituzioni che sono non piccola parte nel patrimonio comune di ogni popolo, ben sa come sull'agricoltura sia costruito l'intero edificio della prosperità sociale, come altre attività produttive possano essere più impressionanti nella grandiosità localizzata delle loro manifestazioni, più facili apportatrici di guadagno, ma nessuna altrettanto augusta ed essenziale. Poi che infine tutto potrebbe immaginarsi ritolto all'umanità delle sue superbe espressioni di forza e di conquista, ma non mai, o signori, finché la razza umana esista, non mai l'arte di trarre dalla terra madre quanto è necessario a sostentare la vita.
Unire gli sforzi di tutti i paesi del mondo per la prosperità della scienza agraria, per la migliore e più pronta conoscenza delle sue condizioni e dei migliori metodi di coltura, per lo studio delle leggi e delle istituzioni che mirano al suo miglioramento ed a quello di tutti coloro che vi spendono la loro diuturna fatica è compito grande; è il compito di questo Istituto. Ed io ascrivo a grande ventura per l'Italia che in essa l'Istituto abbia sede; ventura meritata, poi che soltanto sul nostro suolo la geniale idea dell'Americano, la cui figura è sempre qui presente ed il posto segnato, trovò accoglienza presso il primo cittadino d'Italia, presso la Maestà Vostra che ne acquistò nuovi diritti di riconoscenza verso il nostro Paese ed il mondo intero. Fecondo suolo quello d'Italia, Sire, Signori, non meno per le idee che per le messi!
Ed ecco per quale ordine di ragioni, internazionali e nazionali ad un tempo, il Governo italiano considera con la più grande simpatia questo Istituto, ne auspica e fermamente ne vuole la maggiore prosperità e l'incremento progressivo. Mi è grato affermarlo ed assicurare che a tali scopi tenderemo con costante intendimento e con energia, animati dalla bontà dell'intento e dalla cooperazione di tutti gli Stati civili. Qui infatti non competizioni se non feconde, non lotta di interessi politici ed economici, ma vastità di idee ed armonia rispondenti al ritmo ampio ed armonioso del lavoro dei campi ed al grande quadro in cui esso si svolge, immutato nei secoli, quanto mutevole ad ogni cangiamento del tempo e del cielo.
Questa Assemblea Generale, la settima dall'inizio, la terza del dopoguerra, può per importanza di argomenti all'ordine del giorno segnare una data nella storia dell'Istituto. L'assestamento delle sue basi finanziarie, la collaborazione colle associazioni libere e con i congressi, la preparazione di censimenti contemporanei della produzione agricola nei vari paesi, il miglioramento dei servizi, ed in particolare di quelli di documentazione, sono questioni che escono dall'insieme del vostro ordine del giorno con un netto rilievo di importanza non solo relativa, ma anche assoluta. Esse costituiscono un insieme tale da giustificare la frase, che ho sentito adoperare da taluno, di «momento storico» nella vita dell'Istituto. E sia di storia fausta per questa grande istituzione, per gli interessi solidali dell'agricoltura mondiale.
Sire! Signori!
È questo il voto del Governo, questo il mio voto personale per l'esito dei lavori dell'Assemblea ora inaugurata.
Palermo, 5 maggio 1924: MUSSOLINI parla al Popolo palermitano.
Il 5 maggio 1924, il Duce iniziava un giro per la Sicilia, sbarcando a Palermo. Nello stesso giorno, Egli pronunziò, dalla terrazza del Palazzo Reale di Palermo, il seguente discorso:
Nobile e fierissimo popolo di Palermo!
Non ti meravigliare se la mia voce ti giungerà rotta e spezzata. Non ti stupire se sul mio volto di rude combattitore vedrai scendere le lacrime di commozione. Lo spettacolo che tu mi hai offerto stamane e che mi offri in questo momento supera ogni aspettativa e non vi è parola che possa tradurre i sentimenti che tumultuano nel mio spirito. Stamane all'alba si profilava appena dal Mare nostro la linea della tua Isola e già veniva verso di me l'effluvio dolcissimo dei tuoi mille giardini! Poi tu mi hai offerto su di un vassoio simbolico non già le chiavi ed il sale della ospitalità ma tutto il tuo fervidissimo cuore italiano. Ti siano rese grazie dal profondo del mio animo!
E un antico giuramento quello che oggi assolvo, è una promessa che oggi finalmente, dopo un'attesa che parve lunga non soltanto a voi, viene ad essere adempiuta. Fino dai primi mesi del mio Governo fu mio proposito di visitare la vostra terra, non già per cercarvi della popolarità; meno ancora per accattale dei voti! Ma oggi che la battaglia delle urne è passata e si è conclusa in un modo trionfale, oggi vengo a te, popolo palermitano, con la coscienza tranquilla perché non è soltanto da oggi che tu sei l'oggetto della mia devozione e del mio profondo amore.
Sceso a terra, uno dei primi saluti mi è stato porto da un uomo della vostra gente, che dopo una giornata infausta per la Patria, seppe trovare una semplice ma altrettanto solenne parola: Resistere! Resistere sul Piave, resistere all'interno, resistere dovunque era la Patria, dovunque erano cuori d'Italiani, resistere per la vittoria del Giugno, resistere per la vittoria dell'Ottobre, quando le armate di un Impero potente, che avevano dominato l'Europa per secoli e secoli, volsero in disordinata rotta, sospinte da quell'Esercito Italiano in cui il fiore del silenzioso eroismo era rappresentato dalle vostre mirabili e invincibili fanterie.
Ho reso omaggio alla tomba di Crispi, non soltanto gloria palermitana e siciliana, ma gloria italiana. Non importa se egli abbia subito il destino durissimo di vivere in un'età oscura; questo, se mai, aumenta la verità del suo verbo di energia, di potenza, di dignità, oggi accolto trionfalmente dalle generazioni di Vittorio Veneto uscite dalle sanguinose e indimenticabili trincee.
Ed ho reso omaggio all'Eroe degli Eroi, al vostro Cascino. C'è forse pietra del Carso, pietra di quelle doline dove noi abbiamo sofferto e dove il popolo è diventato grande, c'è forse zolla di tutto l'arco di trincee che andava dallo Stelvio al mare che non sia stata bagnata da stille di purissimo sangue siciliano?
Molto vi deve la Patria; molto vi deve l'Italia nell'epoca del Risorgimento, molto vi deve l'Italia durante le guerre coloniali che voi particolarmente sentivate, molto vi deve l'Italia per il vostro ammirevole contegno durante la guerra di redenzione e molto ancora vi deve per il contegno di equilibrio e di saggezza che avete serbato negli anni incerti del dopoguerra. Qui ove gli spiriti sono abituati alla luce solare e ai dettami della saggezza antica e moderna, qui non vi furono oscuramenti di civiltà, qui non vi fu imbestialimento collettivo; qui era la riserva, qui era la valanga che sarebbe fatalmente salita se l'Italia avesse veramente raggiunto l'orlo estremo dell'abisso!
Quello che io compio, o Palermitani, è in primo luogo un pellegrinaggio di amore. In secondo luogo è una ricognizione. Oh! io conosco i vostri bisogni. So quello che vi occorre. Potrei numerare i paesi ed i comuni che non hanno strade, che non hanno acqua: non ignoro la desolazione del latifondo, né mi è sconosciuta la tragedia oscura della zolfara. Ma un conto è leggere, sia pure attraverso i rapporti, un conto è vedere, constatare, scendere in mezzo al popolo, al popolo che è buono, sobrio, tenace, laborioso. Un conto è ascoltare le voci che salgono dalla profondità di un popolo.
Direi cosa assurda se affermassi che tutti i problemi che angustiano la vostra Isola bellissima sono stati affrontati e risolti; ma quello che con sicura coscienza vi posso dire è che la sintesi di tutti i vostri problemi è presente nella mia coscienza. E un'altra cosa voglio aggiungere, questa: ho la volontà di risolverli e li risolverò.
Qualche cosa si è fatto, ma molto ancora resta da fare. Per fortuna, a quella che io vorrei chiamare la coscienza del dovere e della responsabilità di Governo, si aggiunge oggi l'assillo delle nuove forze e delle nuove generazioni. Siete voi, e soprattutto voi, che dovete porre con tenacia instancabile, con diligenza inflessibile i problemi della vostra Isola, in modo che da problemi regionali appaiano in un dato momento nella loro vera essenza di problemi nazionali.
Ed ora, o popolo palermitano, voglio scendere a colloquio con te. È questo insieme costume antico, da quando i tribuni parlavano dall'arengo, e moderno perché fu ripreso a Fiume. (Grida di: Viva D'Annunzio!).
Ebbene, o popolo palermitano, se l'Italia ti chiede ed esige da te la disciplina necessaria, il lavoro concorde, la devozione alla Patria, che cosa rispondi tu, o popolo palermitano? (Tutto il popolo prorompe in un formidabile «-sì!-»).
E se domani è necessario che la valanga dei tuoi petti salga ancora, se è necessario ripulire tutto quanto non ha più ragione di esistere, sei tu pronto a marciare? (La folla prorompe in un nuovo, poderoso «-sì!-»).
Popolo palermitano, sei veramente degno della tua storia e della tua gloria. Sei veramente un popolo garibaldino! Poiché non ancora furono impegnate tutte le battaglie, non ancora può dirsi finita l'opera di redenzione e di ricostruzione.
Tu sai che quando la libertà non è tutelata dall'ordine, diventa licenza e caos. Tu sai che non si possono governare le Nazioni senza avere polsi di ferro e volontà d'acciaio. Ma questo stile di governo, che è il mio stile e del quale rivendico orgogliosamente tutta la responsabilità, non impedisce di andare al popolo, di andare verso il popolo che lavora e che soffre, che non turba l'ordine pubblico, verso il popolo che è la base granitica sulla quale si costruisce la grandezza delle Nazioni, di andare verso questo popolo non vendendogli del fumo, ma dicendogli la verità aperta con cuore fraterno.
Questo, o Palermitani, è il Fascismo. Questo vuole il Partito fascista! Noi abbiamo Roma per diritto di rivoluzione! Soltanto da un'altra forza, e solo dopo un combattimento che non potrebbe non essere asperrimo, ci potrebbe essere tolta!
Non so se la mia parola sia giunta a tutti voi. Ma il mio cuore sì!
In quest'ora solenne, mentre il mio dire si avvia alla fine, voglio elevare il pensiero reverente alla Maestà del Re, al Re, nel cui nome la Patria simboleggia e la stirpe consacra le sue fortune. Vogliamo fare e faremo ogni sforzo perché il popolo della Sicilia possa rapidamente mettersi all'avanguardia di tutto il popolo italiano.
Conto anche su voi, o Palermitani! Siamo un grande esercito in marcia, siamo una Nazione che riprende a vivere dopo secoli di divisioni e di tirannia. Abbiamo frantumato tutti gli ostacoli all'interno: affronteremo con la disciplinata tenacia dei forti quelli che ci venissero dall'estero. Ed il nostro sogno diventerà vita e storia!
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Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1924
Catania, 11 maggio 1924: MUSSOLINI parla al Popolo catanese
Il Duce passò di città in città, ovunque fervidamente accolto dalle popolazioni siciliane e pronunciò brevi discorsi, non raccolti dai resocontisti. L'undici maggio 1924, si trovò a Catania ove, dal balcone del Palazzo Municipale, davanti al popolo affollato, pronunciò il seguente discorso:
Generoso popolo di Catania! Concittadini!
Non mi ha sorpreso il vostro tumulto, il vostro entusiasmo, la vostra — oserei dire — travolgente passione di Patria. Voi vedete che il sole della vostra Isola mi ha abbronzato la faccia, perché ho voluto non soltanto passare nelle città, ma inoltrarmi anche nelle zone dell'interno, per vedere come vivono e come soffrono molti siciliani; per vedere quale fosse lo stato dei paesi, delle strade, delle campagne; ho voluto — ed era la prima volta che ciò succedeva a un Capo di Governo italiano scendere in una miniera di zolfo, a duecentocinquanta metri di profondità, per constatare coi miei occhi le condizioni, non certo liete, di quei lavoratori. Ho nello spirito una moltitudine di impressioni incancellabili. Veramente posso dire che se io ho dato il cuore alla Sicilia, la Sicilia, a sua volta, ha conquistato il mio cuore!
Nelle giornate di Palermo, vibranti di entusiasmo, e di Marsala, ricca di memorie garibaldine, a Trapani, a Girgenti solenne nei suoi templi storici, a Caltanissetta, in tutte le altre città e nelle piccole borgate, ho sentito salire a me l'impeto e il fremito delle moltitudini. Niente di più commovente di vedere nelle piccole stazioni quasi un accampamento di cavalli e di muli! Erano degli autentici contadini, dell'autentico popolo lavoratore, non sospinto dalla forza, che mi veniva a dare il suo consenso.
E non v'è dubbio — io penso — che se qualcuno dei pallidi politicanti di Roma, che non si muovono dai loro salotti dove fanno le piccole insulse cospirazioni di dettaglio, avesse il coraggio di scendere in mezzo al popolo, constaterebbe che mai vi fu Governo in Italia che raccogliesse più vasta messe di consensi, di quanti non ne raccolga il Governo fascista!
Credo di interpretare il vostro pensiero, e soprattutto il pensiero delle Camicie Nere, di quanti militano audacemente sotto i gagliardetti del Littorio, gridando ancora una volta, davanti a questa adunata di popolo, che la marcia su Roma è un fatto compiuto e irrevocabile! E che la vecchia Italia è veramente sepolta per sempre!
E del resto, vorresti tu, o popolo di Catania, ritornare a quei tempi? Vorresti forse ricominciare lo stile della bassa politica di tutti i giorni? Senza luce d'ideale? Ebbene, vorrei che l'urlo possente di questa moltitudine giungesse a coloro che sono sordi perché non vogliono sentire, che sono ciechi perché non vogliono vedere; e che vivono di gramissime illusioni, delle quali farà giustizia la nostra volontà e la storia italiana.
Popolo di Catania! Tu senti che l'atmosfera è cambiata; tu senti che i giorni delle umiliazioni sono passati; tu senti — perché sei un popolo di lunga e gloriosa civiltà — senti che oggi lo stile è nuovo; tu senti ancora che è di gran lunga migliorata la posizione dell'Italia nel mondo! Non ci vergogniamo più di essere italiani: abbiamo l'orgoglio! Abbiamo l'orgoglio, o concittadini, di essere italiani e di appartenere a questo popolo, che ha trenta secoli di civiltà, che era grande quando là non erano ancora nati: questo popolo, che ha dato per ben tre volte al mondo attonito il sigillo della sua potente civiltà; questo popolo che oggi vive composto, disciplinato, ordinato, ha un'esperienza storica di incalcolabile valore, poiché si tratta di scegliere, o concittadini, o popolo di Catania, si tratta di scegliere fra le teorie brumose, antivitali, antistoriche, e il nostro quadrato, romano spirito latino che si rende conto di tutta la realtà, che affronta la vita come un combattimento, e che è disposto a morire quando l'idea chiama e la grande campana della storia batte!
Popolo di Catania!
Io ti ringrazio dal profondo del cuore; ma se l'ora non fosse tarda, e se io non temessi di insistere su argomenti che sono già vivi nella vostra coscienza, vorrei tessere un elogio della Sicilia, un elogio del popolo siciliano, che, dopo essersi redento all'interno, sta per riprendere il suo glorioso cammino per le vie del mondo: le strade del mare.
O popolo di Catania marinara!
Dobbiamo tornare ad amare il mare, a sentire la ebbrezza del mare, poiché, «vivere non necesse sed navigare necesse est».
Popolo di Catania!
Leva il tuo pensiero alla Maestà del Re. Leva il tuo pensiero a tutti coloro che hanno sofferto per la Patria, leva il tuo pensiero di gratitudine, di orgoglio e d'amore per la nostra bellissima, adorabile Italia!
Roma, 15 maggio 1924: MUSSOLINI interviene alla Conferenza sull'emigrazione.
In Campidoglio, nella Sala degli Orazi e Curiati, s'inaugurò, alla presenza di S. M. il Re, il 15 maggio 1924, la Conferenza per l'emigrazione alla quale partecipavano la Società delle Nazioni e i rappresentanti di 59 Stati.
Il Regio Commissario di Roma recò il saluto dell'Urbe; quindi S. E. il Capo del Governo pronunziò il seguente discorso:
Maestà! Eccellenze! Signori!
Come Primo Ministro di S. M. il Re d'Italia, ho l'onore di porgere ai rappresentanti dei Governi convenuti a Roma da tutte le parti del mondo il saluto del Re e del Governo, e il benvenuto del popolo italiano.
Sono lieto di constatare che l'iniziativa presa dall'Italia ha avuto largo consenso. Il Governo italiano tiene ad esprimere ai Governi qui rappresentati il suo ringraziamento caloroso per l'accoglienza che essi hanno fatto al suo invito. È grazie a questa attitudine così amichevole che oggi, nella capitale d'Italia, i delegati di ben 59, Paesi si riuniscono per scambiarsi le loro vedute su alcuni degli argomenti che interessano uno dei più grandi fenomeni dell'umanità.
Mentre si svolge con laborioso processo l'opera delle organizzazioni internazionali create per promuovere lo sviluppo della legislazione a favore dei lavoratori, è parso utile al Governo italiano di invitare tutti i Paesi più importanti ad esaminare in questa Conferenza i problemi che concernono, sotto i loro vari aspetti, l'emigrazione e l'immigrazione.
Nel corso degli ultimi sessant'anni altri Stati ebbero l'idea di promuovere una conferenza internazionale dell'emigrazione, ma l'iniziativa, accolta con indifferenza, non poté essere realizzata. Oggi invece le Nazioni, col loro intervento a questo convegno che rimarrà memorabile, dimostrano di sentire l'utilità di una discussione internazionale dei problemi dell'emigrazione.
Io credo che sia generale il convincimento che ogni Paese debba seguire con vigile cura le sorti dei suoi figli che portano la loro forza di lavoro al di là delle frontiere della Patria; ma a ciò è necessaria la collaborazione fra gli Stati. I paesi di emigrazione non dovrebbero ingerirsi nelle faccende degli Stati stranieri; così come i paesi di immigrazione non dovrebbero estendere il loro intervento, neppure con misure indirette, al di là dei loro territori. Ma da parte degli uni e degli altri, nell'omaggio doveroso alle leggi dell'umanità, è necessario che sia messa in opera la più stretta collaborazione affinché il trasferimento degli individui da paese a paese avvenga con soddisfazione reciproca e nel reciproco interesse.
Questa mirabile sorgente di ricchezza che è l'emigrazione, fatalmente destinata, per una legge naturale di equilibrio, a traboccare dai paesi demograficamente ricchi a quelli nei quali la dovizia di terra, i tesori del sottosuolo, lo sviluppo industriale domandano una quantità di lavoro umano superiore alla disponibilità della loro popolazione, non può essere considerata come una merce. Essa deve trovare le vie di sbocco dignitose e giustamente compensate; il distacco dalla Patria men triste; la vita più facile nei paesi di immigrazione, dove l'emigrante, per quanto sia possibile ed equo, goda dei benefici accordati ai lavoratori del Paese, come con questi divide le fatiche del lavoro.
Vi è qui un campo aperto alle intese internazionali le più generose, e questa Conferenza ha precisamente l'alta missione di far uscire dalle sue discussioni i principi generali che dovrebbero segnare l'orientamento dei Governi nella stipulazione di tali intese.
Un doppio ordine di esigenze, di interessi e di diritti deve essere tenuto presente nelle soluzioni concrete delle varie questioni: da una parte le esigenze nell'ordine politico, sociale ed economico; dall'altra la tutela efficace della vita, della salute, degli interessi legittimi dei lavoratori stranieri, mediante regole ispirate a principi di equità.
I due ordini di considerazioni che ho richiamati al vostro pensiero si prospettano soprattutto nel definire la condizione giuridica dell'emigrato per modo che questi sia messo in grado di dare con amore e devozione tutte le sue attività al Paese in cui vive e di serbare puro nell'animo il ricordo della sua terra di origine. Lo scambio di energie e di lavoro fra le Nazioni risponde oggi più che mai ad una necessità dell'ordine economico, che, nella ripresa delle attività produttive, manda i suoi potenti riflessi nell'ordine sociale e politico.
Questo scambio di energie e di lavoro è uno dei fattori umani veramente operativi nel ravvicinamento spirituale dei popoli e nel ristabilimento dell'equilibrio della produzione: esso serve d'incremento allo scambio di ricchezza fra nazione e nazione e allo sviluppo della civiltà umana.
È tempo che alle intese economiche, che riguardano gli scambi delle ricchezze, si aggiungano le intese per la tutela internazionale dei lavoratori.
Voi siete chiamati ad esprimere qui il vostro avviso su tutte le questioni più importuna che toccano questi aspetti delle relazioni internazionali.
Dipenderà da voi, dallo spirito pratico che animerà le vostre discussioni, se questa conferenza potrà veramente essere l'iniziatrice di un'opera feconda, potrà dare una collaborazione apprezzabile ai Governi.
Io non mi lusingo di credere che i vostri lavori possano essere più proficui di quello che ragionevolmente si possa sperare; le condizioni del mercato mondiale sono propizie al primeggiare delle tendenze restrizioniste, e non è in vostro potere di modificare questo stato di cose. Ma poiché questa disposizione d'animo di certi popoli non può essere duratura, e poiché l'assetto economico del mondo si appalesa sempre in maggiore incremento sembra opportuno che si getti fin d'ora il seme di tutte le intese, più precise e più larghe, tra i popoli, sul campo fecondo del lavoro.
Io confido nella vostra attività e nel vostro sapere per far sì che la conferenza di Roma lasci in sé una traccia indelebile nella evoluzione della legislazione e degli accordi internazionali in materia di emigrazione. Già il fatto di averla potuta radunare, di poter salutare, fra i rappresentanti di quasi tutti i paesi del mondo autorevoli membri del Governo in carica, ex ministri, uomini politici e diplomatici, funzionari ed esperti illustri; già la fortuna di vedere presenti nel giorno della solenne inaugurazione il Presidente di turno del Consiglio della Società delle Nazioni ed il Presidente del Consiglio di Amministrazione dell'Ufficio Internazionale del Lavoro, costituiscono non soltanto una prova di amicizia per l'Italia ed una attestazione di simpatia per la sua emigrazione, ma la garanzia più sicura per il felice successo di questa conferenza.
È dunque, signori, nella fiducia profonda che la comprensione del mutuo interesse ed il più sincero accordo presiedano al vostro lavoro, che io auguro per esso i più fecondi risultati; e nell'augusto nome di Sua Maestà il Re dichiaro aperta la conferenza internazionale dell'emigrazione e dell'immigrazione.
Roma, 20 maggio 1924: MUSSOLINI interviene al Congresso Nazionale delle Associazioni Artistiche.
Senatorio in Campidoglio, si inaugurò il 20 maggio 1924 il Congresso Nazionale delle Associazioni Artistiche. In tale occasione il Duce pronunziò il seguente discorso:
Signori!
E' col più vivo compiacimento che ho accettato di inaugurare il vostro convegno al quale porgo il cordiale saluto ed augurio del Governo.
La necessità rude della ricostruzione, il pensiero assiduo rivolto alle pressanti cure della cosa pubblica non possono, non debbono far credere che l'anima del Fascismo ignori o trascuri il palpito con cui in tutti i tempi il nostro popolo ha espresso dal suo seno e sparso pel mondo il fiore più eletto della civiltà: l'arte.
Io non so se i due nomi d'Italia e d'arte siano separabili. So che sarebbe indegno di rappresentare una millenaria civiltà nel mondo chi non ne dividesse le sorti, chi, non promovendo l'una, uccidesse nel cuore dell'altra la pulsazione vitale.
L'attuale Governo, sorto da un moto spirituale, respinge la teoria che fa dell'arte una manifestazione di lusso, qualche cosa cioè che non può essere nella vita del popolo. No, l'arte è per noi un bisogno primordiale ed essenziale della vita, è la stessa umanità nostra, lo stesso nostro passato incancellabile.
L'arte, insieme col diritto, ha segnato col suo sigillo l'espansione unificatrice del mondo latino. In Roma, e dovunque Roma arriva nel mondo con le sue legioni e col suo spirito potente, sentiamo di trovarci dinanzi a una forza di bellezza che non è solo una manifestazione di uno stato dello spirito e della civiltà, ma che ha dentro di sé lo stupendo germe dell'arte italiana, quella che voi, signori, avete consacrata ognuno con le proprie forze e tutti con una passione non estinguibile, se non colla vita.
Per secoli l'arte fu la stessa Patria a traverso le diverse scuole di Firenze, di Venezia, di Ferrara, di Roma, di Bologna, di Napoli, che portavano ancora una volta nel mondo il nome d'Italia.
È l'arte che ha raccolto la leggenda, la storia, il mistero cristiano e li ha rivestiti di bellezza. Divisa l'Italia in Stati minuscoli uno contro l'altro armati, i nostri predecessori le hanno dato grandezza con opere che toccano il divino. Fu nell'arte che gli italiani si sentirono e si ritrovarono fratelli, fu per mezzo dell'arte che la nostra gente dalle molte vite disse la sua parola destinata a rimanere eterna nel mondo dello spirito.
Signori!
Se in ogni movimento di rinnovazione politica è un riflesso estetico e artistico, noi sentiamo che questo riflesso è soprattutto presente e vivace in quello che abbiamo attuato non per infeconda brama di potere, ma per restituire al popolo italiano il suo stile. Lo stile, che è la caratteristica eterna e luminosa della stirpe, che non soltanto darà agli uomini le norme per edificare le città future, ma le savie e giuste leggi necessarie alla civile armonia.
Tutti gli istituti d'arte, dai teatri al museo, dalla galleria all'accademia, debbono essere considerati come scuole, come luoghi, cioè, destinati non alla sola coltura e molto meno alla curiosità, ma preparati per educare il gusto e la sensibilità, per alimentare l'immaginazione, per tenere desta la meraviglia, per raffinare tutte le doti più alte e potenti dell'anima.
Così l'arte, sottratta ad esercitazioni troppo cerebraliste e pedanti o a speculazioni troppo mercantili e portata a contatto delle moltitudini, che ad essa come alla religione domandano un sovrumano conforto, costituirà una delle fonti perenni di vita per il popolo italiano.
Consapevole della importanza che la coltura e la educazione artistica del popolo hanno per la elevazione morale della Nazione, il Governo fascista ha già mostrato con le sue coraggiose riforme nell'insegnamento e nell'amministrazione delle Belle Arti di conoscere quali sono i suoi doveri dinanzi alla gloriosa eredità del passato e alle promesse certe dell'avvenire. Spetta ora a voi, o artisti, di studiare tutto ciò che può rendere più feconda la vostra missione.
Nello splendido annunzio di ciò che informa la nostra civiltà salutiamo nell'arte la potenza eterna e immutabile del genio italiano.
Roma, 22 maggio 1924: MUSSOLINI interviene al Consiglio Nazionale delle Corporazioni.
Il 22 maggio 1924 si inaugurò in Roma, a Palazzo Marignoli, il Consiglio nazionale delle corporazioni fasciste. Nella seduta pomeridiana il Duce pronunziò il seguente discorso:
Signori!
Il gesto che io compio venendo oggi fra voi è prima di tutto un gesto di simpatia: ho voluto dimostrare con la mia presenza che le sorti del sindacalismo fascista mi stanno sommamente a cuore. In secondo luogo ho voluto con la mia presenza, se mi è concesso affermarlo, sottolineare l'importanza politica di questa vostra imponente assemblea. Il Fascismo ha già superato tutta quella che si potrebbe chiamare la fase presindacalista: quando si discuteva se dovesse o no fare del sindacalismo. Come sempre, il fatto è venuto prima della dottrina, e noi non avevamo ancora esattamente formulato le idee, che già il fenomeno sindacalista era sulle nostre braccia.
Naturalmente gli avversari sono sempre pronti a trovare che il nostro sindacalismo non è perfetto: ebbene, si può rispondere a questi signori ipercritici, che nemmeno il loro è perfetto. E quando si pensi che le scuole socialistiche fanno del sindacalismo da cinquant'anni e noi ne facciamo da cinque mesi, voi comprendete subito che essi devono aspettare a giudicare dopò un altro abbastanza lungo periodo di esperienza acquisita.
La situazione del nostro sindacalismo è soddisfacente nelle campagne. Qui i patti di lavoro stipulati dai nostri amici — e fra essi ve ne sono di veramente valorosi, specialmente nella Valle Padana — sono buoni. Non solo non hanno peggiorato le condizioni delle masse agricole, ma in certi casi le hanno notevolmente migliorate. Non altrettanto soddisfacente è forse, a mio avviso, la situazione di quella che si potrebbe chiamare la popolazione operaia urbana. Questo è un punto delicato sul quale richiamo la vostra attenzione.
Per fare la collaborazione di classe bisogna essere in due; bisogna che essa sia fatta con spirito di assoluta lealtà e da una parte e dall'altra. Perché altrimenti può accadere che sotto la specie nazionale si compia realmente opera antinazionale. Sono stato io a insistere presso Rossoni, che è l'anima del vostro movimento, ad insistere presso di lui sulla necessità che non si peggiorino le condizioni della massa operaia industriale, non solo, ma che, laddove le condizioni dell'industria lo consentono, esse siano migliorate.
È troppo presto per dare un giudizio assoluto sulla ripresa industriale italiana: ci sono industrie che non hanno ancora superato il punto massimo della crisi, ma ve ne sono altre che questo punto hanno già superato. Ci sono delle industrie che realizzano già degli utili abbastanza notevoli. E perché? Perché la massa lavora di più. Secondo le confessioni dei grandi capitani di industria, oggi si è ritornati alla quantità di lavoro dell'anteguerra non solo, ma si è quasi ovunque ritornati alla stessa qualità di prima. È certo che i datori di lavoro utilizzano lo stato di pace sociale instaurato dal Governo fascista.
Affermo con piena cognizione di causa e con coscienza tranquilla che gran parte delle industrie italiane non solo non sono forzate a peggiorare le sorti di coloro che contribuiscono alla elevazione della industria, ma sono in condizioni di migliorarle. Solo così la collaborazione di classe diventa una cosa seria.
Vedo nel vostro ordine del giorno problemi che non possono essere affrontati senza una discussione piuttosto meticolosa. Ma, se mi è concesso di esprimere il mio parere, opino che sia opportuna la istituzione del grande palazzo delle Corporazioni in Roma; ritengo sia necessaria anche la fondazione di un quotidiano che rechi giornalmente la documentazione dell'attività corporativa del sindacalismo fascista.
Si tratta poi, o signori, di ristabilire gli equilibri. In fondo la politica non consiste che in turbamenti e in ristabilimenti successivi di equilibri. Ciò sta già facendo il Governo. Che cosa ha fatto il Governo in questi ultimi tempi? Ha alleggerito la pressione fiscale: i ferro-tranvieri hanno avuto una riduzione della ricchezza mobile; oggi abbiamo diminuito la tassa sul vino e concessa la franchigia doganale a certe macchine agricole; successivamente, man mano che la finanza dello Stato diventerà forte e resistente ad ogni eventualità, ci sarà qualche altro meditato e razionale alleggerimento del peso fiscale che permetterà alle popolazioni, che hanno accettato con alto spirito di civismo la nostra disciplina, di concedersi più vasto respiro.
Accanto a quest'opera bisogna che il sindacalismo fascista faccia il resto; cioè, agisca per migliorare le condizioni della classe lavoratrice, perché allora si stabilizzerà, a mio avviso, un ambiente di tranquillità sociale utilissimo ai fini della proprietà dei singoli e della Nazione.
Che cosa è questo? È andare a destra o a sinistra? Questa terminologia è semplicemente idiota: lo era prima della guerra; lo è più adesso. Vediamo infatti che c'è della gente di sinistra che fa una politica di destra e viceversa. In ogni modo il fatto di andare a destra o a sinistra non significa nulla. L'essenziale è che il sindacalismo fascista sia un elemento di miglioramento materiale e di elevazione morale della classe laboriosa italiana. Questo è il compito che voi dovete assolvere. Ci sono progetti che possono richiamare utilmente la vostra meditazione. Noi abbiamo già abbozzato un progetto di legge per rendere obbligatori i contratti di lavoro: vedo qui un ordine del giorno Ciardi che approvo, dove si parla di una magistratura del lavoro. Certamente si possono creare istituzioni che attuino sul terreno giuridico il concetto della collaborazione di classe. In fondo quel che ci divide da tutte le altre scuole è questo: che per i socialisti di tutte le gradazioni la lotta di classe è la regola, mentre per noi è l'eccezione; la collaborazione di classe per loro è l'eccezione e per noi la regola.
Io non mi sgomento affatto quando leggo che un sindacato fascista ha fatto uno sciopero. Ed è ridicolo affermare che un episodio sia bastante a giudicare un metodo. Può darsi fra l'altro, che questo sindacato, malgrado tutta la sua buona volontà fascista, si sia trovato di fronte a un datore di lavoro così arretrato da far esaurire la pazienza collaborazionista del Fascismo. Io penso che il nostro sindacalismo ha un grande avvenire. Intanto voglio darvi un'attestazione. Ed è questa: come Capo del Governo ho avuto molte noie e molte amarezze dal Partito. Ma è fatale che i figli rendano spesso grama la vita ai genitori. Mentre invece il sindacalismo fascista, che pure inquadra vaste masse e che soprattutto agisce sopra un terreno delicato e difficile come quello economico, me ne ha date infinitamente meno di quelle del Partito.
Ho piena fiducia nel movimento corporativo fascista. Già ho constatato con soddisfazione che alcuni elementi che hanno propagato fra noi le prime enunciazioni dottrinali del sindacalismo vengono ora al nostro sindacalismo fascista.
Ciò è bene perché occorre attirare a noi le intelligenze. Può darsi che anche in questo organismo appena creato vi siano delle imperfezioni e delle deficienze, ma ciò è inevitabile in ogni movimento e in ogni collettività.
Dalla vostra assemblea deve partire questo richiamo onesto e solenne: che la collaborazione di classe deve essere praticata in due: che i datori di lavoro non devono approfittare dello stato attuale, instaurato dal Fascismo, che ha dato un senso di disciplina alla Nazione, per soddisfare ai loro egoismi; che essi devono considerare gli operai come elementi essenziali alla produzione: che devono fare il loro interesse in quanto coincide con quello della Nazione e non invece vi contrasti. Solo in questo modo si potrà avere una massa realmente disciplinata, laboriosa, fiera di contribuire alle fortune della Patria.
Signori!
Io non so se il mio discorso, improvvisato in un rapido intervallo delle mie fatiche, abbia esattamente riassunto quello che potrebbe essere lo stato d'animo medio del sindacalismo fascista. Ad ogni modo mi sembra importante che, nella mia qualità di Capo del Governo, di fronte a voi io ripeta quel che si intende per collaborazione di classe in senso nazionale e fascista.
Credo che i datori di lavoro intelligenti se ne renderanno conto. È infatti dall'unione armoniosa e sistematica di tutte le forze della produzione che le condizioni materiali di vita di tutte le classi troveranno giovamento, mentre la Patria, assicurato su ferree basi un regime di cosciente disciplina sociale e nazionale, potrà attingere alle sue maggiori fortune.
Roma, 29 maggio 1924: MUSSOLINI visita la Società Geografica Italiana
Il 29 maggio 1924 il Duce visitò la R. Società Geografica Italiana, che lo aveva proclamato suo membro d'onore. Al discorso del presidente della Società, on. Federzoni, Egli rispose con la seguente dichiarazione:
Venendo oggi tra voi mi sono reso conto, meglio che io non abbia fatto sinora, che oltre alle molte istituzioni e alle numerose forze che lavorano in piena luce e si vantano di grande notorietà fra il pubblico, ve ne sono altre, meno clamorose, che vivono e agiscono quasi in una penombra, che non si fanno molto sentire, ma che tuttavia rappresentano delle forze vive della Nazione. Sta di fatto che la geografia non è stata mai molto familiare alla maggior parte degli italiani; oserei anzi dire che in Italia essa è più conosciuta da quelli che hanno messo il sacco sulle spalle e sono andati emigrando per il mondo anziché da coloro che hanno la missione di dirigere le sorti del Paese.
Voi tutti sapete quali errori sono stati commessi, anche recentemente, che si debbono attribuire prima di tutto ad imperfetta conoscenza della geografia.
Se la mia presenza fra voi gioverà a richiamar l'attenzione del pubblico sulla Società Geografica Italiana, se potrà accrescerne la conoscenza, ascriverò a titolo di orgoglio l'essere oggi venuto.
Accettando il documento che mi iscrive tra i vostri soci d'onore, formulo i migliori e più fervidi auspici per il lavoro della benemerita Società e prometto che ogni qual volta la Società avrà bisogno dell'aiuto del Governo, mi troverà sempre pronto a favorirla.
Roma, 31 maggio 1924: MUSSOLINI interviene nella Conferenza per l'Emigrazione.
Il 31 maggio 1924, la Conferenza per l'Emigrazione - inaugurata il 15 maggio con un discorso di S. E. il Capo del Governo - chiuse i suoi lavori. La sera, all'Hotel Excelsior, il Duce offrì un banchetto a tutti i delegati intervenuti alla conferenza e pronunziò questo discorso. Ad esso rispose il delegato inglese Lord Ullswater mettendo in rilievo la importanza dei lavori compiuti.
Alla chiusura dei lavori della conferenza ringrazio e felicito le Delegazioni della prova di competenza e di buon volere che hanno dato nel corso delle discussioni e nelle risoluzioni riuscite opportunamente conclusive.
I buoni risultati della prima conferenza internazionale della emigrazione renderanno possibili accordi concreti in materia di emigrazione fra gli Stati che vi hanno voluto partecipare.
La conferenza ha dato alle delegazioni, e per esse ai Governi stranieri, la prova sicura del fermo interesse che qui si prende alla organizzazione ed alla tutela delle poderose correnti umane che occorre incanalare per le vie più aperte, ai lavoratori atti a soddisfare le esigenze della produzione nei singoli Stati di immigrazione.
Il riconoscente attaccamento dimostrato nei Paesi che qui questa sera sono rappresentati, come altrove, dagli italiani che già da tempo vi hanno speso la loro complessa attività, costituisce la garanzia più solida dell'attitudine della razza italiana a giovare lealmente alla continua intimità delle relazioni con gli Stati disposti ad accoglierla.
E la cura che il Governo fascista ha messo nella educazione spirituale e fisica della nuova generazione, prevede il sempre maggiore elevamento del grado morale e intellettuale di chi fuori d'Italia è destinato a trascorrere una vita laboriosa davanti agli occhi e agli interessi di altri Paesi.
Ripeto la fiducia che gli importanti principi stabiliti dalla prima conferenza e ispirati al desiderio di conciliare le aspirazioni umanitarie con gli interessi specifici di ogni Paese, facilitino grandemente la pronta conclusione di intese improntate alle contingenze dei singoli Stati con vantaggio del progresso e garanzia della pace.
Auguro salute ai Sovrani e Capi degli Stati qui rappresentati, alle delegazioni, cui rinnovo la espressione del mio grato animo; auguro prosperità ai loro Paesi.
Roma, 4 giugno 1924: MUSSOLINI parla durante la consagrazione della bandiera dei volontari di guerra.
Il 4 giugno 1924 a Roma, presso l'Ara dei Cesari nel Foro romano, i Volontari di Guerra consacrarono la loro bandiera. In tale occasione il Duce pronunziò il seguente discorso:
Volontari!
Io sono qui venuto fra voi non già perché sedotto dalla, suggestività di questa singolare cerimonia, ma per tributarvi, come Capo del Governo, il mio attestato di gratitudine. E vorrei interpretare anche l'anima di tutta la Nazione. Adesso, dopo sette od otto anni, si cominciano ad esaltare i volontari di guerra: ma per lungo tempo si è cercato di dimenticare che l'Italia nel 1915 diede duecentomila volontari, usciti tutti dalle file più autentiche del più autentico popolo. Ma noi non potremo dimenticare quella che fu la vostra tragedia dei primi mesi della guerra, quando il fatto di essere volontario, invece di essere un titolo di gloria e di orgoglio, veniva considerato come un titolo per affrontare, anche inutilmente, i pericoli estremi.
Taluno potrà dire che si potrebbe dimenticare tutto ciò. Io dico di no! Non importa se oggi lo spirito è cambiato. Ma chi è vissuto nelle trincee del Carso, specialmente alla fine dell'agosto 1916, quando i volontari avevano già subita l'ecatombe terribile del 23 ottobre, sa bene che la vita dei volontari fu grama, sa bene che spesso i volontari non furono rispettati come si doveva.
Per questo tanto maggiore è il vostro merito e tanto più è necessario che queste cose ve le dica oggi, non tanto l'onorevole Mussolini uomo, ma l'onorevole Mussolini Capo del Governo italiano. Il che significa che oggi finalmente qui si rende il degno tributo di riconoscenza che vi deve la Nazione.
Approvo che la cerimonia per l'inaugurazione della vostra bandiera avvenga fra queste rovine: bisogna chiudere gli occhi e meditare un poco per sentire tutta l'enorme seduzione spirituale di questo luogo. Quanto tempo è passato dal giorno in cui Roma dominava il mondo? Breve! Forse cinquanta, forse sessanta generazioni appena dal giorno in cui Giulio Cesare tracciava le linee dell'Impero. Pensate che in questo piccolo recinto si è fatta per secoli e secoli la storia del mondo; qui fra queste mura, in questo territorio brevissimo si accumulava al tempo di Augusto una popolazione di quattro milioni di anime. Roma era immensa allora: tutto il mondo vi confluiva.
Il destino dell'umanità qui veniva deciso e Roma perseguiva il suo sogno in una linea di forza non mai disgiunta da linee di estrema saggezza. Giustamente Roma voleva fiaccare i popoli che a lei si opponevano; giustamente era severa nella condotta della guerra; ma la guerra non è uno scherzo, non è un gioco. Ma poi, quando i popoli riconoscevano la sua superiorità, essa li accoglieva nel suo grembo; li faceva cittadini della sua città; largiva loro le leggi, il diritto, che è ancora quello di oggi, o Signori! Li faceva partecipare alla sua civiltà e rispettava le loro usanze e la loro religione. Nel Pantheon c'è un altare per tutti gli iddii; anche per il dio ignoto!
Mommsen, un tedesco, diceva che per lungo tempo gli italiani furono i parassiti della storia di Roma! Certo però è, anche se non si vuole fare un'analisi troppo dettagliata delle fusioni del sangue e di tutti i miscugli inevitabili delle razze, certo è che solo gli italiani fra tutti i popoli possono dirsi discendenti legittimi di Roma. Questo, che è un orgoglio, non deve essere un orgoglio passivo: bisogna essere degni di quella grandezza. Ma non bisogna viverci sopra. Non bisogna essere sempre voltati al passato. Dire: «Noi siamo grandi perché fummo grandi». No! Noi saremo grandi quando il passato non sarà che la nostra pedana di combattimento per andare incontro all'avvenire! Quando il passato, invece di essere un punto morto della nostra esistenza, sarà invece un impulso, un fermento di vita.
Io consacro questa vostra bandiera con coscienza tranquilla, con animo assolutamente puro. Sono sicuro che essa, in pace od in guerra, sarà sempre il segno di raccolta per tutti i giovani animosi i quali vorranno seguire il vostro mirabile esempio. Se domani gli eventi esigeranno altri sacrifici, io sono sicuro che voi sarete ancora una volta fra i primi, che vi trascinerete dietro le forze della Nazione, in modo che, attraverso a questa concentrazione di sforzi e di sacrifici, si attingano tutte le mete e tutte le vittorie.
Catania, 11 maggio 1924: MUSSOLINI parla al Popolo catanese
Il Duce passò di città in città, ovunque fervidamente accolto dalle popolazioni siciliane e pronunciò brevi discorsi, non raccolti dai resocontisti. L'undici maggio 1924, si trovò a Catania ove, dal balcone del Palazzo Municipale, davanti al popolo affollato, pronunciò il seguente discorso:
Generoso popolo di Catania! Concittadini!
Non mi ha sorpreso il vostro tumulto, il vostro entusiasmo, la vostra — oserei dire — travolgente passione di Patria. Voi vedete che il sole della vostra Isola mi ha abbronzato la faccia, perché ho voluto non soltanto passare nelle città, ma inoltrarmi anche nelle zone dell'interno, per vedere come vivono e come soffrono molti siciliani; per vedere quale fosse lo stato dei paesi, delle strade, delle campagne; ho voluto — ed era la prima volta che ciò succedeva a un Capo di Governo italiano scendere in una miniera di zolfo, a duecentocinquanta metri di profondità, per constatare coi miei occhi le condizioni, non certo liete, di quei lavoratori. Ho nello spirito una moltitudine di impressioni incancellabili. Veramente posso dire che se io ho dato il cuore alla Sicilia, la Sicilia, a sua volta, ha conquistato il mio cuore!
Nelle giornate di Palermo, vibranti di entusiasmo, e di Marsala, ricca di memorie garibaldine, a Trapani, a Girgenti solenne nei suoi templi storici, a Caltanissetta, in tutte le altre città e nelle piccole borgate, ho sentito salire a me l'impeto e il fremito delle moltitudini. Niente di più commovente di vedere nelle piccole stazioni quasi un accampamento di cavalli e di muli! Erano degli autentici contadini, dell'autentico popolo lavoratore, non sospinto dalla forza, che mi veniva a dare il suo consenso.
E non v'è dubbio — io penso — che se qualcuno dei pallidi politicanti di Roma, che non si muovono dai loro salotti dove fanno le piccole insulse cospirazioni di dettaglio, avesse il coraggio di scendere in mezzo al popolo, constaterebbe che mai vi fu Governo in Italia che raccogliesse più vasta messe di consensi, di quanti non ne raccolga il Governo fascista!
Credo di interpretare il vostro pensiero, e soprattutto il pensiero delle Camicie Nere, di quanti militano audacemente sotto i gagliardetti del Littorio, gridando ancora una volta, davanti a questa adunata di popolo, che la marcia su Roma è un fatto compiuto e irrevocabile! E che la vecchia Italia è veramente sepolta per sempre!
E del resto, vorresti tu, o popolo di Catania, ritornare a quei tempi? Vorresti forse ricominciare lo stile della bassa politica di tutti i giorni? Senza luce d'ideale? Ebbene, vorrei che l'urlo possente di questa moltitudine giungesse a coloro che sono sordi perché non vogliono sentire, che sono ciechi perché non vogliono vedere; e che vivono di gramissime illusioni, delle quali farà giustizia la nostra volontà e la storia italiana.
Popolo di Catania! Tu senti che l'atmosfera è cambiata; tu senti che i giorni delle umiliazioni sono passati; tu senti — perché sei un popolo di lunga e gloriosa civiltà — senti che oggi lo stile è nuovo; tu senti ancora che è di gran lunga migliorata la posizione dell'Italia nel mondo! Non ci vergogniamo più di essere italiani: abbiamo l'orgoglio! Abbiamo l'orgoglio, o concittadini, di essere italiani e di appartenere a questo popolo, che ha trenta secoli di civiltà, che era grande quando là non erano ancora nati: questo popolo, che ha dato per ben tre volte al mondo attonito il sigillo della sua potente civiltà; questo popolo che oggi vive composto, disciplinato, ordinato, ha un'esperienza storica di incalcolabile valore, poiché si tratta di scegliere, o concittadini, o popolo di Catania, si tratta di scegliere fra le teorie brumose, antivitali, antistoriche, e il nostro quadrato, romano spirito latino che si rende conto di tutta la realtà, che affronta la vita come un combattimento, e che è disposto a morire quando l'idea chiama e la grande campana della storia batte!
Popolo di Catania!
Io ti ringrazio dal profondo del cuore; ma se l'ora non fosse tarda, e se io non temessi di insistere su argomenti che sono già vivi nella vostra coscienza, vorrei tessere un elogio della Sicilia, un elogio del popolo siciliano, che, dopo essersi redento all'interno, sta per riprendere il suo glorioso cammino per le vie del mondo: le strade del mare.
O popolo di Catania marinara!
Dobbiamo tornare ad amare il mare, a sentire la ebbrezza del mare, poiché, «vivere non necesse sed navigare necesse est».
Popolo di Catania!
Leva il tuo pensiero alla Maestà del Re. Leva il tuo pensiero a tutti coloro che hanno sofferto per la Patria, leva il tuo pensiero di gratitudine, di orgoglio e d'amore per la nostra bellissima, adorabile Italia!
Roma, 15 maggio 1924: MUSSOLINI interviene alla Conferenza sull'emigrazione.
In Campidoglio, nella Sala degli Orazi e Curiati, s'inaugurò, alla presenza di S. M. il Re, il 15 maggio 1924, la Conferenza per l'emigrazione alla quale partecipavano la Società delle Nazioni e i rappresentanti di 59 Stati.
Il Regio Commissario di Roma recò il saluto dell'Urbe; quindi S. E. il Capo del Governo pronunziò il seguente discorso:
Maestà! Eccellenze! Signori!
Come Primo Ministro di S. M. il Re d'Italia, ho l'onore di porgere ai rappresentanti dei Governi convenuti a Roma da tutte le parti del mondo il saluto del Re e del Governo, e il benvenuto del popolo italiano.
Sono lieto di constatare che l'iniziativa presa dall'Italia ha avuto largo consenso. Il Governo italiano tiene ad esprimere ai Governi qui rappresentati il suo ringraziamento caloroso per l'accoglienza che essi hanno fatto al suo invito. È grazie a questa attitudine così amichevole che oggi, nella capitale d'Italia, i delegati di ben 59, Paesi si riuniscono per scambiarsi le loro vedute su alcuni degli argomenti che interessano uno dei più grandi fenomeni dell'umanità.
Mentre si svolge con laborioso processo l'opera delle organizzazioni internazionali create per promuovere lo sviluppo della legislazione a favore dei lavoratori, è parso utile al Governo italiano di invitare tutti i Paesi più importanti ad esaminare in questa Conferenza i problemi che concernono, sotto i loro vari aspetti, l'emigrazione e l'immigrazione.
Nel corso degli ultimi sessant'anni altri Stati ebbero l'idea di promuovere una conferenza internazionale dell'emigrazione, ma l'iniziativa, accolta con indifferenza, non poté essere realizzata. Oggi invece le Nazioni, col loro intervento a questo convegno che rimarrà memorabile, dimostrano di sentire l'utilità di una discussione internazionale dei problemi dell'emigrazione.
Io credo che sia generale il convincimento che ogni Paese debba seguire con vigile cura le sorti dei suoi figli che portano la loro forza di lavoro al di là delle frontiere della Patria; ma a ciò è necessaria la collaborazione fra gli Stati. I paesi di emigrazione non dovrebbero ingerirsi nelle faccende degli Stati stranieri; così come i paesi di immigrazione non dovrebbero estendere il loro intervento, neppure con misure indirette, al di là dei loro territori. Ma da parte degli uni e degli altri, nell'omaggio doveroso alle leggi dell'umanità, è necessario che sia messa in opera la più stretta collaborazione affinché il trasferimento degli individui da paese a paese avvenga con soddisfazione reciproca e nel reciproco interesse.
Questa mirabile sorgente di ricchezza che è l'emigrazione, fatalmente destinata, per una legge naturale di equilibrio, a traboccare dai paesi demograficamente ricchi a quelli nei quali la dovizia di terra, i tesori del sottosuolo, lo sviluppo industriale domandano una quantità di lavoro umano superiore alla disponibilità della loro popolazione, non può essere considerata come una merce. Essa deve trovare le vie di sbocco dignitose e giustamente compensate; il distacco dalla Patria men triste; la vita più facile nei paesi di immigrazione, dove l'emigrante, per quanto sia possibile ed equo, goda dei benefici accordati ai lavoratori del Paese, come con questi divide le fatiche del lavoro.
Vi è qui un campo aperto alle intese internazionali le più generose, e questa Conferenza ha precisamente l'alta missione di far uscire dalle sue discussioni i principi generali che dovrebbero segnare l'orientamento dei Governi nella stipulazione di tali intese.
Un doppio ordine di esigenze, di interessi e di diritti deve essere tenuto presente nelle soluzioni concrete delle varie questioni: da una parte le esigenze nell'ordine politico, sociale ed economico; dall'altra la tutela efficace della vita, della salute, degli interessi legittimi dei lavoratori stranieri, mediante regole ispirate a principi di equità.
I due ordini di considerazioni che ho richiamati al vostro pensiero si prospettano soprattutto nel definire la condizione giuridica dell'emigrato per modo che questi sia messo in grado di dare con amore e devozione tutte le sue attività al Paese in cui vive e di serbare puro nell'animo il ricordo della sua terra di origine. Lo scambio di energie e di lavoro fra le Nazioni risponde oggi più che mai ad una necessità dell'ordine economico, che, nella ripresa delle attività produttive, manda i suoi potenti riflessi nell'ordine sociale e politico.
Questo scambio di energie e di lavoro è uno dei fattori umani veramente operativi nel ravvicinamento spirituale dei popoli e nel ristabilimento dell'equilibrio della produzione: esso serve d'incremento allo scambio di ricchezza fra nazione e nazione e allo sviluppo della civiltà umana.
È tempo che alle intese economiche, che riguardano gli scambi delle ricchezze, si aggiungano le intese per la tutela internazionale dei lavoratori.
Voi siete chiamati ad esprimere qui il vostro avviso su tutte le questioni più importuna che toccano questi aspetti delle relazioni internazionali.
Dipenderà da voi, dallo spirito pratico che animerà le vostre discussioni, se questa conferenza potrà veramente essere l'iniziatrice di un'opera feconda, potrà dare una collaborazione apprezzabile ai Governi.
Io non mi lusingo di credere che i vostri lavori possano essere più proficui di quello che ragionevolmente si possa sperare; le condizioni del mercato mondiale sono propizie al primeggiare delle tendenze restrizioniste, e non è in vostro potere di modificare questo stato di cose. Ma poiché questa disposizione d'animo di certi popoli non può essere duratura, e poiché l'assetto economico del mondo si appalesa sempre in maggiore incremento sembra opportuno che si getti fin d'ora il seme di tutte le intese, più precise e più larghe, tra i popoli, sul campo fecondo del lavoro.
Io confido nella vostra attività e nel vostro sapere per far sì che la conferenza di Roma lasci in sé una traccia indelebile nella evoluzione della legislazione e degli accordi internazionali in materia di emigrazione. Già il fatto di averla potuta radunare, di poter salutare, fra i rappresentanti di quasi tutti i paesi del mondo autorevoli membri del Governo in carica, ex ministri, uomini politici e diplomatici, funzionari ed esperti illustri; già la fortuna di vedere presenti nel giorno della solenne inaugurazione il Presidente di turno del Consiglio della Società delle Nazioni ed il Presidente del Consiglio di Amministrazione dell'Ufficio Internazionale del Lavoro, costituiscono non soltanto una prova di amicizia per l'Italia ed una attestazione di simpatia per la sua emigrazione, ma la garanzia più sicura per il felice successo di questa conferenza.
È dunque, signori, nella fiducia profonda che la comprensione del mutuo interesse ed il più sincero accordo presiedano al vostro lavoro, che io auguro per esso i più fecondi risultati; e nell'augusto nome di Sua Maestà il Re dichiaro aperta la conferenza internazionale dell'emigrazione e dell'immigrazione.
Roma, 20 maggio 1924: MUSSOLINI interviene al Congresso Nazionale delle Associazioni Artistiche.
Senatorio in Campidoglio, si inaugurò il 20 maggio 1924 il Congresso Nazionale delle Associazioni Artistiche. In tale occasione il Duce pronunziò il seguente discorso:
Signori!
E' col più vivo compiacimento che ho accettato di inaugurare il vostro convegno al quale porgo il cordiale saluto ed augurio del Governo.
La necessità rude della ricostruzione, il pensiero assiduo rivolto alle pressanti cure della cosa pubblica non possono, non debbono far credere che l'anima del Fascismo ignori o trascuri il palpito con cui in tutti i tempi il nostro popolo ha espresso dal suo seno e sparso pel mondo il fiore più eletto della civiltà: l'arte.
Io non so se i due nomi d'Italia e d'arte siano separabili. So che sarebbe indegno di rappresentare una millenaria civiltà nel mondo chi non ne dividesse le sorti, chi, non promovendo l'una, uccidesse nel cuore dell'altra la pulsazione vitale.
L'attuale Governo, sorto da un moto spirituale, respinge la teoria che fa dell'arte una manifestazione di lusso, qualche cosa cioè che non può essere nella vita del popolo. No, l'arte è per noi un bisogno primordiale ed essenziale della vita, è la stessa umanità nostra, lo stesso nostro passato incancellabile.
L'arte, insieme col diritto, ha segnato col suo sigillo l'espansione unificatrice del mondo latino. In Roma, e dovunque Roma arriva nel mondo con le sue legioni e col suo spirito potente, sentiamo di trovarci dinanzi a una forza di bellezza che non è solo una manifestazione di uno stato dello spirito e della civiltà, ma che ha dentro di sé lo stupendo germe dell'arte italiana, quella che voi, signori, avete consacrata ognuno con le proprie forze e tutti con una passione non estinguibile, se non colla vita.
Per secoli l'arte fu la stessa Patria a traverso le diverse scuole di Firenze, di Venezia, di Ferrara, di Roma, di Bologna, di Napoli, che portavano ancora una volta nel mondo il nome d'Italia.
È l'arte che ha raccolto la leggenda, la storia, il mistero cristiano e li ha rivestiti di bellezza. Divisa l'Italia in Stati minuscoli uno contro l'altro armati, i nostri predecessori le hanno dato grandezza con opere che toccano il divino. Fu nell'arte che gli italiani si sentirono e si ritrovarono fratelli, fu per mezzo dell'arte che la nostra gente dalle molte vite disse la sua parola destinata a rimanere eterna nel mondo dello spirito.
Signori!
Se in ogni movimento di rinnovazione politica è un riflesso estetico e artistico, noi sentiamo che questo riflesso è soprattutto presente e vivace in quello che abbiamo attuato non per infeconda brama di potere, ma per restituire al popolo italiano il suo stile. Lo stile, che è la caratteristica eterna e luminosa della stirpe, che non soltanto darà agli uomini le norme per edificare le città future, ma le savie e giuste leggi necessarie alla civile armonia.
Tutti gli istituti d'arte, dai teatri al museo, dalla galleria all'accademia, debbono essere considerati come scuole, come luoghi, cioè, destinati non alla sola coltura e molto meno alla curiosità, ma preparati per educare il gusto e la sensibilità, per alimentare l'immaginazione, per tenere desta la meraviglia, per raffinare tutte le doti più alte e potenti dell'anima.
Così l'arte, sottratta ad esercitazioni troppo cerebraliste e pedanti o a speculazioni troppo mercantili e portata a contatto delle moltitudini, che ad essa come alla religione domandano un sovrumano conforto, costituirà una delle fonti perenni di vita per il popolo italiano.
Consapevole della importanza che la coltura e la educazione artistica del popolo hanno per la elevazione morale della Nazione, il Governo fascista ha già mostrato con le sue coraggiose riforme nell'insegnamento e nell'amministrazione delle Belle Arti di conoscere quali sono i suoi doveri dinanzi alla gloriosa eredità del passato e alle promesse certe dell'avvenire. Spetta ora a voi, o artisti, di studiare tutto ciò che può rendere più feconda la vostra missione.
Nello splendido annunzio di ciò che informa la nostra civiltà salutiamo nell'arte la potenza eterna e immutabile del genio italiano.
Roma, 22 maggio 1924: MUSSOLINI interviene al Consiglio Nazionale delle Corporazioni.
Il 22 maggio 1924 si inaugurò in Roma, a Palazzo Marignoli, il Consiglio nazionale delle corporazioni fasciste. Nella seduta pomeridiana il Duce pronunziò il seguente discorso:
Signori!
Il gesto che io compio venendo oggi fra voi è prima di tutto un gesto di simpatia: ho voluto dimostrare con la mia presenza che le sorti del sindacalismo fascista mi stanno sommamente a cuore. In secondo luogo ho voluto con la mia presenza, se mi è concesso affermarlo, sottolineare l'importanza politica di questa vostra imponente assemblea. Il Fascismo ha già superato tutta quella che si potrebbe chiamare la fase presindacalista: quando si discuteva se dovesse o no fare del sindacalismo. Come sempre, il fatto è venuto prima della dottrina, e noi non avevamo ancora esattamente formulato le idee, che già il fenomeno sindacalista era sulle nostre braccia.
Naturalmente gli avversari sono sempre pronti a trovare che il nostro sindacalismo non è perfetto: ebbene, si può rispondere a questi signori ipercritici, che nemmeno il loro è perfetto. E quando si pensi che le scuole socialistiche fanno del sindacalismo da cinquant'anni e noi ne facciamo da cinque mesi, voi comprendete subito che essi devono aspettare a giudicare dopò un altro abbastanza lungo periodo di esperienza acquisita.
La situazione del nostro sindacalismo è soddisfacente nelle campagne. Qui i patti di lavoro stipulati dai nostri amici — e fra essi ve ne sono di veramente valorosi, specialmente nella Valle Padana — sono buoni. Non solo non hanno peggiorato le condizioni delle masse agricole, ma in certi casi le hanno notevolmente migliorate. Non altrettanto soddisfacente è forse, a mio avviso, la situazione di quella che si potrebbe chiamare la popolazione operaia urbana. Questo è un punto delicato sul quale richiamo la vostra attenzione.
Per fare la collaborazione di classe bisogna essere in due; bisogna che essa sia fatta con spirito di assoluta lealtà e da una parte e dall'altra. Perché altrimenti può accadere che sotto la specie nazionale si compia realmente opera antinazionale. Sono stato io a insistere presso Rossoni, che è l'anima del vostro movimento, ad insistere presso di lui sulla necessità che non si peggiorino le condizioni della massa operaia industriale, non solo, ma che, laddove le condizioni dell'industria lo consentono, esse siano migliorate.
È troppo presto per dare un giudizio assoluto sulla ripresa industriale italiana: ci sono industrie che non hanno ancora superato il punto massimo della crisi, ma ve ne sono altre che questo punto hanno già superato. Ci sono delle industrie che realizzano già degli utili abbastanza notevoli. E perché? Perché la massa lavora di più. Secondo le confessioni dei grandi capitani di industria, oggi si è ritornati alla quantità di lavoro dell'anteguerra non solo, ma si è quasi ovunque ritornati alla stessa qualità di prima. È certo che i datori di lavoro utilizzano lo stato di pace sociale instaurato dal Governo fascista.
Affermo con piena cognizione di causa e con coscienza tranquilla che gran parte delle industrie italiane non solo non sono forzate a peggiorare le sorti di coloro che contribuiscono alla elevazione della industria, ma sono in condizioni di migliorarle. Solo così la collaborazione di classe diventa una cosa seria.
Vedo nel vostro ordine del giorno problemi che non possono essere affrontati senza una discussione piuttosto meticolosa. Ma, se mi è concesso di esprimere il mio parere, opino che sia opportuna la istituzione del grande palazzo delle Corporazioni in Roma; ritengo sia necessaria anche la fondazione di un quotidiano che rechi giornalmente la documentazione dell'attività corporativa del sindacalismo fascista.
Si tratta poi, o signori, di ristabilire gli equilibri. In fondo la politica non consiste che in turbamenti e in ristabilimenti successivi di equilibri. Ciò sta già facendo il Governo. Che cosa ha fatto il Governo in questi ultimi tempi? Ha alleggerito la pressione fiscale: i ferro-tranvieri hanno avuto una riduzione della ricchezza mobile; oggi abbiamo diminuito la tassa sul vino e concessa la franchigia doganale a certe macchine agricole; successivamente, man mano che la finanza dello Stato diventerà forte e resistente ad ogni eventualità, ci sarà qualche altro meditato e razionale alleggerimento del peso fiscale che permetterà alle popolazioni, che hanno accettato con alto spirito di civismo la nostra disciplina, di concedersi più vasto respiro.
Accanto a quest'opera bisogna che il sindacalismo fascista faccia il resto; cioè, agisca per migliorare le condizioni della classe lavoratrice, perché allora si stabilizzerà, a mio avviso, un ambiente di tranquillità sociale utilissimo ai fini della proprietà dei singoli e della Nazione.
Che cosa è questo? È andare a destra o a sinistra? Questa terminologia è semplicemente idiota: lo era prima della guerra; lo è più adesso. Vediamo infatti che c'è della gente di sinistra che fa una politica di destra e viceversa. In ogni modo il fatto di andare a destra o a sinistra non significa nulla. L'essenziale è che il sindacalismo fascista sia un elemento di miglioramento materiale e di elevazione morale della classe laboriosa italiana. Questo è il compito che voi dovete assolvere. Ci sono progetti che possono richiamare utilmente la vostra meditazione. Noi abbiamo già abbozzato un progetto di legge per rendere obbligatori i contratti di lavoro: vedo qui un ordine del giorno Ciardi che approvo, dove si parla di una magistratura del lavoro. Certamente si possono creare istituzioni che attuino sul terreno giuridico il concetto della collaborazione di classe. In fondo quel che ci divide da tutte le altre scuole è questo: che per i socialisti di tutte le gradazioni la lotta di classe è la regola, mentre per noi è l'eccezione; la collaborazione di classe per loro è l'eccezione e per noi la regola.
Io non mi sgomento affatto quando leggo che un sindacato fascista ha fatto uno sciopero. Ed è ridicolo affermare che un episodio sia bastante a giudicare un metodo. Può darsi fra l'altro, che questo sindacato, malgrado tutta la sua buona volontà fascista, si sia trovato di fronte a un datore di lavoro così arretrato da far esaurire la pazienza collaborazionista del Fascismo. Io penso che il nostro sindacalismo ha un grande avvenire. Intanto voglio darvi un'attestazione. Ed è questa: come Capo del Governo ho avuto molte noie e molte amarezze dal Partito. Ma è fatale che i figli rendano spesso grama la vita ai genitori. Mentre invece il sindacalismo fascista, che pure inquadra vaste masse e che soprattutto agisce sopra un terreno delicato e difficile come quello economico, me ne ha date infinitamente meno di quelle del Partito.
Ho piena fiducia nel movimento corporativo fascista. Già ho constatato con soddisfazione che alcuni elementi che hanno propagato fra noi le prime enunciazioni dottrinali del sindacalismo vengono ora al nostro sindacalismo fascista.
Ciò è bene perché occorre attirare a noi le intelligenze. Può darsi che anche in questo organismo appena creato vi siano delle imperfezioni e delle deficienze, ma ciò è inevitabile in ogni movimento e in ogni collettività.
Dalla vostra assemblea deve partire questo richiamo onesto e solenne: che la collaborazione di classe deve essere praticata in due: che i datori di lavoro non devono approfittare dello stato attuale, instaurato dal Fascismo, che ha dato un senso di disciplina alla Nazione, per soddisfare ai loro egoismi; che essi devono considerare gli operai come elementi essenziali alla produzione: che devono fare il loro interesse in quanto coincide con quello della Nazione e non invece vi contrasti. Solo in questo modo si potrà avere una massa realmente disciplinata, laboriosa, fiera di contribuire alle fortune della Patria.
Signori!
Io non so se il mio discorso, improvvisato in un rapido intervallo delle mie fatiche, abbia esattamente riassunto quello che potrebbe essere lo stato d'animo medio del sindacalismo fascista. Ad ogni modo mi sembra importante che, nella mia qualità di Capo del Governo, di fronte a voi io ripeta quel che si intende per collaborazione di classe in senso nazionale e fascista.
Credo che i datori di lavoro intelligenti se ne renderanno conto. È infatti dall'unione armoniosa e sistematica di tutte le forze della produzione che le condizioni materiali di vita di tutte le classi troveranno giovamento, mentre la Patria, assicurato su ferree basi un regime di cosciente disciplina sociale e nazionale, potrà attingere alle sue maggiori fortune.
Roma, 29 maggio 1924: MUSSOLINI visita la Società Geografica Italiana
Il 29 maggio 1924 il Duce visitò la R. Società Geografica Italiana, che lo aveva proclamato suo membro d'onore. Al discorso del presidente della Società, on. Federzoni, Egli rispose con la seguente dichiarazione:
Venendo oggi tra voi mi sono reso conto, meglio che io non abbia fatto sinora, che oltre alle molte istituzioni e alle numerose forze che lavorano in piena luce e si vantano di grande notorietà fra il pubblico, ve ne sono altre, meno clamorose, che vivono e agiscono quasi in una penombra, che non si fanno molto sentire, ma che tuttavia rappresentano delle forze vive della Nazione. Sta di fatto che la geografia non è stata mai molto familiare alla maggior parte degli italiani; oserei anzi dire che in Italia essa è più conosciuta da quelli che hanno messo il sacco sulle spalle e sono andati emigrando per il mondo anziché da coloro che hanno la missione di dirigere le sorti del Paese.
Voi tutti sapete quali errori sono stati commessi, anche recentemente, che si debbono attribuire prima di tutto ad imperfetta conoscenza della geografia.
Se la mia presenza fra voi gioverà a richiamar l'attenzione del pubblico sulla Società Geografica Italiana, se potrà accrescerne la conoscenza, ascriverò a titolo di orgoglio l'essere oggi venuto.
Accettando il documento che mi iscrive tra i vostri soci d'onore, formulo i migliori e più fervidi auspici per il lavoro della benemerita Società e prometto che ogni qual volta la Società avrà bisogno dell'aiuto del Governo, mi troverà sempre pronto a favorirla.
Roma, 31 maggio 1924: MUSSOLINI interviene nella Conferenza per l'Emigrazione.
Il 31 maggio 1924, la Conferenza per l'Emigrazione - inaugurata il 15 maggio con un discorso di S. E. il Capo del Governo - chiuse i suoi lavori. La sera, all'Hotel Excelsior, il Duce offrì un banchetto a tutti i delegati intervenuti alla conferenza e pronunziò questo discorso. Ad esso rispose il delegato inglese Lord Ullswater mettendo in rilievo la importanza dei lavori compiuti.
Alla chiusura dei lavori della conferenza ringrazio e felicito le Delegazioni della prova di competenza e di buon volere che hanno dato nel corso delle discussioni e nelle risoluzioni riuscite opportunamente conclusive.
I buoni risultati della prima conferenza internazionale della emigrazione renderanno possibili accordi concreti in materia di emigrazione fra gli Stati che vi hanno voluto partecipare.
La conferenza ha dato alle delegazioni, e per esse ai Governi stranieri, la prova sicura del fermo interesse che qui si prende alla organizzazione ed alla tutela delle poderose correnti umane che occorre incanalare per le vie più aperte, ai lavoratori atti a soddisfare le esigenze della produzione nei singoli Stati di immigrazione.
Il riconoscente attaccamento dimostrato nei Paesi che qui questa sera sono rappresentati, come altrove, dagli italiani che già da tempo vi hanno speso la loro complessa attività, costituisce la garanzia più solida dell'attitudine della razza italiana a giovare lealmente alla continua intimità delle relazioni con gli Stati disposti ad accoglierla.
E la cura che il Governo fascista ha messo nella educazione spirituale e fisica della nuova generazione, prevede il sempre maggiore elevamento del grado morale e intellettuale di chi fuori d'Italia è destinato a trascorrere una vita laboriosa davanti agli occhi e agli interessi di altri Paesi.
Ripeto la fiducia che gli importanti principi stabiliti dalla prima conferenza e ispirati al desiderio di conciliare le aspirazioni umanitarie con gli interessi specifici di ogni Paese, facilitino grandemente la pronta conclusione di intese improntate alle contingenze dei singoli Stati con vantaggio del progresso e garanzia della pace.
Auguro salute ai Sovrani e Capi degli Stati qui rappresentati, alle delegazioni, cui rinnovo la espressione del mio grato animo; auguro prosperità ai loro Paesi.
Roma, 4 giugno 1924: MUSSOLINI parla durante la consagrazione della bandiera dei volontari di guerra.
Il 4 giugno 1924 a Roma, presso l'Ara dei Cesari nel Foro romano, i Volontari di Guerra consacrarono la loro bandiera. In tale occasione il Duce pronunziò il seguente discorso:
Volontari!
Io sono qui venuto fra voi non già perché sedotto dalla, suggestività di questa singolare cerimonia, ma per tributarvi, come Capo del Governo, il mio attestato di gratitudine. E vorrei interpretare anche l'anima di tutta la Nazione. Adesso, dopo sette od otto anni, si cominciano ad esaltare i volontari di guerra: ma per lungo tempo si è cercato di dimenticare che l'Italia nel 1915 diede duecentomila volontari, usciti tutti dalle file più autentiche del più autentico popolo. Ma noi non potremo dimenticare quella che fu la vostra tragedia dei primi mesi della guerra, quando il fatto di essere volontario, invece di essere un titolo di gloria e di orgoglio, veniva considerato come un titolo per affrontare, anche inutilmente, i pericoli estremi.
Taluno potrà dire che si potrebbe dimenticare tutto ciò. Io dico di no! Non importa se oggi lo spirito è cambiato. Ma chi è vissuto nelle trincee del Carso, specialmente alla fine dell'agosto 1916, quando i volontari avevano già subita l'ecatombe terribile del 23 ottobre, sa bene che la vita dei volontari fu grama, sa bene che spesso i volontari non furono rispettati come si doveva.
Per questo tanto maggiore è il vostro merito e tanto più è necessario che queste cose ve le dica oggi, non tanto l'onorevole Mussolini uomo, ma l'onorevole Mussolini Capo del Governo italiano. Il che significa che oggi finalmente qui si rende il degno tributo di riconoscenza che vi deve la Nazione.
Approvo che la cerimonia per l'inaugurazione della vostra bandiera avvenga fra queste rovine: bisogna chiudere gli occhi e meditare un poco per sentire tutta l'enorme seduzione spirituale di questo luogo. Quanto tempo è passato dal giorno in cui Roma dominava il mondo? Breve! Forse cinquanta, forse sessanta generazioni appena dal giorno in cui Giulio Cesare tracciava le linee dell'Impero. Pensate che in questo piccolo recinto si è fatta per secoli e secoli la storia del mondo; qui fra queste mura, in questo territorio brevissimo si accumulava al tempo di Augusto una popolazione di quattro milioni di anime. Roma era immensa allora: tutto il mondo vi confluiva.
Il destino dell'umanità qui veniva deciso e Roma perseguiva il suo sogno in una linea di forza non mai disgiunta da linee di estrema saggezza. Giustamente Roma voleva fiaccare i popoli che a lei si opponevano; giustamente era severa nella condotta della guerra; ma la guerra non è uno scherzo, non è un gioco. Ma poi, quando i popoli riconoscevano la sua superiorità, essa li accoglieva nel suo grembo; li faceva cittadini della sua città; largiva loro le leggi, il diritto, che è ancora quello di oggi, o Signori! Li faceva partecipare alla sua civiltà e rispettava le loro usanze e la loro religione. Nel Pantheon c'è un altare per tutti gli iddii; anche per il dio ignoto!
Mommsen, un tedesco, diceva che per lungo tempo gli italiani furono i parassiti della storia di Roma! Certo però è, anche se non si vuole fare un'analisi troppo dettagliata delle fusioni del sangue e di tutti i miscugli inevitabili delle razze, certo è che solo gli italiani fra tutti i popoli possono dirsi discendenti legittimi di Roma. Questo, che è un orgoglio, non deve essere un orgoglio passivo: bisogna essere degni di quella grandezza. Ma non bisogna viverci sopra. Non bisogna essere sempre voltati al passato. Dire: «Noi siamo grandi perché fummo grandi». No! Noi saremo grandi quando il passato non sarà che la nostra pedana di combattimento per andare incontro all'avvenire! Quando il passato, invece di essere un punto morto della nostra esistenza, sarà invece un impulso, un fermento di vita.
Io consacro questa vostra bandiera con coscienza tranquilla, con animo assolutamente puro. Sono sicuro che essa, in pace od in guerra, sarà sempre il segno di raccolta per tutti i giovani animosi i quali vorranno seguire il vostro mirabile esempio. Se domani gli eventi esigeranno altri sacrifici, io sono sicuro che voi sarete ancora una volta fra i primi, che vi trascinerete dietro le forze della Nazione, in modo che, attraverso a questa concentrazione di sforzi e di sacrifici, si attingano tutte le mete e tutte le vittorie.
Ultima modifica di Admin il Gio 22 Mar 2018, 13:03 - modificato 3 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1924
Roma, 7 giugno 1924: MUSSOLINI interviene in risposta al Discorso della Corona
Alla Camera dei Deputati, nella tornata del 7 giugno 1924 si chiuse la discussione sull'indirizzo di risposta al Discorso della Corona. Tale indirizzo era stato redatto dall'On. Salandra. In questa occasione il Duce pronunziò il presente discorso, che costituiva una disamina generale della situazione politica italiana. Dagli elementi polemici che esso contiene si rileva l'opera ostruzionistica con cui i superstiti Partiti cercavano di fermare l'ascensione del Fascismo; si rileva cioè quello stato d'animo, proprio di grette e impotenti camarille politiche, che sembrava in attesa di un pretesto qualunque per coonestare la propria attività dissolvente.
Onorevoli Colleghi! Signori!
Sono stato molto incerto se prendere la parola durante questa discussione che è stata seguita con qualche segno di fastidio da parte del Paese. Mi sono, cioè, domandato se era necessario aggiungere un mio discorso a tutti quelli che sono stati provocati dal discorso della Corona e dal controdiscorso redatto dall'on. Salandra.
Poi mi sono detto che evidentemente si aspettavano mie dichiarazioni di ordine squisitamente politico. Io vengo vivamente incontro al vostro desiderio, ma essendo il mio un discorso politico, sarà quindi polemico, e, può darsi, anche un poco irritante.
La discussione che si è svolta in questa settimana non ha posto dei problemi di ordine legislativo, perché non poteva porne, ma io credo che non abbia posto neppure problemi di ordine politico; ha posto soltanto, a mio avviso, problemi di ordine psicologico, problemi che chiamerei di convivenza.
Si tratta di sapere, cioè, se le nostre reciproche suscettibilità, che sono accesissime — ma questo dimostra che c'è stata una rivoluzione, e la rivoluzione continua, perché appunto sono accese le passioni che determinano i fatti rivoluzionari — permetteranno che il Parlamento possa funzionare. Io spero di sì, se ognuno di noi si renderà conto della propria personale e politica responsabilità.
In fondo la discussione era scontata fin dal principio, perché si sapeva che uno avrebbe detto bene, che l'altro avrebbe detto male, uno avrebbe detto brutto, l'altro avrebbe detto bello, uno avrebbe detto che l'Italia è un giardino fiorito, dove tutte le cose vanno splendidamente, l'altro avrebbe detto che l'Italia è un inferno dove il popolo schiavo geme sotto le pesanti catene del sottoscritto tiranno.
Ora una discussione come quella che si è svolta in quest'aula sarebbe utile se determinasse una chiarificazione di carattere politico o se determinasse uno spostamento di ordine politico nelle rispettive posizioni. Tutto ciò è avvenuto.
Si sapeva benissimo che l'oratore comunista ci avrebbe recitato ancora una volta il suo rosario a base di dittatura proletaria, di dittatura degli operai e dei contadini, o, per meglio dire, di coloro che rappresentano gli operai ed i contadini, ed è giusto che sia così, e non potrebbe essere diversamente; che l'oratore massimalista avrebbe cercato di salvarsi dalla duplice pressione degli unitari e dei comunisti; che gli unitari avrebbero cercato di rinverniciare il loro sedicente patriottismo, perché è loro necessario in quest'ora; che l'oratore dei repubblicani, di cui non abbiamo mai disconosciuto lo spirito di sacrificio e di dedizione alla Patria, avrebbe cercato di mantenersi in oscillazione tra questi sentimenti, che sono patrimonio di quel partito e gli ultimi avvenimenti che hanno spinto il partito repubblicano nell'Alleanza del Lavoro e accanto ai negatori della Nazione.
Sapevo benissimo che l'oratore dei popolari avrebbe tenuto un discorso acido nel quale fermentano tutti i rancori non ancora espulsi dall'organismo di un partito, che ha sempre fatto ottimi affari al Governo, e che da dodici mesi non ne fa più.
E mi aspettavo anche il discorso del rappresentante della democrazia sociale. Sapevo benissimo che era spuntato all'onorevole Di Cesarò il dente del teatro, ma non sapevo, onorevole duca, che vi fosse spuntato il dente viperino della maldicenza meschina! Sapete a che cosa alludo!
Colonna di Cesarò. — Non saprei!
Mussolini. — Da venti mesi a questa parte non c'è nulla di nuovo nella politica italiana da parte dell'opposizione. Se ritorno col mio pensiero a tutto quello che è avvenuto, vedo che tutte le opposizioni si sono fissate nei loro soliti atteggiamenti.
Non ho visto che un atteggiamento più riservato da parte della Confederazione generale del lavoro, e mi è parso un certo momento che l'on. Modigliani, con l'acutezza che è un suo requisito direi quasi congenito, in una serie di polemiche, che potrebbero chiamarsi crepuscolari, perché non sono venute a risultati concreti, ha cercato di disimbrogliare, di disincagliare quella parte ancora possibile di socialismo da posizioni aprioristiche e quindi negative.
Modigliani. — Non nel senso che crede lei.
Mussolini. — Ne riparleremo. Ciò non ha importanza. Ci siamo sentiti ancora ripetere con desolante monotonia, che potrebbe anche rivelare una sterilità di spirito, tutti i motivi dell'opposizione che vengono invocati da venti mesi a questa parte.
Solo due motivi nuovi appaiono in questa discussione: i risultati delle elezioni in alcuni paesi del mondo ed i risultati in Italia.
È proprio vero, onorevole Labriola, che il risultato delle elezioni in Germania è a sinistra?
C'è stato un momento in cui la Germania era uno di quei paesi che ritornavano sempre nelle discussioni dei socialisti. Ora non potete certamente affermare che la Germania sia andata a sinistra!
Labriola. — È un paese strangolato.
Mussolini. — Faccio delle constatazioni. Bisogna essere prudenti, bisogna parlare prudentemente quando si tratta di politica interna degli altri paesi.
Siamo oggi in grado di dire una parola definitiva sui risultati delle elezioni francesi? In fondo, il cartello delle sinistre ha 276 deputati; la destra ne ha 264; quindi vi è la differenza di 12 voti. Ci sono 29 comunisti; ma i 29 comunisti sono destinati, per la loro tipica funzione storica, a dare molti fastidi al cartello delle sinistre e non certamente al blocco delle destre.
Quanto all'Inghilterra voi conoscete le cifre. Ebbene, le cifre sono qui e dimostrano che le posizioni, dal punto di vista della massa elettorale, sono rimaste presso a poco immutate. Di fatto, malgrado l'orribile piattaforma scelta dal ministro Baldwin, piattaforma antidemagogica, antipopolare, soprattutto per il popolo minuto che teme il caro-viveri, e ha perfettamente ragione di temerlo, nelle elezioni del 15 novembre 1922 i conservatori hanno avuto 5.376.465 voti; nelle elezioni recenti i conservatori ne hanno avuto 5.395.690. Voi vedete che non c'è stato spostamento nella massa elettorale inglese; senza considerare — e voi mi insegnate la storia del movimento operaio inglese e di altri in genere — che il laburismo non ha niente a che vedere con certi partiti socialisti dell'occidente.
Il laburismo s'è formato attraverso un secolo di lotta, attraverso un lungo travaglio, con una lenta selezione di individui. Del resto lo stesso Mac Donald ha i suoi imbarazzi da parte dei rappresentanti dei minatori scozzesi.
Tutti gli altri paesi, Danimarca, Svezia, Giappone possono essere tenuti in un conto secondario, dal punto di vista elettorale.
D'altra parte, perché loro dovrebbero avere ragione e noi torto? Questo è veramente un pessimo costume dell'Italia di credere che gli altri abbiano sempre ragione e noi torto. Che gli altri debbano essere i rimorchiatori e noi rimorchiati, che tutte le novità, tutta la luce, tutta la forza, tutta la vita debbano avere origine negli altri paesi, e non mai, per avventura, nel nostro!
Veniamo alle elezioni italiane. Qui si è fatto il processo alle elezioni del 6 aprile. Ebbene, guardate, io voglio ragionare per assurdo e mettermi sul vostro stesso terreno polemico. La lista nazionale ha riportato 5 milioni di voti, cioè 4 milioni e 800 mila. Ebbene, io sono disposto a regalarvi un milione e 800 mila voti; ma voi dovete sempre ammettere che tre milioni di cittadini coscienti e che, sommati, raggiungono i vostri voti messi insieme, hanno votato con piena coscienza per il Partito nazionale fascista. Non vorrete sofisticare, io spero, ad esempio, sui 250 mila voti di preferenza, da me riportati in Lombardia.
Voi dite che non avete potuto tenere dei comizi. Voi credete che essi portino dei vantaggi? Credo che il partito, che non tiene affatto comizi elettorali, abbia un vantaggio sugli altri.
I comizi elettorali sono quella tal cosa in cui tutti intervengono, fuorché gli elettori. Nel 1919 io ero acclamato nei comizi che chiamerò travolgenti di Piazza Dante e di Piazza Belgioioso. In realtà non vi fu di travolgente che la mia disfatta elettorale.
Non vorrete meravigliarvi per le mie dichiarazioni circa la forza. Sono stato sincero. Una rivoluzione può essere convalidata dal responso del suffragio elettorale, ma può farne anche senza. In ciò è il carattere tipico di una rivoluzione.
Voi dite che sono state commesse orribili violenze. Non è vero. In fondo l'onorevole Matteotti ha citato due casi, che sono discutibili, quelli di Melfi e di Iglesias, che non credo vogliate far passare nella storia mondiale.
Vengo a voi, onorevole Amendola. Nel 1919 voi siete stato accusato di tutte le più orribili cose che un polemista disfrenato possa immaginare. Un Ecce homo.
Amendola. — Sciocchezze, che il Popolo d'Italia ha avuto il torto di accogliere.
Mussolini. — Non ci credo.
Amendola. — E allora perché le ha pubblicate?
Mussolini. — Vedrà le conclusioni alle quali arriverò tra poco e le documenterò per dimostrare come uguale sia l'atteggiamento dei partiti in ogni elezione, e cioè il partito vinto si scaglia sul partito vincitore e tenta di infirmare il responso delle elezioni. Ciò è avvenuto prima della guerra, ciò è avvenuto dopo la guerra.
Sentite se non pare di leggere un discorso dell'onorevole Matteotti! Il Lavoratore, diretto da un signore che io non voglio nominare per non fargli della reclame, ma che l'onorevole Amendola conosce, scriveva: «Hanno votato i morti, gli emigrati, le donne, i fanciulli e le stesse persone si sono recate a votare non si sa quante volte. I rappresentanti delle liste avversarie a quella governativa furono allontanati dai seggi e minacciati. In ogni sezione si votava alla presenza del pubblico e non in cabina. Ogni voce di protesta era tosto soppressa».
E faccio grazia di tutto il resto. Io non ci credo a questo imbottimento di crani. Credo che si siano moltiplicati per mille, come negli specchi dei cinematografi, dei piccoli episodi inevitabili in ogni elezione. Ma voi potete fare la distinzione tra queste elezioni del dopoguerra e quelle di prima della guerra. Prima della guerra si faceva di peggio.
Prima della guerra un professore di storia moderna — sarebbe meglio dire di storie moderne — ha fatto una campagna a proposito delle elezioni a Molfetta, nelle quali era in giuoco contro il repubblicano Pansini. L'egregio professore diffuse tra l'altro un volume ove il presidente del Consiglio del tempo (vi domando perdono, onorevole Giolitti, di questa citazione che vi deve lasciare tranquillo, perché voi siete arrivato ad un'età in cui le cose si possono vedere dall'alto con coscienza perfettamente calma), veniva chiamato ministro della malavita.
Non era assolutamente successo nulla o ben poco. Qualche piccola legnata dei famosi mazzieri; ma io credo soprattutto che si trattasse di qualche mescita di vino accettata e donata ai lavoratori pugliesi, i quali si vendicavano poi col votare contro coloro che avevano pagato.
Voi avete ricordato un vostro morto: l'onorevole o non ancora onorevole Piccinini. Io mi voglio associare sinceramente al vostro compianto e al vostro ricordo e vi debbo ricordare anche che se i colpevoli di quel delitto barbaro furono arrestati e sono dentro, lo si deve all'atteggiamento e alle ricerche degli stessi fascisti di Reggio Emilia. Ma io mi associo con animo, ripeto, schietto e sincero alla vostra deplorazione e al vostro rimpianto.
Ma voi mi permetterete altresì di leggervi un piccolo elenco, un modesto elenco di morti fascisti durante la campagna elettorale. Sono 18 i morti e 147 i feriti.
Il 15 febbraio a Pola il fascista Egidio Piemonte viene ucciso dai sovversivi, mentre disimpegnava il servizio notturno come milite della Milizia.
Il 18 febbraio a Villanova di Forlì il fascista Zaccarelli Gagliano è assassinato a coltellate da sovversivi mentre era fermo avanti ad una vetrina.
Il 17 marzo ad Adegliacco (Udine) il milite Giuseppe Gentile, che aveva indossato per la prima volta la camicia nera, viene assassinato da tre sovversivi, che avevano premeditato il delitto.
Il 25 marzo a Quartuccio di Cagliari un gruppo di sovversivi aggrediva un gruppo di fascisti: nel conflitto seguito rimase ucciso il capo manipolo della Milizia Cesare Serra e ferito gravissimamente il fascista Antonio Nieddu.
Il 26 marzo muore assassinato a Parigi Nicola Bonservizi.
Il 29 marzo a Parma è massacrato il milite Robuschi Amedeo e ferito gravemente il fascista Walter Ungherini, che è morto pochi giorni dopo all'ospedale.
Il 29 marzo a San Vito presso Cagliari è stato trovato con la gola recisa il fascista Vito Atzeli.
Il 30 marzo a Bari durante un comizio elettorale viene ferito mortalmente il fascista Francesco Casamassima, che muore due giorni dopo.
Il 6 aprile a Porto Ceresio, durante una discussione per questioni di lavoro, il fascista Giuseppe Santostefano cadeva sotto i colpi omicidi dei sovversivi fratelli Visconti.
Il 6 aprile a Cureggio (Novara) in un conflitto con comunisti viene ucciso il fascista Tizzoni Modesto ed altri fascisti sono feriti.
Il 7 aprile a Montevardo (Aquila) il fascista Leonardo Brescia è stato ucciso con una revolverata sparatagli dal sovversivo Arduino Capobianco.
Il 10 aprile a Londa di Mugello (Firenze) viene ucciso a colpi di piccone il sindaco del paese Annibale Fontani, di anni 40, fervente fascista; l'assassino è il comunista Innocenti, arrestato poco dopo.
Il 12 alla stazione di Homecourt (Francia) tre sovversivi aggrediscono i fascisti Fortunato Calabrese ed Eugenio Casora. Il primo è ferito da una coltellata al fianco e muore poco dopo all'ospedale di Briej, ed il secondo vi è ricoverato in grave stato. La polizia francese ha arrestato gli omicidi nelle persone dei tre sovversivi Castagnoli Giuseppe, Chili Alberto e Sabatino Fiocchi.
Il 14 aprile a Villalbese (Como) lo studente Manlio Sonvico, da tempo fatto segno a minacce per la sua azione fascista, alle ore 21, mentre si trovava sulle scale del Circolo Familiare, veniva aggredito da sovversivi che gli recidevano quasi la testa. Il Sonvico è spirato poco dopo. Sono stati arrestati, con gli abiti lordi di sangue e col denaro della vittima addosso, i comunisti Pontiggia e Battista Visconti.
Il 22 aprile a Nicastro (Catanzaro) il fascista Valbella Giovanni viene aggredito a coltellate dal sovversivo Goffredo Rubino e muore poco dopo.
E potrei continuare in questo elenco4 ma credo di dispensarvi da questa rievocazione tristissima, fatta per dimostrare come qualmente siate in errore, in un errore che, se continuato, diviene colpa imperdonabile, quando fate ricadere tutti gli atti di violenza sul Fascismo.
Quali sono le manifestazioni di questa opposizione? Siamo ancora alla disputa sul consenso e sulla forza. Ho già dimostrato che questa è una discussione perfettamente capziosa. Io nego ancora una volta che nella storia, così come ci è stata tramandata, si siano mai avuti dei regimi esclusivamente consensuali.
Accanto al consenso c'è sempre stata la forza, necessariamente, e non poteva essere che così. Voi negate questo consenso. Ebbene, questo consenso è pur tuttavia documentato. Documentato dalle manifestazioni del popolo. Esistono, queste manifestazioni; qualcuno di voi le ha viste certamente. Documentato dalla esistenza di settemila Fasci con settecentomila iscritti. Non si è mai visto da che l'Italia è Italia un movimento politico che avesse una così immensa diffusione in tutto il paese. Poi è soprattutto dimostrato dalla esistenza della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Quando nel novembre 1922 io mi trovavo di fronte al mio squadrismo, che aveva fatto la marcia su Roma, che aveva lasciato parecchi morti durante la marcia, dieci a Cremona, sei a Bologna, quattordici nei dintorni di Roma, e altri ancora, mi trovai sulle braccia ben sette squadrismi, ognuno di essi congegnato in formazioni strettamente militari e molte di esse armate di tutto punto. Allora tutti trovarono che la mia ferma, fermissima decisione di abolire tutti gli squadrismi, di convertire lo squadrismo fascista in una Milizia agli ordini del Governo e al servizio della Nazione, era una di quelle che si chiamavano soluzioni geniali.
Poi si credette evidentemente che questa Milizia non sarebbe mai diventata una cosa seria, che il fermento dell'indisciplina, dell'illegalismo, dello squadrismo avrebbe continuato ancora a torturarla e quindi a renderla insufficiente.
Ciò non è avvenuto. Non lo dico io, lo dice un collaboratore della Giustizia che deve intendersene, certamente uno scrittore di cose militari assai addentro alle segrete cose. Ebbene, questo signore dice: «-La Milizia esiste ed è regolarmente costituita da un inquadramento che, sia pure con molte imperfezioni e deficienze, si estende a tutto il paese fino nei più piccoli borghi delle nostre montagne e campagne-». Ed è la pura, precisa verità. Una siffatta organizzazione rassomiglia molto a quella che è necessario di avere per attuare una riforma militare sostanziale e ispirata ai più inequivocabili insegnamenti dell'ultima guerra.
Comunque tutte le accuse che si volgevano alla milizia sono a poco a poco cadute. Io dichiaro che questa Milizia è una cosa assolutamente superba e mirabile. È il partito che dice: «Io prendo una quota-parte dei miei aderenti, e, invece di sottoporli soltanto alla disciplina facile della tessera, li sottopongo ad una disciplina rigidissima, quale quella militare».
È pertanto anche una manifestazione singolare di quel ritorno alla disciplina del nostro popolo. È, o signori, una Milizia volontaria, dico volontaria. Ha delle caserme, ma non sta in caserma. Le caserme sono vuote, perché i militi sono volontari, sono cittadini, sono impiegati negli uffici, sono nei campi, anche nelle officine, si ritrovano la domenica per degli esercizi militari e pure venendo dal Partito, che ha l'obbligo di dare questo di più di sacrificio alla Nazione, pur venendo dal Partito vanno, quando è necessario, in Libia, ci ritornano ancora e qualche volta difendono le istituzioni avversarie. Niente di più significativo e di più drammatico che vedere dei fascisti che difendono istituzioni avversarie contro altri fascisti. Voi — si è detto — voi non giurate fede al Re. Si è capito che questa era una accusa balzana, inesistente, stravagante perché non c'è bisogno di dimostrare il nostro assoluto perfetto inequivocabile lealismo.
Poi si è fatta questione di dissenso con l'esercito. Orbene, il Governo che ho l'onore di rappresentare è devotissimo all'esercito: farà tutto quello che è possibile per l'esercito, vuole che l'esercito sia sempre in piena efficienza, materiale e morale, ma l'esercito ha un compito preciso, solenne e terribile: quello di prepararsi alla guerra, e di preparare la nazione alla guerra. Come l'esercito non ha antipatie e suscettibilità contro altri reparti come i carabinieri, la guardia di finanza, la marina, non ne ha, salvo casi singoli dovuti piuttosto a temperamenti personali difficili, contro la Milizia.
Anche perché i tre quarti dei quadri della Milizia vengono dall'esercito. Quasi tutti i comandanti della Milizia sono degli autentici generali dell'esercito, con tanto di greca. Se io vi portassi qui l'elenco di tutti i decorati, di tutti i feriti, di tutti i mutilati che fanno parte della Milizia, voi converreste con me almeno in un senso di rispetto e di meditazione, davanti a questo fenomeno che è impressionante, e che è una prova ammirevole di vitalità e di forza del Paese!
Cosa ne faremo della Milizia? Non la scioglieremo: questo mettetevelo bene in testa!...
La potremo trasformare, la potremo costituzionalizzare ancora di più, potremo ingranarla con l'esercito per funzioni speciali che non hanno nulla a che fare con la preparazione della guerra, che è tipico compito dell'esercito. Tutto ciò sarà studiato, avendo sempre di fronte e nella coscienza gli interessi, non del Partito, ma della Nazione.
Si dice che in Italia non c'è libertà. Lasciamo stare adesso le discussioni sulla libertà. Non si è ancora definito il concetto di libertà, e forse non si definirà mai. Voi stessi, quando si tratta di libertà, non vi trovate d'accordo, perché evidentemente la libertà dei comunisti non ha nulla a che fare con quella dei democratici: anzi, i comunisti tengono a dichiarare (e fanno benissimo, e ci giova e ci giovano) che queste sono teorie dell'89 e che la rivoluzione dell'89 è andata benissimo per quel tempo, ma non è detto che debba costituire il vangelo eterno per la vita di tutti i popoli.
Ma io vi dimostro come qualmente libertà in Italia sia sconfinata.
In Italia, dopo 20 mesi di Governo fascista, è permesso di stampare un giornale a Roma, in data 11 maggio, che dice: «-L'epoca delle barricate si profila imminente all'orizzonte politico, e noi dobbiamo lavorare a renderla più prossima possibile-».
Sono dei pietosi desideri, ma è evidente come questo si possa stampare a Roma, dove si stampa pure regolarmente un giornale anarchico.
Un altro giornale sindacalista comunista, nel numero speciale del 15 maggio, dice: «-Convinti che l'abbattimento della dittatura fascista sarà in Italia conseguenza di un periodo di aperta guerra civile, dobbiamo curare nel Partito e nella parte migliore delle masse l'allenamento necessario a guardare con freddezza a questa necessità e ad affrontarla con forze e mezzi adeguati-».
Un altro giornale, sempre di Roma, L'Italia libera, n. 4, dice: «-In realtà noi ci opponiamo, noi combattiamo contro una truffa organizzata ai danni del popolo italiano-».
Mi si accusa, fra l'altro, di aver fucilato nientemeno che sessantatremila operai italiani!...
Contro questa campagna diffamatoria e velenosa, che purtroppo ha prodotto all'estero anche le sue vittime, il Governo è stato costretto a premunirsi per impedire che il contagio dilagasse fra le nostre popolazioni, prescrivendo il sequestro di numerosi giornali all'atto dell'entrata nel Regno, giusta la facoltà contenuta nelle disposizioni sul servizio della corrispondenza.
Ma consona a quella all'estero è l'attività calunniosa e colpevole che l'opposizione svolge nel nostro Paese e della quale abbiamo dato qualche esempio nella prosa dianzi citata.
Essa, per sviare le tracce dell'autorità, si camuffa, ricorre ai pseudonimi, si serve di cifrari per lo scambio di notizie, di appositi segnali per le riunioni, raccoglie e nasconde armi in luoghi insospettati, riorganizza le file delle scompaginate associazioni di classe, servendosi della costituzione delle così dette «cellule di officina» e «-cellule d'azienda-» per la campagna, le quali costituiscono la base ed il perno della riorganizzazione politica dei partiti sovversivi; si serve, insomma, di tutti gli espedienti e stratagemmi per tenere vivo lo spirito di avversione e di ribellione nelle masse e preparare la riscossa.
E, quel che è notevole, i partiti sovversivi in Italia dimostrano di possedere larghi mezzi di misteriosa provenienza, come rilevasi dal lusso di stampa che si permettono con la pubblicazione e diffusione di numerosi giornali ed opuscoli.
È risaputo che in occasione dell'arresto di Bordiga — avvenuto nel febbraio 1923 — fu scoperto a Genova la sede clandestina dell'Esecutivo comunista ed in tale circostanza si addivenne al sequestro di un importante e voluminoso materiale, in base al quale emerse:
1°) che i fondi del movimento comunista provenivano dal «Rote Hilfe» di Mosca pel tramite della Sezione di Berlino. Nella corrispondenza sequestrata si ha traccia di 25.000 sterline, di cui però buona parte, nel 1922, non raggiunse la destinazione;
2°) che il territorio italiano era stato diviso in zone;
3°) che erano stati sottratti vari fascicoli dall'ufficio riservato della Questura di Milano;
4°) che erano stati sottratti alcuni documenti, di natura riservata, al Comando della divisione militare di Ravenna;
5°) che erano state diramate istruzioni ai «fiduciari» per lo spionaggio e la propaganda nell'esercito e nella marina;
6°) che moltissime armi e munizioni furono distribuite e parecchie somme furono inviate ai fiduciari per acquistarne.
E i partiti sovversivi continuano ancora a dire che sono vittime, che in Italia non c'è libertà, che il popolo geme sotto questa pesante catena.
Ci si accusa di una imprecisazione di programma. Ma questa è una cosa stolida.
Nessun partito ha dei programmi precisi, i programmi li dà la vita.
Ognuno è capace di mettersi ad un tavolo e risolvere tutti i problemi dello scibile umano, tutti i problemi dell'universo: si tratta di vedere quali di questi problemi quali di queste soluzioni possono avere un risultato pratico o soltanto il principio di una attuazione concreta.
Del resto noi abbiamo già attuato un programma. Noi avevamo un programma; esso è basato sopra un principio unitario, sopra una concezione classica dello Stato, e in tutte le occasioni questo programma si ritrova. In tutte le occasioni questo principio si ritrova affermato.
Dice l'onorevole Gronchi: «Definitemi lo Stato». Ebbene: noi prima di definirlo lo abbiamo conquistato.
Del resto lo Stato fu definito in mille modi, da Platone in poi. Io le posso mandare un «-Larousse-» qualsiasi, e vi troverà centinaia di definizioni. Io stesso, per esempio, impiegato di Stato (e me ne vanto, tanto che un giorno o l'altro voglio venire alla Camera con un paio di fiammanti manopole), io ho cercato di definire lo Stato come un sistema di gerarchia. E l'altro giorno ho detto che la politica, la quale è pur tipica funzione dello Stato, è il sistema di rompere gli equilibri e di ricomporli.
Tutti hanno dato una definizione dello Stato. Ieri sera, rileggendo Carlo Cattaneo, ho trovato una definizione dello Stato che è singolarissima, e che si riattacca a quanto ho detto l'altro giorno, quando ho parlato dinanzi all'assemblea dei Sindacati fascisti.
E la definizione dice: «-Lo Stato sarebbe una immensa transazione, dove la possidenza e il commercio, la porzione legittima e la disponibile, il lusso e il risparmio, l'utile e il bello, conquistano e difendono ogni giorno, con imperiose e universali esigenze, quella quota di spazio che loro consente la concorrenza degli altri sistemi. E la formula suprema del buon governo e della civiltà è quella in cui nessuna delle dimande né l'esito suo soverchia le altre e nessuna del tutto è negata-».
Potremmo afferrarci a questa definizione che ci piace.
Si parla ancora di illegalismo. Ma è finito da tempo: e quando mi hanno detto che a Pisa erano avvenute cose gravi, non solo io ho destituito il Prefetto, ma ho dato l'ordine di mettere in carcere tutti i colpevoli.
Lo stesso è avvenuto in altre località, e voi lo sapete, quindi io non faccio che ripetere.
L'illegalismo è in evidente diminuzione. Gli stessi socialisti, che una volta occupavano le pagine dei loro giornali per raccontare come in quasi ciascuno degli ottomila villaggi d'Italia erano avvenuti scioperi e violenze, oggi tacciono! Ed è bene che sia così! Ne sono contentissimo!
Quanto poi alla normalizzazione, bruttissima parola venuta dal gergo dell'industria dove significa standardizzazione, che cosa significa?
Parliamoci chiaro! Significa tornare come prima? Significa vedere una Camera che esautora il potere esecutivo, significa vedere una Camera irrequieta, insofferente, che dà l'assalto alle famose diligenze di cui si parla nelle cronache vecchie del tempo?
Significa riprendere il ritmo di una vita che la rivoluzione ha evidentemente spezzato?
Se tutto ciò significa, dichiaro che sono contro questa normalizzazione, che non ha nulla a che vedere con i problemi cosiddetti interfascisti della revisione e dell'antirevisione.
Ci si è detto: «Non avete spodestato le vecchie classi! È un errore!».
Mi dispiace di dover portare dei casi personali, ma proprio in questi giorni ho dato il passaporto all'onorevole Nitti che è un rappresentante delle vecchie classi spodestate.
D'altra parte, onorevole Facchinetti, non bisogna credere che la rivoluzione sia una cosa per cui tutti si collocano, applicando il detto: «Levati di lì che mi ci metto io!». Sarebbe grave errore. Niente adatto.
Vi sono autentici valori nei regimi vecchi, uomini probi, valorosi, che possiedono il meccanismo interno dell'amministrazione. Se noi li avessimo defenestrati, ci saremmo trovati in gravissimi imbarazzi! È quello che avviene in Russia.
Si è proceduto, lassù, nei primi mesi del 1918, ad una razionale sistematica demolizione e defenestrazione di tutti i vecchi uomini. A un certo momento, poi, li hanno dovuti richiamare, perché non erano tutti sostituibili.
Voi vedete che molte di queste accuse sono veramente povere. Non hanno un significato, non sono cose concrete. L'opposizione ci deve essere! Se non fosse a sinistra sarebbe tra noi; quindi è preferibile che sia su quei banchi piuttosto che dividere le nostre file.
L'opposizione è necessaria; non solo, ma vado più in là e dico: può essere educativa e formativa.
Ma allora ci si domanda: «-Perché siete così irrequieti, così insofferenti?-».
Non è l'opposizione che ci irrita. È il modo della opposizione.
Qualche volta l'opposizione è opposizione piena di rancori, che si mette in un angolo: ha perduto il treno e sta allo spigolo della stazione ad aspettare il successivo!
Fu per me una rivelazione, una singolarissima rivelazione, quando, nel 1914, alla vigilia della guerra seppi che a Napoli c'era un clan di borbonici che pubblicavano perfino un giornale e aspettavano il ritorno della defunta dinastia.
Della stessa razza e dello stesso calibro sono coloro che, dopo due anni, non perdonano ancora il fatto che ci sia stata una crisi che non ha avuto la soluzione attraverso i binari parlamentari mentre ha già trovato la sanatoria, non solo attraverso la parola del Sovrano, ma attraverso a tutto quello che si è fatto.
Poi, accade talvolta che l'opposizione si dà delle arie cattedratiche che ci indispongono: pare che là ci siano dei pozzi di sapienza, delle arche di dottrina, uomini che recano lo scibile ambulante!
Niente affatto!
Qui, nella maggioranza, ci sono almeno 100 uomini di primissimo ordine. Sì, che vengono dall'Università, dal giornalismo, dalla vita vissuta, dalla trincea, e mio compito è, mio compito sarà — spero di poterlo assolvere — di selezionarli, di metterli al vaglio, di vedere quelli che debbono formare domani le classi dirigenti e quelli che hanno il compito più modesto, ma non meno utile, del numero o della comparsa.
E del resto, o Signori, noi abbiamo nelle file dell'opposizione un uomo di teatro che ha dato del teatro al mondo e anche all'Italia: e ho sempre creduto fosse un grande teatro prima che un collaboratore del Mondo mi venisse a mettere delle pulci nell'orecchio...
Amendola. — Non gli dia retta!
Mussolini. — Non gli dò retta! Non gli dò retta per la filosofia, ma gli dò retta nella critica teatrale. Ebbene, le comparse sono necessarie. Non si può essere tutti tenori di cartello, non si può essere tutti soprani; ci vuole anche il baritono, che ha una figura ambigua e fa certe parti antipatiche; ci sono le comparse che riempiono la scena e danno il colore e il calore necessario all'opera.
Non c'è nulla di offensivo per nessuno in queste mie constatazioni. E poi non ho fatto dei nomi!
Altro vizio dell'opposizione: quello di spilluzzare attraverso le beghe, spesso cretinissime, che avvengono in qualcuno dei ben settemiladuecentoquarantanove Fasci d'Italia. Si è sempre in attesa dello sfascio.
Ciò da cinque anni. Ma mettete nell'esame dei fatti sociali anche l'elemento durata, l'elemento tempo. Sono cinque anni che voi dite che questo fenomeno è transitorio, che è un fenomeno passeggero e ve lo trovate di fronte dopo venti mesi assai sano, assai forte, più forte ancora, perché il popolo italiano gli ha dato, in fondo, ragione.
Che cosa può fare l'opposizione. Un giorno venne da me l'onorevole Facchinetti. Vi sembrerà strano che io gli abbia insegnato il modo di fare l'opposizione, gli abbia quasi consegnato il manuale del perfetto oppositore. Per quanto io sia un uomo selvatico, anzi salvatico, come si dice in questi momenti, sono capace di queste finezze. Gli dissi: «-Voi dovete fare l'opposizione e la potete fare in due modi: in un modo concreto, in un modo di dettaglio. Vuol dire: voi vedete le leggi, i provvedimenti che presenta il Governo fascista. Se sono buone, le approvate; se sono cattive, le respingete o le modificate. Ma potete fare un'altra opposizione: una opposizione di principio; una opposizione di lunga portata, anche verso l'avvenire. Noi abbiamo vissuto due grandi esperienze storiche, noi abbiamo avuto la fortuna di vivere due grandi esperienze: l'esperienza russa e l'esperienza italiana, che hanno dei punti di contatto in ciò: che, più o meno voracemente, ognuna di queste esperienze ha mangiato l'89, cioè quella parte di immortali principi che non si è ritenuta più adatta all'attuale clima storico. Ebbene, cercate di studiare, voi che fate l'opposizione, se non sia il caso di trarre una sintesi, di non fermarsi eternamente in due posizioni antagonistiche, di vedere se questa esperienza può essere feconda, vitale, dare una nuova sintesi di vita politica.
«-Questo il compito per una opposizione brillante, che non si abbandoni ad un meschino pettegolezzo politico, ma che assurga qualche volta alla comprensione e alla trattazione dei grandi problemi della storia-».
Facchinetti. — Su questo punto ho detto che aveva ragione.
Mussolini. — Ma non avete seguito il mio consiglio!
Prima di passare a vedere che cosa si può fare per il futuro, credo che valga la pena di esaminare se c'è possibilità di trarre da queste circostanze che hanno una certa solennità, e ad ogni modo rappresentano un inizio di vita nuova, un cominciamento, come si dice in certo gergo filosofico, di trarre una sintesi dal travaglio storico che abbiamo vissuto dal 1919 ad oggi.
È un tentativo che faccio: non so se vi riuscirò.
Lo Stato liberale, quel complesso di dottrina e di pratica corrente che si assomma in questo termine di Stato liberale, esce dalla guerra malconcio. Esce dalla guerra con i muscoli esauriti, con una circolazione del sangue assai stracca. Ciò è facilmente comprensibile: la guerra è stato uno sforzo enorme, imponente, estenuante.
Tutti gli Stati, tutti i regimi ne hanno sofferto e non poteva non soffrire il regime che era il più impreparato, mentre aveva soltanto la preparazione di un esercito, il che è cosa profondamente diversa. E lo abbiamo visto!
Contro questo Stato liberale, che era diventato una espressione priva di qualsiasi contenuto materiale, si scatenarono due offensive. La prima offensiva è quella sovversiva che culminò con l'occupazione delle fabbriche. Non bisogna credere tuttavia che, dopo questo, gli elementi antifascisti non abbiano dato altra prova di attività, perché tali attività antifasciste vanno sino all'agosto 1922, cioè a due mesi prima della marcia su Roma, al famoso sciopero legalitario proclamato, e fu nostra fortuna, dalla Alleanza del lavoro.
Ritengo però che l'occupazione delle? fabbriche rappresenti il massimo sforzo compiuto dai partiti socialisti nel dopoguerra. Ma l'occupazione delle fabbriche non poteva essere fine a sé stessa. L'occupazione delle fabbriche in tanto avveniva in quanto si fosse in un dato momento usciti dalle fabbriche per impadronirsi dello Stato.
I socialisti non osarono, i socialisti ebbero paura. E non dico paura nel senso fisico, banale, offensivo della parola.
I socialisti responsabili, di fronte alla realtà dei fatti, dissero: «-E poi?-».
Eravamo nel 1920. Vi era una situazione interna difficile; avevamo. 15 o 20 miliardi di deficit, tutta l'Europa era percorsa da quella che fu chiamata la vague de paresse, l'ondata della pigrizia, del non lavoro. Io chiamo questa la tragedia della paura. Non osaste: il poi vi spaventò!
Voi sapevate che ad un dato momento non avreste saputo frenare queste masse, molti elementi delle quali credevano che la rivoluzione socialista consistesse nel prendere, nell'assidersi più comodamente al banchetto della vita, mentre la rivoluzione socialista non poteva essere che una nuova organizzazione economico-sociale di un dato aggregato nazionale.
Ma se voi avete avuto la tragedia della paura, noi ne abbiamo avuta un'altra: la nostra è la tragedia dell'ardimento.
Questo primo colpo aveva danneggiato lo Stato liberale; ma dopo ne abbiamo degli altri. Alla occupazione delle fabbriche corrisponde nel triennio successivo l'occupazione delle città. Noi occupiamo le città. Da questo momento lo Stato non esiste più. È allora che io dico: così non può andare: di due fare uno; non si può essere Costantinopoli ed Angora, non si può essere Roma e Milano.
Bisogna uscire da questa situazione paradossale. Siamo alla Marcia su Roma. Questa è la tragedia del nostro ardimento. È infatti ardimento straordinario quello di un partito che non aveva nemmeno cinque anni di vita, che aveva soltanto tre anni di efficienza, che non aveva ancora potuto procedere ad una selezione dei suoi elementi e nel quale, in vista del successo, confluivano molti individui qualche volta non rispettabili, e che pure assumeva il potere! All'indomani stesso della sua vittoria cominciava ad avere qualche preoccupazione. Ciò era chiaro al mio spirito, perché se ho fatto un colpo di Stato, non ho fatto un colpo di testa.
Il Partito sente più o meno oscuramente tutto il travaglio di questa sua formidabile anticipazione. Chiamo con me al potere, pure essendo vittorioso su tutta la linea, pure avendo 52.000 uomini armati in Roma che avrebbero fatto tutto quello che io volevo si facesse, chiamo uomini di tutti i Partiti, e dico: «-Venite con me a collaborare, perché noi siamo giovani, inesperti, e perché il compito che ci attende è immenso, e fa tremare le vene e i polsi-». In questa Camera vi sono degli ex ministri: c'è un ministro liberale, l'onorevole De Capitani, un ministro popolare, l'onorevole Cavazzoni, un ministro democratico-sociale, l'onorevole Di Cesarò. Io li chiamo a testimoni se nei mesi in cui hanno lavorato con me c'è stato mai uno screzio qualsiasi, se la collaborazione non è stata fraterna, ispirata a cameratismo, ad obbiettività concrete, nonostante le nostre diverse idealità e dottrine.
Ora siamo di fronte al domani; ma prima è necessario vedere con occhio che vorrei chiamare clinico quale è la situazione dell'Italia odierna. Nessuno può negare, a parte coloro che sono come gli emigrati di Coblenza, che vedono sempre nero per necessità di cose e per motivi di polemica, che non ci sia un ritmo aumentato di vita. Nessuno può negare che tutti i gangli del sistema nervoso della Nazione siano restaurati. Certamente non voglio dipingere un quadro roseo. Nutro sfiducia: (si ride) ci sono punti nerissimi e penombre: questa è la vita. Ma se calcolate quello che era l'Italia nei primi mesi dell'agosto 1922, quando i fascisti si accampavano a Bologna, quando scendevano a Trento e patteggiavano col governatore della città, dovete ammettere che un gran cammino è stato percorso e che il merito di ciò va dato al Partito fascista.
Sono così obbiettivo e sincero, che vi dico che la pressione c'è stata e c'è ancora; ma che è mio proposito di alleviarla. Abbiamo già cominciato, del resto: abbiamo diminuito la tassa di ricchezza mobile ai ferro-tranvieri, abbiamo ridotto l'imposta sul vino, abbiamo attuate altre agevolazioni. Tuttavia il caro-viveri, i cambi, mi preoccupano. Se un finanziere eccelso mi dicesse come qualmente si possono togliere queste penombre dal quadro, gli sarei grato della sua collaborazione.
La situazione interna è molto migliorata e vigilo a che questo miglioramento continui.
Non credo necessario soffermarmi sulla politica estera che non è stata oggetto di grandi critiche. Anche non ne voglio sopravalutare il successo, poiché non è conveniente, non è elegante; c'erano tante piccole e grandi questioni che avevano diviso gli italiani, che avevano prodotto uno squilibrio morale profondissimo e sono state risolte in maniera che ritengo soddisfacente per gli interessi italiani.
Non v'è dubbio che vi siano ancora grandi questioni da risolvere; massima quella delle riparazioni, agevolata ora dal fatto che Stresemann ha dichiarato di accettare il piano Dawes; ma credo che la situazione dell'Italia sia grandemente migliorata di fronte a quella degli altri Stati. Bisogna vigilare, perché vi sono Trattati che furono fatti con uno spirito che non può essere il nostro; perché i Trattati si fanno con la spada in pugno o secondo giustizia, e non si è fatto né l'una cosa né l'altra. Perciò il territorio europeo è pieno, qua e là, di punti di dolore, di punti di protesta, di squilibri potenziali, che domani possono provocare, non dirò la catastrofe, perché io non ci credo, ma la crisi; non dico la catastrofe, perché i popoli hanno ancora le ossa ammaccate per quella che si chiuse nel 1918.
Ma bisogna vigilare. Ecco perché accanto alla politica estera di pace — perché la sola pace ci può permettere di ritornare in piedi — bisogna tenere pronte ed efficienti tutte le nostre forze di terra, di mare e di cielo.
Si è detto: «-Che cosa pensate della Società delle Nazioni?-». E ciò perché nel discorso della Corona non si è fatto un accenno all'Istituto Ginevrino. Rispondo: nella Società delle Nazioni bisogna restarci.
Bisogna restarci non fosse altro perché ci sono gli altri, i quali, se ce ne andassimo, sarebbero contentissimi; farebbero i loro affari, tutelerebbero i loro interessi senza di noi, e magari contro noi.
Che cosa possa diventare la Società delle Nazioni, se essa sia una cosa seria o un tentativo puramente embrionale destinato a fallire, se la Società delle Nazioni possa diventare un super-Stato — ciò che io escludo — che annulli l'autorità degli altri Stati, ed abbia un super-esercito, il che è impossibile, tutto ciò può essere oggetto di discussione in separata sede. Ma nella Società delle Nazioni si trattano problemi e si prendono decisioni che ci interessano e l'Italia non può rimanere assente.
Ritornando alla politica interna, io mi propongo di far funzionare il Parlamento. Ciò non deve stupire. Il Fascismo è stato sempre elezionista, anche troppo: ora sarebbe ridicolo che, essendo elezionisti, non accettassimo anche le conseguenze di questo elezionismo, cioè il Parlamento, cioè l'attività legislativa.
Vi ho già detto che di decreti-legge non se ne faranno. Bisogna discutere i bilanci; abituare la gente a leggere nelle cifre: quello è il vero controllo.
l Governo presenterà i progetti di legge alla Camera, che li discuterà, li migliorerà, li approverà. Così intendo l'attività legislativa del Parlamento di domani. Infine, rinvigorire tutte le forze dello Stato e cercare di inserire nella vita della Nazione tutte le forze che alla Nazione vogliono venire.
Oggi, a 20 mesi di distanza, io, che non mi sento infallibile affatto, che sono uomo come voi, con tutti i difetti e le qualità che la natura umana comporta, io stesso dico, oggi, come venti mesi fa, che io non cerco nessuno, ma non respingo nessuno, perché l'opera di ricostruzione della Patria è ancora difficile, è ancora lunga, e tutte le competenze, e tutti i valori, e tutte le buone volontà devono essere utilizzate.
Infine, poniamo il problema nei suoi termini concreti: che cosa pensate di fare? Come pensate di uscire (non parlo dei comunisti che sono fuori di questione) come pensate di uscire da questa vostra pregiudiziale che vi immobilizza? Con un tentativo insurrezionale? Ma non c'è da pensarci nemmeno; voi non ci pensate nemmeno, non vi passa nemmeno per la controcassa dell'anticamera del cervello, perché voi sapete che in 24 ore, anzi 24 minuti, tutto sarebbe finito.
Tupini. — La respingiamo per principio, noi!
Mussolini. — Voi siete fuori di questione.
Se voi escludete dalle vostre possibilità di domani il conato insurrezionale, e non avete avuto mai l'animo di blanquisti — ve ne ho dato io un, po' di blanquismo nel 1912 e nel 1913 — voi dovete certamente fare l'esame di coscienza e dire: «-Che cosa succede di noi?-». Perché non si può essere assenti, non si può rimanere sempre estranei; qualche cosa, bene o male, bisogna dire o fare, una collaborazione positiva o negativa deve esserci, nel vostro stesso interesse; perché il giorno in cui restate assenti, indifferenti, come gli stiliti che stanno sulle colonne ad aspettare il miracolo, voi vi sarete condannati all'esilio perpetuo dalla storia.
È un quesito che pongo alla vostra coscienza; voi lo risolverete; non tocca a me risolverlo.
Mi accadeva giorni fa di leggere nella Histoire de la Science Politique di Janet tutto un lungo studio che questo autore dedica al modo assai prudente con cui le Assemblee di America e di Francia procedettero alla dichiarazione degli immortali principi. I vostri predecessori erano assai timorosi, dubbiosi, e dicevano: «-Badate che è verissimo che il Governo senza la legge può condurre al dispotismo, ma il popolo senza la legge va all'anarchia, va al caos, va alla disintegrazione nazionale-».
E Turgot, uno degli ottantanovardi più intelligenti e più fini e meticolosi, poneva un limite netto al diritto e alla libertà. Se tutti gli uomini che sono vissuti fin qui fossero stati sepolti in un avello, tutta quanta la superficie della terra oggi sarebbe ricoperta di pietre, e non avremmo noi forse il diritto di demolire questi monumenti sterili e di disperdere queste fredde ceneri per nutrire i vivi?
Io dico: sì. Ebbene, noi, che ci sentiamo di rappresentare il popolo italiano, dichiariamo che abbiamo il diritto e il dovere di combattere ancora, di demolire i monumenti sterili delle vostre ideologie, abbiamo il diritto e il dovere di disperdere le ceneri dei vostri e anche dei nostri rancori, per nutrire colla linfa potente, nel corso degli anni e dei secoli, il corpo augusto e intangibile della Patria.
Dopo questo discorso il Duce espresse, nei termini seguenti, il suo pensiero sugli ordini del giorno presentati:
Non accetto l'ordine del giorno che reca per prima la firma dell'on. Bentini. Egli ha accennato ad un caso tipo, cioè ad un condannato innocente. Io non escludo di poter rivedere il suo caso, perché nessun cittadino, malgrado il cosiddetto regime del terrore, deve rimanere nelle carceri, se realmente innocente.
Non accetto gli ordini del giorno degli onorevoli Gonzales, Amendola e Gennari, né quello che reca per prima la firma dell'onorevole Maffi.
Prendo atto dell'ordine del giorno dell'onorevole Wilfan e prendo atto anche dell'ordine del giorno dell'onorevole Boggiano-Pico, che non è né approvabile né disapprovabile.
Prego gli onorevoli Sarrocchi, Sandrini, Celesia e Marescalchi di ritirare il loro ordine del giorno e di aderire a quello che reca per prima la firma dell'onorevole Delcroix. Respingo l'ordine del giorno dell'onorevole Lussu, e prego poi gli onorevoli Barbaro, Mammalella, Madia e Romano di ritirare il loro ordine del giorno e di ripresentarlo in sede di esercizio provvisorio.
Presidente. — È già stato ritirato.
Mussolini. — Dichiaro, infine che il Governo accetta l'ordine del giorno dell'onorevole Delcroix.
Si fece la votazione nominale su l'ordine del giorno Delcroix, accettato dal Governo: su 468 votanti esso riportò 361 voti favorevoli e 107 contrari. Il testo dell'ordine del giorno Delcroix è il seguente: «-La Camera, esprimendo la sua piena fiducia nel Governo, nell'opera da esso compiuta e nel programma per l'avvenire, approva l'indirizzo di risposta al Discorso della Corona-».
Roma, 10 giugno 1924: MUSSOLINI si reca nella sede della Società "Dante Alighieri"
Il 10 giugno 1924 il Duce visitò la sede della Società «Dante Alighieri» in Roma. Il Presidente, on. Paolo Boselli, gli offrì la prima medaglia d'oro per i benemeriti dell'italianità, e S. E. il Capo del Governo gli rispose nei termini seguenti:
Eccellenze! Signori!
E' per un vario ordine di ragioni che questa adunata ha per me una solennità speciale.
La cerimonia tocca profondamente il mio spirito; e, prima di tutto, perché mi ricorda l'evento dell'annessione di Fiume.
Molti credono che la cosa sia stata facilissima. Non è così. C'era il Trattato di Rapallo firmato e che doveva essere rispettato; c'erano documenti segreti, non pubblicati, ma che esistevano, che mutilavano la città. Questo rendeva difficilissimo, dal punto di vista politico, l'annessione della città; ma pure siamo riusciti: dico «-siamo-», perché anche il popolo contribuì con la sua ritrovata disciplina, a rendere possibile di annettere Fiume all'Italia.
In secondo luogo questa cerimonia mi commuove perché si svolge nella sede della «-Dante Alighieri-»: l'Associazione della quale Voi, onorevole Presidente, avete tracciato i compiti attuali e futuri con la parola mirabile e ardente di amor patrio e così vibrante di passione italiana.
Veramente si può dire che in Voi, fascista ad honorem, si ricongiunge tutta la più nobile tradizione italiana del Risorgimento, dai nostri maggiori a questo impetuoso rigoglio della giovinezza odierna.
Vi ringrazio, onorevole Presidente, e con Voi ringrazio il Sodalizio del quale siete il più fervido animatore.
L'offerta della medaglia che s'intitola dal vostro nome, può consistere in un premio per il passato, ma io voglio considerarla anche come uno sprone per un migliore avvenire.
Roma, 12-13 giugno 1924: MUSSOLINI interviene alla Camera sull'assalto degli sciacalli
Mentre si discuteva alla Camera l'esercizio provvisorio, un fatto di cronaca nera, estraneo alla lotta politica, venne a turbare la vita nazionale. Il deputato socialista Matteotti veniva rapito da delinquenti comuni, e poi si seppe che era stato ucciso. Gli avversari del Fascismo, che aspettavano da un pezzo un appiglio qualunque per fare la loro immonda speculazione politica, tentarono invano di coinvolgere in questo fatto la responsabilità del Fascismo e dello stesso Governo. In breve tempo, le prove dei fatti e le severe punizioni dei colpevoli mostrarono chiaramente all'opinione pubblica quale ignobile castello di calunnie si era voluto affastellare contro il Fascismo, da politicanti e giornalisti che si erano scagliati, come iene e sciacalli, su quel cadavere. Ma, al primo momento e per qualche tempo dipoi, gli spiriti deboli, i malcontenti, coloro che avevano subito a stento la loro sconfitta e la loro eliminazione dalla vita pubblica, non indietreggiarono di fronte a una calunnia che minacciava di ostacolare l'opera intensa, diuturna, ricostruttrice e rinnovatrice che veniva compiendo il Fascismo. Il cadavere di Matteotti fu gettato dì traverso su la via del Fascismo, nella vana illusione di fermare la marcia irresistibile. Ma la verità si affermò pienamente e la canea dei calunniatori fu sgominata per sempre.
Il Duce intuì subito, fino dal primo momento in cui giunse la notizia della scomparsa dell'on. Matteotti, la speculazione politica che si sarebbe tentata e - forte della propria coscienza purissima - alla Camera dei Deputati, nella tornata del 12 giugno 1924, fece le seguenti precise dichiarazioni:
Credo che la Camera sia ansiosa di avere notizie sulla sorte dell'on. Matteotti, scomparso improvvisamente nel pomeriggio di martedì scorso in circostanze di tempo e di luogo non ancora ben precisate, ma comunque tali da legittimare l'ipotesi di un delitto, che, se compiuto, non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del Governo e del Parlamento.
Comunico alla Camera che, appena gli organi di polizia furono informati della prolungata assenza del deputato Matteotti, io stesso impartii ordini tassativi per intensificare le ricerche a Roma e fuori Roma, in altre città e ai passi di frontiera.
La polizia, nelle sue rapide indagini, si è già messa sulle tracce di elementi sospetti e nulla trascurerà per far luce sull'avvenimento, arrestare i colpevoli ed assicurarli alla Giustizia.
Il giorno seguente si diffuse la persuasione che l'onorevole Matteotti non era soltanto scomparso, ma era stato ucciso. Già si delineava nettamente l'opera calunniatrice degli avversari, e il Duce fece alla Camera dei Deputati, nella tornata del 13 giugno 1924, le seguenti dichiarazioni:
Voi avete udito le mie dichiarazioni di ieri sera.
Non c'era, non poteva esservi, né una parola di meno né una parola di più. In quel momento io ero il rappresentante della legge e del potere esecutivo. Dovevo dire che i colpevoli saranno rintracciati e affidati alla giustizia.
La prima notizia della scomparsa dell'on. Matteotti fu nota alle ore 18 di mercoledì. Nelle 24 ore la polizia ha identificato tutti coloro che hanno partecipato al fatto e, quantunque essi fossero prontamente partiti per varie direzioni, ne sono già stati arrestati tre: il Dumini a Roma, il Mazzola a Firenze, il Putato a Milano. Gli altri tre o quattro sono accerchiati e, se si fosse fatto un po' meno di clamore, molto probabilmente a quest'ora sarebbero già relegati nelle carceri.
Di ora in ora seguo la situazione. Credo che entro oggi o, al più tardi, nella serata, tutti coloro che hanno partecipato al misfatto saranno assicurati alla giustizia.
Non ho bisogno di dire che condivido tutto quello che hanno detto il Presidente e gli onorevoli Grandi, Soleri e Delcroix. Se c'è qualcuno in quest'aula che abbia diritto di essere addolorato, esasperato, sono io. Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato qualche cosa di diabolico contro di me poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione.
Sabato, parlando alla Camera, mi ero messo al di là della maggioranza e della minoranza, mi ero diretto al Paese, mi ero messo a contatto con la Nazione Le mie parole erano state accolte con soddisfazione vivissima; si era determinata una specie di détente nell'Assemblea, e un'atmosfera di concordia e di pacificazione nel Paese. Io potevo dire ormai di essere giunto quasi al termine della mia fatica; ed ecco che il destino, la bestialità e il delitto tentano — non credo in modo irreparabile — di turbare questo processo di ricostruzione morale!
La situazione, o Signori, è estremamente delicata.
Quello che è accaduto ieri in quest'aula è un sintomo che non può essere trascurato dal Governo.
Se si tratta di deplorare, se si tratta di condannare, se si tratta di compiangere la vittima, se si tratta di procedere alla ricerca di tutti i colpevoli e di tutti i responsabili, siamo qui a ripetere che ciò sarà fatto tranquillamente e inesorabilmente; ma se da questo episodio tristissimo si volesse trarre argomento non per una più vasta riconciliazione degli animi sulla base di un accettato e riconosciuto bisogno di concordia nazionale, ma se si cercasse di inscenare una speculazione di ordine politico che dovrebbe investire il Governo, si sappia chiaramente che il Governo punta i piedi, che il Governo si difenderebbe a qualsiasi costo, che il Governo, avendo la coscienza enormemente tranquilla, ed essendo sicuro di avere già fatto il suo dovere e di farlo in seguito, adotterebbe i mezzi necessari per sventare questo gioco che, invece di condurre alla concordia gli animi degl'italiani, li agiterebbe con divisioni ancor più profonde.
Questo andava detto poiché i sintomi non mancano: la legge avrà il suo corso, la polizia consegnerà i colpevoli all'Autorità giudiziaria, che si impadronirà della questione e spiccherà i mandati di cattura necessari. Di più non si potrà chiedere al Governo. Se voi mi date l'autorizzazione di un giudizio sommario, il giudizio sommario sarà compiuto; ma fino a quando questo non si può chiedere e non si deve chiedere, bisogna mantenere i nervi a posto e rifiutarsi di allargare un episodio nefando e idiota in una questione di politica generale e di politica di Governo.
Ora la Nazione dimostra per mille segni la sua fiducia nell'opera del Governo, per quello che gli spetta come potere esecutivo, e dico a voi, rappresentanti della Nazione, che questa fiducia non sarà delusa.
Giustizia sarà fatta, dev'essere fatta, perché, come qualcuno di voi ha detto, il delitto è un delitto di anti-fascismo e di antinazione. Prima di essere orribile, è di una umiliante bestialità.
Non si può esitare, davanti a casi siffatti, a distinguere nettamente quello che è politica da quello che è crimine. In altre località l'Italia ha dimostrato che questa distinzione dev'essere sempre più profonda, più netta, più inequivocabile poiché noi siamo affezionati alle nostre idee e tali idee, tali passioni, tale martirio difenderemo anche con la vita. Vogliamo che i buoni cittadini italiani non si confondano e non confondano, che sappiano distinguere la zona della delinquenza dalla zona del sacrificio e dell'ideale.
Questo è il mio dovere, questo dovere sarà compiuto.
Roma, 7 giugno 1924: MUSSOLINI interviene in risposta al Discorso della Corona
Alla Camera dei Deputati, nella tornata del 7 giugno 1924 si chiuse la discussione sull'indirizzo di risposta al Discorso della Corona. Tale indirizzo era stato redatto dall'On. Salandra. In questa occasione il Duce pronunziò il presente discorso, che costituiva una disamina generale della situazione politica italiana. Dagli elementi polemici che esso contiene si rileva l'opera ostruzionistica con cui i superstiti Partiti cercavano di fermare l'ascensione del Fascismo; si rileva cioè quello stato d'animo, proprio di grette e impotenti camarille politiche, che sembrava in attesa di un pretesto qualunque per coonestare la propria attività dissolvente.
Onorevoli Colleghi! Signori!
Sono stato molto incerto se prendere la parola durante questa discussione che è stata seguita con qualche segno di fastidio da parte del Paese. Mi sono, cioè, domandato se era necessario aggiungere un mio discorso a tutti quelli che sono stati provocati dal discorso della Corona e dal controdiscorso redatto dall'on. Salandra.
Poi mi sono detto che evidentemente si aspettavano mie dichiarazioni di ordine squisitamente politico. Io vengo vivamente incontro al vostro desiderio, ma essendo il mio un discorso politico, sarà quindi polemico, e, può darsi, anche un poco irritante.
La discussione che si è svolta in questa settimana non ha posto dei problemi di ordine legislativo, perché non poteva porne, ma io credo che non abbia posto neppure problemi di ordine politico; ha posto soltanto, a mio avviso, problemi di ordine psicologico, problemi che chiamerei di convivenza.
Si tratta di sapere, cioè, se le nostre reciproche suscettibilità, che sono accesissime — ma questo dimostra che c'è stata una rivoluzione, e la rivoluzione continua, perché appunto sono accese le passioni che determinano i fatti rivoluzionari — permetteranno che il Parlamento possa funzionare. Io spero di sì, se ognuno di noi si renderà conto della propria personale e politica responsabilità.
In fondo la discussione era scontata fin dal principio, perché si sapeva che uno avrebbe detto bene, che l'altro avrebbe detto male, uno avrebbe detto brutto, l'altro avrebbe detto bello, uno avrebbe detto che l'Italia è un giardino fiorito, dove tutte le cose vanno splendidamente, l'altro avrebbe detto che l'Italia è un inferno dove il popolo schiavo geme sotto le pesanti catene del sottoscritto tiranno.
Ora una discussione come quella che si è svolta in quest'aula sarebbe utile se determinasse una chiarificazione di carattere politico o se determinasse uno spostamento di ordine politico nelle rispettive posizioni. Tutto ciò è avvenuto.
Si sapeva benissimo che l'oratore comunista ci avrebbe recitato ancora una volta il suo rosario a base di dittatura proletaria, di dittatura degli operai e dei contadini, o, per meglio dire, di coloro che rappresentano gli operai ed i contadini, ed è giusto che sia così, e non potrebbe essere diversamente; che l'oratore massimalista avrebbe cercato di salvarsi dalla duplice pressione degli unitari e dei comunisti; che gli unitari avrebbero cercato di rinverniciare il loro sedicente patriottismo, perché è loro necessario in quest'ora; che l'oratore dei repubblicani, di cui non abbiamo mai disconosciuto lo spirito di sacrificio e di dedizione alla Patria, avrebbe cercato di mantenersi in oscillazione tra questi sentimenti, che sono patrimonio di quel partito e gli ultimi avvenimenti che hanno spinto il partito repubblicano nell'Alleanza del Lavoro e accanto ai negatori della Nazione.
Sapevo benissimo che l'oratore dei popolari avrebbe tenuto un discorso acido nel quale fermentano tutti i rancori non ancora espulsi dall'organismo di un partito, che ha sempre fatto ottimi affari al Governo, e che da dodici mesi non ne fa più.
E mi aspettavo anche il discorso del rappresentante della democrazia sociale. Sapevo benissimo che era spuntato all'onorevole Di Cesarò il dente del teatro, ma non sapevo, onorevole duca, che vi fosse spuntato il dente viperino della maldicenza meschina! Sapete a che cosa alludo!
Colonna di Cesarò. — Non saprei!
Mussolini. — Da venti mesi a questa parte non c'è nulla di nuovo nella politica italiana da parte dell'opposizione. Se ritorno col mio pensiero a tutto quello che è avvenuto, vedo che tutte le opposizioni si sono fissate nei loro soliti atteggiamenti.
Non ho visto che un atteggiamento più riservato da parte della Confederazione generale del lavoro, e mi è parso un certo momento che l'on. Modigliani, con l'acutezza che è un suo requisito direi quasi congenito, in una serie di polemiche, che potrebbero chiamarsi crepuscolari, perché non sono venute a risultati concreti, ha cercato di disimbrogliare, di disincagliare quella parte ancora possibile di socialismo da posizioni aprioristiche e quindi negative.
Modigliani. — Non nel senso che crede lei.
Mussolini. — Ne riparleremo. Ciò non ha importanza. Ci siamo sentiti ancora ripetere con desolante monotonia, che potrebbe anche rivelare una sterilità di spirito, tutti i motivi dell'opposizione che vengono invocati da venti mesi a questa parte.
Solo due motivi nuovi appaiono in questa discussione: i risultati delle elezioni in alcuni paesi del mondo ed i risultati in Italia.
È proprio vero, onorevole Labriola, che il risultato delle elezioni in Germania è a sinistra?
C'è stato un momento in cui la Germania era uno di quei paesi che ritornavano sempre nelle discussioni dei socialisti. Ora non potete certamente affermare che la Germania sia andata a sinistra!
Labriola. — È un paese strangolato.
Mussolini. — Faccio delle constatazioni. Bisogna essere prudenti, bisogna parlare prudentemente quando si tratta di politica interna degli altri paesi.
Siamo oggi in grado di dire una parola definitiva sui risultati delle elezioni francesi? In fondo, il cartello delle sinistre ha 276 deputati; la destra ne ha 264; quindi vi è la differenza di 12 voti. Ci sono 29 comunisti; ma i 29 comunisti sono destinati, per la loro tipica funzione storica, a dare molti fastidi al cartello delle sinistre e non certamente al blocco delle destre.
Quanto all'Inghilterra voi conoscete le cifre. Ebbene, le cifre sono qui e dimostrano che le posizioni, dal punto di vista della massa elettorale, sono rimaste presso a poco immutate. Di fatto, malgrado l'orribile piattaforma scelta dal ministro Baldwin, piattaforma antidemagogica, antipopolare, soprattutto per il popolo minuto che teme il caro-viveri, e ha perfettamente ragione di temerlo, nelle elezioni del 15 novembre 1922 i conservatori hanno avuto 5.376.465 voti; nelle elezioni recenti i conservatori ne hanno avuto 5.395.690. Voi vedete che non c'è stato spostamento nella massa elettorale inglese; senza considerare — e voi mi insegnate la storia del movimento operaio inglese e di altri in genere — che il laburismo non ha niente a che vedere con certi partiti socialisti dell'occidente.
Il laburismo s'è formato attraverso un secolo di lotta, attraverso un lungo travaglio, con una lenta selezione di individui. Del resto lo stesso Mac Donald ha i suoi imbarazzi da parte dei rappresentanti dei minatori scozzesi.
Tutti gli altri paesi, Danimarca, Svezia, Giappone possono essere tenuti in un conto secondario, dal punto di vista elettorale.
D'altra parte, perché loro dovrebbero avere ragione e noi torto? Questo è veramente un pessimo costume dell'Italia di credere che gli altri abbiano sempre ragione e noi torto. Che gli altri debbano essere i rimorchiatori e noi rimorchiati, che tutte le novità, tutta la luce, tutta la forza, tutta la vita debbano avere origine negli altri paesi, e non mai, per avventura, nel nostro!
Veniamo alle elezioni italiane. Qui si è fatto il processo alle elezioni del 6 aprile. Ebbene, guardate, io voglio ragionare per assurdo e mettermi sul vostro stesso terreno polemico. La lista nazionale ha riportato 5 milioni di voti, cioè 4 milioni e 800 mila. Ebbene, io sono disposto a regalarvi un milione e 800 mila voti; ma voi dovete sempre ammettere che tre milioni di cittadini coscienti e che, sommati, raggiungono i vostri voti messi insieme, hanno votato con piena coscienza per il Partito nazionale fascista. Non vorrete sofisticare, io spero, ad esempio, sui 250 mila voti di preferenza, da me riportati in Lombardia.
Voi dite che non avete potuto tenere dei comizi. Voi credete che essi portino dei vantaggi? Credo che il partito, che non tiene affatto comizi elettorali, abbia un vantaggio sugli altri.
I comizi elettorali sono quella tal cosa in cui tutti intervengono, fuorché gli elettori. Nel 1919 io ero acclamato nei comizi che chiamerò travolgenti di Piazza Dante e di Piazza Belgioioso. In realtà non vi fu di travolgente che la mia disfatta elettorale.
Non vorrete meravigliarvi per le mie dichiarazioni circa la forza. Sono stato sincero. Una rivoluzione può essere convalidata dal responso del suffragio elettorale, ma può farne anche senza. In ciò è il carattere tipico di una rivoluzione.
Voi dite che sono state commesse orribili violenze. Non è vero. In fondo l'onorevole Matteotti ha citato due casi, che sono discutibili, quelli di Melfi e di Iglesias, che non credo vogliate far passare nella storia mondiale.
Vengo a voi, onorevole Amendola. Nel 1919 voi siete stato accusato di tutte le più orribili cose che un polemista disfrenato possa immaginare. Un Ecce homo.
Amendola. — Sciocchezze, che il Popolo d'Italia ha avuto il torto di accogliere.
Mussolini. — Non ci credo.
Amendola. — E allora perché le ha pubblicate?
Mussolini. — Vedrà le conclusioni alle quali arriverò tra poco e le documenterò per dimostrare come uguale sia l'atteggiamento dei partiti in ogni elezione, e cioè il partito vinto si scaglia sul partito vincitore e tenta di infirmare il responso delle elezioni. Ciò è avvenuto prima della guerra, ciò è avvenuto dopo la guerra.
Sentite se non pare di leggere un discorso dell'onorevole Matteotti! Il Lavoratore, diretto da un signore che io non voglio nominare per non fargli della reclame, ma che l'onorevole Amendola conosce, scriveva: «Hanno votato i morti, gli emigrati, le donne, i fanciulli e le stesse persone si sono recate a votare non si sa quante volte. I rappresentanti delle liste avversarie a quella governativa furono allontanati dai seggi e minacciati. In ogni sezione si votava alla presenza del pubblico e non in cabina. Ogni voce di protesta era tosto soppressa».
E faccio grazia di tutto il resto. Io non ci credo a questo imbottimento di crani. Credo che si siano moltiplicati per mille, come negli specchi dei cinematografi, dei piccoli episodi inevitabili in ogni elezione. Ma voi potete fare la distinzione tra queste elezioni del dopoguerra e quelle di prima della guerra. Prima della guerra si faceva di peggio.
Prima della guerra un professore di storia moderna — sarebbe meglio dire di storie moderne — ha fatto una campagna a proposito delle elezioni a Molfetta, nelle quali era in giuoco contro il repubblicano Pansini. L'egregio professore diffuse tra l'altro un volume ove il presidente del Consiglio del tempo (vi domando perdono, onorevole Giolitti, di questa citazione che vi deve lasciare tranquillo, perché voi siete arrivato ad un'età in cui le cose si possono vedere dall'alto con coscienza perfettamente calma), veniva chiamato ministro della malavita.
Non era assolutamente successo nulla o ben poco. Qualche piccola legnata dei famosi mazzieri; ma io credo soprattutto che si trattasse di qualche mescita di vino accettata e donata ai lavoratori pugliesi, i quali si vendicavano poi col votare contro coloro che avevano pagato.
Voi avete ricordato un vostro morto: l'onorevole o non ancora onorevole Piccinini. Io mi voglio associare sinceramente al vostro compianto e al vostro ricordo e vi debbo ricordare anche che se i colpevoli di quel delitto barbaro furono arrestati e sono dentro, lo si deve all'atteggiamento e alle ricerche degli stessi fascisti di Reggio Emilia. Ma io mi associo con animo, ripeto, schietto e sincero alla vostra deplorazione e al vostro rimpianto.
Ma voi mi permetterete altresì di leggervi un piccolo elenco, un modesto elenco di morti fascisti durante la campagna elettorale. Sono 18 i morti e 147 i feriti.
Il 15 febbraio a Pola il fascista Egidio Piemonte viene ucciso dai sovversivi, mentre disimpegnava il servizio notturno come milite della Milizia.
Il 18 febbraio a Villanova di Forlì il fascista Zaccarelli Gagliano è assassinato a coltellate da sovversivi mentre era fermo avanti ad una vetrina.
Il 17 marzo ad Adegliacco (Udine) il milite Giuseppe Gentile, che aveva indossato per la prima volta la camicia nera, viene assassinato da tre sovversivi, che avevano premeditato il delitto.
Il 25 marzo a Quartuccio di Cagliari un gruppo di sovversivi aggrediva un gruppo di fascisti: nel conflitto seguito rimase ucciso il capo manipolo della Milizia Cesare Serra e ferito gravissimamente il fascista Antonio Nieddu.
Il 26 marzo muore assassinato a Parigi Nicola Bonservizi.
Il 29 marzo a Parma è massacrato il milite Robuschi Amedeo e ferito gravemente il fascista Walter Ungherini, che è morto pochi giorni dopo all'ospedale.
Il 29 marzo a San Vito presso Cagliari è stato trovato con la gola recisa il fascista Vito Atzeli.
Il 30 marzo a Bari durante un comizio elettorale viene ferito mortalmente il fascista Francesco Casamassima, che muore due giorni dopo.
Il 6 aprile a Porto Ceresio, durante una discussione per questioni di lavoro, il fascista Giuseppe Santostefano cadeva sotto i colpi omicidi dei sovversivi fratelli Visconti.
Il 6 aprile a Cureggio (Novara) in un conflitto con comunisti viene ucciso il fascista Tizzoni Modesto ed altri fascisti sono feriti.
Il 7 aprile a Montevardo (Aquila) il fascista Leonardo Brescia è stato ucciso con una revolverata sparatagli dal sovversivo Arduino Capobianco.
Il 10 aprile a Londa di Mugello (Firenze) viene ucciso a colpi di piccone il sindaco del paese Annibale Fontani, di anni 40, fervente fascista; l'assassino è il comunista Innocenti, arrestato poco dopo.
Il 12 alla stazione di Homecourt (Francia) tre sovversivi aggrediscono i fascisti Fortunato Calabrese ed Eugenio Casora. Il primo è ferito da una coltellata al fianco e muore poco dopo all'ospedale di Briej, ed il secondo vi è ricoverato in grave stato. La polizia francese ha arrestato gli omicidi nelle persone dei tre sovversivi Castagnoli Giuseppe, Chili Alberto e Sabatino Fiocchi.
Il 14 aprile a Villalbese (Como) lo studente Manlio Sonvico, da tempo fatto segno a minacce per la sua azione fascista, alle ore 21, mentre si trovava sulle scale del Circolo Familiare, veniva aggredito da sovversivi che gli recidevano quasi la testa. Il Sonvico è spirato poco dopo. Sono stati arrestati, con gli abiti lordi di sangue e col denaro della vittima addosso, i comunisti Pontiggia e Battista Visconti.
Il 22 aprile a Nicastro (Catanzaro) il fascista Valbella Giovanni viene aggredito a coltellate dal sovversivo Goffredo Rubino e muore poco dopo.
E potrei continuare in questo elenco4 ma credo di dispensarvi da questa rievocazione tristissima, fatta per dimostrare come qualmente siate in errore, in un errore che, se continuato, diviene colpa imperdonabile, quando fate ricadere tutti gli atti di violenza sul Fascismo.
Quali sono le manifestazioni di questa opposizione? Siamo ancora alla disputa sul consenso e sulla forza. Ho già dimostrato che questa è una discussione perfettamente capziosa. Io nego ancora una volta che nella storia, così come ci è stata tramandata, si siano mai avuti dei regimi esclusivamente consensuali.
Accanto al consenso c'è sempre stata la forza, necessariamente, e non poteva essere che così. Voi negate questo consenso. Ebbene, questo consenso è pur tuttavia documentato. Documentato dalle manifestazioni del popolo. Esistono, queste manifestazioni; qualcuno di voi le ha viste certamente. Documentato dalla esistenza di settemila Fasci con settecentomila iscritti. Non si è mai visto da che l'Italia è Italia un movimento politico che avesse una così immensa diffusione in tutto il paese. Poi è soprattutto dimostrato dalla esistenza della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Quando nel novembre 1922 io mi trovavo di fronte al mio squadrismo, che aveva fatto la marcia su Roma, che aveva lasciato parecchi morti durante la marcia, dieci a Cremona, sei a Bologna, quattordici nei dintorni di Roma, e altri ancora, mi trovai sulle braccia ben sette squadrismi, ognuno di essi congegnato in formazioni strettamente militari e molte di esse armate di tutto punto. Allora tutti trovarono che la mia ferma, fermissima decisione di abolire tutti gli squadrismi, di convertire lo squadrismo fascista in una Milizia agli ordini del Governo e al servizio della Nazione, era una di quelle che si chiamavano soluzioni geniali.
Poi si credette evidentemente che questa Milizia non sarebbe mai diventata una cosa seria, che il fermento dell'indisciplina, dell'illegalismo, dello squadrismo avrebbe continuato ancora a torturarla e quindi a renderla insufficiente.
Ciò non è avvenuto. Non lo dico io, lo dice un collaboratore della Giustizia che deve intendersene, certamente uno scrittore di cose militari assai addentro alle segrete cose. Ebbene, questo signore dice: «-La Milizia esiste ed è regolarmente costituita da un inquadramento che, sia pure con molte imperfezioni e deficienze, si estende a tutto il paese fino nei più piccoli borghi delle nostre montagne e campagne-». Ed è la pura, precisa verità. Una siffatta organizzazione rassomiglia molto a quella che è necessario di avere per attuare una riforma militare sostanziale e ispirata ai più inequivocabili insegnamenti dell'ultima guerra.
Comunque tutte le accuse che si volgevano alla milizia sono a poco a poco cadute. Io dichiaro che questa Milizia è una cosa assolutamente superba e mirabile. È il partito che dice: «Io prendo una quota-parte dei miei aderenti, e, invece di sottoporli soltanto alla disciplina facile della tessera, li sottopongo ad una disciplina rigidissima, quale quella militare».
È pertanto anche una manifestazione singolare di quel ritorno alla disciplina del nostro popolo. È, o signori, una Milizia volontaria, dico volontaria. Ha delle caserme, ma non sta in caserma. Le caserme sono vuote, perché i militi sono volontari, sono cittadini, sono impiegati negli uffici, sono nei campi, anche nelle officine, si ritrovano la domenica per degli esercizi militari e pure venendo dal Partito, che ha l'obbligo di dare questo di più di sacrificio alla Nazione, pur venendo dal Partito vanno, quando è necessario, in Libia, ci ritornano ancora e qualche volta difendono le istituzioni avversarie. Niente di più significativo e di più drammatico che vedere dei fascisti che difendono istituzioni avversarie contro altri fascisti. Voi — si è detto — voi non giurate fede al Re. Si è capito che questa era una accusa balzana, inesistente, stravagante perché non c'è bisogno di dimostrare il nostro assoluto perfetto inequivocabile lealismo.
Poi si è fatta questione di dissenso con l'esercito. Orbene, il Governo che ho l'onore di rappresentare è devotissimo all'esercito: farà tutto quello che è possibile per l'esercito, vuole che l'esercito sia sempre in piena efficienza, materiale e morale, ma l'esercito ha un compito preciso, solenne e terribile: quello di prepararsi alla guerra, e di preparare la nazione alla guerra. Come l'esercito non ha antipatie e suscettibilità contro altri reparti come i carabinieri, la guardia di finanza, la marina, non ne ha, salvo casi singoli dovuti piuttosto a temperamenti personali difficili, contro la Milizia.
Anche perché i tre quarti dei quadri della Milizia vengono dall'esercito. Quasi tutti i comandanti della Milizia sono degli autentici generali dell'esercito, con tanto di greca. Se io vi portassi qui l'elenco di tutti i decorati, di tutti i feriti, di tutti i mutilati che fanno parte della Milizia, voi converreste con me almeno in un senso di rispetto e di meditazione, davanti a questo fenomeno che è impressionante, e che è una prova ammirevole di vitalità e di forza del Paese!
Cosa ne faremo della Milizia? Non la scioglieremo: questo mettetevelo bene in testa!...
La potremo trasformare, la potremo costituzionalizzare ancora di più, potremo ingranarla con l'esercito per funzioni speciali che non hanno nulla a che fare con la preparazione della guerra, che è tipico compito dell'esercito. Tutto ciò sarà studiato, avendo sempre di fronte e nella coscienza gli interessi, non del Partito, ma della Nazione.
Si dice che in Italia non c'è libertà. Lasciamo stare adesso le discussioni sulla libertà. Non si è ancora definito il concetto di libertà, e forse non si definirà mai. Voi stessi, quando si tratta di libertà, non vi trovate d'accordo, perché evidentemente la libertà dei comunisti non ha nulla a che fare con quella dei democratici: anzi, i comunisti tengono a dichiarare (e fanno benissimo, e ci giova e ci giovano) che queste sono teorie dell'89 e che la rivoluzione dell'89 è andata benissimo per quel tempo, ma non è detto che debba costituire il vangelo eterno per la vita di tutti i popoli.
Ma io vi dimostro come qualmente libertà in Italia sia sconfinata.
In Italia, dopo 20 mesi di Governo fascista, è permesso di stampare un giornale a Roma, in data 11 maggio, che dice: «-L'epoca delle barricate si profila imminente all'orizzonte politico, e noi dobbiamo lavorare a renderla più prossima possibile-».
Sono dei pietosi desideri, ma è evidente come questo si possa stampare a Roma, dove si stampa pure regolarmente un giornale anarchico.
Un altro giornale sindacalista comunista, nel numero speciale del 15 maggio, dice: «-Convinti che l'abbattimento della dittatura fascista sarà in Italia conseguenza di un periodo di aperta guerra civile, dobbiamo curare nel Partito e nella parte migliore delle masse l'allenamento necessario a guardare con freddezza a questa necessità e ad affrontarla con forze e mezzi adeguati-».
Un altro giornale, sempre di Roma, L'Italia libera, n. 4, dice: «-In realtà noi ci opponiamo, noi combattiamo contro una truffa organizzata ai danni del popolo italiano-».
Mi si accusa, fra l'altro, di aver fucilato nientemeno che sessantatremila operai italiani!...
Contro questa campagna diffamatoria e velenosa, che purtroppo ha prodotto all'estero anche le sue vittime, il Governo è stato costretto a premunirsi per impedire che il contagio dilagasse fra le nostre popolazioni, prescrivendo il sequestro di numerosi giornali all'atto dell'entrata nel Regno, giusta la facoltà contenuta nelle disposizioni sul servizio della corrispondenza.
Ma consona a quella all'estero è l'attività calunniosa e colpevole che l'opposizione svolge nel nostro Paese e della quale abbiamo dato qualche esempio nella prosa dianzi citata.
Essa, per sviare le tracce dell'autorità, si camuffa, ricorre ai pseudonimi, si serve di cifrari per lo scambio di notizie, di appositi segnali per le riunioni, raccoglie e nasconde armi in luoghi insospettati, riorganizza le file delle scompaginate associazioni di classe, servendosi della costituzione delle così dette «cellule di officina» e «-cellule d'azienda-» per la campagna, le quali costituiscono la base ed il perno della riorganizzazione politica dei partiti sovversivi; si serve, insomma, di tutti gli espedienti e stratagemmi per tenere vivo lo spirito di avversione e di ribellione nelle masse e preparare la riscossa.
E, quel che è notevole, i partiti sovversivi in Italia dimostrano di possedere larghi mezzi di misteriosa provenienza, come rilevasi dal lusso di stampa che si permettono con la pubblicazione e diffusione di numerosi giornali ed opuscoli.
È risaputo che in occasione dell'arresto di Bordiga — avvenuto nel febbraio 1923 — fu scoperto a Genova la sede clandestina dell'Esecutivo comunista ed in tale circostanza si addivenne al sequestro di un importante e voluminoso materiale, in base al quale emerse:
1°) che i fondi del movimento comunista provenivano dal «Rote Hilfe» di Mosca pel tramite della Sezione di Berlino. Nella corrispondenza sequestrata si ha traccia di 25.000 sterline, di cui però buona parte, nel 1922, non raggiunse la destinazione;
2°) che il territorio italiano era stato diviso in zone;
3°) che erano stati sottratti vari fascicoli dall'ufficio riservato della Questura di Milano;
4°) che erano stati sottratti alcuni documenti, di natura riservata, al Comando della divisione militare di Ravenna;
5°) che erano state diramate istruzioni ai «fiduciari» per lo spionaggio e la propaganda nell'esercito e nella marina;
6°) che moltissime armi e munizioni furono distribuite e parecchie somme furono inviate ai fiduciari per acquistarne.
E i partiti sovversivi continuano ancora a dire che sono vittime, che in Italia non c'è libertà, che il popolo geme sotto questa pesante catena.
Ci si accusa di una imprecisazione di programma. Ma questa è una cosa stolida.
Nessun partito ha dei programmi precisi, i programmi li dà la vita.
Ognuno è capace di mettersi ad un tavolo e risolvere tutti i problemi dello scibile umano, tutti i problemi dell'universo: si tratta di vedere quali di questi problemi quali di queste soluzioni possono avere un risultato pratico o soltanto il principio di una attuazione concreta.
Del resto noi abbiamo già attuato un programma. Noi avevamo un programma; esso è basato sopra un principio unitario, sopra una concezione classica dello Stato, e in tutte le occasioni questo programma si ritrova. In tutte le occasioni questo principio si ritrova affermato.
Dice l'onorevole Gronchi: «Definitemi lo Stato». Ebbene: noi prima di definirlo lo abbiamo conquistato.
Del resto lo Stato fu definito in mille modi, da Platone in poi. Io le posso mandare un «-Larousse-» qualsiasi, e vi troverà centinaia di definizioni. Io stesso, per esempio, impiegato di Stato (e me ne vanto, tanto che un giorno o l'altro voglio venire alla Camera con un paio di fiammanti manopole), io ho cercato di definire lo Stato come un sistema di gerarchia. E l'altro giorno ho detto che la politica, la quale è pur tipica funzione dello Stato, è il sistema di rompere gli equilibri e di ricomporli.
Tutti hanno dato una definizione dello Stato. Ieri sera, rileggendo Carlo Cattaneo, ho trovato una definizione dello Stato che è singolarissima, e che si riattacca a quanto ho detto l'altro giorno, quando ho parlato dinanzi all'assemblea dei Sindacati fascisti.
E la definizione dice: «-Lo Stato sarebbe una immensa transazione, dove la possidenza e il commercio, la porzione legittima e la disponibile, il lusso e il risparmio, l'utile e il bello, conquistano e difendono ogni giorno, con imperiose e universali esigenze, quella quota di spazio che loro consente la concorrenza degli altri sistemi. E la formula suprema del buon governo e della civiltà è quella in cui nessuna delle dimande né l'esito suo soverchia le altre e nessuna del tutto è negata-».
Potremmo afferrarci a questa definizione che ci piace.
Si parla ancora di illegalismo. Ma è finito da tempo: e quando mi hanno detto che a Pisa erano avvenute cose gravi, non solo io ho destituito il Prefetto, ma ho dato l'ordine di mettere in carcere tutti i colpevoli.
Lo stesso è avvenuto in altre località, e voi lo sapete, quindi io non faccio che ripetere.
L'illegalismo è in evidente diminuzione. Gli stessi socialisti, che una volta occupavano le pagine dei loro giornali per raccontare come in quasi ciascuno degli ottomila villaggi d'Italia erano avvenuti scioperi e violenze, oggi tacciono! Ed è bene che sia così! Ne sono contentissimo!
Quanto poi alla normalizzazione, bruttissima parola venuta dal gergo dell'industria dove significa standardizzazione, che cosa significa?
Parliamoci chiaro! Significa tornare come prima? Significa vedere una Camera che esautora il potere esecutivo, significa vedere una Camera irrequieta, insofferente, che dà l'assalto alle famose diligenze di cui si parla nelle cronache vecchie del tempo?
Significa riprendere il ritmo di una vita che la rivoluzione ha evidentemente spezzato?
Se tutto ciò significa, dichiaro che sono contro questa normalizzazione, che non ha nulla a che vedere con i problemi cosiddetti interfascisti della revisione e dell'antirevisione.
Ci si è detto: «Non avete spodestato le vecchie classi! È un errore!».
Mi dispiace di dover portare dei casi personali, ma proprio in questi giorni ho dato il passaporto all'onorevole Nitti che è un rappresentante delle vecchie classi spodestate.
D'altra parte, onorevole Facchinetti, non bisogna credere che la rivoluzione sia una cosa per cui tutti si collocano, applicando il detto: «Levati di lì che mi ci metto io!». Sarebbe grave errore. Niente adatto.
Vi sono autentici valori nei regimi vecchi, uomini probi, valorosi, che possiedono il meccanismo interno dell'amministrazione. Se noi li avessimo defenestrati, ci saremmo trovati in gravissimi imbarazzi! È quello che avviene in Russia.
Si è proceduto, lassù, nei primi mesi del 1918, ad una razionale sistematica demolizione e defenestrazione di tutti i vecchi uomini. A un certo momento, poi, li hanno dovuti richiamare, perché non erano tutti sostituibili.
Voi vedete che molte di queste accuse sono veramente povere. Non hanno un significato, non sono cose concrete. L'opposizione ci deve essere! Se non fosse a sinistra sarebbe tra noi; quindi è preferibile che sia su quei banchi piuttosto che dividere le nostre file.
L'opposizione è necessaria; non solo, ma vado più in là e dico: può essere educativa e formativa.
Ma allora ci si domanda: «-Perché siete così irrequieti, così insofferenti?-».
Non è l'opposizione che ci irrita. È il modo della opposizione.
Qualche volta l'opposizione è opposizione piena di rancori, che si mette in un angolo: ha perduto il treno e sta allo spigolo della stazione ad aspettare il successivo!
Fu per me una rivelazione, una singolarissima rivelazione, quando, nel 1914, alla vigilia della guerra seppi che a Napoli c'era un clan di borbonici che pubblicavano perfino un giornale e aspettavano il ritorno della defunta dinastia.
Della stessa razza e dello stesso calibro sono coloro che, dopo due anni, non perdonano ancora il fatto che ci sia stata una crisi che non ha avuto la soluzione attraverso i binari parlamentari mentre ha già trovato la sanatoria, non solo attraverso la parola del Sovrano, ma attraverso a tutto quello che si è fatto.
Poi, accade talvolta che l'opposizione si dà delle arie cattedratiche che ci indispongono: pare che là ci siano dei pozzi di sapienza, delle arche di dottrina, uomini che recano lo scibile ambulante!
Niente affatto!
Qui, nella maggioranza, ci sono almeno 100 uomini di primissimo ordine. Sì, che vengono dall'Università, dal giornalismo, dalla vita vissuta, dalla trincea, e mio compito è, mio compito sarà — spero di poterlo assolvere — di selezionarli, di metterli al vaglio, di vedere quelli che debbono formare domani le classi dirigenti e quelli che hanno il compito più modesto, ma non meno utile, del numero o della comparsa.
E del resto, o Signori, noi abbiamo nelle file dell'opposizione un uomo di teatro che ha dato del teatro al mondo e anche all'Italia: e ho sempre creduto fosse un grande teatro prima che un collaboratore del Mondo mi venisse a mettere delle pulci nell'orecchio...
Amendola. — Non gli dia retta!
Mussolini. — Non gli dò retta! Non gli dò retta per la filosofia, ma gli dò retta nella critica teatrale. Ebbene, le comparse sono necessarie. Non si può essere tutti tenori di cartello, non si può essere tutti soprani; ci vuole anche il baritono, che ha una figura ambigua e fa certe parti antipatiche; ci sono le comparse che riempiono la scena e danno il colore e il calore necessario all'opera.
Non c'è nulla di offensivo per nessuno in queste mie constatazioni. E poi non ho fatto dei nomi!
Altro vizio dell'opposizione: quello di spilluzzare attraverso le beghe, spesso cretinissime, che avvengono in qualcuno dei ben settemiladuecentoquarantanove Fasci d'Italia. Si è sempre in attesa dello sfascio.
Ciò da cinque anni. Ma mettete nell'esame dei fatti sociali anche l'elemento durata, l'elemento tempo. Sono cinque anni che voi dite che questo fenomeno è transitorio, che è un fenomeno passeggero e ve lo trovate di fronte dopo venti mesi assai sano, assai forte, più forte ancora, perché il popolo italiano gli ha dato, in fondo, ragione.
Che cosa può fare l'opposizione. Un giorno venne da me l'onorevole Facchinetti. Vi sembrerà strano che io gli abbia insegnato il modo di fare l'opposizione, gli abbia quasi consegnato il manuale del perfetto oppositore. Per quanto io sia un uomo selvatico, anzi salvatico, come si dice in questi momenti, sono capace di queste finezze. Gli dissi: «-Voi dovete fare l'opposizione e la potete fare in due modi: in un modo concreto, in un modo di dettaglio. Vuol dire: voi vedete le leggi, i provvedimenti che presenta il Governo fascista. Se sono buone, le approvate; se sono cattive, le respingete o le modificate. Ma potete fare un'altra opposizione: una opposizione di principio; una opposizione di lunga portata, anche verso l'avvenire. Noi abbiamo vissuto due grandi esperienze storiche, noi abbiamo avuto la fortuna di vivere due grandi esperienze: l'esperienza russa e l'esperienza italiana, che hanno dei punti di contatto in ciò: che, più o meno voracemente, ognuna di queste esperienze ha mangiato l'89, cioè quella parte di immortali principi che non si è ritenuta più adatta all'attuale clima storico. Ebbene, cercate di studiare, voi che fate l'opposizione, se non sia il caso di trarre una sintesi, di non fermarsi eternamente in due posizioni antagonistiche, di vedere se questa esperienza può essere feconda, vitale, dare una nuova sintesi di vita politica.
«-Questo il compito per una opposizione brillante, che non si abbandoni ad un meschino pettegolezzo politico, ma che assurga qualche volta alla comprensione e alla trattazione dei grandi problemi della storia-».
Facchinetti. — Su questo punto ho detto che aveva ragione.
Mussolini. — Ma non avete seguito il mio consiglio!
Prima di passare a vedere che cosa si può fare per il futuro, credo che valga la pena di esaminare se c'è possibilità di trarre da queste circostanze che hanno una certa solennità, e ad ogni modo rappresentano un inizio di vita nuova, un cominciamento, come si dice in certo gergo filosofico, di trarre una sintesi dal travaglio storico che abbiamo vissuto dal 1919 ad oggi.
È un tentativo che faccio: non so se vi riuscirò.
Lo Stato liberale, quel complesso di dottrina e di pratica corrente che si assomma in questo termine di Stato liberale, esce dalla guerra malconcio. Esce dalla guerra con i muscoli esauriti, con una circolazione del sangue assai stracca. Ciò è facilmente comprensibile: la guerra è stato uno sforzo enorme, imponente, estenuante.
Tutti gli Stati, tutti i regimi ne hanno sofferto e non poteva non soffrire il regime che era il più impreparato, mentre aveva soltanto la preparazione di un esercito, il che è cosa profondamente diversa. E lo abbiamo visto!
Contro questo Stato liberale, che era diventato una espressione priva di qualsiasi contenuto materiale, si scatenarono due offensive. La prima offensiva è quella sovversiva che culminò con l'occupazione delle fabbriche. Non bisogna credere tuttavia che, dopo questo, gli elementi antifascisti non abbiano dato altra prova di attività, perché tali attività antifasciste vanno sino all'agosto 1922, cioè a due mesi prima della marcia su Roma, al famoso sciopero legalitario proclamato, e fu nostra fortuna, dalla Alleanza del lavoro.
Ritengo però che l'occupazione delle? fabbriche rappresenti il massimo sforzo compiuto dai partiti socialisti nel dopoguerra. Ma l'occupazione delle fabbriche non poteva essere fine a sé stessa. L'occupazione delle fabbriche in tanto avveniva in quanto si fosse in un dato momento usciti dalle fabbriche per impadronirsi dello Stato.
I socialisti non osarono, i socialisti ebbero paura. E non dico paura nel senso fisico, banale, offensivo della parola.
I socialisti responsabili, di fronte alla realtà dei fatti, dissero: «-E poi?-».
Eravamo nel 1920. Vi era una situazione interna difficile; avevamo. 15 o 20 miliardi di deficit, tutta l'Europa era percorsa da quella che fu chiamata la vague de paresse, l'ondata della pigrizia, del non lavoro. Io chiamo questa la tragedia della paura. Non osaste: il poi vi spaventò!
Voi sapevate che ad un dato momento non avreste saputo frenare queste masse, molti elementi delle quali credevano che la rivoluzione socialista consistesse nel prendere, nell'assidersi più comodamente al banchetto della vita, mentre la rivoluzione socialista non poteva essere che una nuova organizzazione economico-sociale di un dato aggregato nazionale.
Ma se voi avete avuto la tragedia della paura, noi ne abbiamo avuta un'altra: la nostra è la tragedia dell'ardimento.
Questo primo colpo aveva danneggiato lo Stato liberale; ma dopo ne abbiamo degli altri. Alla occupazione delle fabbriche corrisponde nel triennio successivo l'occupazione delle città. Noi occupiamo le città. Da questo momento lo Stato non esiste più. È allora che io dico: così non può andare: di due fare uno; non si può essere Costantinopoli ed Angora, non si può essere Roma e Milano.
Bisogna uscire da questa situazione paradossale. Siamo alla Marcia su Roma. Questa è la tragedia del nostro ardimento. È infatti ardimento straordinario quello di un partito che non aveva nemmeno cinque anni di vita, che aveva soltanto tre anni di efficienza, che non aveva ancora potuto procedere ad una selezione dei suoi elementi e nel quale, in vista del successo, confluivano molti individui qualche volta non rispettabili, e che pure assumeva il potere! All'indomani stesso della sua vittoria cominciava ad avere qualche preoccupazione. Ciò era chiaro al mio spirito, perché se ho fatto un colpo di Stato, non ho fatto un colpo di testa.
Il Partito sente più o meno oscuramente tutto il travaglio di questa sua formidabile anticipazione. Chiamo con me al potere, pure essendo vittorioso su tutta la linea, pure avendo 52.000 uomini armati in Roma che avrebbero fatto tutto quello che io volevo si facesse, chiamo uomini di tutti i Partiti, e dico: «-Venite con me a collaborare, perché noi siamo giovani, inesperti, e perché il compito che ci attende è immenso, e fa tremare le vene e i polsi-». In questa Camera vi sono degli ex ministri: c'è un ministro liberale, l'onorevole De Capitani, un ministro popolare, l'onorevole Cavazzoni, un ministro democratico-sociale, l'onorevole Di Cesarò. Io li chiamo a testimoni se nei mesi in cui hanno lavorato con me c'è stato mai uno screzio qualsiasi, se la collaborazione non è stata fraterna, ispirata a cameratismo, ad obbiettività concrete, nonostante le nostre diverse idealità e dottrine.
Ora siamo di fronte al domani; ma prima è necessario vedere con occhio che vorrei chiamare clinico quale è la situazione dell'Italia odierna. Nessuno può negare, a parte coloro che sono come gli emigrati di Coblenza, che vedono sempre nero per necessità di cose e per motivi di polemica, che non ci sia un ritmo aumentato di vita. Nessuno può negare che tutti i gangli del sistema nervoso della Nazione siano restaurati. Certamente non voglio dipingere un quadro roseo. Nutro sfiducia: (si ride) ci sono punti nerissimi e penombre: questa è la vita. Ma se calcolate quello che era l'Italia nei primi mesi dell'agosto 1922, quando i fascisti si accampavano a Bologna, quando scendevano a Trento e patteggiavano col governatore della città, dovete ammettere che un gran cammino è stato percorso e che il merito di ciò va dato al Partito fascista.
Sono così obbiettivo e sincero, che vi dico che la pressione c'è stata e c'è ancora; ma che è mio proposito di alleviarla. Abbiamo già cominciato, del resto: abbiamo diminuito la tassa di ricchezza mobile ai ferro-tranvieri, abbiamo ridotto l'imposta sul vino, abbiamo attuate altre agevolazioni. Tuttavia il caro-viveri, i cambi, mi preoccupano. Se un finanziere eccelso mi dicesse come qualmente si possono togliere queste penombre dal quadro, gli sarei grato della sua collaborazione.
La situazione interna è molto migliorata e vigilo a che questo miglioramento continui.
Non credo necessario soffermarmi sulla politica estera che non è stata oggetto di grandi critiche. Anche non ne voglio sopravalutare il successo, poiché non è conveniente, non è elegante; c'erano tante piccole e grandi questioni che avevano diviso gli italiani, che avevano prodotto uno squilibrio morale profondissimo e sono state risolte in maniera che ritengo soddisfacente per gli interessi italiani.
Non v'è dubbio che vi siano ancora grandi questioni da risolvere; massima quella delle riparazioni, agevolata ora dal fatto che Stresemann ha dichiarato di accettare il piano Dawes; ma credo che la situazione dell'Italia sia grandemente migliorata di fronte a quella degli altri Stati. Bisogna vigilare, perché vi sono Trattati che furono fatti con uno spirito che non può essere il nostro; perché i Trattati si fanno con la spada in pugno o secondo giustizia, e non si è fatto né l'una cosa né l'altra. Perciò il territorio europeo è pieno, qua e là, di punti di dolore, di punti di protesta, di squilibri potenziali, che domani possono provocare, non dirò la catastrofe, perché io non ci credo, ma la crisi; non dico la catastrofe, perché i popoli hanno ancora le ossa ammaccate per quella che si chiuse nel 1918.
Ma bisogna vigilare. Ecco perché accanto alla politica estera di pace — perché la sola pace ci può permettere di ritornare in piedi — bisogna tenere pronte ed efficienti tutte le nostre forze di terra, di mare e di cielo.
Si è detto: «-Che cosa pensate della Società delle Nazioni?-». E ciò perché nel discorso della Corona non si è fatto un accenno all'Istituto Ginevrino. Rispondo: nella Società delle Nazioni bisogna restarci.
Bisogna restarci non fosse altro perché ci sono gli altri, i quali, se ce ne andassimo, sarebbero contentissimi; farebbero i loro affari, tutelerebbero i loro interessi senza di noi, e magari contro noi.
Che cosa possa diventare la Società delle Nazioni, se essa sia una cosa seria o un tentativo puramente embrionale destinato a fallire, se la Società delle Nazioni possa diventare un super-Stato — ciò che io escludo — che annulli l'autorità degli altri Stati, ed abbia un super-esercito, il che è impossibile, tutto ciò può essere oggetto di discussione in separata sede. Ma nella Società delle Nazioni si trattano problemi e si prendono decisioni che ci interessano e l'Italia non può rimanere assente.
Ritornando alla politica interna, io mi propongo di far funzionare il Parlamento. Ciò non deve stupire. Il Fascismo è stato sempre elezionista, anche troppo: ora sarebbe ridicolo che, essendo elezionisti, non accettassimo anche le conseguenze di questo elezionismo, cioè il Parlamento, cioè l'attività legislativa.
Vi ho già detto che di decreti-legge non se ne faranno. Bisogna discutere i bilanci; abituare la gente a leggere nelle cifre: quello è il vero controllo.
l Governo presenterà i progetti di legge alla Camera, che li discuterà, li migliorerà, li approverà. Così intendo l'attività legislativa del Parlamento di domani. Infine, rinvigorire tutte le forze dello Stato e cercare di inserire nella vita della Nazione tutte le forze che alla Nazione vogliono venire.
Oggi, a 20 mesi di distanza, io, che non mi sento infallibile affatto, che sono uomo come voi, con tutti i difetti e le qualità che la natura umana comporta, io stesso dico, oggi, come venti mesi fa, che io non cerco nessuno, ma non respingo nessuno, perché l'opera di ricostruzione della Patria è ancora difficile, è ancora lunga, e tutte le competenze, e tutti i valori, e tutte le buone volontà devono essere utilizzate.
Infine, poniamo il problema nei suoi termini concreti: che cosa pensate di fare? Come pensate di uscire (non parlo dei comunisti che sono fuori di questione) come pensate di uscire da questa vostra pregiudiziale che vi immobilizza? Con un tentativo insurrezionale? Ma non c'è da pensarci nemmeno; voi non ci pensate nemmeno, non vi passa nemmeno per la controcassa dell'anticamera del cervello, perché voi sapete che in 24 ore, anzi 24 minuti, tutto sarebbe finito.
Tupini. — La respingiamo per principio, noi!
Mussolini. — Voi siete fuori di questione.
Se voi escludete dalle vostre possibilità di domani il conato insurrezionale, e non avete avuto mai l'animo di blanquisti — ve ne ho dato io un, po' di blanquismo nel 1912 e nel 1913 — voi dovete certamente fare l'esame di coscienza e dire: «-Che cosa succede di noi?-». Perché non si può essere assenti, non si può rimanere sempre estranei; qualche cosa, bene o male, bisogna dire o fare, una collaborazione positiva o negativa deve esserci, nel vostro stesso interesse; perché il giorno in cui restate assenti, indifferenti, come gli stiliti che stanno sulle colonne ad aspettare il miracolo, voi vi sarete condannati all'esilio perpetuo dalla storia.
È un quesito che pongo alla vostra coscienza; voi lo risolverete; non tocca a me risolverlo.
Mi accadeva giorni fa di leggere nella Histoire de la Science Politique di Janet tutto un lungo studio che questo autore dedica al modo assai prudente con cui le Assemblee di America e di Francia procedettero alla dichiarazione degli immortali principi. I vostri predecessori erano assai timorosi, dubbiosi, e dicevano: «-Badate che è verissimo che il Governo senza la legge può condurre al dispotismo, ma il popolo senza la legge va all'anarchia, va al caos, va alla disintegrazione nazionale-».
E Turgot, uno degli ottantanovardi più intelligenti e più fini e meticolosi, poneva un limite netto al diritto e alla libertà. Se tutti gli uomini che sono vissuti fin qui fossero stati sepolti in un avello, tutta quanta la superficie della terra oggi sarebbe ricoperta di pietre, e non avremmo noi forse il diritto di demolire questi monumenti sterili e di disperdere queste fredde ceneri per nutrire i vivi?
Io dico: sì. Ebbene, noi, che ci sentiamo di rappresentare il popolo italiano, dichiariamo che abbiamo il diritto e il dovere di combattere ancora, di demolire i monumenti sterili delle vostre ideologie, abbiamo il diritto e il dovere di disperdere le ceneri dei vostri e anche dei nostri rancori, per nutrire colla linfa potente, nel corso degli anni e dei secoli, il corpo augusto e intangibile della Patria.
Dopo questo discorso il Duce espresse, nei termini seguenti, il suo pensiero sugli ordini del giorno presentati:
Non accetto l'ordine del giorno che reca per prima la firma dell'on. Bentini. Egli ha accennato ad un caso tipo, cioè ad un condannato innocente. Io non escludo di poter rivedere il suo caso, perché nessun cittadino, malgrado il cosiddetto regime del terrore, deve rimanere nelle carceri, se realmente innocente.
Non accetto gli ordini del giorno degli onorevoli Gonzales, Amendola e Gennari, né quello che reca per prima la firma dell'onorevole Maffi.
Prendo atto dell'ordine del giorno dell'onorevole Wilfan e prendo atto anche dell'ordine del giorno dell'onorevole Boggiano-Pico, che non è né approvabile né disapprovabile.
Prego gli onorevoli Sarrocchi, Sandrini, Celesia e Marescalchi di ritirare il loro ordine del giorno e di aderire a quello che reca per prima la firma dell'onorevole Delcroix. Respingo l'ordine del giorno dell'onorevole Lussu, e prego poi gli onorevoli Barbaro, Mammalella, Madia e Romano di ritirare il loro ordine del giorno e di ripresentarlo in sede di esercizio provvisorio.
Presidente. — È già stato ritirato.
Mussolini. — Dichiaro, infine che il Governo accetta l'ordine del giorno dell'onorevole Delcroix.
Si fece la votazione nominale su l'ordine del giorno Delcroix, accettato dal Governo: su 468 votanti esso riportò 361 voti favorevoli e 107 contrari. Il testo dell'ordine del giorno Delcroix è il seguente: «-La Camera, esprimendo la sua piena fiducia nel Governo, nell'opera da esso compiuta e nel programma per l'avvenire, approva l'indirizzo di risposta al Discorso della Corona-».
Roma, 10 giugno 1924: MUSSOLINI si reca nella sede della Società "Dante Alighieri"
Il 10 giugno 1924 il Duce visitò la sede della Società «Dante Alighieri» in Roma. Il Presidente, on. Paolo Boselli, gli offrì la prima medaglia d'oro per i benemeriti dell'italianità, e S. E. il Capo del Governo gli rispose nei termini seguenti:
Eccellenze! Signori!
E' per un vario ordine di ragioni che questa adunata ha per me una solennità speciale.
La cerimonia tocca profondamente il mio spirito; e, prima di tutto, perché mi ricorda l'evento dell'annessione di Fiume.
Molti credono che la cosa sia stata facilissima. Non è così. C'era il Trattato di Rapallo firmato e che doveva essere rispettato; c'erano documenti segreti, non pubblicati, ma che esistevano, che mutilavano la città. Questo rendeva difficilissimo, dal punto di vista politico, l'annessione della città; ma pure siamo riusciti: dico «-siamo-», perché anche il popolo contribuì con la sua ritrovata disciplina, a rendere possibile di annettere Fiume all'Italia.
In secondo luogo questa cerimonia mi commuove perché si svolge nella sede della «-Dante Alighieri-»: l'Associazione della quale Voi, onorevole Presidente, avete tracciato i compiti attuali e futuri con la parola mirabile e ardente di amor patrio e così vibrante di passione italiana.
Veramente si può dire che in Voi, fascista ad honorem, si ricongiunge tutta la più nobile tradizione italiana del Risorgimento, dai nostri maggiori a questo impetuoso rigoglio della giovinezza odierna.
Vi ringrazio, onorevole Presidente, e con Voi ringrazio il Sodalizio del quale siete il più fervido animatore.
L'offerta della medaglia che s'intitola dal vostro nome, può consistere in un premio per il passato, ma io voglio considerarla anche come uno sprone per un migliore avvenire.
Roma, 12-13 giugno 1924: MUSSOLINI interviene alla Camera sull'assalto degli sciacalli
Mentre si discuteva alla Camera l'esercizio provvisorio, un fatto di cronaca nera, estraneo alla lotta politica, venne a turbare la vita nazionale. Il deputato socialista Matteotti veniva rapito da delinquenti comuni, e poi si seppe che era stato ucciso. Gli avversari del Fascismo, che aspettavano da un pezzo un appiglio qualunque per fare la loro immonda speculazione politica, tentarono invano di coinvolgere in questo fatto la responsabilità del Fascismo e dello stesso Governo. In breve tempo, le prove dei fatti e le severe punizioni dei colpevoli mostrarono chiaramente all'opinione pubblica quale ignobile castello di calunnie si era voluto affastellare contro il Fascismo, da politicanti e giornalisti che si erano scagliati, come iene e sciacalli, su quel cadavere. Ma, al primo momento e per qualche tempo dipoi, gli spiriti deboli, i malcontenti, coloro che avevano subito a stento la loro sconfitta e la loro eliminazione dalla vita pubblica, non indietreggiarono di fronte a una calunnia che minacciava di ostacolare l'opera intensa, diuturna, ricostruttrice e rinnovatrice che veniva compiendo il Fascismo. Il cadavere di Matteotti fu gettato dì traverso su la via del Fascismo, nella vana illusione di fermare la marcia irresistibile. Ma la verità si affermò pienamente e la canea dei calunniatori fu sgominata per sempre.
Il Duce intuì subito, fino dal primo momento in cui giunse la notizia della scomparsa dell'on. Matteotti, la speculazione politica che si sarebbe tentata e - forte della propria coscienza purissima - alla Camera dei Deputati, nella tornata del 12 giugno 1924, fece le seguenti precise dichiarazioni:
Credo che la Camera sia ansiosa di avere notizie sulla sorte dell'on. Matteotti, scomparso improvvisamente nel pomeriggio di martedì scorso in circostanze di tempo e di luogo non ancora ben precisate, ma comunque tali da legittimare l'ipotesi di un delitto, che, se compiuto, non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del Governo e del Parlamento.
Comunico alla Camera che, appena gli organi di polizia furono informati della prolungata assenza del deputato Matteotti, io stesso impartii ordini tassativi per intensificare le ricerche a Roma e fuori Roma, in altre città e ai passi di frontiera.
La polizia, nelle sue rapide indagini, si è già messa sulle tracce di elementi sospetti e nulla trascurerà per far luce sull'avvenimento, arrestare i colpevoli ed assicurarli alla Giustizia.
Il giorno seguente si diffuse la persuasione che l'onorevole Matteotti non era soltanto scomparso, ma era stato ucciso. Già si delineava nettamente l'opera calunniatrice degli avversari, e il Duce fece alla Camera dei Deputati, nella tornata del 13 giugno 1924, le seguenti dichiarazioni:
Voi avete udito le mie dichiarazioni di ieri sera.
Non c'era, non poteva esservi, né una parola di meno né una parola di più. In quel momento io ero il rappresentante della legge e del potere esecutivo. Dovevo dire che i colpevoli saranno rintracciati e affidati alla giustizia.
La prima notizia della scomparsa dell'on. Matteotti fu nota alle ore 18 di mercoledì. Nelle 24 ore la polizia ha identificato tutti coloro che hanno partecipato al fatto e, quantunque essi fossero prontamente partiti per varie direzioni, ne sono già stati arrestati tre: il Dumini a Roma, il Mazzola a Firenze, il Putato a Milano. Gli altri tre o quattro sono accerchiati e, se si fosse fatto un po' meno di clamore, molto probabilmente a quest'ora sarebbero già relegati nelle carceri.
Di ora in ora seguo la situazione. Credo che entro oggi o, al più tardi, nella serata, tutti coloro che hanno partecipato al misfatto saranno assicurati alla giustizia.
Non ho bisogno di dire che condivido tutto quello che hanno detto il Presidente e gli onorevoli Grandi, Soleri e Delcroix. Se c'è qualcuno in quest'aula che abbia diritto di essere addolorato, esasperato, sono io. Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato qualche cosa di diabolico contro di me poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione.
Sabato, parlando alla Camera, mi ero messo al di là della maggioranza e della minoranza, mi ero diretto al Paese, mi ero messo a contatto con la Nazione Le mie parole erano state accolte con soddisfazione vivissima; si era determinata una specie di détente nell'Assemblea, e un'atmosfera di concordia e di pacificazione nel Paese. Io potevo dire ormai di essere giunto quasi al termine della mia fatica; ed ecco che il destino, la bestialità e il delitto tentano — non credo in modo irreparabile — di turbare questo processo di ricostruzione morale!
La situazione, o Signori, è estremamente delicata.
Quello che è accaduto ieri in quest'aula è un sintomo che non può essere trascurato dal Governo.
Se si tratta di deplorare, se si tratta di condannare, se si tratta di compiangere la vittima, se si tratta di procedere alla ricerca di tutti i colpevoli e di tutti i responsabili, siamo qui a ripetere che ciò sarà fatto tranquillamente e inesorabilmente; ma se da questo episodio tristissimo si volesse trarre argomento non per una più vasta riconciliazione degli animi sulla base di un accettato e riconosciuto bisogno di concordia nazionale, ma se si cercasse di inscenare una speculazione di ordine politico che dovrebbe investire il Governo, si sappia chiaramente che il Governo punta i piedi, che il Governo si difenderebbe a qualsiasi costo, che il Governo, avendo la coscienza enormemente tranquilla, ed essendo sicuro di avere già fatto il suo dovere e di farlo in seguito, adotterebbe i mezzi necessari per sventare questo gioco che, invece di condurre alla concordia gli animi degl'italiani, li agiterebbe con divisioni ancor più profonde.
Questo andava detto poiché i sintomi non mancano: la legge avrà il suo corso, la polizia consegnerà i colpevoli all'Autorità giudiziaria, che si impadronirà della questione e spiccherà i mandati di cattura necessari. Di più non si potrà chiedere al Governo. Se voi mi date l'autorizzazione di un giudizio sommario, il giudizio sommario sarà compiuto; ma fino a quando questo non si può chiedere e non si deve chiedere, bisogna mantenere i nervi a posto e rifiutarsi di allargare un episodio nefando e idiota in una questione di politica generale e di politica di Governo.
Ora la Nazione dimostra per mille segni la sua fiducia nell'opera del Governo, per quello che gli spetta come potere esecutivo, e dico a voi, rappresentanti della Nazione, che questa fiducia non sarà delusa.
Giustizia sarà fatta, dev'essere fatta, perché, come qualcuno di voi ha detto, il delitto è un delitto di anti-fascismo e di antinazione. Prima di essere orribile, è di una umiliante bestialità.
Non si può esitare, davanti a casi siffatti, a distinguere nettamente quello che è politica da quello che è crimine. In altre località l'Italia ha dimostrato che questa distinzione dev'essere sempre più profonda, più netta, più inequivocabile poiché noi siamo affezionati alle nostre idee e tali idee, tali passioni, tale martirio difenderemo anche con la vita. Vogliamo che i buoni cittadini italiani non si confondano e non confondano, che sappiano distinguere la zona della delinquenza dalla zona del sacrificio e dell'ideale.
Questo è il mio dovere, questo dovere sarà compiuto.
Ultima modifica di Admin il Gio 22 Mar 2018, 16:02 - modificato 1 volta.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1924
Roma, 24 giugno 1924: MUSSOLINI, su Matteotti, si associò al Sen. Tittoni.
Roma, 24 giugno 1924: MUSSOLINI, su Matteotti, si associò al Sen. Tittoni.
Al Senato, nella tornata del 24 giugno 1924, il Sen. Tittoni commemorò l'on. Matteotti. S. E. il Capo del Governo si associò alle parole del Sen. Tittoni con le seguenti dichiarazioni:
Il Governo si associa alle parole di deplorazione per l'abbominevole delitto testé pronunciate dal Presidente di questa Assemblea. Il delitto contro la persona dell'on. Matteotti ha ferito e commosso profondamente l'opinione pubblica italiana, la quale a gran voce ha domandato giustizia. La Giustizia è il fondamento del regime e non a caso l'attuale Governo volle che al culmine della piramide dello Stato vi fosse il Capo del potere giudiziario. Il Governo si associa anche all'augurio formulato dal Presidente del Senato, che cioè da questo delitto che ha avuto così vaste ripercussioni nella coscienza nazionale, possa cominciare un periodo di concordia e di pace fra gli italiani.
Nella stessa tornata, il Capo del Governo esaminò la situazione politica interna con il seguente discorso:
Onorevoli Senatori!
Credo superfluo richiamare la vostra attenzione sulle dichiarazioni che sto per fare e che acquistano, dal momento delicato che attraversiamo, un rilievo e un'importanza degni della più profonda meditazione. Quello che abbiamo vissuta e che stiamo ancora vivendo è una grave crisi morale e politica. Crisi benefica, se un senso di responsabilità grande assisterà voi, come non ne dubito, e tutti gli italiani.
Non ho bisogno di ripetervi tutta la mia deplorazione e tutto il mio orrore per il delitto commesso contro l'onorevole Matteotti. Ritengo che nessuno potrà dubitare della sincerità dei miei sentimenti al riguardo. Potrei aggiungere la frase di Talleyrand a proposito del ratto e dell'uccisione del Duca di Enghien: «-Non è soltanto un delitto ma è un errore-». Ci sono tre elementi nella situazione che ritengo opportuno di distintamente esaminare. L'elemento morale della deplorazione e del cordoglio che la Nazione ha unanimemente sentito e manifestato. Si può dire che fra i primi ad imprecare contro il delitto ed i responsabili di esso, sono stati i fascisti, tutti i fascisti responsabili.
Sull'elemento che chiamerò d'ordine giudiziario, poco v'è da dire per ovvie ragioni. Tuttavia ricorderò che nelle prime ventiquattro ore dopo la denuncia della scomparsa, furono arrestati i principali indiziati, e che nei giorni successivi altri furono arrestati in diverse località d'Italia e che non si è guardato e non si guarderà alle posizioni alte o basse dei colpevoli. La giustizia seguirà il suo corso inflessibilmente, e colpirà chi deve inesorabilmente.
La Magistratura italiana, sulla cui probità e capacità il popolo è certo di poter contare, farà sicuramente tutto il suo dovere. Dubitare, è cosa indegna, e sono sicuro che il Senato italiano si associerà alla fiera protesta della Magistratura contro certe insinuazioni straniere.
Nell'attesa, però, mi sia permesso di dire che non è bello e non è morale intraprendere sui pubblici fogli, e spesso per ragioni semplicemente materiali, un'istruttoria accanto all'istruttoria, un processo accanto al processo, perché, mentre la Magistratura farà giustizia, troppa gente, per ragioni di partito, per rancori personali e rivalità d'interessi economici, si sforza di eseguire una specie di linciaggio che sarebbe sommamente deplorevole al pari di ogni tentativo di salvataggio. L'autorità giudiziaria che farà luce completa, non può, non deve essere turbata nel suo altissimo compito da propalazioni di notizie fantastiche che giovano ai nemici interni ed esterni della Nazione.
Sulla natura del delitto io non ho da esprimere giudizi. La istruttoria e il pubblico dibattimento ci daranno la ricostruzione e le fasi del misfatto nonché le sue causali remote e vicine.
In questa Assemblea, onorevoli Senatori, la situazione va considerata da un punto di vista strettamente politico.
Anzitutto occorre che la ragione riprenda i suoi diritti sul sentimento, in modo da esaminare la situazione senza cadere in eccessi opposti ed egualmente arbitrari. Bisogna in primo luogo rendersi conto che l'onore della Nazione italiana non è affatto in gioco.
Se un delitto o più delitti atroci bastassero a gettare un'ombra sulla moralità e sul grado di civiltà di un popolo, che cosa bisognerebbe dire di un Paese, dove, come è stato recentemente documentato, si sono verificati nel dopoguerra 400 delitti politici, alcuni dei quali particolarmente tragici e clamorosi? In questi giorni le correnti che si chiamano di sinistra, di tutta Europa, si sono scagliate contro il Fascismo ed il Governo italiano rendendoli responsabili l'uno e l'altro di un inconsulto e nefando gesto di terrore.
I socialisti italiani e stranieri che, prendendo a motivo l'episodio atroce, comiziano tempestosamente contro il sedicente terrore del Fascismo italiano dimenticano il terrore effettivo che essi hanno esercitato in diverse regioni d'Europa.
Qualcuno potrà dirmi che tutto ciò appartiene al passato. Ma disgraziatamente i propositi per l'avvenire non sembrano migliori. Molti di coloro che hanno fatto del cadavere di Matteotti la loro tribuna, sarebbero pronti a esercitare il terrore nelle forme più spietate. Risulta da questo articolo pubblicato dall'ex direttore dell'Avanti!, G. Menotti Serrati, sul giornale La Pravda di Mosca, nella recentissima data del 18 aprile:
«-Le masse aspirano alla vendetta. Quando esse alzeranno il capo saranno terribili. Una volta il proletariato aveva perdonato alla borghesia. Fu troppo buono verso di essa, in un momento in cui poteva regolare i propri conti per tutte le torture patite durante la guerra mentre la borghesia si arricchì a sue spese. Ma oggi esso non perdonerà più.-»
Può dirsi delitto di folla il massacro e le orribili mutilazioni inferte ai marinai uccisi a Empoli, ma l'eccidio del «Diana» fu freddamente premeditato e consumato, così come l'esecuzione di Scimula e Sonzini. Con questa differenza che, mentre l'assassinio di Matteotti è stato unanimemente deplorato, l'Avanti!, organo ufficiale del Partito socialista italiano, stampava che l'uccisione di Scimula e Sonzini, avvenuta in una nebbiosa notte del settembre 1920 a Torino, doveva essere considerata come un semplice infortunio connesso alla loro professione di fede nazional-fascista. Ancora recentemente in fogli sovversivi si tesseva l'apologia dei quattro magnifici bombardieri del Diana e dell'eroe che ha accoppato il rettile Nicola Bonservizi. Se non fossi sospinto dal desiderio di arrivare sollecitamente ad altre considerazioni, potrei ampiamente documentare che tutti i paesi hanno avuto i loro delitti politici più o meno atroci. E del resto stimo anche più discreto non scendere ad esemplificazione vicina o lontana.
Mi permetta il Senato, a questo punto, di rilevare con soddisfazione la correttezza di quei Parlamenti e Governi esteri e in particolar modo del Consiglio Nazionale Svizzero che si sono rifiutati, come le buone regole internazionali impongono, di mescolarsi in questi che sono affari interni della Nazione italiana. Tutte le nazioni, del resto, e prima e dopo la guerra, hanno traversato crisi morali, politiche, economiche, finanziarie, che sembravano mettere tutto in giuoco, perché torcevano tutte le fibre della Nazione.
Non è dunque questione di regime, come si afferma avventatamente in Italia e altrove. E in ogni caso bisogna rendersi conto che l'attuale regime esce da una rivoluzione fatta da un Partito che aveva appena tre anni di vita e le cui formazioni improvvisate e tumultuarie non avevano permesso di esercitare i delicati controlli necessari.
È questa che io ho chiamato alla Camera elettiva la tragedia dell'ardimento.
Le insurrezioni, come tutti i grandi movimenti sociali, mettono insieme i buoni e i cattivi, gli asceti ed i violenti per lucro, gli idealisti e i profittatori.
Le selezioni degli individui, secondo le loro capacità, e la loro probità, assai difficili a farsi in tempi normali, sono tanto più difficili in tempi eccezionali. Talora accade che siano provocate ed accelerate dai campanelli d'allarme di una tragedia improvvisa.
Critiche e accuse di vario genere sono state mosse al ministero dell'Interno. Si è voluto dare l'impressione che nel palazzo del Viminale tutto fosse nefando e corrotto. Si è parlato della necessità di una disinfezione in grande stile. Anche qui le parole e i disegni sono andati al di là della realtà concreta. Al Viminale c'erano e ci sono centinaia di grandi e piccoli funzionari rispettabili, onesti, ligi assolutamente al loro dovere. I capi di questa grande Amministrazione sono al di fuori di ogni sospetto. Ed io sono convinto che con i provvedimenti già presi e da prendere, il Ministero dell'Interno sarà ricondotto alla piena normalità dei suoi organi e delle sue funzioni.
Mi si è obiettato di essermi disinteressato degli affari della politica interna. Ciò non corrisponde al vero, perché il problema fondamentale di tale politica è stato la mia costante, assidua, vorrei dire, angosciosa preoccupazione e fatica quotidiana.
All'indomani della marcia su Roma mi sono trovato di fronte ad una mole imponente di problemi di politica interna che, per ragioni obiettive ed insite nella situazione, nessun altro avrebbe potuto affrontare.
Si trattava di riassorbire la illegalità nella costituzione, si trattava di rimettere grado a grado, ma incessantemente, nell'alveo della legalità, la vasta fiumana che aveva rovesciato gli argini.
Voi sapete, onorevoli Senatori, che è assai facile, come diceva il Poeta, evocare gli spiriti. Ma poi non è altrettanto facile dominarli.
Vi sono rivoluzioni, che, come la inglese, ha scosso per mezzo secolo quel popolo. Si può dire che la crisi francese scatenata nell'89 è durata senza interruzione fino al 1870. Che meraviglia se la crisi scoppiata nel 1922 o piuttosto la crisi generale del dopoguerra, che in Italia è stata specialmente tormentosa per un vario e complesso ordine di ragioni, non si è ancora risolta in un equilibrio definitivo?
Non vi dispiaccia se ancora una volta sottopongo al vostro illuminato giudizio gli elementi che devono documentare lo sforzo talvolta schiacciante da me compiuto in venti mesi come Capo del Governo e ministro dell'Interno per ricondurre alla normalità il Paese.
All'indomani della marcia su Roma, l'immediato problema che dovetti affrontare fu quello di far rientrare alle loro sedi 60.000 giovani che erano entrati in Roma, armati di tutto punto. Ciò ch'io riuscii ad ottenere colla massima disciplina, senza incidenti di sorta, in 48 ore.
Volli, per fissare dei limiti al movimento, che i fascisti si limitassero a sfilare davanti alla Maestà del Re e davanti ai Duchi della Vittoria e del Mare. Quasi immediatamente dopo, con una lettera che varrebbe la pena di rileggere, proibii severamente agli ufficiali della guarnigione di Roma di manifestarmi la loro simpatia perché allora pensavo, come oggi penso, che l'esercito non deve fare della politica, né palese né segreta, né diretta, né indiretta. In ciò sta la base granitica, la gloria e il principio dell'eroico esercito italiano.
Chiamai al Governo uomini di tutti i Partiti. Riapersi il Parlamento e ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni poteri. Affrontai e risolsi di lì a poche settimane il problema gravissimo degli squadristi. Ho esercitato i pieni poteri per un anno. Potevo chiedere la proroga. Avrebbero votato a favore anche i popolari. Vi rinunciai. Non avevo proposto leggi eccezionali e mi proponevo di fare un altro passo innanzi sulla strada della legalità.
Nel frattempo avevo abolito tutti quelli che potevano apparire ed erano qua e là dei doppioni di Prefetti, come gli alti commissari e i fiduciari provinciali del partito.
Ordinai il catenaccio per le iscrizioni, al partito, mentre si procedeva allo scioglimento quasi quotidiano di Fasci singoli e di intere Federazioni, sempre allo scopo di adeguare il partito alle necessità costituzionali del Governo.
Nel campo sociale la mia politica interna si sforzò ed ottenne di conciliare le forze necessarie della produzione, ristabilendo la disciplina e la continuità del lavoro.
Sciolta regolarmente la Camera, furono nei termini prescritti dalla legge convocati i comizi elettorali. La lista nazionale ha raccolto ben 4 milioni e ottocentomila voti. Si può seriamente sofisticare su queste cifre? Negare la realtà non è un giuoco assurdo? Esse indicano il consenso in proporzioni imponenti.
Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna si delinearono ancora più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi capisaldi fondamentali:
1°) far funzionare regolarmente l'Istituto parlamentare come organo del potere legislativo, restituendogli le sue capacità e il suo prestigio;
2°) regolare, dal punto di vista della Costituzione, la situazione della Milizia Volontaria;
3°) reprimere i superstiti illegalismi ai margini del Partito;
4°) chiamare all'opera di ricostruzione tutte le forze vive della Nazione, cioè tutti gli elementi di qualsiasi origine che non ignorano la Patria.
Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono direttamente a questa meta; ad accelerare, cioè, a perfezionare l'entrata definitiva del Fascismo nell'orbita della costituzione, a fare del Fascismo un centro di raccolta e di conciliazione nazionale.
Dissi, nel mio discorso del 10 aprile ai Romani: «Vogliamo dare cinque anni di pace e di fecondo lavoro al popolo italiano. Se altri può dire: Perisca la Patria purché si salvi la fazione, io grido invece: Periscano tutte le fazioni, compresa la nostra, ma sia grande, ma sia rispettata la Patria italiana».
E concludevo: «-Più grande è la vittoria, e più alti sono i doveri: doveri di lavoro, di disciplina, di concordia nazionale-».
Gli stessi principi io riaffermavo nel mio discorso alla maggioranza, e finalmente, nel mio discorso dell'8 giugno alla Camera, ho cercato, dopo una settimana di discussioni tempestose, di superare le posizioni necessariamente un po' statiche dei partiti, di rivolgermi direttamente alla Nazione, per disperdere le ceneri dei nostri e degli altrui rancori.
Non v'è dubbio che il mio discorso aveva forse stabilito i termini di quella possibilità di convivenza, necessaria al regolare funzionamento del Parlamento, mentre nel Paese si era diffusa la sensazione che un nuovo periodo di pace e di tranquillità assoluta stava per iniziarsi. Dei risultati di questa mia politica come Capo del Governo rivendico intera la responsabilità. Solo a me era concesso, non senza dura fatica, di esercitarla nella mia qualità di Capo del Partito. Tali risultati sono stati, io penso, non annullati, ma soltanto interrotti, dall'episodio tragico che è costato la vita all'onorevole Matteotti.
Il mio successore all'Interno sta a garantire che su quella linea si continuerà a marciare. Apro una breve parentesi per attestare la mia piena fiducia personale e politica nell'on. Federzoni. E poiché la verità va detta, si sappia che sono io che l'ho proposto a quell'ufficio. Non altri.
Mentre vi parlo la situazione politica è straordinariamente delicata e può essere prospettata nei termini seguenti. Da una parte le opposizioni, unite negli scopi immediati, divise nei metodi e nei fini mediati. Nel blocco delle opposizioni non ci sono più i comunisti, i quali hanno logicamente cercato di approfittare dell'episodio sciagurato per incitare le masse allo sciopero generale e instaurare la dittatura degli operai e dei contadini. Lo sciopero non c'è stato. Le masse hanno respinto le suggestioni comuniste. Il ritmo del lavoro non è stato turbato, se non in pochissime località e limitatamente a poche ore del lunedì sedici.
Credo che il Senato sarà d'accordo con me nel tributare un plauso al laborioso e ordinato popolo italiano.
I repubblicani affacciano ancora una volta la richiesta della Costituente, richiesta assurda che non ha nessuna giustificazione politica, e meno ancora storica, a mezzo secolo di distanza dai Plebisciti.
Mentre i democratici dell'opposizione costituzionale tendono a straniarsi dal blocco perché non ritengono opportuno assumere le responsabilità oltranziste, i socialisti massimalisti, gli unitari, i repubblicani, i popolari e gli altri elementi minori affacciano un complesso di assurde pretese che mirerebbero ad una specie di colpo di Stato nell'intento di annullare il suffragio del 6 aprile.
Riesce assai difficile contestare che, a lato del dolore e dell'orrore legittimo e umano, non si stia innestando una speculazione politica sulla tragedia.
Ora, alle richieste affacciate più o meno ufficiosamente e pubblicamente dal blocco delle opposizioni, io rispondo prima di tutto che il Governo deve restare al suo posto. Questo non esclude che dovrà trasformarsi, modificare la sua compagine, per renderla sempre meglio adatta al raggiungimento di quegli scopi di pacificazione nazionale da me chiaramente e ripetutamente indicati.
Io ho creato nell'ottobre 1922 una determinata situazione politica che ha evitato alla Nazione pericoli estremi. Ho il dovere di continuare a svolgere la mia azione su quelle direttive.
Non si tratta di restare al potere, che mi ha dato gravi preoccupazioni e molte amarezze; ma mi considererei l'ultimo degli uomini se evadessi, specie in un momento difficile all'interno e sotto una specie di pressione ambigua che viene anche dall'estero, da questa mia precisa morale e politica responsabilità.
Quanto alla Milizia, a proposito della quale si emettono giudizi superficiali, non si può pensare a scioglierla. Essa è ormai solidamente inquadrata e disciplinata. Si deve arrivare alla sua sistemazione nella Costituzione con compiti che saranno utilissimi ai fini della preparazione militare generale del paese. Gli studi sono già a buon punto.
Avanzare poi, sia pure come semplice manifestazione giornalistica e polemica, la pretesa dello scioglimento della Camera e delle elezioni generali, significa non rendersi conto che una terribile crisi politica devasterebbe ancora, per chi sa quanti mesi od anni, la vita della Nazione.
Questo freddo ed obbiettivo esame della situazione non è completo. Dall'altra parte sta il Fascismo, con i suoi ottomila gruppi in ogni angolo d'Italia, con le sue forze politiche, sindacali, amministrative sempre imponenti. L'asserzione che il Fascismo sia stato abbattuto dall'improvvisa bufera è fatta per trarre in inganno l'opinione pubblica italiana e straniera. Il Fascismo è stato soltanto percosso. In fondo, questo colpo gli ha giovato e più gli gioverà. Perderà le scorie funeste.
Ma dall'11 giugno in poi Fascismo e fascisti sono il bersaglio di una violenta campagna nazionale e internazionale. Il Partito che in Italia raccoglie indubbiamente il maggior numero di medaglie d'oro, di combattenti, di decorati, di mutilati, di uomini della coltura e del lavoro, di giovani ardenti e puri, viene quotidianamente martellato e denunciato come un Partito di criminali. Ma può il Fascismo soggiacere a questa campagna? Non può, non deve. Gli elementi più accesi sono già inquieti. Le due manifestazioni di Bologna sono l'indice di una tensione morale e politica che è già arrivata al suo punto massimo, specie in quelle regioni dell'alta e media Italia dove il Fascismo dispone di forze politiche preponderanti. In queste circostanze un incidente qualunque potrebbe avere le più gravi conseguenze.
Onorevoli Senatori!
Bisogna evitare con tutte le forze ciò che può creare in un certo senso l'irreparabile, cioè un aggravamento ulteriore della crisi che si è abbattuta improvvisamente sulla Nazione.
Il Senato ha oggi la ventura di essere al primo piano della scena politica italiana, non soltanto perché è il ramo del Parlamento che primo si riunisce dopo il dramma, ma anche perché è l'ambiente sereno dove le più tumultuanti passioni sono contenute dalla ragione e dall'esperienza. Ciò che qui sarà detto avrà una grande ripercussione nell'animo dei cittadini devoti alla Patria, nell'animo di quei milioni di cittadini che non hanno tessere, non parteggiano, ma fanno qualche cosa di meglio: lavorano in silenzio.
Per quello che mi riguarda, io confermo solennemente quanto ebbi a dichiarare alla Camera elettiva.
L'obbiettivo della mia politica generale di Governo resta immutato: raggiungere a qualunque costo, nel rispetto delle leggi, la normalità politica e la pacificazione nazionale, selezionare ed epurare con instancabile quotidiana vigilanza il Partito, nonché disperdere con la più grande energia gli ultimi residui di una concezione illegalista inattuale e fatale.
Tocca a voi, onorevoli Senatori, confortare col vostro giudizio questi fermi propositi. Voi sentite certamente, con il vostro squisito senso di patriottismo e di responsabilità, l'estrema delicatezza della situazione. La possibilità di uscire dalla situazione senza ulteriori urti più o meno violenti, esiste. Non si tratta di portare altri elementi di complicazione in una situazione che richiede il massimo sangue freddo; si tratta invece di semplificare e di agire senza pause per il raggiungimento di quegli obiettivi che ho più sopra illustrato. Da questa aula severa può partire, onorevoli Senatori, la vostra parola d'ordine, la parola dettata dalla vostra saggezza.
Sia fatta luce e giustizia! Sia affermato sempre più l'imperio della legge! Si levi di fronte alle vigilanti gelosie straniere il grido della concordia fra quanti italiani sono pensosi soprattutto delle sorti della Patria.
Due giorni dopo, il 26 giugno 1924, il Senato votava la fiducia al Governo: votanti 252, favorevoli 225, contrari 21, astenuti 6.
Roma, 25 giugno 1924: MUSSOLINI interviene in difesa del Governo.
Nella Sala del Concistoro, a Palazzo Venezia, il 25 giugno 1924, si adunava la maggioranza parlamentare (341 deputati su 382; gli assenti tutti giustificati). I gruppi parlamentari dei partiti d'opposizione costituenti la minoranza, avevano deliberato di non intervenire più, in segno di protesta, ai lavori della Camera: tale secessione, per ironica analogia storica, fu detta la secessione su l'Aventino. In tale momento delicatissimo, la riunione della maggioranza acquistava particolare importanza. In essa il Duce pronunciò il seguente discorso:
Dall'ultima riunione, tenutasi in questa stessa sala or sono tre o quattro settimane ad oggi, avvenimenti gravissimi si sono prodotti nel Paese, determinando una situazione molto delicata che richiede vigile senso di responsabilità in tutti voi in particolare e in tutti gli italiani in generale. Ci sono stati l'assassinio del deputato Matteotti, e le ripercussioni assai vaste che questo delitto ha prodotto in tutta la Nazione ed in particolar modo nella capitale. Per quindici giorni Governo, Fascismo, maggioranza, deputati in genere, tutti quelli insomma che seguono questa corrente, si sono trovati, bisogna riconoscerlo, in una specie di disagio morale, perché non tutto il quadro del dramma era completo, né tutte le responsabilità apparivano chiare. Poi, soprattutto, i colpevoli o i presunti tali non erano stati arrestati. La coscienza pubblica aveva, quindi, motivo di essere inquieta.
Oggi, per quel che riguarda il fatto giudiziario in sé, tutti i responsabili o presunti tali o comunque indiziati del delitto Matteotti, sono in carcere. Può darsi che ci siano state delle incertezze nei primi momenti: saranno stabilite, saranno chiarite, ma vi prego di considerare che la prima ipotesi fu di una semplice scomparsa. Il delitto avvenne il giorno di martedì e solo il giovedì la ipotesi del delitto fu chiara.
Il martedì sera fu detto che l'on. Matteotti era stato visto da Costantino Lazzari e da altri. Vi ripeto che se emergeranno delle responsabilità più gravi di quelle che hanno provocato i provvedimenti in via puramente amministrativa, tali responsabilità cadranno sui colpevoli. Ieri sera l'organo della Santa Sede aveva un articolo abbastanza significativo, perché quello che è avvenuto in questi quindici giorni e che sta avvenendo ancora, non è bello, non è neppure degno di un gran popolo.
Le cose più strampalate, le notizie più fantastiche hanno avuto libero corso. Degli uomini che sono veramente insospettabili venivano accusati e denunciati di aver preso parte a questa ceka, a questa cosiddetta ceka che non esiste. Si è detto, per esempio, che il capo della polizia aveva dato il passaporto a Filippelli; ciò sarebbe stato veramente enorme, delittuoso; ora si è chiarito che il passaporto è stato dato dal signor Naldi il quale lo aveva ricevuto dal suo chauffeur due anni fa.
Noi tutti siamo rimasti impressionati dalla deposizione del signor Mario Gibelli che era veramente gravissima e raccapricciante. Orbene, stamane questo signore viene fuori a dire che la sua deposizione pubblicata dai giornali non corrispondeva affatto alla verità.
Questo, per quello che riguarda il lato giudiziario di questo dramma.
Ma vi è poi il lato politico.
Si è detto, ad esempio, che il siluramento di De Bono è stato strappato a me dal Consiglio dei Ministri. Niente di più falso. Sono io che ho portato la proposta di esonero del generale De Bono ed è stato il Consiglio dei Ministri che ha modificato la proposta convertendo l'esonero in sostituzione.
Si è detto che la nomina di Federzoni mi è stata imposta dalla Corona. Ora io devo dichiarare che la Corona è di un costituzionalismo perfetto. La verità è che sino da parecchi mesi fa avevo l'intenzione di mettere l'on. Federzoni a reggere il Ministero dell'Interno e, in seno al recente Consiglio dei Ministri, gli ho si può dire imposto di assumere questo ufficio.
Si è detto che il generale Di Giorgio, ministro della Guerra, è stato imposto dalla Corona. Niente di più falso. Fin dal gennaio scorso, quando il generale Diaz mi disse che voleva dimettersi per ragioni di salute e che, con il suo squisitissimo senso di patriottismo, lasciava me arbitro della scelta, fin d'allora intrapresi trattative orali e scritte col generale Di Giorgio.
Poi sono corse notizie strampalate lanciate da tutte quelle Agenzie di informazioni che pullulano a Roma: per esempio, la notizia data dalla stampa americana dell'abdicazione del Re, del convegno dei Collari dell'Annunziata; poi finalmente la notizia di venerdì sera di un certo colpo di Stato che doveva essere fatto dalla Milizia, e che riempì di un vago terrore i circoli della capitale.
Voi comprenderete che tutto ciò alla fine impone il basta, perché non si può soggiacere alle fantasie di certa stampa, specie di quella che avrebbe particolari doveri di gratitudine verso il Governo.
È in queste vicende che si appalesa il carattere degli uomini.
Ora voi sapete quale sarebbe il programma delle opposizioni. Si tengono delle riunioni in diverse città d'Italia ove le opposizioni fanno queste richieste: dimissioni del Governo, scioglimento della Milizia e scioglimento della Camera, elezioni generali; e, notate, stabiliscono già il sistema con cui queste elezioni dovrebbero aver luogo, cioè con la proporzionale.
Come pensano le opposizioni di arrivare a tutto ciò? Non traspare ben chiaro, perché queste sono riunioni di Partito. I gruppi di opposizione alla Camera, questi gruppi che si sono ritirati dal Parlamento, non sappiamo se per sempre o fino a quando non si siano determinate nuove condizioni, non hanno ancora formulate le loro proposte, ma però, non contrastando con quelle che vengono avanzate dai gruppi politici, è chiaro che anche le opposizioni parlamentari non prescindono da queste richieste.
Che cosa si vuole? Tutto ciò è crepuscolare.
Necessita invece parlar chiaro in questa situazione. Il discorso che ho pronunciato ieri al Senato, e che si ricongiunge a quello che pronunciai alla Camera, ha già chiarito questa posizione.
Il Governo resta al suo posto. Le dimissioni in questo momento sarebbero certamente interpretate in senso catastrofico, specialmente all'estero. Apparirebbero come dimissioni imposte da quei deputati laburisti che si riuniscono alla Camera dei Comuni e con un precedente nuovissimo entrano nelle faccende interne di un altro popolo, e da quei gruppi della Democrazia di sinistra accesa dell'occidente e in genere da tutti i gruppi internazionali dell'occidente che non amano un'Italia che proceda innanzi.
Però, come ho detto ieri al Senato, il fatto che il Governo resta al suo posto non esclude, anzi ammette quelle che io ho chiamato trasformazioni o modificazioni della compagine governativa: modificazioni o trasformazioni alle quali io pensavo fin dal giorno in cui si riaperse la Camera perché il potere logora, perché di quando in quando bisogna mettere degli uomini nuovi alla prova, anche perché questa famosa selezione della classe dirigente non avverrà mai se non si mettono al posto di comando e di responsabilità degli uomini nuovi attraverso una selezione controllata.
È mio proposito quindi di addivenire in un termine di tempo abbastanza breve a queste modificazioni nella compagine governativa.
Quanto allo scioglimento della Milizia ripeto quello che dissi al Senato: che non è il caso di pensarci. Prima di tutto è un corpo militare inquadrato, disciplinato che ha delle Legioni bellissime anche dal punto di vista prettamente militare, e poi è un corpo di volontari. In questa crisi ci ha molto giovato, bisogna avere il coraggio di dirlo. Sono rimasti solidi questi militi, fedeli: erano pronti a difendere il Governo, se qualcuno avesse risposto alle sollecitazioni dei partiti avversari.
Il fatto che la Milizia resta — e su questo bisogna mettersi in mente che io sono assolutamente intransigente — non esclude che essa non debba sollecitamente essere inquadrata nelle forze armate dello Stato. Gli studi, a questo proposito, sono già avanzatissimi. C'è della buona volontà tanto da parte dello Stato Maggiore dell'Esercito quanto da parte dello Stato Maggiore della Milizia. Credo che fra qualche tempo questo problema sarà risolto in maniera soddisfacente e poiché si è sofisticato sul fatto che la Milizia non ha prestato giuramento di fedeltà al Re, pur montando regolarmente di guardia al Palazzo Reale, pur partecipando a parate in onore dei Sovrani, anche questo giuramento sarà fatto.
Ma voi capite che tutti gli avversari puntano su quella carta per ragioni evidenti.
Quanto allo scioglimento della Camera io domando a voi, che siete deputati e vi sentite regolarmente eletti dal popolo italiano, io domando a voi se avete intenzione di ritirarvi, di rinnegare il vostro mandato, di presentarvi dimissionari dinanzi alla Nazione, e, oserei dire, dinanzi alla vostra coscienza. E non è a dire se sia il caso in questo momento di parlare di elezioni, e non sia ipotesi che sta fra il grottesco ed il catastrofico, voler lanciare di nuovo le masse della Nazione, che hanno bisogno di tranquillità, di calma e di lavoro, in una battaglia elettorale, che, dato il momento, sarebbe piena di incognite, Quindi a tutte le richieste delle opposizioni, siano esse formulate dai Partiti nel Paese, siano esse formulate domani dai rappresentanti parlamentari di questi partiti, credo che il Governo e la maggioranza non possano rispondere che un no fermo, categorico, solenne.
Quale è il programma futuro? L'ho già detto e lo ripeto, lo dissi in questa sede e lo ripetei alla Camera e lo espressi ancora una volta ieri al Senato. Io mi propongo di fare funzionare la Camera, il Parlamento. Ripeto, è mia intenzione di non fare più decreti-legge, perché se il Governo fa decreti-legge la Camera non ha più nulla da fare, non ha che da mettere lo spolverino; rientrare nella legalità assoluta, reprimere l'illegalismo, purificare il Partito. Come avete visto, c'è un programma del primo tempo; cioè la modificazione della compagine del Governo. C'è un programma del secondo tempo: purificazione e selezione del Partito. C'è un programma del terzo tempo: fare funzionare gli organi legislativi.
A questo proposito sottopongo alla vostra meditazione la situazione che si è determinata nel Parlamento. Esiste l'esodo delle opposizioni, la secessione delle opposizioni. Questa secessione è temporanea? È definitiva? Questo è il punto, e qui è tutta la delicatezza della situazione. Se la secessione è temporanea, la situazione può chiarirsi. Se invece la secessione fosse definitiva, allora il problema si presenta in termini di una certa e relativa gravità. Il problema che s'impone allora è di sapere se il Parlamento può funzionare con la maggioranza prescindendo dall'atteggiamento delle minoranze. Certo è questo, che la maggioranza non può subire il ricatto delle minoranze. Se un gruppo di minoranza si ritirasse sull'Aventino, dovrebbe bastare questo fatto per mettere in giuoco il funzionamento della Camera?
Non mi faccio illusioni. Credo che, malgrado il nostro proposito di conciliazione nazionale come andiamo riaffermando con una sincerità che non può essere messa in dubbio, credo che non bisogni guardare la situazione con un soverchio ottimismo. In fondo non è più questione dell'assassinio Matteotti, non è più questione di sapere se dieci o quindici o venti o trenta individui andranno in carcere, non è più questione di sapere se il Governo sarà ricompaginato, trasformato, se il Partito subirà una energica selezione. Si vede ormai chiaramente l'obiettivo finale di tutte le opposizioni e questo obiettivo finale è il regime.
Costoro si propongono di annullare tutto quello che significa, dal punto di vista morale e politico, il regime che è uscito dalla rivoluzione dell'ottobre. Voi vedete allora che il giuoco diventa straordinariamente serrato, perché io stesso vi dichiaro che non sono affatto disposto a questa specie di annullamento di tutta una situazione che noi abbiamo creato con grande sforzo, con grande fatica e anche con molto sangue.
Se invece l'ipotesi più ottimista si verifica e, cioè, le opposizioni sono veramente pensose delle sorti della Patria e non vogliono spingere le cose fino al punto in cui l'irreparabile scoppia come una conseguenza fatale, logica; se le opposizioni si renderanno conto di questa loro responsabilità e ritorneranno alla Camera a darvi la loro opera di critica, di controllo, di opposizione anche astiosa, anche settaria, anche pregiudiziale che noi dovremmo sopportare, tollerare, talvolta quasi incoraggiare perché l'opposizione, in quanto ci segnala certi fatti, certe cose, può essere di utilità grandissima; se questo avviene, allora potremo dire di avere superato la crisi.
Comunque le opposizioni si riuniscono venerdì. Non sappiamo se sarà soltanto la commemorazione dell'on. Matteotti o se ci saranno delle decisioni anche di carattere politico concernenti l'atteggiamento di queste opposizioni. Se si trattasse soltanto della commemorazione dell'on. Matteotti, noi ci associeremmo perché questa commemorazione l'abbiamo già fatta in termini sincerissimi. Quanto alle decisioni politiche, converrà attendere.
Comunque voi, onorevoli colleghi, siete investiti di un mandato preciso e, se non avessi in orrore le parole solenni, vorrei dire sacro. Avete dietro di voi masse imponenti di elettori, masse imponenti di popolo. Voi siete testimoni di tutti gli sforzi che il Governo ha fatto prima e dopo, voi siete testimoni del programma che il Governo intende realizzare, voi quindi potete attestare con sicura, con tranquilla coscienza, che se domani la crisi si acuirà invece di risolversi, non certamente oggi la coscienza nazionale, né domani lo storico imparziale potrà attribuire a noi questa responsabilità.
Noi siamo ancora una volta disposti, e lo ripeto, a fare funzionare regolarmente il Parlamento, a fare rientrare il Fascismo nella legalità; siamo disposti a purificare il Partito — e lo faremo — siamo disposti a seguire una politica di conciliazione nazionale, che ignori il passato, che ignori tutte le lotte del passato, ma non ci si chieda la rinuncia a quei principi che abbiamo il sacrosanto dovere di difendere a qualunque costo.
Dopo il discorso del Duce, la maggioranza parlamentare votò per acclamazione il seguente ordine del giorno, proposto dal Comitato di maggioranza: «-La maggioranza parlamentare, udite le dichiarazioni del Capo del Governo, gli riconferma la sua piena fiducia e devozione-».
Roma, 22 luglio 1924: Mussolini afferma “Indietro non si torna”
La stampa d'opposizione si era abbandonata alla più sfrenata licenza; lo scandalismo sistematico, il gusto della menzogna, dell'ingiuria, della calunnia, tutto quello che poteva turbare gli spiriti deboli, offuscare le coscienze, seminare la discordia e il disorientamento nel paese - era divenuto pasto quotidiano del giornalismo antifascista.
Il Regime, con molta generosità, aveva evitato d'applicare, fino a quel momento, il decreto sulla stampa già approvato all'unanimità dal Consiglio dei Ministri del 12 luglio 1923; ma ora s'imponeva una rigorosa e immediata applicazione, per ricondurre la Stampa a un più vigile senso di responsabilità, e impedirle di turbare, con scandalose speculazioni, l'opinione pubblica.
Il Consiglio dei Ministri, l'otto luglio 1924, decise l'immediata applicazione del decreto, che non toglie (come è stato troppo facilmente ripetuto all'estero dagli avversari del Fascismo) la cosiddetta «libertà di stampa», ma riconduce il giornalismo alle sue funzioni più elevate, eliminando per sempre quel tipo di giornalismo ricattatore e scandalistico che era un triste retaggio delle democrazie del secolo XIX. Le opposizioni finsero di non capire il valore dei provvedimenti presi e scatenarono una violenta campagna, facendo le vittime e sfoderando tutta la più rancida retorica libertaria.
In tale momento, al Gran Consiglio del Fascismo, a Palazzo Venezia, il 22 luglio 1924, il Duce pronunziò il seguente discorso:
Le dramatis personae degli avvenimenti di queste ultime settimane sono da individuare come segue.
Cominciamo, per cavalleria, dalle opposizioni. Fu già detto che in Italia c'erano troppe opposizioni per esserci una opposizione degna di questo, nome. L'opposizione ha troppe facce e troppe anime. Si avvertono già delle insofferenze a cagione dell'eccessiva promiscuità. L'opposizione parlamentare, che si è ritirata sull'Aventino dove nessun Menenio Agrippa fascista andrà a recitare il famoso apologo, è assai diversa da quella dei comitati locali. Già sorgono delle accuse e spuntano in folla accusatori con l'indice teso.
Gli «-aventinisti medagliettati-» corrono il rischio di essere bollati come «-pompieri-» dai provinciali. La verità è che i parlamentari non possono fare altro che passivamente attendere, ed i non parlamentari non possono che votare degli ordini del giorno coi quali ingannano a loro volta l'attesa. Né gli uni né gli altri sono in grado nemmeno di pensare di rovesciare il Governo fascista. Voto parlamentare ed insurrezione antifascista sono entrambi impossibili.
Eventuali ulteriori secessioni non sposterebbero i termini della situazione. Più l'opposizione si gonfia, più diventa idropica ed impotente, più si acutizzano le nausee della promiscuità prolungata.
Che il mucchio dell'opposizione possa apparire vastissimo non vi è dubbio. Ben dieci sono in Italia i Partiti e sei o sette i gruppi antifascisti. Elenchiamoli in fila indiana. Forse qualcuno comincerà a vergognarsi di trovarsi in tanto numerosa compagnia... Anarchici, comunisti, massimalisti, unitari, repubblicani, popolari, democratici sociali, democratici costituzionali, contadini, partito sardo e lucano d'azione.
Trascuriamo le varie unioni spirituali meridionali locali: i gruppi Italia libera, Patria e Libertà, Rivoluzione liberale, nonché i dissidenti più o meno fascisti. A tutti questi partiti e gruppi bisogna aggiungere la Massoneria giustinianea, che ha dichiarato ufficialmente la guerra al regime fascista.
Ebbene, io penso che sia il massimo titolo di orgoglio pel Fascismo italiano l'aver schierate innanzi a sé così numerose falangi di nemici. Il Fascismo deve rappresentare l'elemento di assoluta originalità nella vita italiana, se viene fatto oggetto di così imponenti ostilità.
Non credo che a questa grande, e in fondo grottesca, armata antifascista si aggregherebbero quei liberali che sono entrati nel listone. Che i fascisti siano dei compagni di viaggio spesse volte esuberanti, io lo ammetto senza difficoltà. Che i fascisti stentino un poco a raccapezzarsi fra le diverse specie di liberalismo contrastanti, può anche darsi; ma io mi guardo bene dal dimenticare che i liberali di destra hanno tenuto un contegno di perfetta, amichevole lealtà verso i fascisti, tanto da meritare l'appellativo di fascisti onorari; ed hanno quindi diritto da parte dei fascisti alla più cordiale reciprocità di trattamento.
I voti recentemente emessi a favore del Governo da importanti sodalizi liberali, a Venezia, a Milano, a Roma stessa, dimostrano che una frazione imponente del liberalismo non scende a far comunella con quelle opposizioni che vanno da Torrigiani a Don Sturzo attraverso Modigliani, e che sono in ritardo di due anni poiché vorrebbero riportare l'Italia semplicemente alla situazione dell'estate del 1922.
Gli oppositori, qual più qual meno, chiedono la normalizzazione. Ecco una parola di moda, una parola che diventa sempre più sospetta con l'uso e l'abuso che se ne fa. Parola elastica che ognuno degli oppositori interpreta a suo piacimento. Di che si tratta in concreto?
Normalizzazione vuol dire forse ordine pubblico? Esso è perfetto e garantito. Non è stato turbato nei giorni della maggiore emozione. Vuol dire continuità delle attività nazionali, pubbliche e private? Ognuno vede che tale continuità esiste e dà i suoi frutti.
Non si crei l'arbitraria ridicola distinzione fra ordine esteriore e ordine interiore; comunque l'ordine mantenuto all'interno come mero effetto di influenze spirituali, non esiste in nessun paese del mondo, poiché in tutti i paesi del mondo esistono fautori del disordine che tutti i Governi, anche i più liberali, controllano e puniscono.
La normalizzazione significa una maggiore costituzionalità della Milizia? È ormai un fatto compiuto, come dirò fra poco. Significa repressione dell'illegalismo? Le cronache giudiziarie di questi ultimi tempi grondano, se non di sangue, di anni di galera distribuiti ai fascisti con una prodigalità che io mi guardo bene dal discutere, e che accetto anzi senza discussione.
L'illegalismo fascista dunque è impedito o è represso, mentre riprende l'illegalismo politico morale dei Partiti antinazionali.
La normalizzazione significa forse il processo al regime? Allora noi rispondiamo che il regime non si fa processare se non dalla storia.
In realtà, fuori dai torbidi equivoci e dalle oblique restrizioni mentali, si sa ormai che cosa intendono per normalizzazione gli oppositori. Intendono un'azione antifascista. Essi stabiliscono l'equazione «normalità: antifascismo». È chiaro allora che, posto in questi termini, non esiste più un problema di normalizzazione, ma un problema di forza tra Fascismo e antifascismo. Se l'antifascismo è normalizzatore, il Fascismo non può non essere, per ovvie ragioni di vita, che antinormalizzatore.
La normalizzazione, in ciò che essa concretamente significa, può ormai dirsi un fatto compiuto. È dunque evidente che antinormalizzatori sono precisamente gli antifascisti. E questo comincia chiaramente ad intendere il popolo italiano. Insomma, per certi signori, la normalizzazione dovrebbe consistere in una volontaria abdicazione del Fascismo agli attributi della sua virilità. Del resto, Partito e Governo procedono sulla via dell'unica normalizzazione possibile: quella fascista.
Argomento di viva discussione è la Milizia. Giova notare che sino al giugno non parve esistere un problema della Milizia se non per il Fascismo. Voi ricordate che il Sovrano la costituzionalizzò nel suo messaggio della Corona al Parlamento.
È solo dopo l'assassinio di Matteotti che il problema della Milizia balza al primo piano. Può sembrare strano agli allocchi, ma è semplicissimo. Le opposizioni dell'estrema sinistra hanno chiesto lo scioglimento immediato della Milizia, come se fosse la Guardia regia. Le altre chiedono che essa perda il suo carattere di partito. Conviene precisare una volta per tutte.
Il problema della Milizia è semplice, quando nell'esaminarlo esiste la buona fede e non si dimentica il passato. Chi sia tentato o di sapere come è nata o come si è sviluppata e trasformata la Milizia, può andare a rileggere le decisioni del Gran Consiglio nelle sessioni del 1923.
La Milizia poteva dirsi di parte, per quanto concerne il reclutamento; e ciò è inevitabile, poiché ogni reclutamento volontario avviene, e non potrebbe essere altrimenti, soltanto o di preferenza in una determinata zona di cittadini che hanno determinate idee e sentimenti; ma la Milizia non fu mai di parte nei suoi compiti e nei suoi scopi. Il titolo stesso l'indicava: non Milizia fascista o Milizia per la Sicurezza Nazionale, ma Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
È significativo che, mentre il Gran Consiglio tiene la sua sessione, si concentrano a Siracusa due legioni di Camicie Nere, che si dirigono in Libia a sostituirvi le truppe metropolitane. Non si dirà, speriamo, che ci vanno per scopi di partito!
Ora, sulla Milizia sono sorti parecchi equivoci. Si è parlato di fusione coll'Esercito. Tale fusione non fu mai nemmeno discussa o semplicemente ventilata, tanto il suo assurdo è evidente. L'Esercito è tutt'altra cosa della Milizia. I due elementi non sono fondibili né confondibili. La coscrizione è la base necessaria dell'Esercito; il volontariato è la base necessaria della Milizia.
Ma anche sull'inquadramento c'è stata la confusione delle lingue. Non si tratta di fare della Milizia un supplemento dell'Esercito, o peggio un doppione dell'Esercito; si tratta di assegnare alla Milizia compiti che l'Esercito, per la sua stessa natura, non può più esercitare; compiti limitati, specifici, nettamente definiti, in modo da evitare contrasti e frizioni. Compiti premilitari, che la Milizia assolve già nella divisione di Pola, ad esempio, e altrove.
Veniamo alla costituzionalizzazione. Anche qui bisogna chiarire. Esiste già una costituzionalizzazione della Milizia per la buona ragione che la Milizia è sorta in seguito ad un regolare voto unanime del Consiglio dei Ministri, tradottosi in apposito decreto-legge, firmato regolarmente dal Sovrano. Si tratta, caso mai, di un perfezionamento, che già da tempo formulai, come programma; perfezionamento, che è già stato concretato e concordato in un progetto di legge da presentarsi al prossimo Consiglio dei Ministri. Per tutto il resto la Milizia rimane qual'è.
Per l'impiego resta naturalmente agli ordini del Capo del Governo, come del resto tutte le altre forze armate dello Stato. Rimane la gloriosa camicia nera. Per l'organizzazione e formazione, quella romana. La Milizia non può né deve perdere le sue caratteristiche, cioè le sue istituzioni, il suo spirito, il suo stile.
È ovvio che il reclutamento allargato deve essere molto maggiormente cautelato. È chiaro che, oltre i fascisti, solo elementi di sicura e provata fede nazionale potranno entrarvi. Spetta quindi ai fascisti il compito preciso di fornire incessantemente dei legionari alla Milizia, la quale, come si legge in una memorabile mozione del Gran Consiglio del settembre 1923, «-rappresenta il fiore del partito, la guardia fedele e vigile e invincibile della Rivoluzione fascista, la riserva inesauribile d'entusiasmo e di fede nei destini della Patria, simboleggiata nell'augusta persona del Re-».
Investito improvvisamente dalla bufera, il Partito nazionale fascista ha magnificamente resistito. Vi sono state qua e là delle defezioni singole; piccoli vuoti che sono stati colmati con elementi migliori. L'utilità della grande crisi è anche data dalla liberazione dalla zavorra. Tale opera di necessaria selezione dovrà essere metodicamente continuata.
Il Governo ha modificato la sua composizione, ma senza alterare la sua fisonomia. Vi sono state anche a questo proposito delle complicazioni di cui il tempo galantuomo sta facendo giustizia. Il carattere di un Governo è segnato dalla sua origine e dal suo programma, più ancora che dai suoi uomini; ed in ogni caso si può osservare che la maggioranza dei ministri è regolarmente fascista.
Il Governo resterebbe fascista anche se per avventura fossero chiamate a parteciparvi altre forze più lontane, così come il Governo fu fascista nei primi mesi della sua esistenza, quando aveva nella sua composizione ben sei ministri di diversi colori, e cioè due liberali, due popolari, due democratici sociali, oltre ai due ministri militari, che non hanno partito.
Non bisogna nascondersi che il delitto Matteotti ha prodotto una profonda oscillazione morale nella massa del popolo italiano. Le ragioni di ciò sono evidenti. Anzitutto la soppressione di una vita umana; poi il modo assolutamente barbaro e bestiale; poi il tempo, poiché nessuno aspettava un delitto del genere all'indomani di un discorso pacificatore che aveva raggiunto lo scopo o poteva raggiungerlo. Infine i protagonisti o presunti tali. Il mistero delle causali per cui l'opinione pubblica ha oscillato fra questi due punti interrogativi: terrorismo o affarismo? quali i moventi?
Mettete insieme tutti questi elementi e vi spiegherete, anche senza l'inevitabile campagna giornalistica — dovuta al desiderio di sfruttare a scopo di tiratura il delitto clamoroso — l'emozione del popolo. C'è stata anche una speculazione e questa ci ha giovato. Certe esagerazioni, certe notizie fantastiche, le conseguenti smentite, il piano assurdo di allargamento all'infinito delle responsabilità morali, tutto ciò ha, dopo alcune settimane, prodotto una nuova oscillazione, in favore del Fascismo, che intanto, colle sue adunate regionali, dimostrava d'essere ancora potente ed invincibile.
Le adunate sono state grandiose, e si sono svolte nella massima disciplina. Il Direttorio provvisorio le ha sospese e ha bene operato. Non bisogna stancheggiare le nostre schiere con troppe parate. Allo stato degli atti non c'è bisogno di tenere mobilitate le nostre forze, come se pericoli reali e gravi minacciassero il Governo fascista.
In fondo, che cosa fanno le opposizioni? Fanno degli scioperi generali o parziali? delle manifestazioni di piazza? o tentativi di rivolta armata? Niente di tutto ciò. Le opposizioni svolgono un'attività puramente di polemica giornalistica. Non possono fare altro. Per evitare che anche la semplice polemica possa turbare gli animi con ripercussioni sull'opinione pubblica non c'è bisogno di ondate sproporzionate allo scopo. Bastano i decreti sulla stampa. Non si mobilita un esercito per sfondar pochi fogli di carta. I quali poi, quando esagerano, ci giovano assai. Poiché il pubblico italiano, o sarà saturato dai giornali oppositori, e per variare riprenderà i nostri, o sarà mitridatizzato.
Così stando le cose, il Fascismo può restare tranquillissimo, colle armi al piede. La situazione migliorerà tanto più rapidamente quanto maggiore sarà la disciplina assolutamente legalitaria del Partito fascista. Ogni illegalità del pari rapidamente scomparirà. Il Partito fascista è il più forte e può quindi attendere con minori preoccupazioni, minori impazienze dei suoi avversari. «-Mani in tasca-» potrebbe essere la parola d'ordine del momento attuale.
Dichiaro che io non ho ben capito ancora dove i revisionisti vogliono andare a parare. Bisognerebbe che questi nostri amici specificassero. Si tratta di una ricaduta nello Stato democratico-liberale, con tutti gli annessi e connessi? Si vuole invece rivedere i quadri o i gregari? O si vuole — come sembrerebbe logico — rivedere le posizioni mentali e politiche del Fascismo, per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del potere politico?
In questo ultimo caso il revisionismo avrebbe una reale utilità. È evidente che, assunto il potere, bisogna diventare legalitari e non continuare ad essere dei «-ribellisti-». L'insurrezione non è un fine, è un mezzo. Oppure il revisionismo vuol ridurci ad un riesame delle nostre posizioni programmatiche? Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro o è un ritorno al passato? Ho allineato degl'interrogativi, che pongono il problema.
Quanto all'estremismo fascista, esso non esiste, se non come stato d'animo. Si tratta di uno stato vicino alla gelosia. C'è sempre qualcuno che teme, che sospetta, che trepida, che sta continuamente sul «-chi vive-». In fondo anche questo stato d'animo insonne è necessario, come elemento compensativo delle altre tendenze al quieto vivere e al compromesso.
Il dissidentismo è un fenomeno che accompagna il Fascismo fino dalla sua origine, così come certe vegetazioni si aggrappano alla quercia. Non è mai riuscito ad uscire dal localismo e dal personalismo nemmeno quando si raccolse intorno a uomini di chiaro ingegno e di indiscussa probità politica e morale. Non preoccupa minimamente come fenomeno, sia che resti parallelo al Fascismo, sia che faccia numero colle opposizioni. Sarà questa l'ultima delle disgrazie che dovrà capitare al «-cartello-».
I dissidenti vanno divisi in alcune categorie: quelli che avevano in tutto o in parte ragione, e varrebbe la pena di riammetterli nel Partito; quelli che non avevano ragione, ma si sono tenuti in atteggiamento riservato, e costoro possono a loro volta tornare fra noi. Gruppi di dissidenti in buona fede sono rientrati spontaneamente nel Partito. Tutti gli altri vanno lasciati fuori.
Prima di chiudere questa rassegna voglio denunziare una manovra tentata ed abortita pietosamente: la manovra che consisteva nel riesumare il Nazionalismo per metterlo contro il Fascismo. Si può dire che il Fascismo, salvo le nuove reclute, è tutto di ex. Non ci sono che fascisti. Dalla fusione in poi gli ex-nazionalisti sono stati dei fascisti puramente e semplicemente. I posti da essi occupati sono inferiori a quelli cui potevano aspirare data la loro preparazione dottrinaria. Il Fascismo, preso sempre dalla necessità dell'azione, non ha mai avuto tempo di piegarsi in se stesso, per meditare sui problemi essenziali.
In un periodo di alta tensione politica, il riserbo sul compito di domani s'impone, in ispecie nel mio caso. Si tratta di stabilire degli orientamenti, necessariamente generali, e di approntare gli strumenti per tutte le congiunture, anche per quelle che appaiono impossibili.
Il prossimo Consiglio Nazionale ha il compito di dare finalmente un governo al Partito. Tale governo deve uscire liberamente dalla discussione e dal voto. Tale governo deve essere posto in grado di governare il Partito.
Se mai fosse concesso di anticipare, io credo che il nuovo governo dovrà agire sul Partito inflessibilmente, per migliorarlo e renderlo idoneo alle nuove necessità. Non solo bisogna liberarsi dai fannulloni, dai profittatori, dai violenti senza scopo; ma bisogna che tutto il Partito si raccolga in una disciplina più severa, meno formale, più alacre, più attiva, meno facile a quelle esteriorità che, ripetendosi, stancano e diventano convenzionali.
Anche la necessaria intransigenza deve essere intelligente. La fascistizzazione dell'Italia deve avvenire, ma non può essere forzata. Sarebbe illusorio.
Vorrei che si creasse, pur conservando la Corte di disciplina per i dissidi personali, anche un organo superiore, insospettabile per il controllo sull'attività politica e privata dei dirigenti del Partito. Non mi dispiacerebbe che il capo di questo organo fosse un estraneo al Partito.
Il Partito può battere l'opposizione anche semplicemente ignorandola. Ma per ignorare le opposizioni, non bisogna ignorare il popolo italiano cioè i famosi 39 milioni d'italiani che non hanno la tessera particolare. Qui l'azione deve essere combinata e coordinata tra i quattro strumenti dell'azione fascista, e cioè: Governo, comuni, partito, corporazioni.
Deve agire in primo luogo il Governo. Ho detto ad esempio al neo Ministro dei LL. PP. che egli dovrebbe quasi trascurare l'Italia da Roma in su. Dovrebbe avere occhi, orecchi e fondi soltanto per l'Italia meridionale e le isole, dove talune condizioni di vita sociale sono forse in arretrato di mezzo secolo.
Il Partito deve agire nei suoi cinquemila comuni, facendo della buona, della saggia, dell'onesta amministrazione.
Finalmente io assegno un grande compito al sindacalismo fascista.
Esso deve:
1°) elaborare quegli istituti mediante i quali la corporazione dovrà essere riconosciuta giuridicamente e innalzata come una forza dello Stato;
2°) elevare le condizioni morali della gente che lavora in modo da renderla sempre più aderente alla vita della Nazione;
3°) effettuare la collaborazione in un senso attivo, cioè nel senso che una quota parte del profitto vada a beneficio di coloro che hanno contribuito a realizzarlo. Le classi industriali devono rendersi conto di questo loro dovere, che, praticato in tempo, si identifica colla saggia tutela del loro interesse.
Andare al popolo, insomma, specie verso quello che fu troppo a lungo dimenticato, con animo puro, senza demagogia, con cuore fraterno, per farne un elemento essenziale di solidità della Patria. E soprattutto, assoluto disinteresse, fino alla rinunzia totale. Se noi daremo questo esempio alle nuove generazioni, non v'è dubbio che il Fascismo rappresenterà un periodo importante nella storia della civiltà italiana.
Volgendo alla fine, io devo dichiarare ad amici ed avversari, ai fascisti e agli antifascisti, non esclusi certi ambigui filofascisti che la fanno da petulanti mosche cocchiere, che «-indietro non si torna-».
Se c'è qualcuno che abbia la nostalgia del tempo in cui si parlava dell'Italia come di «piccolo popolo disorientato», quel qualcuno si convinca che indietro non si torna. L'appellativo ingiurioso era giusto, poiché il disordine era dovunque: nel Governo che non governava, nelle Amministrazioni che non funzionavano, nel Parlamento che offriva triste spettacolo di sé alla Nazione, nei servizi pubblici paralizzati, nelle officine occupate, nei campi invasi, nelle città teatro di sanguinosi conflitti collettivi e di attentati che inorridivano il mondo, nelle università dove si scioperava, nelle caserme che conobbero la sedizione di Valona, nel popolo tutto inasprito, sbandato, demoralizzato.
Il quadro del «-piccolo popolo disorientato-» che provocava le ironie ingiuriose dei diplomatici durante le trattative di Versailles, potrebbe caricarsi di altri colori ma non ne vale la pena, perché, se molti, non tutti gli italiani lo hanno dimenticato.
Indietro non si torna! Quei tempi sono conclusi! È inutile fantasticare di combinazioni o trapassi ministeriali. Il Fascismo non è arrivato al potere per le vie normali. Vi arrivò marciando su Roma armata manu, con atto squisitamente insurrezionale. Se nessuno osò resistere, gli è perché si comprese che era inutile resistere al destino. Se nelle giornate insurrezionali dell'ottobre scorso non fu versato sangue — quantunque ci siano state decine di gloriosi morti — molto sangue — purissimo — venne versato nel triennio precedente.
La marcia su Roma fu l'epilogo di un lungo sacrificio. Ma fu nel tempo stesso il cominciamento di un nuovo periodo.
La volontà ci guidi, io ho detto, ed ho precisato anche verso quali mete siano diretti i nostri sforzi. Ma gli eventi sono condizionati anche da coloro che ci osteggiano. Una battaglia politica non è un monologo. Le possibilità di dare i cinque anni di pace e di lavoro al popolo italiano esistono ancora, ma ciò non dipende soltanto da noi. Quale possa essere il corso degli avvenimenti, i fascisti d'Italia sappiano che il Capo e i capi hanno chiaro e religioso il senso della loro responsabilità e che sono pronti a qualsiasi cimento, quando siano in gioco la Patria e il Fascismo.
Il Governo si associa alle parole di deplorazione per l'abbominevole delitto testé pronunciate dal Presidente di questa Assemblea. Il delitto contro la persona dell'on. Matteotti ha ferito e commosso profondamente l'opinione pubblica italiana, la quale a gran voce ha domandato giustizia. La Giustizia è il fondamento del regime e non a caso l'attuale Governo volle che al culmine della piramide dello Stato vi fosse il Capo del potere giudiziario. Il Governo si associa anche all'augurio formulato dal Presidente del Senato, che cioè da questo delitto che ha avuto così vaste ripercussioni nella coscienza nazionale, possa cominciare un periodo di concordia e di pace fra gli italiani.
Nella stessa tornata, il Capo del Governo esaminò la situazione politica interna con il seguente discorso:
Onorevoli Senatori!
Credo superfluo richiamare la vostra attenzione sulle dichiarazioni che sto per fare e che acquistano, dal momento delicato che attraversiamo, un rilievo e un'importanza degni della più profonda meditazione. Quello che abbiamo vissuta e che stiamo ancora vivendo è una grave crisi morale e politica. Crisi benefica, se un senso di responsabilità grande assisterà voi, come non ne dubito, e tutti gli italiani.
Non ho bisogno di ripetervi tutta la mia deplorazione e tutto il mio orrore per il delitto commesso contro l'onorevole Matteotti. Ritengo che nessuno potrà dubitare della sincerità dei miei sentimenti al riguardo. Potrei aggiungere la frase di Talleyrand a proposito del ratto e dell'uccisione del Duca di Enghien: «-Non è soltanto un delitto ma è un errore-». Ci sono tre elementi nella situazione che ritengo opportuno di distintamente esaminare. L'elemento morale della deplorazione e del cordoglio che la Nazione ha unanimemente sentito e manifestato. Si può dire che fra i primi ad imprecare contro il delitto ed i responsabili di esso, sono stati i fascisti, tutti i fascisti responsabili.
Sull'elemento che chiamerò d'ordine giudiziario, poco v'è da dire per ovvie ragioni. Tuttavia ricorderò che nelle prime ventiquattro ore dopo la denuncia della scomparsa, furono arrestati i principali indiziati, e che nei giorni successivi altri furono arrestati in diverse località d'Italia e che non si è guardato e non si guarderà alle posizioni alte o basse dei colpevoli. La giustizia seguirà il suo corso inflessibilmente, e colpirà chi deve inesorabilmente.
La Magistratura italiana, sulla cui probità e capacità il popolo è certo di poter contare, farà sicuramente tutto il suo dovere. Dubitare, è cosa indegna, e sono sicuro che il Senato italiano si associerà alla fiera protesta della Magistratura contro certe insinuazioni straniere.
Nell'attesa, però, mi sia permesso di dire che non è bello e non è morale intraprendere sui pubblici fogli, e spesso per ragioni semplicemente materiali, un'istruttoria accanto all'istruttoria, un processo accanto al processo, perché, mentre la Magistratura farà giustizia, troppa gente, per ragioni di partito, per rancori personali e rivalità d'interessi economici, si sforza di eseguire una specie di linciaggio che sarebbe sommamente deplorevole al pari di ogni tentativo di salvataggio. L'autorità giudiziaria che farà luce completa, non può, non deve essere turbata nel suo altissimo compito da propalazioni di notizie fantastiche che giovano ai nemici interni ed esterni della Nazione.
Sulla natura del delitto io non ho da esprimere giudizi. La istruttoria e il pubblico dibattimento ci daranno la ricostruzione e le fasi del misfatto nonché le sue causali remote e vicine.
In questa Assemblea, onorevoli Senatori, la situazione va considerata da un punto di vista strettamente politico.
Anzitutto occorre che la ragione riprenda i suoi diritti sul sentimento, in modo da esaminare la situazione senza cadere in eccessi opposti ed egualmente arbitrari. Bisogna in primo luogo rendersi conto che l'onore della Nazione italiana non è affatto in gioco.
Se un delitto o più delitti atroci bastassero a gettare un'ombra sulla moralità e sul grado di civiltà di un popolo, che cosa bisognerebbe dire di un Paese, dove, come è stato recentemente documentato, si sono verificati nel dopoguerra 400 delitti politici, alcuni dei quali particolarmente tragici e clamorosi? In questi giorni le correnti che si chiamano di sinistra, di tutta Europa, si sono scagliate contro il Fascismo ed il Governo italiano rendendoli responsabili l'uno e l'altro di un inconsulto e nefando gesto di terrore.
I socialisti italiani e stranieri che, prendendo a motivo l'episodio atroce, comiziano tempestosamente contro il sedicente terrore del Fascismo italiano dimenticano il terrore effettivo che essi hanno esercitato in diverse regioni d'Europa.
Qualcuno potrà dirmi che tutto ciò appartiene al passato. Ma disgraziatamente i propositi per l'avvenire non sembrano migliori. Molti di coloro che hanno fatto del cadavere di Matteotti la loro tribuna, sarebbero pronti a esercitare il terrore nelle forme più spietate. Risulta da questo articolo pubblicato dall'ex direttore dell'Avanti!, G. Menotti Serrati, sul giornale La Pravda di Mosca, nella recentissima data del 18 aprile:
«-Le masse aspirano alla vendetta. Quando esse alzeranno il capo saranno terribili. Una volta il proletariato aveva perdonato alla borghesia. Fu troppo buono verso di essa, in un momento in cui poteva regolare i propri conti per tutte le torture patite durante la guerra mentre la borghesia si arricchì a sue spese. Ma oggi esso non perdonerà più.-»
Può dirsi delitto di folla il massacro e le orribili mutilazioni inferte ai marinai uccisi a Empoli, ma l'eccidio del «Diana» fu freddamente premeditato e consumato, così come l'esecuzione di Scimula e Sonzini. Con questa differenza che, mentre l'assassinio di Matteotti è stato unanimemente deplorato, l'Avanti!, organo ufficiale del Partito socialista italiano, stampava che l'uccisione di Scimula e Sonzini, avvenuta in una nebbiosa notte del settembre 1920 a Torino, doveva essere considerata come un semplice infortunio connesso alla loro professione di fede nazional-fascista. Ancora recentemente in fogli sovversivi si tesseva l'apologia dei quattro magnifici bombardieri del Diana e dell'eroe che ha accoppato il rettile Nicola Bonservizi. Se non fossi sospinto dal desiderio di arrivare sollecitamente ad altre considerazioni, potrei ampiamente documentare che tutti i paesi hanno avuto i loro delitti politici più o meno atroci. E del resto stimo anche più discreto non scendere ad esemplificazione vicina o lontana.
Mi permetta il Senato, a questo punto, di rilevare con soddisfazione la correttezza di quei Parlamenti e Governi esteri e in particolar modo del Consiglio Nazionale Svizzero che si sono rifiutati, come le buone regole internazionali impongono, di mescolarsi in questi che sono affari interni della Nazione italiana. Tutte le nazioni, del resto, e prima e dopo la guerra, hanno traversato crisi morali, politiche, economiche, finanziarie, che sembravano mettere tutto in giuoco, perché torcevano tutte le fibre della Nazione.
Non è dunque questione di regime, come si afferma avventatamente in Italia e altrove. E in ogni caso bisogna rendersi conto che l'attuale regime esce da una rivoluzione fatta da un Partito che aveva appena tre anni di vita e le cui formazioni improvvisate e tumultuarie non avevano permesso di esercitare i delicati controlli necessari.
È questa che io ho chiamato alla Camera elettiva la tragedia dell'ardimento.
Le insurrezioni, come tutti i grandi movimenti sociali, mettono insieme i buoni e i cattivi, gli asceti ed i violenti per lucro, gli idealisti e i profittatori.
Le selezioni degli individui, secondo le loro capacità, e la loro probità, assai difficili a farsi in tempi normali, sono tanto più difficili in tempi eccezionali. Talora accade che siano provocate ed accelerate dai campanelli d'allarme di una tragedia improvvisa.
Critiche e accuse di vario genere sono state mosse al ministero dell'Interno. Si è voluto dare l'impressione che nel palazzo del Viminale tutto fosse nefando e corrotto. Si è parlato della necessità di una disinfezione in grande stile. Anche qui le parole e i disegni sono andati al di là della realtà concreta. Al Viminale c'erano e ci sono centinaia di grandi e piccoli funzionari rispettabili, onesti, ligi assolutamente al loro dovere. I capi di questa grande Amministrazione sono al di fuori di ogni sospetto. Ed io sono convinto che con i provvedimenti già presi e da prendere, il Ministero dell'Interno sarà ricondotto alla piena normalità dei suoi organi e delle sue funzioni.
Mi si è obiettato di essermi disinteressato degli affari della politica interna. Ciò non corrisponde al vero, perché il problema fondamentale di tale politica è stato la mia costante, assidua, vorrei dire, angosciosa preoccupazione e fatica quotidiana.
All'indomani della marcia su Roma mi sono trovato di fronte ad una mole imponente di problemi di politica interna che, per ragioni obiettive ed insite nella situazione, nessun altro avrebbe potuto affrontare.
Si trattava di riassorbire la illegalità nella costituzione, si trattava di rimettere grado a grado, ma incessantemente, nell'alveo della legalità, la vasta fiumana che aveva rovesciato gli argini.
Voi sapete, onorevoli Senatori, che è assai facile, come diceva il Poeta, evocare gli spiriti. Ma poi non è altrettanto facile dominarli.
Vi sono rivoluzioni, che, come la inglese, ha scosso per mezzo secolo quel popolo. Si può dire che la crisi francese scatenata nell'89 è durata senza interruzione fino al 1870. Che meraviglia se la crisi scoppiata nel 1922 o piuttosto la crisi generale del dopoguerra, che in Italia è stata specialmente tormentosa per un vario e complesso ordine di ragioni, non si è ancora risolta in un equilibrio definitivo?
Non vi dispiaccia se ancora una volta sottopongo al vostro illuminato giudizio gli elementi che devono documentare lo sforzo talvolta schiacciante da me compiuto in venti mesi come Capo del Governo e ministro dell'Interno per ricondurre alla normalità il Paese.
All'indomani della marcia su Roma, l'immediato problema che dovetti affrontare fu quello di far rientrare alle loro sedi 60.000 giovani che erano entrati in Roma, armati di tutto punto. Ciò ch'io riuscii ad ottenere colla massima disciplina, senza incidenti di sorta, in 48 ore.
Volli, per fissare dei limiti al movimento, che i fascisti si limitassero a sfilare davanti alla Maestà del Re e davanti ai Duchi della Vittoria e del Mare. Quasi immediatamente dopo, con una lettera che varrebbe la pena di rileggere, proibii severamente agli ufficiali della guarnigione di Roma di manifestarmi la loro simpatia perché allora pensavo, come oggi penso, che l'esercito non deve fare della politica, né palese né segreta, né diretta, né indiretta. In ciò sta la base granitica, la gloria e il principio dell'eroico esercito italiano.
Chiamai al Governo uomini di tutti i Partiti. Riapersi il Parlamento e ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni poteri. Affrontai e risolsi di lì a poche settimane il problema gravissimo degli squadristi. Ho esercitato i pieni poteri per un anno. Potevo chiedere la proroga. Avrebbero votato a favore anche i popolari. Vi rinunciai. Non avevo proposto leggi eccezionali e mi proponevo di fare un altro passo innanzi sulla strada della legalità.
Nel frattempo avevo abolito tutti quelli che potevano apparire ed erano qua e là dei doppioni di Prefetti, come gli alti commissari e i fiduciari provinciali del partito.
Ordinai il catenaccio per le iscrizioni, al partito, mentre si procedeva allo scioglimento quasi quotidiano di Fasci singoli e di intere Federazioni, sempre allo scopo di adeguare il partito alle necessità costituzionali del Governo.
Nel campo sociale la mia politica interna si sforzò ed ottenne di conciliare le forze necessarie della produzione, ristabilendo la disciplina e la continuità del lavoro.
Sciolta regolarmente la Camera, furono nei termini prescritti dalla legge convocati i comizi elettorali. La lista nazionale ha raccolto ben 4 milioni e ottocentomila voti. Si può seriamente sofisticare su queste cifre? Negare la realtà non è un giuoco assurdo? Esse indicano il consenso in proporzioni imponenti.
Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna si delinearono ancora più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi capisaldi fondamentali:
1°) far funzionare regolarmente l'Istituto parlamentare come organo del potere legislativo, restituendogli le sue capacità e il suo prestigio;
2°) regolare, dal punto di vista della Costituzione, la situazione della Milizia Volontaria;
3°) reprimere i superstiti illegalismi ai margini del Partito;
4°) chiamare all'opera di ricostruzione tutte le forze vive della Nazione, cioè tutti gli elementi di qualsiasi origine che non ignorano la Patria.
Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono direttamente a questa meta; ad accelerare, cioè, a perfezionare l'entrata definitiva del Fascismo nell'orbita della costituzione, a fare del Fascismo un centro di raccolta e di conciliazione nazionale.
Dissi, nel mio discorso del 10 aprile ai Romani: «Vogliamo dare cinque anni di pace e di fecondo lavoro al popolo italiano. Se altri può dire: Perisca la Patria purché si salvi la fazione, io grido invece: Periscano tutte le fazioni, compresa la nostra, ma sia grande, ma sia rispettata la Patria italiana».
E concludevo: «-Più grande è la vittoria, e più alti sono i doveri: doveri di lavoro, di disciplina, di concordia nazionale-».
Gli stessi principi io riaffermavo nel mio discorso alla maggioranza, e finalmente, nel mio discorso dell'8 giugno alla Camera, ho cercato, dopo una settimana di discussioni tempestose, di superare le posizioni necessariamente un po' statiche dei partiti, di rivolgermi direttamente alla Nazione, per disperdere le ceneri dei nostri e degli altrui rancori.
Non v'è dubbio che il mio discorso aveva forse stabilito i termini di quella possibilità di convivenza, necessaria al regolare funzionamento del Parlamento, mentre nel Paese si era diffusa la sensazione che un nuovo periodo di pace e di tranquillità assoluta stava per iniziarsi. Dei risultati di questa mia politica come Capo del Governo rivendico intera la responsabilità. Solo a me era concesso, non senza dura fatica, di esercitarla nella mia qualità di Capo del Partito. Tali risultati sono stati, io penso, non annullati, ma soltanto interrotti, dall'episodio tragico che è costato la vita all'onorevole Matteotti.
Il mio successore all'Interno sta a garantire che su quella linea si continuerà a marciare. Apro una breve parentesi per attestare la mia piena fiducia personale e politica nell'on. Federzoni. E poiché la verità va detta, si sappia che sono io che l'ho proposto a quell'ufficio. Non altri.
Mentre vi parlo la situazione politica è straordinariamente delicata e può essere prospettata nei termini seguenti. Da una parte le opposizioni, unite negli scopi immediati, divise nei metodi e nei fini mediati. Nel blocco delle opposizioni non ci sono più i comunisti, i quali hanno logicamente cercato di approfittare dell'episodio sciagurato per incitare le masse allo sciopero generale e instaurare la dittatura degli operai e dei contadini. Lo sciopero non c'è stato. Le masse hanno respinto le suggestioni comuniste. Il ritmo del lavoro non è stato turbato, se non in pochissime località e limitatamente a poche ore del lunedì sedici.
Credo che il Senato sarà d'accordo con me nel tributare un plauso al laborioso e ordinato popolo italiano.
I repubblicani affacciano ancora una volta la richiesta della Costituente, richiesta assurda che non ha nessuna giustificazione politica, e meno ancora storica, a mezzo secolo di distanza dai Plebisciti.
Mentre i democratici dell'opposizione costituzionale tendono a straniarsi dal blocco perché non ritengono opportuno assumere le responsabilità oltranziste, i socialisti massimalisti, gli unitari, i repubblicani, i popolari e gli altri elementi minori affacciano un complesso di assurde pretese che mirerebbero ad una specie di colpo di Stato nell'intento di annullare il suffragio del 6 aprile.
Riesce assai difficile contestare che, a lato del dolore e dell'orrore legittimo e umano, non si stia innestando una speculazione politica sulla tragedia.
Ora, alle richieste affacciate più o meno ufficiosamente e pubblicamente dal blocco delle opposizioni, io rispondo prima di tutto che il Governo deve restare al suo posto. Questo non esclude che dovrà trasformarsi, modificare la sua compagine, per renderla sempre meglio adatta al raggiungimento di quegli scopi di pacificazione nazionale da me chiaramente e ripetutamente indicati.
Io ho creato nell'ottobre 1922 una determinata situazione politica che ha evitato alla Nazione pericoli estremi. Ho il dovere di continuare a svolgere la mia azione su quelle direttive.
Non si tratta di restare al potere, che mi ha dato gravi preoccupazioni e molte amarezze; ma mi considererei l'ultimo degli uomini se evadessi, specie in un momento difficile all'interno e sotto una specie di pressione ambigua che viene anche dall'estero, da questa mia precisa morale e politica responsabilità.
Quanto alla Milizia, a proposito della quale si emettono giudizi superficiali, non si può pensare a scioglierla. Essa è ormai solidamente inquadrata e disciplinata. Si deve arrivare alla sua sistemazione nella Costituzione con compiti che saranno utilissimi ai fini della preparazione militare generale del paese. Gli studi sono già a buon punto.
Avanzare poi, sia pure come semplice manifestazione giornalistica e polemica, la pretesa dello scioglimento della Camera e delle elezioni generali, significa non rendersi conto che una terribile crisi politica devasterebbe ancora, per chi sa quanti mesi od anni, la vita della Nazione.
Questo freddo ed obbiettivo esame della situazione non è completo. Dall'altra parte sta il Fascismo, con i suoi ottomila gruppi in ogni angolo d'Italia, con le sue forze politiche, sindacali, amministrative sempre imponenti. L'asserzione che il Fascismo sia stato abbattuto dall'improvvisa bufera è fatta per trarre in inganno l'opinione pubblica italiana e straniera. Il Fascismo è stato soltanto percosso. In fondo, questo colpo gli ha giovato e più gli gioverà. Perderà le scorie funeste.
Ma dall'11 giugno in poi Fascismo e fascisti sono il bersaglio di una violenta campagna nazionale e internazionale. Il Partito che in Italia raccoglie indubbiamente il maggior numero di medaglie d'oro, di combattenti, di decorati, di mutilati, di uomini della coltura e del lavoro, di giovani ardenti e puri, viene quotidianamente martellato e denunciato come un Partito di criminali. Ma può il Fascismo soggiacere a questa campagna? Non può, non deve. Gli elementi più accesi sono già inquieti. Le due manifestazioni di Bologna sono l'indice di una tensione morale e politica che è già arrivata al suo punto massimo, specie in quelle regioni dell'alta e media Italia dove il Fascismo dispone di forze politiche preponderanti. In queste circostanze un incidente qualunque potrebbe avere le più gravi conseguenze.
Onorevoli Senatori!
Bisogna evitare con tutte le forze ciò che può creare in un certo senso l'irreparabile, cioè un aggravamento ulteriore della crisi che si è abbattuta improvvisamente sulla Nazione.
Il Senato ha oggi la ventura di essere al primo piano della scena politica italiana, non soltanto perché è il ramo del Parlamento che primo si riunisce dopo il dramma, ma anche perché è l'ambiente sereno dove le più tumultuanti passioni sono contenute dalla ragione e dall'esperienza. Ciò che qui sarà detto avrà una grande ripercussione nell'animo dei cittadini devoti alla Patria, nell'animo di quei milioni di cittadini che non hanno tessere, non parteggiano, ma fanno qualche cosa di meglio: lavorano in silenzio.
Per quello che mi riguarda, io confermo solennemente quanto ebbi a dichiarare alla Camera elettiva.
L'obbiettivo della mia politica generale di Governo resta immutato: raggiungere a qualunque costo, nel rispetto delle leggi, la normalità politica e la pacificazione nazionale, selezionare ed epurare con instancabile quotidiana vigilanza il Partito, nonché disperdere con la più grande energia gli ultimi residui di una concezione illegalista inattuale e fatale.
Tocca a voi, onorevoli Senatori, confortare col vostro giudizio questi fermi propositi. Voi sentite certamente, con il vostro squisito senso di patriottismo e di responsabilità, l'estrema delicatezza della situazione. La possibilità di uscire dalla situazione senza ulteriori urti più o meno violenti, esiste. Non si tratta di portare altri elementi di complicazione in una situazione che richiede il massimo sangue freddo; si tratta invece di semplificare e di agire senza pause per il raggiungimento di quegli obiettivi che ho più sopra illustrato. Da questa aula severa può partire, onorevoli Senatori, la vostra parola d'ordine, la parola dettata dalla vostra saggezza.
Sia fatta luce e giustizia! Sia affermato sempre più l'imperio della legge! Si levi di fronte alle vigilanti gelosie straniere il grido della concordia fra quanti italiani sono pensosi soprattutto delle sorti della Patria.
Due giorni dopo, il 26 giugno 1924, il Senato votava la fiducia al Governo: votanti 252, favorevoli 225, contrari 21, astenuti 6.
Roma, 25 giugno 1924: MUSSOLINI interviene in difesa del Governo.
Nella Sala del Concistoro, a Palazzo Venezia, il 25 giugno 1924, si adunava la maggioranza parlamentare (341 deputati su 382; gli assenti tutti giustificati). I gruppi parlamentari dei partiti d'opposizione costituenti la minoranza, avevano deliberato di non intervenire più, in segno di protesta, ai lavori della Camera: tale secessione, per ironica analogia storica, fu detta la secessione su l'Aventino. In tale momento delicatissimo, la riunione della maggioranza acquistava particolare importanza. In essa il Duce pronunciò il seguente discorso:
Dall'ultima riunione, tenutasi in questa stessa sala or sono tre o quattro settimane ad oggi, avvenimenti gravissimi si sono prodotti nel Paese, determinando una situazione molto delicata che richiede vigile senso di responsabilità in tutti voi in particolare e in tutti gli italiani in generale. Ci sono stati l'assassinio del deputato Matteotti, e le ripercussioni assai vaste che questo delitto ha prodotto in tutta la Nazione ed in particolar modo nella capitale. Per quindici giorni Governo, Fascismo, maggioranza, deputati in genere, tutti quelli insomma che seguono questa corrente, si sono trovati, bisogna riconoscerlo, in una specie di disagio morale, perché non tutto il quadro del dramma era completo, né tutte le responsabilità apparivano chiare. Poi, soprattutto, i colpevoli o i presunti tali non erano stati arrestati. La coscienza pubblica aveva, quindi, motivo di essere inquieta.
Oggi, per quel che riguarda il fatto giudiziario in sé, tutti i responsabili o presunti tali o comunque indiziati del delitto Matteotti, sono in carcere. Può darsi che ci siano state delle incertezze nei primi momenti: saranno stabilite, saranno chiarite, ma vi prego di considerare che la prima ipotesi fu di una semplice scomparsa. Il delitto avvenne il giorno di martedì e solo il giovedì la ipotesi del delitto fu chiara.
Il martedì sera fu detto che l'on. Matteotti era stato visto da Costantino Lazzari e da altri. Vi ripeto che se emergeranno delle responsabilità più gravi di quelle che hanno provocato i provvedimenti in via puramente amministrativa, tali responsabilità cadranno sui colpevoli. Ieri sera l'organo della Santa Sede aveva un articolo abbastanza significativo, perché quello che è avvenuto in questi quindici giorni e che sta avvenendo ancora, non è bello, non è neppure degno di un gran popolo.
Le cose più strampalate, le notizie più fantastiche hanno avuto libero corso. Degli uomini che sono veramente insospettabili venivano accusati e denunciati di aver preso parte a questa ceka, a questa cosiddetta ceka che non esiste. Si è detto, per esempio, che il capo della polizia aveva dato il passaporto a Filippelli; ciò sarebbe stato veramente enorme, delittuoso; ora si è chiarito che il passaporto è stato dato dal signor Naldi il quale lo aveva ricevuto dal suo chauffeur due anni fa.
Noi tutti siamo rimasti impressionati dalla deposizione del signor Mario Gibelli che era veramente gravissima e raccapricciante. Orbene, stamane questo signore viene fuori a dire che la sua deposizione pubblicata dai giornali non corrispondeva affatto alla verità.
Questo, per quello che riguarda il lato giudiziario di questo dramma.
Ma vi è poi il lato politico.
Si è detto, ad esempio, che il siluramento di De Bono è stato strappato a me dal Consiglio dei Ministri. Niente di più falso. Sono io che ho portato la proposta di esonero del generale De Bono ed è stato il Consiglio dei Ministri che ha modificato la proposta convertendo l'esonero in sostituzione.
Si è detto che la nomina di Federzoni mi è stata imposta dalla Corona. Ora io devo dichiarare che la Corona è di un costituzionalismo perfetto. La verità è che sino da parecchi mesi fa avevo l'intenzione di mettere l'on. Federzoni a reggere il Ministero dell'Interno e, in seno al recente Consiglio dei Ministri, gli ho si può dire imposto di assumere questo ufficio.
Si è detto che il generale Di Giorgio, ministro della Guerra, è stato imposto dalla Corona. Niente di più falso. Fin dal gennaio scorso, quando il generale Diaz mi disse che voleva dimettersi per ragioni di salute e che, con il suo squisitissimo senso di patriottismo, lasciava me arbitro della scelta, fin d'allora intrapresi trattative orali e scritte col generale Di Giorgio.
Poi sono corse notizie strampalate lanciate da tutte quelle Agenzie di informazioni che pullulano a Roma: per esempio, la notizia data dalla stampa americana dell'abdicazione del Re, del convegno dei Collari dell'Annunziata; poi finalmente la notizia di venerdì sera di un certo colpo di Stato che doveva essere fatto dalla Milizia, e che riempì di un vago terrore i circoli della capitale.
Voi comprenderete che tutto ciò alla fine impone il basta, perché non si può soggiacere alle fantasie di certa stampa, specie di quella che avrebbe particolari doveri di gratitudine verso il Governo.
È in queste vicende che si appalesa il carattere degli uomini.
Ora voi sapete quale sarebbe il programma delle opposizioni. Si tengono delle riunioni in diverse città d'Italia ove le opposizioni fanno queste richieste: dimissioni del Governo, scioglimento della Milizia e scioglimento della Camera, elezioni generali; e, notate, stabiliscono già il sistema con cui queste elezioni dovrebbero aver luogo, cioè con la proporzionale.
Come pensano le opposizioni di arrivare a tutto ciò? Non traspare ben chiaro, perché queste sono riunioni di Partito. I gruppi di opposizione alla Camera, questi gruppi che si sono ritirati dal Parlamento, non sappiamo se per sempre o fino a quando non si siano determinate nuove condizioni, non hanno ancora formulate le loro proposte, ma però, non contrastando con quelle che vengono avanzate dai gruppi politici, è chiaro che anche le opposizioni parlamentari non prescindono da queste richieste.
Che cosa si vuole? Tutto ciò è crepuscolare.
Necessita invece parlar chiaro in questa situazione. Il discorso che ho pronunciato ieri al Senato, e che si ricongiunge a quello che pronunciai alla Camera, ha già chiarito questa posizione.
Il Governo resta al suo posto. Le dimissioni in questo momento sarebbero certamente interpretate in senso catastrofico, specialmente all'estero. Apparirebbero come dimissioni imposte da quei deputati laburisti che si riuniscono alla Camera dei Comuni e con un precedente nuovissimo entrano nelle faccende interne di un altro popolo, e da quei gruppi della Democrazia di sinistra accesa dell'occidente e in genere da tutti i gruppi internazionali dell'occidente che non amano un'Italia che proceda innanzi.
Però, come ho detto ieri al Senato, il fatto che il Governo resta al suo posto non esclude, anzi ammette quelle che io ho chiamato trasformazioni o modificazioni della compagine governativa: modificazioni o trasformazioni alle quali io pensavo fin dal giorno in cui si riaperse la Camera perché il potere logora, perché di quando in quando bisogna mettere degli uomini nuovi alla prova, anche perché questa famosa selezione della classe dirigente non avverrà mai se non si mettono al posto di comando e di responsabilità degli uomini nuovi attraverso una selezione controllata.
È mio proposito quindi di addivenire in un termine di tempo abbastanza breve a queste modificazioni nella compagine governativa.
Quanto allo scioglimento della Milizia ripeto quello che dissi al Senato: che non è il caso di pensarci. Prima di tutto è un corpo militare inquadrato, disciplinato che ha delle Legioni bellissime anche dal punto di vista prettamente militare, e poi è un corpo di volontari. In questa crisi ci ha molto giovato, bisogna avere il coraggio di dirlo. Sono rimasti solidi questi militi, fedeli: erano pronti a difendere il Governo, se qualcuno avesse risposto alle sollecitazioni dei partiti avversari.
Il fatto che la Milizia resta — e su questo bisogna mettersi in mente che io sono assolutamente intransigente — non esclude che essa non debba sollecitamente essere inquadrata nelle forze armate dello Stato. Gli studi, a questo proposito, sono già avanzatissimi. C'è della buona volontà tanto da parte dello Stato Maggiore dell'Esercito quanto da parte dello Stato Maggiore della Milizia. Credo che fra qualche tempo questo problema sarà risolto in maniera soddisfacente e poiché si è sofisticato sul fatto che la Milizia non ha prestato giuramento di fedeltà al Re, pur montando regolarmente di guardia al Palazzo Reale, pur partecipando a parate in onore dei Sovrani, anche questo giuramento sarà fatto.
Ma voi capite che tutti gli avversari puntano su quella carta per ragioni evidenti.
Quanto allo scioglimento della Camera io domando a voi, che siete deputati e vi sentite regolarmente eletti dal popolo italiano, io domando a voi se avete intenzione di ritirarvi, di rinnegare il vostro mandato, di presentarvi dimissionari dinanzi alla Nazione, e, oserei dire, dinanzi alla vostra coscienza. E non è a dire se sia il caso in questo momento di parlare di elezioni, e non sia ipotesi che sta fra il grottesco ed il catastrofico, voler lanciare di nuovo le masse della Nazione, che hanno bisogno di tranquillità, di calma e di lavoro, in una battaglia elettorale, che, dato il momento, sarebbe piena di incognite, Quindi a tutte le richieste delle opposizioni, siano esse formulate dai Partiti nel Paese, siano esse formulate domani dai rappresentanti parlamentari di questi partiti, credo che il Governo e la maggioranza non possano rispondere che un no fermo, categorico, solenne.
Quale è il programma futuro? L'ho già detto e lo ripeto, lo dissi in questa sede e lo ripetei alla Camera e lo espressi ancora una volta ieri al Senato. Io mi propongo di fare funzionare la Camera, il Parlamento. Ripeto, è mia intenzione di non fare più decreti-legge, perché se il Governo fa decreti-legge la Camera non ha più nulla da fare, non ha che da mettere lo spolverino; rientrare nella legalità assoluta, reprimere l'illegalismo, purificare il Partito. Come avete visto, c'è un programma del primo tempo; cioè la modificazione della compagine del Governo. C'è un programma del secondo tempo: purificazione e selezione del Partito. C'è un programma del terzo tempo: fare funzionare gli organi legislativi.
A questo proposito sottopongo alla vostra meditazione la situazione che si è determinata nel Parlamento. Esiste l'esodo delle opposizioni, la secessione delle opposizioni. Questa secessione è temporanea? È definitiva? Questo è il punto, e qui è tutta la delicatezza della situazione. Se la secessione è temporanea, la situazione può chiarirsi. Se invece la secessione fosse definitiva, allora il problema si presenta in termini di una certa e relativa gravità. Il problema che s'impone allora è di sapere se il Parlamento può funzionare con la maggioranza prescindendo dall'atteggiamento delle minoranze. Certo è questo, che la maggioranza non può subire il ricatto delle minoranze. Se un gruppo di minoranza si ritirasse sull'Aventino, dovrebbe bastare questo fatto per mettere in giuoco il funzionamento della Camera?
Non mi faccio illusioni. Credo che, malgrado il nostro proposito di conciliazione nazionale come andiamo riaffermando con una sincerità che non può essere messa in dubbio, credo che non bisogni guardare la situazione con un soverchio ottimismo. In fondo non è più questione dell'assassinio Matteotti, non è più questione di sapere se dieci o quindici o venti o trenta individui andranno in carcere, non è più questione di sapere se il Governo sarà ricompaginato, trasformato, se il Partito subirà una energica selezione. Si vede ormai chiaramente l'obiettivo finale di tutte le opposizioni e questo obiettivo finale è il regime.
Costoro si propongono di annullare tutto quello che significa, dal punto di vista morale e politico, il regime che è uscito dalla rivoluzione dell'ottobre. Voi vedete allora che il giuoco diventa straordinariamente serrato, perché io stesso vi dichiaro che non sono affatto disposto a questa specie di annullamento di tutta una situazione che noi abbiamo creato con grande sforzo, con grande fatica e anche con molto sangue.
Se invece l'ipotesi più ottimista si verifica e, cioè, le opposizioni sono veramente pensose delle sorti della Patria e non vogliono spingere le cose fino al punto in cui l'irreparabile scoppia come una conseguenza fatale, logica; se le opposizioni si renderanno conto di questa loro responsabilità e ritorneranno alla Camera a darvi la loro opera di critica, di controllo, di opposizione anche astiosa, anche settaria, anche pregiudiziale che noi dovremmo sopportare, tollerare, talvolta quasi incoraggiare perché l'opposizione, in quanto ci segnala certi fatti, certe cose, può essere di utilità grandissima; se questo avviene, allora potremo dire di avere superato la crisi.
Comunque le opposizioni si riuniscono venerdì. Non sappiamo se sarà soltanto la commemorazione dell'on. Matteotti o se ci saranno delle decisioni anche di carattere politico concernenti l'atteggiamento di queste opposizioni. Se si trattasse soltanto della commemorazione dell'on. Matteotti, noi ci associeremmo perché questa commemorazione l'abbiamo già fatta in termini sincerissimi. Quanto alle decisioni politiche, converrà attendere.
Comunque voi, onorevoli colleghi, siete investiti di un mandato preciso e, se non avessi in orrore le parole solenni, vorrei dire sacro. Avete dietro di voi masse imponenti di elettori, masse imponenti di popolo. Voi siete testimoni di tutti gli sforzi che il Governo ha fatto prima e dopo, voi siete testimoni del programma che il Governo intende realizzare, voi quindi potete attestare con sicura, con tranquilla coscienza, che se domani la crisi si acuirà invece di risolversi, non certamente oggi la coscienza nazionale, né domani lo storico imparziale potrà attribuire a noi questa responsabilità.
Noi siamo ancora una volta disposti, e lo ripeto, a fare funzionare regolarmente il Parlamento, a fare rientrare il Fascismo nella legalità; siamo disposti a purificare il Partito — e lo faremo — siamo disposti a seguire una politica di conciliazione nazionale, che ignori il passato, che ignori tutte le lotte del passato, ma non ci si chieda la rinuncia a quei principi che abbiamo il sacrosanto dovere di difendere a qualunque costo.
Dopo il discorso del Duce, la maggioranza parlamentare votò per acclamazione il seguente ordine del giorno, proposto dal Comitato di maggioranza: «-La maggioranza parlamentare, udite le dichiarazioni del Capo del Governo, gli riconferma la sua piena fiducia e devozione-».
Roma, 22 luglio 1924: Mussolini afferma “Indietro non si torna”
La stampa d'opposizione si era abbandonata alla più sfrenata licenza; lo scandalismo sistematico, il gusto della menzogna, dell'ingiuria, della calunnia, tutto quello che poteva turbare gli spiriti deboli, offuscare le coscienze, seminare la discordia e il disorientamento nel paese - era divenuto pasto quotidiano del giornalismo antifascista.
Il Regime, con molta generosità, aveva evitato d'applicare, fino a quel momento, il decreto sulla stampa già approvato all'unanimità dal Consiglio dei Ministri del 12 luglio 1923; ma ora s'imponeva una rigorosa e immediata applicazione, per ricondurre la Stampa a un più vigile senso di responsabilità, e impedirle di turbare, con scandalose speculazioni, l'opinione pubblica.
Il Consiglio dei Ministri, l'otto luglio 1924, decise l'immediata applicazione del decreto, che non toglie (come è stato troppo facilmente ripetuto all'estero dagli avversari del Fascismo) la cosiddetta «libertà di stampa», ma riconduce il giornalismo alle sue funzioni più elevate, eliminando per sempre quel tipo di giornalismo ricattatore e scandalistico che era un triste retaggio delle democrazie del secolo XIX. Le opposizioni finsero di non capire il valore dei provvedimenti presi e scatenarono una violenta campagna, facendo le vittime e sfoderando tutta la più rancida retorica libertaria.
In tale momento, al Gran Consiglio del Fascismo, a Palazzo Venezia, il 22 luglio 1924, il Duce pronunziò il seguente discorso:
Le dramatis personae degli avvenimenti di queste ultime settimane sono da individuare come segue.
Cominciamo, per cavalleria, dalle opposizioni. Fu già detto che in Italia c'erano troppe opposizioni per esserci una opposizione degna di questo, nome. L'opposizione ha troppe facce e troppe anime. Si avvertono già delle insofferenze a cagione dell'eccessiva promiscuità. L'opposizione parlamentare, che si è ritirata sull'Aventino dove nessun Menenio Agrippa fascista andrà a recitare il famoso apologo, è assai diversa da quella dei comitati locali. Già sorgono delle accuse e spuntano in folla accusatori con l'indice teso.
Gli «-aventinisti medagliettati-» corrono il rischio di essere bollati come «-pompieri-» dai provinciali. La verità è che i parlamentari non possono fare altro che passivamente attendere, ed i non parlamentari non possono che votare degli ordini del giorno coi quali ingannano a loro volta l'attesa. Né gli uni né gli altri sono in grado nemmeno di pensare di rovesciare il Governo fascista. Voto parlamentare ed insurrezione antifascista sono entrambi impossibili.
Eventuali ulteriori secessioni non sposterebbero i termini della situazione. Più l'opposizione si gonfia, più diventa idropica ed impotente, più si acutizzano le nausee della promiscuità prolungata.
Che il mucchio dell'opposizione possa apparire vastissimo non vi è dubbio. Ben dieci sono in Italia i Partiti e sei o sette i gruppi antifascisti. Elenchiamoli in fila indiana. Forse qualcuno comincerà a vergognarsi di trovarsi in tanto numerosa compagnia... Anarchici, comunisti, massimalisti, unitari, repubblicani, popolari, democratici sociali, democratici costituzionali, contadini, partito sardo e lucano d'azione.
Trascuriamo le varie unioni spirituali meridionali locali: i gruppi Italia libera, Patria e Libertà, Rivoluzione liberale, nonché i dissidenti più o meno fascisti. A tutti questi partiti e gruppi bisogna aggiungere la Massoneria giustinianea, che ha dichiarato ufficialmente la guerra al regime fascista.
Ebbene, io penso che sia il massimo titolo di orgoglio pel Fascismo italiano l'aver schierate innanzi a sé così numerose falangi di nemici. Il Fascismo deve rappresentare l'elemento di assoluta originalità nella vita italiana, se viene fatto oggetto di così imponenti ostilità.
Non credo che a questa grande, e in fondo grottesca, armata antifascista si aggregherebbero quei liberali che sono entrati nel listone. Che i fascisti siano dei compagni di viaggio spesse volte esuberanti, io lo ammetto senza difficoltà. Che i fascisti stentino un poco a raccapezzarsi fra le diverse specie di liberalismo contrastanti, può anche darsi; ma io mi guardo bene dal dimenticare che i liberali di destra hanno tenuto un contegno di perfetta, amichevole lealtà verso i fascisti, tanto da meritare l'appellativo di fascisti onorari; ed hanno quindi diritto da parte dei fascisti alla più cordiale reciprocità di trattamento.
I voti recentemente emessi a favore del Governo da importanti sodalizi liberali, a Venezia, a Milano, a Roma stessa, dimostrano che una frazione imponente del liberalismo non scende a far comunella con quelle opposizioni che vanno da Torrigiani a Don Sturzo attraverso Modigliani, e che sono in ritardo di due anni poiché vorrebbero riportare l'Italia semplicemente alla situazione dell'estate del 1922.
Gli oppositori, qual più qual meno, chiedono la normalizzazione. Ecco una parola di moda, una parola che diventa sempre più sospetta con l'uso e l'abuso che se ne fa. Parola elastica che ognuno degli oppositori interpreta a suo piacimento. Di che si tratta in concreto?
Normalizzazione vuol dire forse ordine pubblico? Esso è perfetto e garantito. Non è stato turbato nei giorni della maggiore emozione. Vuol dire continuità delle attività nazionali, pubbliche e private? Ognuno vede che tale continuità esiste e dà i suoi frutti.
Non si crei l'arbitraria ridicola distinzione fra ordine esteriore e ordine interiore; comunque l'ordine mantenuto all'interno come mero effetto di influenze spirituali, non esiste in nessun paese del mondo, poiché in tutti i paesi del mondo esistono fautori del disordine che tutti i Governi, anche i più liberali, controllano e puniscono.
La normalizzazione significa una maggiore costituzionalità della Milizia? È ormai un fatto compiuto, come dirò fra poco. Significa repressione dell'illegalismo? Le cronache giudiziarie di questi ultimi tempi grondano, se non di sangue, di anni di galera distribuiti ai fascisti con una prodigalità che io mi guardo bene dal discutere, e che accetto anzi senza discussione.
L'illegalismo fascista dunque è impedito o è represso, mentre riprende l'illegalismo politico morale dei Partiti antinazionali.
La normalizzazione significa forse il processo al regime? Allora noi rispondiamo che il regime non si fa processare se non dalla storia.
In realtà, fuori dai torbidi equivoci e dalle oblique restrizioni mentali, si sa ormai che cosa intendono per normalizzazione gli oppositori. Intendono un'azione antifascista. Essi stabiliscono l'equazione «normalità: antifascismo». È chiaro allora che, posto in questi termini, non esiste più un problema di normalizzazione, ma un problema di forza tra Fascismo e antifascismo. Se l'antifascismo è normalizzatore, il Fascismo non può non essere, per ovvie ragioni di vita, che antinormalizzatore.
La normalizzazione, in ciò che essa concretamente significa, può ormai dirsi un fatto compiuto. È dunque evidente che antinormalizzatori sono precisamente gli antifascisti. E questo comincia chiaramente ad intendere il popolo italiano. Insomma, per certi signori, la normalizzazione dovrebbe consistere in una volontaria abdicazione del Fascismo agli attributi della sua virilità. Del resto, Partito e Governo procedono sulla via dell'unica normalizzazione possibile: quella fascista.
Argomento di viva discussione è la Milizia. Giova notare che sino al giugno non parve esistere un problema della Milizia se non per il Fascismo. Voi ricordate che il Sovrano la costituzionalizzò nel suo messaggio della Corona al Parlamento.
È solo dopo l'assassinio di Matteotti che il problema della Milizia balza al primo piano. Può sembrare strano agli allocchi, ma è semplicissimo. Le opposizioni dell'estrema sinistra hanno chiesto lo scioglimento immediato della Milizia, come se fosse la Guardia regia. Le altre chiedono che essa perda il suo carattere di partito. Conviene precisare una volta per tutte.
Il problema della Milizia è semplice, quando nell'esaminarlo esiste la buona fede e non si dimentica il passato. Chi sia tentato o di sapere come è nata o come si è sviluppata e trasformata la Milizia, può andare a rileggere le decisioni del Gran Consiglio nelle sessioni del 1923.
La Milizia poteva dirsi di parte, per quanto concerne il reclutamento; e ciò è inevitabile, poiché ogni reclutamento volontario avviene, e non potrebbe essere altrimenti, soltanto o di preferenza in una determinata zona di cittadini che hanno determinate idee e sentimenti; ma la Milizia non fu mai di parte nei suoi compiti e nei suoi scopi. Il titolo stesso l'indicava: non Milizia fascista o Milizia per la Sicurezza Nazionale, ma Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
È significativo che, mentre il Gran Consiglio tiene la sua sessione, si concentrano a Siracusa due legioni di Camicie Nere, che si dirigono in Libia a sostituirvi le truppe metropolitane. Non si dirà, speriamo, che ci vanno per scopi di partito!
Ora, sulla Milizia sono sorti parecchi equivoci. Si è parlato di fusione coll'Esercito. Tale fusione non fu mai nemmeno discussa o semplicemente ventilata, tanto il suo assurdo è evidente. L'Esercito è tutt'altra cosa della Milizia. I due elementi non sono fondibili né confondibili. La coscrizione è la base necessaria dell'Esercito; il volontariato è la base necessaria della Milizia.
Ma anche sull'inquadramento c'è stata la confusione delle lingue. Non si tratta di fare della Milizia un supplemento dell'Esercito, o peggio un doppione dell'Esercito; si tratta di assegnare alla Milizia compiti che l'Esercito, per la sua stessa natura, non può più esercitare; compiti limitati, specifici, nettamente definiti, in modo da evitare contrasti e frizioni. Compiti premilitari, che la Milizia assolve già nella divisione di Pola, ad esempio, e altrove.
Veniamo alla costituzionalizzazione. Anche qui bisogna chiarire. Esiste già una costituzionalizzazione della Milizia per la buona ragione che la Milizia è sorta in seguito ad un regolare voto unanime del Consiglio dei Ministri, tradottosi in apposito decreto-legge, firmato regolarmente dal Sovrano. Si tratta, caso mai, di un perfezionamento, che già da tempo formulai, come programma; perfezionamento, che è già stato concretato e concordato in un progetto di legge da presentarsi al prossimo Consiglio dei Ministri. Per tutto il resto la Milizia rimane qual'è.
Per l'impiego resta naturalmente agli ordini del Capo del Governo, come del resto tutte le altre forze armate dello Stato. Rimane la gloriosa camicia nera. Per l'organizzazione e formazione, quella romana. La Milizia non può né deve perdere le sue caratteristiche, cioè le sue istituzioni, il suo spirito, il suo stile.
È ovvio che il reclutamento allargato deve essere molto maggiormente cautelato. È chiaro che, oltre i fascisti, solo elementi di sicura e provata fede nazionale potranno entrarvi. Spetta quindi ai fascisti il compito preciso di fornire incessantemente dei legionari alla Milizia, la quale, come si legge in una memorabile mozione del Gran Consiglio del settembre 1923, «-rappresenta il fiore del partito, la guardia fedele e vigile e invincibile della Rivoluzione fascista, la riserva inesauribile d'entusiasmo e di fede nei destini della Patria, simboleggiata nell'augusta persona del Re-».
Investito improvvisamente dalla bufera, il Partito nazionale fascista ha magnificamente resistito. Vi sono state qua e là delle defezioni singole; piccoli vuoti che sono stati colmati con elementi migliori. L'utilità della grande crisi è anche data dalla liberazione dalla zavorra. Tale opera di necessaria selezione dovrà essere metodicamente continuata.
Il Governo ha modificato la sua composizione, ma senza alterare la sua fisonomia. Vi sono state anche a questo proposito delle complicazioni di cui il tempo galantuomo sta facendo giustizia. Il carattere di un Governo è segnato dalla sua origine e dal suo programma, più ancora che dai suoi uomini; ed in ogni caso si può osservare che la maggioranza dei ministri è regolarmente fascista.
Il Governo resterebbe fascista anche se per avventura fossero chiamate a parteciparvi altre forze più lontane, così come il Governo fu fascista nei primi mesi della sua esistenza, quando aveva nella sua composizione ben sei ministri di diversi colori, e cioè due liberali, due popolari, due democratici sociali, oltre ai due ministri militari, che non hanno partito.
Non bisogna nascondersi che il delitto Matteotti ha prodotto una profonda oscillazione morale nella massa del popolo italiano. Le ragioni di ciò sono evidenti. Anzitutto la soppressione di una vita umana; poi il modo assolutamente barbaro e bestiale; poi il tempo, poiché nessuno aspettava un delitto del genere all'indomani di un discorso pacificatore che aveva raggiunto lo scopo o poteva raggiungerlo. Infine i protagonisti o presunti tali. Il mistero delle causali per cui l'opinione pubblica ha oscillato fra questi due punti interrogativi: terrorismo o affarismo? quali i moventi?
Mettete insieme tutti questi elementi e vi spiegherete, anche senza l'inevitabile campagna giornalistica — dovuta al desiderio di sfruttare a scopo di tiratura il delitto clamoroso — l'emozione del popolo. C'è stata anche una speculazione e questa ci ha giovato. Certe esagerazioni, certe notizie fantastiche, le conseguenti smentite, il piano assurdo di allargamento all'infinito delle responsabilità morali, tutto ciò ha, dopo alcune settimane, prodotto una nuova oscillazione, in favore del Fascismo, che intanto, colle sue adunate regionali, dimostrava d'essere ancora potente ed invincibile.
Le adunate sono state grandiose, e si sono svolte nella massima disciplina. Il Direttorio provvisorio le ha sospese e ha bene operato. Non bisogna stancheggiare le nostre schiere con troppe parate. Allo stato degli atti non c'è bisogno di tenere mobilitate le nostre forze, come se pericoli reali e gravi minacciassero il Governo fascista.
In fondo, che cosa fanno le opposizioni? Fanno degli scioperi generali o parziali? delle manifestazioni di piazza? o tentativi di rivolta armata? Niente di tutto ciò. Le opposizioni svolgono un'attività puramente di polemica giornalistica. Non possono fare altro. Per evitare che anche la semplice polemica possa turbare gli animi con ripercussioni sull'opinione pubblica non c'è bisogno di ondate sproporzionate allo scopo. Bastano i decreti sulla stampa. Non si mobilita un esercito per sfondar pochi fogli di carta. I quali poi, quando esagerano, ci giovano assai. Poiché il pubblico italiano, o sarà saturato dai giornali oppositori, e per variare riprenderà i nostri, o sarà mitridatizzato.
Così stando le cose, il Fascismo può restare tranquillissimo, colle armi al piede. La situazione migliorerà tanto più rapidamente quanto maggiore sarà la disciplina assolutamente legalitaria del Partito fascista. Ogni illegalità del pari rapidamente scomparirà. Il Partito fascista è il più forte e può quindi attendere con minori preoccupazioni, minori impazienze dei suoi avversari. «-Mani in tasca-» potrebbe essere la parola d'ordine del momento attuale.
Dichiaro che io non ho ben capito ancora dove i revisionisti vogliono andare a parare. Bisognerebbe che questi nostri amici specificassero. Si tratta di una ricaduta nello Stato democratico-liberale, con tutti gli annessi e connessi? Si vuole invece rivedere i quadri o i gregari? O si vuole — come sembrerebbe logico — rivedere le posizioni mentali e politiche del Fascismo, per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del potere politico?
In questo ultimo caso il revisionismo avrebbe una reale utilità. È evidente che, assunto il potere, bisogna diventare legalitari e non continuare ad essere dei «-ribellisti-». L'insurrezione non è un fine, è un mezzo. Oppure il revisionismo vuol ridurci ad un riesame delle nostre posizioni programmatiche? Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro o è un ritorno al passato? Ho allineato degl'interrogativi, che pongono il problema.
Quanto all'estremismo fascista, esso non esiste, se non come stato d'animo. Si tratta di uno stato vicino alla gelosia. C'è sempre qualcuno che teme, che sospetta, che trepida, che sta continuamente sul «-chi vive-». In fondo anche questo stato d'animo insonne è necessario, come elemento compensativo delle altre tendenze al quieto vivere e al compromesso.
Il dissidentismo è un fenomeno che accompagna il Fascismo fino dalla sua origine, così come certe vegetazioni si aggrappano alla quercia. Non è mai riuscito ad uscire dal localismo e dal personalismo nemmeno quando si raccolse intorno a uomini di chiaro ingegno e di indiscussa probità politica e morale. Non preoccupa minimamente come fenomeno, sia che resti parallelo al Fascismo, sia che faccia numero colle opposizioni. Sarà questa l'ultima delle disgrazie che dovrà capitare al «-cartello-».
I dissidenti vanno divisi in alcune categorie: quelli che avevano in tutto o in parte ragione, e varrebbe la pena di riammetterli nel Partito; quelli che non avevano ragione, ma si sono tenuti in atteggiamento riservato, e costoro possono a loro volta tornare fra noi. Gruppi di dissidenti in buona fede sono rientrati spontaneamente nel Partito. Tutti gli altri vanno lasciati fuori.
Prima di chiudere questa rassegna voglio denunziare una manovra tentata ed abortita pietosamente: la manovra che consisteva nel riesumare il Nazionalismo per metterlo contro il Fascismo. Si può dire che il Fascismo, salvo le nuove reclute, è tutto di ex. Non ci sono che fascisti. Dalla fusione in poi gli ex-nazionalisti sono stati dei fascisti puramente e semplicemente. I posti da essi occupati sono inferiori a quelli cui potevano aspirare data la loro preparazione dottrinaria. Il Fascismo, preso sempre dalla necessità dell'azione, non ha mai avuto tempo di piegarsi in se stesso, per meditare sui problemi essenziali.
In un periodo di alta tensione politica, il riserbo sul compito di domani s'impone, in ispecie nel mio caso. Si tratta di stabilire degli orientamenti, necessariamente generali, e di approntare gli strumenti per tutte le congiunture, anche per quelle che appaiono impossibili.
Il prossimo Consiglio Nazionale ha il compito di dare finalmente un governo al Partito. Tale governo deve uscire liberamente dalla discussione e dal voto. Tale governo deve essere posto in grado di governare il Partito.
Se mai fosse concesso di anticipare, io credo che il nuovo governo dovrà agire sul Partito inflessibilmente, per migliorarlo e renderlo idoneo alle nuove necessità. Non solo bisogna liberarsi dai fannulloni, dai profittatori, dai violenti senza scopo; ma bisogna che tutto il Partito si raccolga in una disciplina più severa, meno formale, più alacre, più attiva, meno facile a quelle esteriorità che, ripetendosi, stancano e diventano convenzionali.
Anche la necessaria intransigenza deve essere intelligente. La fascistizzazione dell'Italia deve avvenire, ma non può essere forzata. Sarebbe illusorio.
Vorrei che si creasse, pur conservando la Corte di disciplina per i dissidi personali, anche un organo superiore, insospettabile per il controllo sull'attività politica e privata dei dirigenti del Partito. Non mi dispiacerebbe che il capo di questo organo fosse un estraneo al Partito.
Il Partito può battere l'opposizione anche semplicemente ignorandola. Ma per ignorare le opposizioni, non bisogna ignorare il popolo italiano cioè i famosi 39 milioni d'italiani che non hanno la tessera particolare. Qui l'azione deve essere combinata e coordinata tra i quattro strumenti dell'azione fascista, e cioè: Governo, comuni, partito, corporazioni.
Deve agire in primo luogo il Governo. Ho detto ad esempio al neo Ministro dei LL. PP. che egli dovrebbe quasi trascurare l'Italia da Roma in su. Dovrebbe avere occhi, orecchi e fondi soltanto per l'Italia meridionale e le isole, dove talune condizioni di vita sociale sono forse in arretrato di mezzo secolo.
Il Partito deve agire nei suoi cinquemila comuni, facendo della buona, della saggia, dell'onesta amministrazione.
Finalmente io assegno un grande compito al sindacalismo fascista.
Esso deve:
1°) elaborare quegli istituti mediante i quali la corporazione dovrà essere riconosciuta giuridicamente e innalzata come una forza dello Stato;
2°) elevare le condizioni morali della gente che lavora in modo da renderla sempre più aderente alla vita della Nazione;
3°) effettuare la collaborazione in un senso attivo, cioè nel senso che una quota parte del profitto vada a beneficio di coloro che hanno contribuito a realizzarlo. Le classi industriali devono rendersi conto di questo loro dovere, che, praticato in tempo, si identifica colla saggia tutela del loro interesse.
Andare al popolo, insomma, specie verso quello che fu troppo a lungo dimenticato, con animo puro, senza demagogia, con cuore fraterno, per farne un elemento essenziale di solidità della Patria. E soprattutto, assoluto disinteresse, fino alla rinunzia totale. Se noi daremo questo esempio alle nuove generazioni, non v'è dubbio che il Fascismo rappresenterà un periodo importante nella storia della civiltà italiana.
Volgendo alla fine, io devo dichiarare ad amici ed avversari, ai fascisti e agli antifascisti, non esclusi certi ambigui filofascisti che la fanno da petulanti mosche cocchiere, che «-indietro non si torna-».
Se c'è qualcuno che abbia la nostalgia del tempo in cui si parlava dell'Italia come di «piccolo popolo disorientato», quel qualcuno si convinca che indietro non si torna. L'appellativo ingiurioso era giusto, poiché il disordine era dovunque: nel Governo che non governava, nelle Amministrazioni che non funzionavano, nel Parlamento che offriva triste spettacolo di sé alla Nazione, nei servizi pubblici paralizzati, nelle officine occupate, nei campi invasi, nelle città teatro di sanguinosi conflitti collettivi e di attentati che inorridivano il mondo, nelle università dove si scioperava, nelle caserme che conobbero la sedizione di Valona, nel popolo tutto inasprito, sbandato, demoralizzato.
Il quadro del «-piccolo popolo disorientato-» che provocava le ironie ingiuriose dei diplomatici durante le trattative di Versailles, potrebbe caricarsi di altri colori ma non ne vale la pena, perché, se molti, non tutti gli italiani lo hanno dimenticato.
Indietro non si torna! Quei tempi sono conclusi! È inutile fantasticare di combinazioni o trapassi ministeriali. Il Fascismo non è arrivato al potere per le vie normali. Vi arrivò marciando su Roma armata manu, con atto squisitamente insurrezionale. Se nessuno osò resistere, gli è perché si comprese che era inutile resistere al destino. Se nelle giornate insurrezionali dell'ottobre scorso non fu versato sangue — quantunque ci siano state decine di gloriosi morti — molto sangue — purissimo — venne versato nel triennio precedente.
La marcia su Roma fu l'epilogo di un lungo sacrificio. Ma fu nel tempo stesso il cominciamento di un nuovo periodo.
La volontà ci guidi, io ho detto, ed ho precisato anche verso quali mete siano diretti i nostri sforzi. Ma gli eventi sono condizionati anche da coloro che ci osteggiano. Una battaglia politica non è un monologo. Le possibilità di dare i cinque anni di pace e di lavoro al popolo italiano esistono ancora, ma ciò non dipende soltanto da noi. Quale possa essere il corso degli avvenimenti, i fascisti d'Italia sappiano che il Capo e i capi hanno chiaro e religioso il senso della loro responsabilità e che sono pronti a qualsiasi cimento, quando siano in gioco la Patria e il Fascismo.
Ultima modifica di Admin il Gio 22 Mar 2018, 16:11 - modificato 3 volte.
Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO -1924
Roma, 2 agosto 1924: MUSSOLINI parla al Consiglio nazionale del P.N.F.
Roma, 2 agosto 1924: MUSSOLINI parla al Consiglio nazionale del P.N.F.
Nella sala del Concistoro a Palazzo Venezia la sessione del Consiglio nazionale del Partito Fascista, erano presenti i deputati della maggioranza, i segretari federali e i sindaci Fascisti di molte città d'Italia, il Governo, il Direttorio provvisorio del Partito. I Senatori erano largamente rappresentati;era presente anche Arnaldo Mussolini, direttore del «-Popolo d'Italia-». MUSSOLINI in tale occasione, pronunciò il seguente discorso:
Signori!
Mentre mi accingo a parlare innanzi a voi, io sento diretti verso di me, gli stiletti sottili del partito popolare, le rivoltelle nuove fiammanti del liberalismo tripartito, e eziandio i tromboni della social-democrazia.
(L'assemblea ride. Il Duce, dopo una pausa, punta le braccia su la tavola, guarda fissamente la folla e continua ad alta voce):
Perché, voi mi direte, così vasto arsenale di armi? Perché, dinanzi a questi furiosi consumatori d'inchiostro, domani si porrà questo formidabile problema: ha parlato il Capo del Partito o il Capo del Governo? Ebbene, io rispondo che parla l'uno e l'altro. (Bene! Bravo!).
Sì, in quanto che i due elementi non formano che una unità completa, che due aspetti dello stesso fenomeno, due attività della stessa natura. (Applausi).
Voglio portare il mio cordiale saluto a voi, uomini della provincia, della buona, della solida, della quadrata provincia. Vorrei che portaste nelle città troppo popolose e spesso smidollate il vostro spirito pieno di profondità saggia, la vostra rozzezza, il vostro dire chiaramente pane al pane e vino al vino, il profumo delle vostre campagne, l'energia di questo meraviglioso popolo agrario, rurale. (Applausi). Bisogna fare del Fascismo un fenomeno prevalentemente rurale. In fondo alle città si annidano tutti i residui — stavo per dire i residuati — dei vecchi partiti, delle vecchie sette, dei vecchi istituti. Il popolo italiano è prevalentemente rurale: su quattro milioni di combattenti, certamente tre e mezzo erano rurali. I fascisti rurali sono i più solidi; i militi rurali sono i più disciplinati. Si può chiedere a loro la resistenza alla fatica, la sopportazione dei disagi e una disciplina assoluta. E giova dire che in queste ultime settimane la provincia si è fatta fortemente sentire ed è stata un elemento essenziale della situazione. Ora, voi siete qui convocati per dare un governo al partito. Bene. Ma bisogna che questo governo abbia direttive: queste direttive debbono uscire dalla vostra assemblea.
Tante voci e tante parole corrono gli orizzonti. La fortuna delle parole! Varrebbe la pena di scrivere un volume; parole che passano e non lasciano traccia, attorno alle quali ci si affatica. Prima era la libertà, che era tolta al popolo italiano. (MUSSOLINI sorride, incrocia le braccia e, guardando fisso dinanzi a sé, dice): Ma il popolo italiano non me l'ha mai chiesta!
Io sono assai dolente che il Governo, in questi due mesi, per le vicende politiche non abbia potuto fare dell'ordinaria amministrazione, che consiste nel dare delle strade, degli acquedotti, delle case al popolo italiano. (Applausi fragorosi).
Poi è venuto l'argomento della normalizzazione, che nessuno sa ancora che significhi. Poi l'antirisorgimento. Questa è l'ultima delle trovate. Tutto si può mistificare, anche la storia, ma il Risorgimento è un fenomeno enormemente complesso: c'è di tutto: ci sono anche le bombe di Felice Orsini. È singolare che oggi questo bombardiere sia molto onorato. C'è il nord e il sud, diverse tendenze; probabilmente c'è stata una promiscuità, non veramente una giuntura, fra nord e sud, perché non bastano le ferrovie a determinare l'unità spirituale di un popolo. Nel Risorgimento tutti i fattori entrarono, onde non si potrebbe pensare cosa più ridicola di voler coprire questo grandioso fenomeno, che comincia con una rivolta militare e finisce con un'entrata mediocre a Roma, mettendovi sopra il grande mantello variopinto di un grande partito che allora non esisteva.
Un'altra cosa io debbo ancora dirvi.
Non abusiamo dei casi di coscienza, rendiamoci conto della situazione. Noi siamo un esercito, un partito, una massa accerchiata. Abbiamo delle simpatie diffuse, che subiscono degli alti e dei bassi ma, in realtà, per un fenomeno di cui voi misurate le tappe successive. Tutti coloro che per i più diversi motivi avevano aderito a noi e ora si allontanano, sono quelli con i quali evidentemente non è possibile andare d'accordo; si vede che mancano le condizioni della semplice convivenza. Ma allora quelli che fanno parte di questo esercito che si muove in un ambiente che tutte le opposizioni cercano di rendere più ostile e difficile, tutti coloro che sono in questo partito debbono considerarsi, non dei filosofi alla ricerca dello specifico perfetto, non dei dottrinari che esaminano un problema determinante soluzioni, ognuna delle quali dimostra l'errore degli altri, ma dei soldati.
Quando i tempi duri dell'assedio finiranno, allora i grandi problemi dovranno essere affrontati e discussi. (Un applauso, interrotto dal Duce con un gesto). Ad ogni modo, evitiamo le manifestazioni che potrebbero impedirci la necessaria libertà d'azione per il futuro: collochiamo pure in soffitta il manganello; ma mi raccomando, non mettiamoci in pantofole e papalina, perché potrebbe darsi il caso che, mentre noi andiamo disarmati con tutti i ramoscelli di una intera foresta d'ulivi, gli altri ci costringessero alla lotta in condizioni di assoluta inferiorità.
Si parla di concordia, di pace, di normalizzazione. Tutti sappiamo a memoria questo vocabolario; ma voi siete testimoni che, da parte dei nostri nemici, non si muove un dito, non c'è una sola parola, non c'è un solo gesto, non c'è neppure un ordine del giorno ed un articolo di giornale che dimostrino una diminuzione della loro preconcetta e irreducibile ostilità. Onde la buona strategia consiglia di seguire la nostra direttiva, che è quella di andare verso il popolo italiano, ma, d'altra parte, di vigilare molto attentamente tutto il lavoro che le opposizioni fanno in pubblico e soprattutto in segreto.
D'altra parte, voi avete visto che questa crisi ha avuto un'utilità, che ha consentito di sceverare i veri amici dai falsi amici, di distinguere i Fascisti di volontà, di passione e di fede dai fascisti che sono ombre semivaganti, che hanno sempre le orecchie rizzate per sentire le voci dell'opinione pubblica, e mettere il distintivo a seconda dell'ora che passa. (Applausi). Questo deve finire! (Nuovi applausi). Il nuovo Direttorio avrà delle direttive precise, precisissime. Gli incerti, gli indecisi, tutti coloro che sono già al di là con un piede, saranno respinti perché sono un impedimento, sono una massa che domani ci appesantirebbe nella nostra marcia. Ora, non varrebbe la pena di vivere come uomini e come partito, e soprattutto di dirci Fascisti, se non si sapesse tenere testa alla bufera.
Signori, chiunque è capace di navigare in mare di bonaccia, quando i venti gonfiano le vele, né vi sono onde e cicloni. Il bello, il grande, e vorrei dire eroico, è di navigare quando la bufera imperversa. Un filosofo tedesco disse: «-Vivi pericolosamente-». Vorrei che questa fosse la parola d'ordine del fascismo italiano: «-Vivere pericolosamente-». Ciò deve significare essere pronti a tutto, a qualsiasi sacrificio, a qualsiasi pericolo, a qualsiasi azione, quando si tratti di difendere la Patria e il Fascismo. (Applausi entusiastici).
Roma, 4 agosto 1924: MUSSOLINI parla di Combattentismo e Fascismo.
Alcune frazioni di combattenti, già nel passato - sobillate dai politicanti - avevano tentato una inammissibile distinzione fra lo spirito combattentistico e il Fascismo. Gli ultimi residui di questa tendenza non erano del tutto spenti, e in un Convegno di Combattenti ad Assisi era stato votato un ordine del giorno che, pur non opponendosi esplicitamente al Fascismo, rimaneva ambiguo su questo delicatissimo punto. Nella seduta del 4 agosto 1924, l'on. Forges Davanzati, relatore per il Direttorio Provvisorio aveva messo in evidenza il carattere equivoco dell'Ordine del giorno. A lui si era aggiunto l'on. Bastianini, al quale aveva risposto il Capitano Viola, difendendo la chiarezza dell'Ordine del giorno. Prese quindi la parola il Duce, e fece le seguenti dichiarazioni:
L'Assemblea ha sentito le dichiarazioni dell'on. Viola. Non è il caso di aprire una discussione sopra queste dichiarazioni, ma io tengo a fare alcune osservazioni e a dire molto esplicitamente che l'ordine del giorno di Assisi non mi piace. Per il prossimo giovedì o venerdì l'on. Viola mi ha annunziato una visita del Consiglio Centrale dei Combattenti. Avremo una discussione che sarà molto precisa.
L'ordine del giorno di Assisi consiste in un evidente peggioramento di tutte le posizioni politiche assunte, necessariamente, dall'Associazione dei Combattenti. C'è un'enorme differenza fra il tono e la sostanza e gli ordini del giorno votati a Napoli, a Roma, e altrove, e l'ordine del giorno votato ad Assisi, al Congresso poco francescano di antifascismo che mi ha ricordato quello del partito popolare a Torino.
Non si è alla rottura; ma con le intimazioni, con la intolleranza del Congresso, col discorso Bergmann, con altri discorsi, si sono create le condizioni che domani potranno giustificare la rottura. Ora, non è senza una profonda amarezza che io lo constato, perché ciò mi porta a dire che nel '19, nel '20, nel '21, e nel '22 non ci fu combattentismo in Italia.
Quando la Vittoria veniva mutilata, quando gli ufficiali venivano insultati, quando si sarebbero dovuti riformare i battaglioni dei combattenti e dei fanti per difendere quello che era stato un sacrificio ineffabile di venti generazioni, voi non avete mai veduto qualche cosa che vi ricordasse l'esistenza d'una Associazione nazionale dei combattenti. Solo dopo l'avvento del Fascismo, solo dopo che il Governo ha avuto il coraggio di dirsi il rappresentante di Vittorio Veneto, solo dopo che nel 1923 l'atmosfera è apparsa radicalmente cambiata, solo dopo che il Governo ha decretato la solennità del 24 maggio — ciò che nessun Governo aveva mai osato fare (applausi vivissimi) — solo dopo che era andato con cuore sempre più fraterno verso questi commilitoni, verso questi fratelli delle trincee, solo dopo tutto ciò, si sono avute le manifestazioni politiche del combattentismo. Sono evidentemente in ritardo.
Il combattentismo si spiegava quattro anni fa, e, del resto, voi avete visto, che, come costrutto politico, come tendenza politica, come orientamento politico, da Assisi non è venuto nulla. Sotto questo aspetto io mi rammarico di dover constatare che i Combattenti hanno tenuto un contegno molto più grave e diverso di quello che non abbiano tenuto i mutilati a Fiume, da dove mi è giunto un appello, un'invocazione nobilissima redatta in termini dai quali esulava la speculazione politica.
Bisogna ricordare anche l'opera concreta che il Governo ha compiuto pei Combattenti. Non è qui il caso di dire quante sistemazioni siano avvenute; tutto questo si è fatto nella pratica, dirò così, della ordinaria amministrazione. Non si chiede gratitudine, perché questo è il dovere del Governo. Ma sarebbe veramente deplorevole, sarebbe voler rinnegare la Vittoria, aggiungere le schiere dei fanti alla pallida e miserabile coalizione antifascista, perché, o signori, il Fascismo sarà quello che sarà, un crogiuolo di passioni più o meno nobili, ma è anche l'unica cosa potente, viva, degna di avvenire, che abbia la Nazione italiana.
Queste dichiarazioni ebbero un'immediata ripercussione negli animi dei Combattenti. Il giorno seguente, nella seduta del 5 agosto, fu approvato per acclamazione il seguente ordine del giorno, firmato da duecento Combattenti, fra i quali primeggiavano otto Medaglie d'Oro: Barnaba, Gemelli, Rossi Passavanti, Amilcare Rossi, Igliori, Curias, Niccolò e Giuseppe De Carli:
«-Il Consiglio Nazionale del Fascismo, di fronte a un grossolano tentativo di mistificazione compiuto da taluni organi di stampa per trovare motivo di contrasto tra Fanti e Camicie Nere, precisa quanto segue:
«-1°) che tale contrasto non è mai esistito e non esiste in quanto che il fiore dei Combattenti si è raccolto sotto le insegne del Littorio, prima e dopo la Marcia su Roma;
«-2°) che la protesta del Consiglio Nazionale investe esclusivamente le manifestazioni recentissime del Congresso di Assisi;
«-3°) che un censimento immediatamente predisposto dal nuovo Direttorio nazionale, darà la prova che la enorme massa dei Fascisti si compone dei Combattenti-».
Roma, 7 agosto 1924: MUSSOLINI fa la sintesi della lotta politica.
MUSSOLINI, chiudendo i lavori del Consiglio nazionale del Partito Fascista e insediando il nuovo Direttorio pronunciò il seguente discorso, che costituisce una sintesi della lotta politica combattuta in quel momento dal Fascismo.
Crederei di commettere un peccato di nerissima ingratitudine se io non vi manifestassi, in termini di assoluta sincerità, il godimento intimo che questa nostra riunione mi ha procurato.
Io vi manifesto il mio alto plauso non solo per la serietà con cui avete manifestato le vostre idee, ma anche per la discrezione che avete messo in una discussione che, svolgendosi alla presenza del Capo del Governo, è sempre di carattere assai delicato. Voi avete superato brillantemente questa prova tanto che oggi io deploro che il Consiglio Nazionale non sia stato convocato prima. Erano tre anni che il Partito non parlava. Se voi ricordate, l'ultimo Congresso fu tenuto a Roma nel 1921. Da allora giammai ebbe luogo un'Assemblea così seria, così imponente e così feconda come quella che in questo salone si è svolta, tanto che io opino in senso favorevole circa la possibilità di tenere, in tempo non lontano, un Congresso nazionale che potrebbe svolgersi, per esempio, a Firenze, dove c'è un grande teatro capace di accogliere i rappresentanti degli 8000 Fasci italiani. Vi sono delle difficoltà di ordine pratico da superare, ma la possibilità esiste ed io credo che il nuovo Direttorio nazionale, fra gli altri suoi compiti, dovrà avere anche questo: preparare il quarto grande Congresso Nazionale del Partito Fascista.
Questo Consiglio è stato importante perché ha dimostrato prima di tutto che non esistono tendenze. Il Fascismo non le ha mai avute né le avrà mai. Ognuno di noi ha il suo temperamento, ognuno ha le sue suscettibilità, ognuno ha la sua individuale psicologia, ma c'è un fondo comune sul quale tutto ciò viene livellato; e siccome noi non promettiamo qualche cosa di definito per l'avvenire ma lavoriamo per il presente con tutte le nostre forze, così credo che il Partito Nazionale Fascista non sarà mai tediato, vessato e impoverito dalle interminabili discussioni tendenziali che facevano, una volta, nella piccola Italia d'ieri, il piccolo trastullo della non meno piccola borghesia italiana.
Queste parole di revisionismo, estremismo, terribilismo, ecc., sono state sepolte in una maniera che si può dire definitiva. Credo che non se ne parlerà per un pezzo. Del resto era più una esercitazione dei nostri avversari che una cosa per sé stante. In realtà mi pareva impossibile che l'amico Bottai che è un fascista del '19, che è più giovane di me, che è un ardito di guerra, volesse impaludare il suo intelletto, nelle acque più o meno acquitrinose di un pantano sia pure neoliberale. E mi pareva impossibile, d'altra parte, che Farinacci, che a sua volta ha un temperamento ed un cervello, e fascista del '19, volesse sul serio chiedere cose che non sono possibili, giacché abbiamo tutto: Governo, Provincie, Comuni, abbiamo le forze armate dello Stato, arricchite di recente da un'altra forza armata, che è entrata di fatto e di diritto nella Costituzione. La seconda ondata non avrebbe che dei bersagli fuggenti ed effimeri.
Se nel 1922 ci fu un fatto rivoluzionario, la Rivoluzione deve continuare attraverso un'opera legislativa, attraverso l'opera dei Consigli fascisti, del Gran Consiglio fascista, del Governo fascista.
Si dice dai giornali, i quali pare ci tengano veramente a non capire nulla delle nostre cose, che io sono prigioniero delle mie soldatesche. Prima di tutto voi non siete soldatesche. Respingo questo termine che vorrebbe essere dispregiativo. In secondo luogo osservo che è sempre infinitamente meglio essere prigioniero delle proprie soldatesche che essere prigioniero delle soldatesche avversarie. (Applausi vivissimi).
Avete toccato diversi argomenti sui quali conviene che io mi soffermi. Avete parlato della burocrazia: bisogna distinguere la burocrazia che ordina e la burocrazia che esegue. Tante volte io ho chiesto che si spostassero le pietre della vecchia burocrazia per incastrarvi le pietre della nostra. Tante volte io ho chiesto dei prefetti, dei questori da mettere nei punti più delicati di quello che io chiamo lo scacchiere strategico della politica italiana. D'altra parte la burocrazia è necessaria ed avendo la coscienza della sua necessità è assai difficile a manovrare. Ha una psicologia sensibile a tutte le variazioni atmosferiche; così la burocrazia sente anche le più leggere trasformazioni dell'ambiente sociale che ci circonda. Quando il Governo è forte e dà anche l'impressione di essere forte, allora la burocrazia funziona, esegue, non discute. Il giorno in cui la burocrazia ha l'impressione contraria, o presuppone, o spera un cambiamento, vi accorgete che la macchina ha dei rallentamenti misteriosi; qualche cosa non cammina più. Questo è avvenuto nel giugno; nel luglio la situazione era già migliorata; nell'agosto cominceranno a convincersi che non vi sarà nulla di nuovo e tutto funzionerà diligentemente, come del resto fu fatto sin qui.
Insisto su alcune note da voi toccate. Bisogna, quando si è al potere, e non ci sono soltanto io, ma ci siete anche voi tutti, perché la responsabilità è diffusa, comune, e la portiamo tutti insieme in solido, bisogna avere l'ignoranza, se non il disprezzo, dell'affare.
Bisogna proprio essere estranei agli affari e non farne (applausi fragorosi); rifiutarsi persino di sentirne parlare; dichiarare che alla nostra mentalità tutto ciò è estraneo e quando ci siano in ogni caso necessità di ordine nazionale, che impongano di trattare simili faccende, bisogna farlo alla chiara luce del sole ed in termini che non ammettano sofisticazioni o speculazioni di nessun genere.
Altra cosa osservata è questa. Non vi è dubbio che abbiamo un po' peccato di vanità. Ci siamo un po' troppo ingingillati; troppi commendatori, troppi cavalieri; tutto ciò doveva essere fatto per altri. Noi dovevamo magari distribuire le commende ma fuori del campo fascista. Dovevamo avere l'orgoglio di arrivare nudi alla meta.
Anche per quello che riguarda la condotta privata approvo quanto si è detto pur evitando di cadere in un rigorismo quacquero, che ci condurrebbe fuori della realtà della vita. È evidente ad esempio che, quando si occupano posti eminenti del Partito o del Governo, si deve tenere una condotta che non dia luogo ad osservazioni.
Voi avete appena toccato un argomento: quello più delicato veramente: la tragedia del giugno. Ne parlo a voi con assoluta fraternità, veramente da compagno a compagni. Il 7 giugno pronunciai un discorso alla Camera che aveva letteralmente sgominato le opposizioni. Quale era la base niente affatto paradossale del mio discorso? O voi, signori dell'opposizione, farete l'opposizione in questa linea che vi propongo, o non la farete.
La Camera approva. C'è una distensione di nervi in tutta Italia. Credevo che tutte le cose andassero secondo i piani e secondo le speranze e le possibilità umane. Voi credete veramente che l'emozione, che c'è stata e non vale nasconderlo, sia dipesa soltanto dalla scomparsa di quel deputato? No. L'emozione ha questa origine: prima di tutto il tempo, perché nessuno si aspettava ciò all'indomani di un discorso che aveva sgominato le opposizioni: il modo e soprattutto i protagonisti. Se questi fossero stati lontani dal Governo e fossero venuti su dai bassifondi all'infuori del Partito, l'impressione sarebbe stata minima. Viceversa gli uomini che ho dovuto colpire erano abbastanza vicini a me e su questa vicinanza si è miserevolmente speculato.
Quando hanno visto che io agivo, che la posizione tornava a migliorare, gli oppositori sono passati ad un altro genere di insinuazioni e hanno chiesto il processo al regime.
Certo il Fascismo ha subito un turbamento, ma ha resistito. Perché? Per una ragione molto semplice: perché aveva simpatie grandissime nella minuta popolazione italiana e poi, in secondo luogo, perché il Governo aveva nel suo bilancio un attivo notevole. Se il signor Turati ed altri da 30 anni non hanno fatto che scrivere articoli nei giornali e votare ordini del giorno, il Fascismo ha già fatto cose che sono scritte e non si possono ignorare. Se oggi Trieste è il grande emporio che avevamo sognato e sono smentite tutte le fosche profezie dei disfattisti, lo si deve al Governo fascista; se oggi c'è una ripresa nei traffici, se oggi c'è la sicurezza nelle officine, se oggi si creano dei nuovi Istituti, e le Provincie e le città si allargano, se c'è una aeronautica che quando io la presi aveva 85 apparecchi e ora ne ha molti di più, se c'è un esercito, non perché stia nelle caserme, ma perché è l'anima guerriera della Nazione, se nelle Colonie vi è la sicurezza e se abbiamo potuto aumentare di 91.000 chilometri i nostri possessi oltre il Giuba, se abbiamo potuto ottenere e fare 17 trattati di commercio, questi sono tanti fatti, non tanti ordini del giorno, questo è un enorme attivo che ha sostenuto il Governo e che ha reso vano lo sforzo delle opposizioni più o meno coalizzate. (Applausi vivissimi).
Voi credete che realmente si tratti di normalizzazione, di libertà di stampa, di milizia? No, no. Le opposizioni non sono sul Monte Sacro o sull'Aventino per questo. Non mistifichiamo. Esse sono sull'Aventino e vi restano perché hanno una speranza: credono di potermi agganciare. Se domani questo tentativo riuscirà vano, come riuscirà, allora vedrete questa gente scendere in file disordinate dal loro rifugio. Non sperano altro. Essi sperano che attraverso l'istruttoria arrivi qualche cosa per cui sia possibile mettere in giuoco il Capo del Governo. Non dico nulla di inedito se rivelo il piano strategico delle opposizioni, che è quello di isolare il Fascismo nel Paese, isolarlo moralmente, isolarlo materialmente. Si è giunti fino a proporne l'isolamento fisico: un giornale ha detto perfino che bisognava evitare i fascisti come se fossero dei lebbrosi. Noi dobbiamo rispondere a questo piano tattico e strategico dei nostri avversari cercando di evitare questo isolamento nel Paese, cioè facendo dell'azione amministrativa e del sano sindacalismo che ci avvicini alle masse.
Secondo tempo di questo piano: isolamento del Fascismo nel Parlamento con la disintegrazione della maggioranza parlamentare. Perché oggi qualche giornale prende sotto le sue ali cartacee i combattenti e i mutilati? Perché li esalta? perché li sprona? perché li schiera in un certo senso moralmente contro il Fascismo? Perché, sebbene la maggior parte dei liberali sia fedele al Governo Nazionale ed alcuni tra i migliori di essi gli danno anzi la loro salda e sincera collaborazione, si spera che sui 350 deputati del listone, dei demo-liberali a un certo momento facciano da sé e siano seguiti da qualche mutilato e combattente indeciso, anche di parte fascista, in modo che a un certo momento si possa dire: «-Voi Governo non avete più la maggioranza. Chiedete un voto di fiducia-».
Allora: o il Governo ha un voto di fiducia, e ritorna consacrato e non se ne parla più, ma se non ci fosse questo voto e se avessimo questa defezione, sarebbe subito pronta una successione che non sarebbe nel primo tempo una successione di sinistra, ma di destra con contorno di combattenti e di mutilati: degnissime figure che sarebbero magari disposte a darmi un discreto buonservito.
Se il Partito fascista reagisse davanti a questo piano con le sue masse fasciste, essi penserebbero — frase testuale — che poche giornate di sangue basterebbero per dominare le Provincie. Se il Governo non vi riuscisse si farebbe un Governo militare che dovrebbe fiaccare il Fascismo e dovrebbe aprire la strada ad un Governo demo-liberale.
Tutto come prima, anzi peggio di prima. Questo è il piano. Ne consegue che, se per evitare lo scompaginamento del Paese dobbiamo andare verso le masse che lavorano, per evitare l'isolamento nel Parlamento dobbiamo incominciare a contarci fra noi. E se anche un gruppo di deputati demo-liberali e i combattenti passassero dall'altra parte, non si potrebbe fare un Governo perché vi sarebbero sempre 250 fascisti che voterebbero contro. Il Governo dovrebbe ricercare allora l'appoggio della sinistra, ossia di Don Sturzo e di Turati, e non gli basterebbe. Quanto al Paese, si può schiacciare un focolare di rivolta, ma non si possono schiacciare 75 Provincie dove il Fascismo terrebbe assolutamente le piazze.
Voi vedete che la battaglia è delicata ed esige una strategia assai fine. Bisogna tener conto soprattutto dello stato d'animo del popolo italiano che ha un profondo bisogno di pace. Non bisogna ferire questa sensibilità psicologica delle popolazioni perché altro è muoversi in un ambiente simpatico dove le popolazioni vi accolgono, vi incitano, e diverso è muoversi in un ambiente ostile.
Combattere l'opposizione energicamente, strenuamente non vuol dire respingere tutte le possibilità di collaborazione. A questo si riferiva l'ordine del giorno politico in cui si parlava di un'accettazione leale del Fascismo e del suo avvento insurrezionale. Questo ordine del giorno è ancora un ramoscello di olivo.
In fondo noi diciamo a questi italiani: perché volete negare la realtà, perché non rendervi conto che nell'ottobre c'è stato un tracollo di un determinato regime e perché non accettare il fatto insurrezionale che non si può negare alla luce del sole e della storia? E perché allora non addivenire ad una collaborazione sopra questo terreno di leale accettazione del fatto compiuto anche perché è irrevocabile? (Applausi vivissimi). Non credo che lo faranno; non mi faccio illusioni: io sono pessimista circa lo sviluppo degli avvenimenti.
Noi dobbiamo prevedere che un giorno vi sarà un nuovo tentativo di irruzione contro il Fascismo e siccome lo vediamo, lo possiamo fronteggiare. Se il fattaccio del giugno ci ha sorpreso, quello che potrebbe avvenire in agosto o in settembre non ci sorprenderebbe più. È scontato. Il regime non si processa, quindi. Se le opposizioni pensano di fare il processo al regime mettendo in catena, come si legge nei loro giornali, tutti gli episodi di illegalismo, dichiariamo che ciò non è possibile. Si processerebbe la Marcia su Roma.
Questo Consiglio Nazionale è stato importante prima di tutto perché ha rivelato molta gente, poi perché ci ha fatto conoscere. Non ci si conosceva: ognuno stava chiuso nella sua provincia e lì pareva finire il mondo.
Bisogna mettere in contatto i fascisti, far sì che la loro attività sia anche una attività di dottrina, una attività spirituale e di pensiero. Questo Congresso non ha definito delle dottrine nel senso teorico della parola, ma ha gettato una serie di semi fecondissimi che ognuno di noi sicuramente elaborerà.
In questo Congresso si sono rivelati degli oratori e soprattutto dei pensatori fra quei fascisti, che, secondo i nostri avversari, sarebbero tutti degli analfabeti.
Il giuoco dell'opposizione è di negare ogni forza di pensiero ai fascisti. Siccome durante cinque anni abbiamo dovuto prodigarci sempre in un'attività di ordine militare, o sia pure squadrista, così, salvo dei tentativi che sono avvenuti in questi ultimi tempi attraverso delle riviste, non ci siamo mai abbandonati veramente alla trattazione completa di determinati problemi. Così accade che i nostri avversari ci trattino dall'alto in basso.
Non importa che nel Fascismo ci siano degli scienziati come Marconi, dei filosofi come Gentile, dei professori delle migliori facoltà d'Italia. Ora, se i nostri avversari fossero stati presenti alla nostra riunione, si sarebbero convinti che il Fascismo non è soltanto azione, è anche pensiero, anzi, dovendo oggi cambiare il suo fronte di battaglia, bisogna raffinare sempre più la nostra capacità di pensiero, la nostra capacità polemica ed avere non soltanto l'attacco irruento, ma anemie l'ironia ed il sarcasmo come accade talvolta nei miei discorsi.
Poi questo Congresso è importante perché ha consolidato l'unità del Partito. Abbiamo discusso per quattro giorni in una maniera fraterna. Ci siamo sentiti veramente come fratelli, non come capi e gregari che venivano da tutte le parti d'Italia, e che venivano a stringere i vincoli di un indistruttibile cameratismo. Ciò è importante perché ha dimostrato che il Fascismo non si può distruggere. Neppure un pazzo frenetico può pensare di cancellare il Fascismo dalla storia italiana. (Grandi acclamazioni).
Conclusione: bisogna tenersi pronti a tutte le necessità. Noi non possiamo inibirci nessuna delle possibilità future. Infine se i nostri avversari sono animati da un vero amor di Patria, essi trovano in questo ordine del giorno intransigente la possibilità di demordere dal loro atteggiamento; se viceversa i nostri avversari vogliono mettere la questione sul problema forza, agiremo di conseguenza.
Non rifiutiamoci a nessuna delle possibilità future, prepariamoci; cerchiamo di evitare l'allarmismo nelle popolazioni, cerchiamo di presentarci sotto il nostro aspetto guerriero, ma umano. Non vessiamo i nervi già alterati della popolazione. Cosicché se domani il Fascismo sarà armato di tutto il suo ingegno, di tutta la sua forza morale e spirituale, se potrà dire: noi teniamo, la Nazione non per nostro profitto, allora il Fascismo sarà veramente invincibile.
Uno dei grandi meriti del Fascismo è di avere abolito le distanze tra regione e regione. Il nord non deve chiedere troppo perché anche il sud deve fare i suoi progressi. Noi vogliamo unificare la Nazione nello Stato Sovrano, che è sopra di tutti e può essere contro tutti, perché rappresenta la continuità morale della Nazione nella storia. Senza lo Stato non c'è Nazione. Ci sono soltanto degli aggregati umani, suscettibili di tutte le disintegrazioni che la storia può infliggere loro.
Voi tornerete ai vostri paesi, alle vostre città portando l'impressione di questa nostra veramente mirabile adunata: essa segna una tappa che costituisce una data gloriosa di questo Fascismo che ha cinque anni di vita. Credo, in verità, che nessuna Nazione del mondo abbia qualcosa che rassomigli alla storia del Fascismo, un piccolo partito, poche decine di individui che a poco a poco ingrossano come valanga fatale, poi diventano masse, poi osano di assumere il potere. Ma il giorno in cui hanno assunto il potere, e voi ne fate parte, assumono la responsabilità tremenda di governare un popolo di 40 milioni di abitanti.
Se noi concentreremo tutte le nostre energie, se terremo alto, nel nostro spirito, il senso della responsabilità che ci siamo assunta conquistando il potere, cioè il destino presente e futuro delle generazioni italiane, non falliremo la nostra meta.
Non vogliono più che si dica che siamo pronti ad uccidere ed a morire; ebbene diremo; siamo pronti a morire pur di far grande l'Italia.
Roma, 4 agosto 1924: MUSSOLINI parla ai combattenti romani.
Alle parole pronunciate da MUSSOLINI al Congresso nazionale su l'Ordine del giorno votato il 5 agosto su le polemiche suscitate dal Convegno di Assisi, va ad aggiungersi, chiusosi il Congresso, il discorso prununciato il 7 agosto, quando la Sezione Romana dell'Associazione Combattenti si recò in corteo a Palazzo Chigi:
Commilitoni!
Vi sono grato, profondamente grato, per questa vostra manifestazione di solidarietà e di simpatia, anche perché voi sapete che io non l'ho minimamente sollecitata. È un gesto spontaneo, assolutamente spontaneo, e non è quindi una ricerca di facile e rinnovata popolarità.
Commilitoni! Voi ricordate che pochi mesi or sono, in questa stessa piazza, all'indomani del plebiscito elettorale, di fronte ad una moltitudine imponente come questa, io dissi e proclamai, rivolgendo un caldo appello a tutto il popolo italiano, che le fazioni dovevano scomparire purché la Nazione fosse grande essa sola.
Noi siamo convinti di avere raccolto questo appello. Noi lo abbiamo enunciato con tutta sincerità, con vero amore fraterno. Lo hanno raccolto quelli dell'altra riva?
Ebbene, ciò malgrado, malgrado il quotidiano illegalismo morale con cui si percuote perfidamente e sinistramente tutto il Fascismo italiano dipingendolo per quello che assolutamente non è; malgrado ciò io vorrei in quest'ora rinnovare l'appello, pur senza cullarmi nella illusione che sarà accolto. Ma è già sintomatico, è già significativo ed eloquente che i combattenti della capitale sentano il bisogno di riaffermare solennemente la loro fede.
Commilitoni che avete con me vissuto lungamente per mesi ed anni la fangosa trincea, commilitoni che avete sofferto e lottato e sanguinato come soffriva e lottava l'umile fante, commilitoni che avete fatto della Vittoria il sangue del vostro sangue, lo spirito del vostro spirito, ditemi, commilitoni: Volete tornare veramente indietro?
È pensabile, è soltanto pensabile, che i combattenti italiani, il fiore delle generazioni che ci diedero Vittorio Veneto: è soltanto pensabile che i Fanti reduci dalla guerra possano costituire la massa di manovra di una opposizione che è troppo variopinta per essere sincera?
Ebbene, allora io vi proclamo che stoltizia somma è quella di voler mettere in contrasto i Fanti con le Camicie nere perché, bisogna dichiararlo ancora una volta fortissimamente, nelle file del Fascismo i migliori vengono dalle trincee; ed io dichiaro che farò tutto il possibile per evitare contrasti fra coloro che sono stati gli artefici della nostra indimenticabile e gloriosa Vittoria.
Combattenti di Roma! Vi rinnovo il mio grazie. Voi sapete che io sono e resto sulla breccia; sono legato non al mio capriccio, ma alla mia consegna di soldato.
Debbo compiere e compirò il mio dovere preciso. Ora sono sicuro che voi mi assisterete in questa difficile fatica. Sono sicuro che se io vi chiedessi prove ed attestazioni più ancora che solenni, di solidarietà e di sacrificio. Voi, Fanti di Roma. Voi, Fanti d'Italia, rispondereste ancora una volta con voce di tuono: «Presente!».
Ravenna, 26 agosto 1924: MUSSOLINI parla al Popolo dell'Alto Casentino
Da qualche tempo, l'intensità della lotta politica aveva tenuto MUSSOLINI avvinto alla sua polemica, con l'eco continua delle beghe dei partiti; ma presto riprese a parlare direttamente alla folla degli umili, al disopra di quell'opposizione che tentava invano d'interporsi fra Lui e il popolo: il 26 agosto 1924 si recò nell'Alto Casentino e a Soci, nel Castello dei Conti Guidi, parlò ai fascisti e al popolo di quella regione. Il Sindaco del luogo gli aveva recato il saluto delle popolazioni, invocando l'aiuto di Dio «perché all'Italia sia conservato il condottiero dalle mani salde, che sa condurre la navigazione della Patria in sicuro porto». MUSSOLINI rispose con le seguenti parole:
Signor Sindaco! Cittadini!
Dopo un lungo silenzio è oggi la prima volta che ritorno a contatto del popolo. Il luogo è solenne, la moltitudine è imponente, l'accoglienza è sincera. Il vostro saluto, pieno di fraterna simpatia, mi è giunto al cuore.
Non è la prima volta che mi è accaduto di parlare e di dire cose importanti in piccoli paesi, di fronte ad un pubblico che non è il solito, ma è quello più atto a comprendermi.
Sono contento di questa rapida corsa attraverso la vostra terra che non conoscevo, attraverso popolazioni degne di un grande passato e di un migliore avvenire. Sono lieto di questo vostro contatto, perché questo popolo sano è, secondo l'espressione di Cristo, «il sale della terra»; è pieno di fede, entusiasta del suo destino.
Voi, signor sindaco, avete chiuso il vostro discorso con una similitudine marinara che io riprendo: «-La navigazione non è sempre tranquilla; talora il destino fa all'improvviso scoppiare l'uragano; è allora che il pilota deve avere la mano salda al timone e, se occorre, farsi legare all'albero del timone, per tenere fede alla sua rotta-».
Arezzo, 26 agosto 1924: MUSSOLINI parla al popolo di Bibbiena.
Lo stesso giorno, MUSSOLINI passò da Soci a Bibbiena, dove, in suo onore, ebbe luogo un ricevimento nel Palazzo Municipale. Al saluto recatogli dall'Avv. Coselschi, MUSSOLINI rispose nel modo seguente:
Signor Sindaco!
Le accoglienze del Casentino, che io avevo il torto di non conoscere, e di ciò faccio ammenda e penitenza, mi arrivano profondamente al cuore.
Qui trovo l'anima del popolo di Toscana che, in soli due secoli, ha saputo dare i più bei nomi alla storia d'Italia. Da qui veramente si può ripetere quello che io dissi a Firenze, Patria dello spirito. L'Italia, o Coselschi, non è quella del belletto, è una donna fiera del suo passato e ancor più del suo futuro.
Quello che è stato fatto non è dipeso da me, ma dal popolo che lavora e che collabora; lavora nei cantieri e nelle officine ed i risultati di questo lavoro ancora non si vedono perché tutto è coperto. Ma presto l'impalcatura che lo nasconde cadrà.
Cittadini di Bibbiena, uomini vibranti di fede: sono sicuro che voi con gli altri costruirete questa Italia come la vedo io, e così dopo il definitivo trionfo voi direte ai vostri figli: passò il Fascismo vivificatore e la Patria nostra è rimasta la terra dei grandi maestri, degli insigni artefici, dei portatori della civiltà umana.
Siena, 31 agosto 1924: MUSSOLINI parla agli operai del Monte Amiata.
MUSSOLINI si recò a presenziare all'inaugurazione del Monumento dei Caduti al Monte Amiata e nel Piazzale della Galleria Mafalda tenne agli operai il seguente discorso:
Vi prego di concedermi pochi minuti del vostro raccoglimento e della vostra attenzione.
Vi dichiaro subito che mi trovo perfettamente a posto fra voi: non soltanto per le mie origini, quanto per il fatto che tra voi la Milizia ha reclutato molte Camicie nere e che parecchi di voi, minatori, avete partecipato alla Marcia su Roma.
Poi mi trovo perfettamente a posto fra voi perché credo che il mio discorso sarà inteso da voi tutti e sarà utile. Io non vi dirò delle cose straordinarie perché oramai di straordinario al mondo non vi è più nulla.
Vi dirò quel che pensa il Fascismo dei rapporti tra capitale e lavoro, quale è la dottrina del sindacalismo fascista, che cosa vuole il Fascismo, che cosa si ripromette di compiere domani.
Il punto di partenza, o amici, è questo: la Nazione. Che cosa è la Nazione? La Nazione è una realtà, siete voi. Moltiplicatevi sino a diventare la cifra imponente di quaranta milioni di italiani che hanno lo stesso linguaggio, lo stesso costume, lo stesso sangue, lo stesso destino, che hanno gli stessi interessi: questa è la Nazione, è una realtà. Bisogna rispettarla. Che cosa in questo momento io vedo dinanzi a me? La Nazione. Vedo il popolo, il popolo che non ha più le classi e le categorie dai confini insuperabili. Qui siamo popolo: vedo degli ufficiali che guidano il nostro Esercito glorioso: vedo carabinieri che sono la espressione inflessibile del rispetto alla legge: vedo dei tecnici, dei signori, vedo dei lavoratori e delle Camicie nere; vedo la gagliarda gioventù fascista che mi dà l'idea di una primavera fiammeggiante.
Questo è il popolo. Malgrado gli egoismi individuali, vi sono degli interessi collettivi comuni. Il Fascismo insegna a subordinare gli interessi di categoria agli interessi della Nazione.
Voi specialmente, o lavoratori del Monte Amiata, di questo monte storico, voi siete i più indicati a comprendere l'essenza del sindacalismo fascista e ciò è non soltanto perché siete intelligenti, ma anche per la natura stessa del vostro lavoro. Voi vi affaticate ad estrarre un minerale prezioso, una delle poche ricchezze che abbiamo in Italia, ricca di tante cose: di cielo, di sole, di poesia, di fiori, di geni, di eroi e anche di politicanti, ma poverissima di materie prime. Mi richiamo a quello che diceva poco fa l'ing. Luzzatti: c'è un interesse comune ai datori di lavoro ed ai lavoratori.
Guai a chi varca certi limiti: i datori di lavoro non debbono volere che la massa dei loro dipendenti viva in condizioni di disagio e di povertà. Non è nel loro interesse né è nell'interesse della Nazione. D'altra parte i lavoratori non debbono chiedere all'industria ciò che l'industria non può sopportare.
Da appena tre anni si parla questo linguaggio in Italia e si sono fatti notevoli progressi.
Voi avete inteso la verità profonda di questa dottrina, e, soprattutto, avete inteso che il Fascismo non è contro il popolo che lavora. O perché dovrebbe essere il Fascismo contro il popolo che lavora? Perché? Mi sapete dare una ragione?
Prima di tutto voi siete degli italiani e io dichiaro che prima amo gli italiani e poi conservo un po' di simpatia per tutti gli altri popoli della terra. In secondo luogo voi siete dei lavoratori, cioè gente che produce, lavora e che accresce la ricchezza della Nazione. Poi, nel complesso, siete bravi. La popolazione lavoratrice italiana può dirsi all'avanguardia per probità, per onestà, per laboriosità, per diligenza, per intelligenza. Non c'è quindi nessuna ragione perché il Fascismo non debba andare fraternamente incontro al popolo che lavora. Ci va il Partito ed anche il Governo; la vostra presenza, il vostro entusiasmo, mi dimostrano che non siete tocchi da dubbi assurdi. Voi sentite che il Fascismo è solidissimo e che il Governo è piantato come una quercia nella roccia.
Si tratta di stare fermi, solidi. Vi assicuro che il clamore degli altri è molesto, ma perfettamente innocuo. Le opposizioni, tutte insieme, non dirò, come disse Bismarck, che non valgono le ossa di un granatiere della Pomerania; ma vi assicuro che sono perfettamente impotenti. Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremmo lo strame per gli accampamenti delle Camicie nere.
Con questo non intendiamo di agitare attraverso questa nostra adorabile penisola fiaccole di guerra e di inquietudini. Affatto. Noi ripetiamo qui, in questo luogo così suggestivo, che vogliamo dare la pace al popolo italiano, la pace all'estero. E l'abbiamo data senza rinuncie inutili e vogliamo darla anche all'interno, contemperando gli interessi di tutte le categorie e rispettando tutti gli elementi sinceramente devoti alla causa della Nazione.
Sono molto lieto, ad esempio, di avere qui accanto a me nel pubblico, il mio collega dei Lavori Pubblici, il vostro conterraneo Sarrocchi, di fede liberale. Egli collabora con me da qualche mese; egli può dire che la collaborazione con me non è pesante, perché io non ho borie di padrone.
Il Fascismo italiano nel suo animo è incorruttibile e non disposto a vendere, per un piatto di lenticchie miserabili, i suoi diritti ideali, ma non intende nemmeno di chiudersi in una torre d'avorio aristocratica e inaccessibile.
Questa è la collaborazione che io ho sempre sostenuta, che ho sempre vagheggiata. Ho detto che non cercavo nessuno e che non respingevo e non respingo nessuno. Però coloro che vogliono fare la strada con me debbono essere prima di tutto gente di buona fede e al di sopra degli interessi più o meno essenziali dei partiti, debbono avere in vista l'interesse comune della Nazione.
Di questa mia rapida esposizione, voi, o lavoratori del Monte Amiata, vi ricorderete tre cose: primo: che il sindacalismo fascista è molto migliore, molto più utile a voi e alle vostre famiglie del sindacalismo rosso che, colla pratica della lotta di classe, diventata norma di azione quotidiana, scava un abisso insuperabile tra cittadini e cittadini, fra figli della stessa terra; secondo: che il Governo è solido e che non demorde a nessun costo; terzo: che il Fascismo vuol fare una politica di pace, ma con dignità, con fierezza, con senso di disciplina.
Io vedo su una di quelle antenne tutti gli strumenti del vostro lavoro: strumenti antichi e moderni, comunque venerabili: sono gli strumenti della civiltà. La civiltà si misura anche e soprattutto dal progresso degli strumenti di lavoro.
Son lieto di avere trascorso qualche ora fra voi. Voi avete dinanzi il Capo di un partito, il Capo del Governo e anche un uomo come voi, con le vostre qualità, con i vostri difetti, con tutto ciò che costituisce l'elemento essenziale di quella speciale natura umana che è la natura italiana. Questo uomo vi porge il saluto fraterno, il suo attestato di simpatia e vi dice che voi non avete nulla da temere dal Fascismo, che voi avete tutto da sperare e da guadagnare dal Fascismo, che voi dovete tendere alla vostra elevazione materiale e morale per essere sempre più degni di questa Italia che noi tutti stiamo costruendo giorno per giorno, con tenacia, con fatica, fra sacrifici, fra dolori, fra penitenze; ma così è la vita; così è la storia; questo si deve fare per rendere grande e potente il popolo italiano.
Napoli, 16 settembre 1924: MUSSOLINI inaugura la Fiera Campionaria.
Dopo Roma, Perugia, Firenze, anche Napoli volle offrire a MUSSOLINI la cittadinanza onoraria. La cerimonia ebbe luogo in Municipio il 16 settembre 1924, in occasione della inaugurazione della Fiera Campionaria. Al saluto del Sindaco il Duce rispose con le seguenti parole:
Voi mi rendete in questo momento un altissimo onore e ve ne sono grato profondamente. Questo gesto di simpatia è un altro vincolo che rinsalda la catena della mia dedizione alla vostra città.
Vi dirò che sono molto lieto di essere venuto a Napoli soprattutto perché ho potuto constatare con i miei propri occhi che certi problemi che io voglio condurre a rapida soluzione, a questa rapida soluzione si avviano. Io non esagero se vi dico che ho nel mio cervello il quadro esatto di tutti i problemi interessanti Napoli e dalla risoluzione dei quali dipende l'avvenire della vostra città. Sono i problemi del mare, del porto, delle ferrovie, la ferrovia che deve abbreviare il percorso tra Napoli e le Calabrie, tra Napoli e Roma. Poi vi sono i problemi delle industrie. Sono lieto, ad esempio, quando mi si dice che si lavora e che un problema si avvia alla risoluzione. Il Mezzogiorno d'Italia non è ricco, ma può divenire ricco. Un popolo saggio, un popolo laborioso, un popolo che ha dato il fiore del suo sangue alla Patria può conquistare il Nord d'Italia e il Mezzogiorno: si livelli e scompaia questa differenza che spiritualmente non esiste più perché l'unità della Patria è un fatto compiuto, irrevocabile e tutti voi meridionali siete gelosissimi custodi di questa verità. Vi sono le differenze dovute ad eventi storici e a fattori geografici. Il Governo deve venire incontro a voi e voi dovete operare. Vi ripeto che il mio Governo ha soprattutto presenti i bisogni e i problemi di Napoli e dell'Italia meridionale. Vi ripeto che voglio, fermamente voglio, fare tutto il possibile perché si realizzi quello che fu l'auspicio di due anni fa: vedere Napoli potente, prospera, veramente regina del Mediterraneo nostro.
Napoli, 16 settembre 1924: MUSSOLINI parla al popolo di Napoli.
Nello stesso giorno, 16 settembre 1924, mentre nel Municipio aveva luogo la cerimonia per il conferimento della cittadinanza onoraria, di fuori il popolo acclamava il Duce e domandava di vederlo. Il Capo del Governo si affacciò al balcone del Palazzo Municipale, e alla folla adunata rivolse le seguenti parole:
Popolo di Napoli! Popolo nobile e saggio!
Rivolgendoti il mio saluto e porgendoti l'attestato della mia gratitudine per la tua accoglienza la mia memoria mi riconduce all'adunata di due anni fa, quando in questa metropoli si raccolse tutta la fremente giovinezza d'Italia, decisa, fermissimamente decisa, a qualsiasi sacrificio pur di attingere la meta. I ricordi tumultuano nel mio spirito: io rivedo la folla di quella sera nell'ora crepuscolare, vedo le legioni quadrate come le legioni di Roma che scandivano in un ritmo solenne e ieratico queste due sillabe fatali in tutta la storia della nostra stirpe. Fu la tua città, o nobile popolo napoletano, che mi diede il viatico, che mi assicurò la strada, che mi additò i fini da raggiungere.
Quante vicende in questi due anni di storia pienissima; vicende liete, vicende tristi. La vita si compone appunto di questa alterna vicenda, ma, o popolo napoletano, ma o Camicie nere, la mia fiducia nei destini del popolo italiano è immutabile, la mia volontà è sempre diritta.
Ebbene, se io ritorno, in rapida sintesi, a questi due anni di vita vissuta sento che la mia coscienza è tranquilla. Lo sento, perché giorno per giorno io non ho avuto che un pensiero, non sono stato dominato che da una volontà: ho teso tutte le mie energie sino allo spasimo pur di servire come ultimo dei servi la nostra Patria. Voi mi rivedete qui; sono lo stesso di ieri, sono lo stesso di domani. Anche nelle tempeste il nocchiero deve mostrare il suo coraggio e la sua fermezza.
Quando partimmo, ché ormai la diana della battaglia era suonata, io avevo nell'occhio e nello spirito tutto il complesso dei problemi che vi premono e che vi tormentano, tutti i problemi dai quali dipende il vostro benessere e la vostra grandezza. Io non dico che tutti questi problemi siano stati risolti. E come potevano esserlo in due anni soli quando voi attendete invano da mezzo secolo? Ma giorno per giorno io mi sono dedicato con tutta l'anima allo studio dei problemi che interessano Napoli ed il Mezzogiorno d'Italia e vi ripeto — e vorrei che questa promessa avesse la solennità del giuramento — che io farò tutto il possibile, che io spenderò il meglio delle mie energie pure di portarvi in alto, pure di fare di voi il grande popolo che ho sognato e che meritate di diventare.
Invece posso dire, senza falsa modestia, che tutto ciò che io ho dato al popolo, fu fatto senza rinunzie inutili e bastarde. E questo anno che non annovero tra i più felici della mia vita, è l'anno che comincia con Fiume, continua col Giuba e termina con Rodi italiana.
Se vi è oggi un governo in Europa e un popolo che faccia sul serio una politica di pace con dignità, anche prescindendo dalle inutili accademie universalistiche, questo Governo è il Governo italiano, questo popolo è il Popolo italiano.
In questa stessa settimana io firmerò un altro patto: un patto che rinsalda l'amicizia con una Nazione confinante con l'Italia. Ora non è dunque vano orgoglio se vi dico che il Governo Fascista ha dato al popolo italiano la sua parte all'estero.
Ebbene, l'opera non può dirsi ancora ultimata: dopo la pace all'esterno noi vogliamo, noi sinceramente vogliamo dar la pace all'interno, a tutti gli italiani di buona volontà che accettino la disciplina sacra ed inviolabile della Nazione. Ora, voi che avete una sensibilità squisita e siete dotati da natura di una acuta intelligenza, voi sentite che come per fare la pace all'esterno era necessario di trovare dei popoli che a questa pace aderissero, così per fare la pace all'interno, la pace che noi vogliamo, occorre che anche dall'altra parte vi sia della lealtà e della sincerità.
Napoletani! Camicie nere! Non mi accorgo qui tra voi, accolto dal vostro fresco ed impetuoso entusiasmo, non mi accorgo di essere nella città che fu chiamata «la capitale delle opposizioni».
Non neghiamo il diritto delle opposizioni. Non vogliamo costringere tutti gli italiani a pensare come noi pensiamo ed a credere ciò che noi crediamo: non vogliamo la livellazione generale degli spiriti perché una Italia ridotta in questo stato sarebbe insopportabile, ma non permettiamo che si violenti la realtà sino a negare tutto il bene che abbiamo voluto e abbiamo compiuto. Non permettiamo soprattutto ed innanzi tutto, non permettiamo e non permetteremo mai che si vilipenda il sacrificio ineffabile dei nostri tremila morti che sono la garanzia, la grande garanzia che il Fascismo non mancherà ai suoi destini gloriosi.
Popolo di Napoli! Camicie nere! Noi vogliamo in quest'ora dare libero corso ai nostri sogni; noi vogliamo in quest'ora spogliarci di tutto quello che può essere negativo, basso, vile. Noi in quest'ora, davanti a te magnifica moltitudine, non vogliamo avere se non pensieri di gloria, se non pensieri di forza, se non pensieri di purità, se non pensieri di grandezza.
Cittadini! Camicie nere! Forse non sarà più necessario, io lo spero, chiamare a raccolta le nostre legioni inquadrate; ma io sento e vi domando: se ciò fosse necessario come rispondereste voi? («-Sì!-», urla la folla). E se vi domando di essere pronti a servire la Patria giorno per giorno, col lavoro diligente, con l'onestà indiscutibile, se io vi domando questo giuramento, voi me lo date? («-Sì!-», urla la folla). Ebbene, Cittadini, Camicie nere! io raccolgo questa voce potente nel mio cuore. Ancora una volta io vedo innanzi a me tutto il popolo italiano probo, serio, laborioso, disciplinato, che marcia in battaglioni serrati verso l'avvenire immancabile di prosperità della Patria.
A chi il sacrificio?
(«A noi!», urla la folla).
A chi la gloria? («A noi!», urla la folla).
A chi l'Italia? («A noi!», urla la folla).
E così sia! Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Roma, 20 settembre 1924: MUSSOLINI parla in occassione del trattato e di regolamento giudiziario fra l'Italia e la Svizzera.
A Palazzo Chigi, nel Salone della Vittoria, il 20 settembre 1924, fu firmato il Trattato di conciliazione e di regolamento giudiziario fra l'Italia e la Svizzera. S. E. il Capo del Governo aveva fatto pervenire al Presidente della Confederazione Svizzera il seguente messaggio: «-Nel momento in cui ho l'alto onore di procedere alla firma del Trattato in base ai quale ogni eventuale vertenza fra l'Italia e la Svizzera sarà risolta per via amichevole, tengo a farle pervenire l'espressione più viva del mio compiacimento per questa piena ed assoluta consacrazione dell'indistruttibile amicizia fra i due paesi, nella certezza che l'accordo concluso avrà ripercussioni efficaci e promuoverà una più larga e più fervida collaborazione fra i due popoli-».
Dopo la firma del Trattato, il Duce si rivolse al signor Wagniere, Ministro della Svizzera a Roma e alle altre persone presenti, e fece le seguenti dichiarazioni:
Signor Ministro! Signori!
Ho voluto subito annunciare al Presidente della Confederazione Svizzera ed al popolo col quale stringiamo questo patto di amicizia, la firma dell'atto che noi qui consacriamo. Ho voluto poi che questa firma coincidesse col giorno in cui Roma e l'Italia celebrano l'anniversario dell'unità della Patria, per sottolineare ancora più l'importanza che io attribuisco a questo trattato di conciliazione e di regolamento giudiziario. Voi sapete, signor Ministro, di quale particolare simpatia personale io sia animato per il vostro nobile paese. Come Capo del Governo italiano io vi dichiaro che questi sentimenti corrispondono alla profonda, cordiale simpatia che il popolo italiano nutre per la vostra Confederazione. L'atto che oggi firmiamo è destinato a rendere più stretti i rapporti di amicizia che legano i due paesi.
Esso ha la durata di dieci anni, ma io lo considero come perpetuo in quanto che, al disopra dello stesso trattato, sta la ferma volontà mia e di tutto il popolo italiano di conservare e fortificare gl'immutabili rapporti di amicizia fra i due paesi.
Rimini, 21 settembre 1924: MUSSOLINI parla per l'onoranze a Giovanni Pascoli.
MUSSOLINI si era recato in Romagna per onorare Alfredo Orioni; il 21 settembre dello stesso anno vi ritornò per le onoranze a un altro grande della sua terra, il poeta Giovanni Pascoli (1855-1912). Le onoranze ebbero luogo a Rimini. Dopo il discorso commemorativo di Alfredo Panzini, MUSSOLINI pronunziò il seguente discorso:
Gente della mia Romagna!
Tre mesi or sono io fui tra voi per onorare un altro grande spirito della nostra terra, Alfredo Oriani, il poeta de La rivolta ideale; oggi eccomi ancora una volta tra voi per onorare un grande spirito, uno dei più grandi poeti della nostra stirpe, uno dei pochi grandi poeti che abbiano saputo trarre tutti gli accenti da tutte le corde, che abbia detto una parola materiata di verità profonda, questa: che l'Italia è la grande proletaria, un paese vecchio e giovane ad un tempo, povero e ricco, grande nel suo passato, e poiché lo vogliamo, più grande nel suo avvenire.
Tra voi mi ritrovo appieno: oserei quasi dire che, anche se la consuetudine non è quotidiana, io riconosco quasi ad una ad una le vostre facce solide, quadrate, abbronzate dal glorioso sole della nostra terra e so ancora che qui tra la Marecchia ed il Reno sono le Camicie Nere fedelissime che sentono l'orgoglio di costituire la decima Legione, quella che è pronta a battersi sempre e non si arrende mai.
Niente di più solenne del contrasto tra la folla raccolta nell'arengario per ascoltare la voce di un altro illustre figlio di Romagna e voi, moltitudine inquieta e impaziente, ardente di entusiasmo e fervida di passione, che scandiva due sillabe sole nelle quali però non c'era soltanto il culto dell'uomo ma la devozione all'Idea.
Voi sentite che lungo la via Emilia furono sempre decisi i destini della Patria, voi sentite che lungo la via Emilia sfilarono nei tempi le Legioni e sfilano ancora oggi in questa rinnovata e fiammeggiante primavera della Patria.
Voi sentite soprattutto che il Fascismo non è già, non può, non vuole essere la guardia del corpo di privilegi di individui e di classi, ma vuole essere la grande guardia che tutela la sicurezza e la grandezza immancabile del popolo italiano.
Solo uomini di poca o di mala fede possono dubitare della purezza, che io vorrei chiamare immacolata, della nostra fede! Noi nulla chiediamo ma siamo pronti a dare tutto, anche, se necessario, la vita per la causa dell'Italia. E se teniamo l'Italia solidamente nel pugno, e se vogliamo inquadrare in una ferrea disciplina tutta la nazione, non è certo per ambizione stoltissima, ma è semplicemente perché i nostri morti ci hanno lasciato un testamento al quale dobbiamo essere fedeli, e perché sentiamo di portare in noi una verità che, anche se non espressa nelle formule statiche di una dottrina, è una verità, una formula, un fermento di vita immortale.
Voi tutto ciò sentite anche se non vi riesce di chiaramente esprimere. Che cosa io vi chiedo? che voglio da voi? Non certo gli applausi, o gli onori e tutto ciò che può lusingare, sia pure nell'effimero tempo, le piccole anime; voglio da voi qualche cosa di più profondo, di più serio, di più vivo, che sia vivo come voi siete vivi, che sia sangue del vostro sangue, carne della vostra carne, che diventi norma della vostra vita. Sono sicuro che voi mi darete questa disciplina fatta di devozione e di opere. Voi non avete le mani legate, non c'è bisogno di slegarvele. Le mani slegate le ho io e basta!
Camicie Nere! Alzate i vostri gagliardetti, levate le grida gioiose che ci accompagnarono nelle grandi giornate. Io so già che cosa mi risponderete alle domande che sto per rivolgervi. Voi non potete essere, perché siete troppo intelligenti, gli schiavi di formule superstiziose ed assurde. Voi sapete che ogni secolo ha il suo sigillo; che quello che andava bene cento anni fa non va più oggi in cui gli obiettivi sono diversi. Oggi, o italiani, o popolo di Romagna, non si tratta che di conquistare la civile potenza tra le nazioni del mondo! («-Sì, sì!-», gridano le Camicie Nere).
Il vostro grido mi dice chiaramente che voi siete penetrati nel senso di questa verità infallibile. Voi sentite allora che non si arriva alla potenza senza disciplina, senza la collaborazione intelligente, razionale, quotidiana di tutte le energie in modo che veramente la Nazione appaia qui e fuori, in Italia e al di là dei mari e dei monti, come un esercito solo, inquadrato, saldo, sereno e silenzioso che marcia marzialmente, quotidianamente, romanamente e non si ferma finché non ha raggiunto la meta. Così marciavano i Romani, così marciava Roma, e qui sono traccie visibili e grandiose della immensa potenza di Roma.
Camicie Nere, a chi l'Italia? a chi la disciplina? a chi il sacrificio?
(«-A noi!-», rispondono ad una voce i presenti).
Signori!
Mentre mi accingo a parlare innanzi a voi, io sento diretti verso di me, gli stiletti sottili del partito popolare, le rivoltelle nuove fiammanti del liberalismo tripartito, e eziandio i tromboni della social-democrazia.
(L'assemblea ride. Il Duce, dopo una pausa, punta le braccia su la tavola, guarda fissamente la folla e continua ad alta voce):
Perché, voi mi direte, così vasto arsenale di armi? Perché, dinanzi a questi furiosi consumatori d'inchiostro, domani si porrà questo formidabile problema: ha parlato il Capo del Partito o il Capo del Governo? Ebbene, io rispondo che parla l'uno e l'altro. (Bene! Bravo!).
Sì, in quanto che i due elementi non formano che una unità completa, che due aspetti dello stesso fenomeno, due attività della stessa natura. (Applausi).
Voglio portare il mio cordiale saluto a voi, uomini della provincia, della buona, della solida, della quadrata provincia. Vorrei che portaste nelle città troppo popolose e spesso smidollate il vostro spirito pieno di profondità saggia, la vostra rozzezza, il vostro dire chiaramente pane al pane e vino al vino, il profumo delle vostre campagne, l'energia di questo meraviglioso popolo agrario, rurale. (Applausi). Bisogna fare del Fascismo un fenomeno prevalentemente rurale. In fondo alle città si annidano tutti i residui — stavo per dire i residuati — dei vecchi partiti, delle vecchie sette, dei vecchi istituti. Il popolo italiano è prevalentemente rurale: su quattro milioni di combattenti, certamente tre e mezzo erano rurali. I fascisti rurali sono i più solidi; i militi rurali sono i più disciplinati. Si può chiedere a loro la resistenza alla fatica, la sopportazione dei disagi e una disciplina assoluta. E giova dire che in queste ultime settimane la provincia si è fatta fortemente sentire ed è stata un elemento essenziale della situazione. Ora, voi siete qui convocati per dare un governo al partito. Bene. Ma bisogna che questo governo abbia direttive: queste direttive debbono uscire dalla vostra assemblea.
Tante voci e tante parole corrono gli orizzonti. La fortuna delle parole! Varrebbe la pena di scrivere un volume; parole che passano e non lasciano traccia, attorno alle quali ci si affatica. Prima era la libertà, che era tolta al popolo italiano. (MUSSOLINI sorride, incrocia le braccia e, guardando fisso dinanzi a sé, dice): Ma il popolo italiano non me l'ha mai chiesta!
Io sono assai dolente che il Governo, in questi due mesi, per le vicende politiche non abbia potuto fare dell'ordinaria amministrazione, che consiste nel dare delle strade, degli acquedotti, delle case al popolo italiano. (Applausi fragorosi).
Poi è venuto l'argomento della normalizzazione, che nessuno sa ancora che significhi. Poi l'antirisorgimento. Questa è l'ultima delle trovate. Tutto si può mistificare, anche la storia, ma il Risorgimento è un fenomeno enormemente complesso: c'è di tutto: ci sono anche le bombe di Felice Orsini. È singolare che oggi questo bombardiere sia molto onorato. C'è il nord e il sud, diverse tendenze; probabilmente c'è stata una promiscuità, non veramente una giuntura, fra nord e sud, perché non bastano le ferrovie a determinare l'unità spirituale di un popolo. Nel Risorgimento tutti i fattori entrarono, onde non si potrebbe pensare cosa più ridicola di voler coprire questo grandioso fenomeno, che comincia con una rivolta militare e finisce con un'entrata mediocre a Roma, mettendovi sopra il grande mantello variopinto di un grande partito che allora non esisteva.
Un'altra cosa io debbo ancora dirvi.
Non abusiamo dei casi di coscienza, rendiamoci conto della situazione. Noi siamo un esercito, un partito, una massa accerchiata. Abbiamo delle simpatie diffuse, che subiscono degli alti e dei bassi ma, in realtà, per un fenomeno di cui voi misurate le tappe successive. Tutti coloro che per i più diversi motivi avevano aderito a noi e ora si allontanano, sono quelli con i quali evidentemente non è possibile andare d'accordo; si vede che mancano le condizioni della semplice convivenza. Ma allora quelli che fanno parte di questo esercito che si muove in un ambiente che tutte le opposizioni cercano di rendere più ostile e difficile, tutti coloro che sono in questo partito debbono considerarsi, non dei filosofi alla ricerca dello specifico perfetto, non dei dottrinari che esaminano un problema determinante soluzioni, ognuna delle quali dimostra l'errore degli altri, ma dei soldati.
Quando i tempi duri dell'assedio finiranno, allora i grandi problemi dovranno essere affrontati e discussi. (Un applauso, interrotto dal Duce con un gesto). Ad ogni modo, evitiamo le manifestazioni che potrebbero impedirci la necessaria libertà d'azione per il futuro: collochiamo pure in soffitta il manganello; ma mi raccomando, non mettiamoci in pantofole e papalina, perché potrebbe darsi il caso che, mentre noi andiamo disarmati con tutti i ramoscelli di una intera foresta d'ulivi, gli altri ci costringessero alla lotta in condizioni di assoluta inferiorità.
Si parla di concordia, di pace, di normalizzazione. Tutti sappiamo a memoria questo vocabolario; ma voi siete testimoni che, da parte dei nostri nemici, non si muove un dito, non c'è una sola parola, non c'è un solo gesto, non c'è neppure un ordine del giorno ed un articolo di giornale che dimostrino una diminuzione della loro preconcetta e irreducibile ostilità. Onde la buona strategia consiglia di seguire la nostra direttiva, che è quella di andare verso il popolo italiano, ma, d'altra parte, di vigilare molto attentamente tutto il lavoro che le opposizioni fanno in pubblico e soprattutto in segreto.
D'altra parte, voi avete visto che questa crisi ha avuto un'utilità, che ha consentito di sceverare i veri amici dai falsi amici, di distinguere i Fascisti di volontà, di passione e di fede dai fascisti che sono ombre semivaganti, che hanno sempre le orecchie rizzate per sentire le voci dell'opinione pubblica, e mettere il distintivo a seconda dell'ora che passa. (Applausi). Questo deve finire! (Nuovi applausi). Il nuovo Direttorio avrà delle direttive precise, precisissime. Gli incerti, gli indecisi, tutti coloro che sono già al di là con un piede, saranno respinti perché sono un impedimento, sono una massa che domani ci appesantirebbe nella nostra marcia. Ora, non varrebbe la pena di vivere come uomini e come partito, e soprattutto di dirci Fascisti, se non si sapesse tenere testa alla bufera.
Signori, chiunque è capace di navigare in mare di bonaccia, quando i venti gonfiano le vele, né vi sono onde e cicloni. Il bello, il grande, e vorrei dire eroico, è di navigare quando la bufera imperversa. Un filosofo tedesco disse: «-Vivi pericolosamente-». Vorrei che questa fosse la parola d'ordine del fascismo italiano: «-Vivere pericolosamente-». Ciò deve significare essere pronti a tutto, a qualsiasi sacrificio, a qualsiasi pericolo, a qualsiasi azione, quando si tratti di difendere la Patria e il Fascismo. (Applausi entusiastici).
Roma, 4 agosto 1924: MUSSOLINI parla di Combattentismo e Fascismo.
Alcune frazioni di combattenti, già nel passato - sobillate dai politicanti - avevano tentato una inammissibile distinzione fra lo spirito combattentistico e il Fascismo. Gli ultimi residui di questa tendenza non erano del tutto spenti, e in un Convegno di Combattenti ad Assisi era stato votato un ordine del giorno che, pur non opponendosi esplicitamente al Fascismo, rimaneva ambiguo su questo delicatissimo punto. Nella seduta del 4 agosto 1924, l'on. Forges Davanzati, relatore per il Direttorio Provvisorio aveva messo in evidenza il carattere equivoco dell'Ordine del giorno. A lui si era aggiunto l'on. Bastianini, al quale aveva risposto il Capitano Viola, difendendo la chiarezza dell'Ordine del giorno. Prese quindi la parola il Duce, e fece le seguenti dichiarazioni:
L'Assemblea ha sentito le dichiarazioni dell'on. Viola. Non è il caso di aprire una discussione sopra queste dichiarazioni, ma io tengo a fare alcune osservazioni e a dire molto esplicitamente che l'ordine del giorno di Assisi non mi piace. Per il prossimo giovedì o venerdì l'on. Viola mi ha annunziato una visita del Consiglio Centrale dei Combattenti. Avremo una discussione che sarà molto precisa.
L'ordine del giorno di Assisi consiste in un evidente peggioramento di tutte le posizioni politiche assunte, necessariamente, dall'Associazione dei Combattenti. C'è un'enorme differenza fra il tono e la sostanza e gli ordini del giorno votati a Napoli, a Roma, e altrove, e l'ordine del giorno votato ad Assisi, al Congresso poco francescano di antifascismo che mi ha ricordato quello del partito popolare a Torino.
Non si è alla rottura; ma con le intimazioni, con la intolleranza del Congresso, col discorso Bergmann, con altri discorsi, si sono create le condizioni che domani potranno giustificare la rottura. Ora, non è senza una profonda amarezza che io lo constato, perché ciò mi porta a dire che nel '19, nel '20, nel '21, e nel '22 non ci fu combattentismo in Italia.
Quando la Vittoria veniva mutilata, quando gli ufficiali venivano insultati, quando si sarebbero dovuti riformare i battaglioni dei combattenti e dei fanti per difendere quello che era stato un sacrificio ineffabile di venti generazioni, voi non avete mai veduto qualche cosa che vi ricordasse l'esistenza d'una Associazione nazionale dei combattenti. Solo dopo l'avvento del Fascismo, solo dopo che il Governo ha avuto il coraggio di dirsi il rappresentante di Vittorio Veneto, solo dopo che nel 1923 l'atmosfera è apparsa radicalmente cambiata, solo dopo che il Governo ha decretato la solennità del 24 maggio — ciò che nessun Governo aveva mai osato fare (applausi vivissimi) — solo dopo che era andato con cuore sempre più fraterno verso questi commilitoni, verso questi fratelli delle trincee, solo dopo tutto ciò, si sono avute le manifestazioni politiche del combattentismo. Sono evidentemente in ritardo.
Il combattentismo si spiegava quattro anni fa, e, del resto, voi avete visto, che, come costrutto politico, come tendenza politica, come orientamento politico, da Assisi non è venuto nulla. Sotto questo aspetto io mi rammarico di dover constatare che i Combattenti hanno tenuto un contegno molto più grave e diverso di quello che non abbiano tenuto i mutilati a Fiume, da dove mi è giunto un appello, un'invocazione nobilissima redatta in termini dai quali esulava la speculazione politica.
Bisogna ricordare anche l'opera concreta che il Governo ha compiuto pei Combattenti. Non è qui il caso di dire quante sistemazioni siano avvenute; tutto questo si è fatto nella pratica, dirò così, della ordinaria amministrazione. Non si chiede gratitudine, perché questo è il dovere del Governo. Ma sarebbe veramente deplorevole, sarebbe voler rinnegare la Vittoria, aggiungere le schiere dei fanti alla pallida e miserabile coalizione antifascista, perché, o signori, il Fascismo sarà quello che sarà, un crogiuolo di passioni più o meno nobili, ma è anche l'unica cosa potente, viva, degna di avvenire, che abbia la Nazione italiana.
Queste dichiarazioni ebbero un'immediata ripercussione negli animi dei Combattenti. Il giorno seguente, nella seduta del 5 agosto, fu approvato per acclamazione il seguente ordine del giorno, firmato da duecento Combattenti, fra i quali primeggiavano otto Medaglie d'Oro: Barnaba, Gemelli, Rossi Passavanti, Amilcare Rossi, Igliori, Curias, Niccolò e Giuseppe De Carli:
«-Il Consiglio Nazionale del Fascismo, di fronte a un grossolano tentativo di mistificazione compiuto da taluni organi di stampa per trovare motivo di contrasto tra Fanti e Camicie Nere, precisa quanto segue:
«-1°) che tale contrasto non è mai esistito e non esiste in quanto che il fiore dei Combattenti si è raccolto sotto le insegne del Littorio, prima e dopo la Marcia su Roma;
«-2°) che la protesta del Consiglio Nazionale investe esclusivamente le manifestazioni recentissime del Congresso di Assisi;
«-3°) che un censimento immediatamente predisposto dal nuovo Direttorio nazionale, darà la prova che la enorme massa dei Fascisti si compone dei Combattenti-».
Roma, 7 agosto 1924: MUSSOLINI fa la sintesi della lotta politica.
MUSSOLINI, chiudendo i lavori del Consiglio nazionale del Partito Fascista e insediando il nuovo Direttorio pronunciò il seguente discorso, che costituisce una sintesi della lotta politica combattuta in quel momento dal Fascismo.
Crederei di commettere un peccato di nerissima ingratitudine se io non vi manifestassi, in termini di assoluta sincerità, il godimento intimo che questa nostra riunione mi ha procurato.
Io vi manifesto il mio alto plauso non solo per la serietà con cui avete manifestato le vostre idee, ma anche per la discrezione che avete messo in una discussione che, svolgendosi alla presenza del Capo del Governo, è sempre di carattere assai delicato. Voi avete superato brillantemente questa prova tanto che oggi io deploro che il Consiglio Nazionale non sia stato convocato prima. Erano tre anni che il Partito non parlava. Se voi ricordate, l'ultimo Congresso fu tenuto a Roma nel 1921. Da allora giammai ebbe luogo un'Assemblea così seria, così imponente e così feconda come quella che in questo salone si è svolta, tanto che io opino in senso favorevole circa la possibilità di tenere, in tempo non lontano, un Congresso nazionale che potrebbe svolgersi, per esempio, a Firenze, dove c'è un grande teatro capace di accogliere i rappresentanti degli 8000 Fasci italiani. Vi sono delle difficoltà di ordine pratico da superare, ma la possibilità esiste ed io credo che il nuovo Direttorio nazionale, fra gli altri suoi compiti, dovrà avere anche questo: preparare il quarto grande Congresso Nazionale del Partito Fascista.
Questo Consiglio è stato importante perché ha dimostrato prima di tutto che non esistono tendenze. Il Fascismo non le ha mai avute né le avrà mai. Ognuno di noi ha il suo temperamento, ognuno ha le sue suscettibilità, ognuno ha la sua individuale psicologia, ma c'è un fondo comune sul quale tutto ciò viene livellato; e siccome noi non promettiamo qualche cosa di definito per l'avvenire ma lavoriamo per il presente con tutte le nostre forze, così credo che il Partito Nazionale Fascista non sarà mai tediato, vessato e impoverito dalle interminabili discussioni tendenziali che facevano, una volta, nella piccola Italia d'ieri, il piccolo trastullo della non meno piccola borghesia italiana.
Queste parole di revisionismo, estremismo, terribilismo, ecc., sono state sepolte in una maniera che si può dire definitiva. Credo che non se ne parlerà per un pezzo. Del resto era più una esercitazione dei nostri avversari che una cosa per sé stante. In realtà mi pareva impossibile che l'amico Bottai che è un fascista del '19, che è più giovane di me, che è un ardito di guerra, volesse impaludare il suo intelletto, nelle acque più o meno acquitrinose di un pantano sia pure neoliberale. E mi pareva impossibile, d'altra parte, che Farinacci, che a sua volta ha un temperamento ed un cervello, e fascista del '19, volesse sul serio chiedere cose che non sono possibili, giacché abbiamo tutto: Governo, Provincie, Comuni, abbiamo le forze armate dello Stato, arricchite di recente da un'altra forza armata, che è entrata di fatto e di diritto nella Costituzione. La seconda ondata non avrebbe che dei bersagli fuggenti ed effimeri.
Se nel 1922 ci fu un fatto rivoluzionario, la Rivoluzione deve continuare attraverso un'opera legislativa, attraverso l'opera dei Consigli fascisti, del Gran Consiglio fascista, del Governo fascista.
Si dice dai giornali, i quali pare ci tengano veramente a non capire nulla delle nostre cose, che io sono prigioniero delle mie soldatesche. Prima di tutto voi non siete soldatesche. Respingo questo termine che vorrebbe essere dispregiativo. In secondo luogo osservo che è sempre infinitamente meglio essere prigioniero delle proprie soldatesche che essere prigioniero delle soldatesche avversarie. (Applausi vivissimi).
Avete toccato diversi argomenti sui quali conviene che io mi soffermi. Avete parlato della burocrazia: bisogna distinguere la burocrazia che ordina e la burocrazia che esegue. Tante volte io ho chiesto che si spostassero le pietre della vecchia burocrazia per incastrarvi le pietre della nostra. Tante volte io ho chiesto dei prefetti, dei questori da mettere nei punti più delicati di quello che io chiamo lo scacchiere strategico della politica italiana. D'altra parte la burocrazia è necessaria ed avendo la coscienza della sua necessità è assai difficile a manovrare. Ha una psicologia sensibile a tutte le variazioni atmosferiche; così la burocrazia sente anche le più leggere trasformazioni dell'ambiente sociale che ci circonda. Quando il Governo è forte e dà anche l'impressione di essere forte, allora la burocrazia funziona, esegue, non discute. Il giorno in cui la burocrazia ha l'impressione contraria, o presuppone, o spera un cambiamento, vi accorgete che la macchina ha dei rallentamenti misteriosi; qualche cosa non cammina più. Questo è avvenuto nel giugno; nel luglio la situazione era già migliorata; nell'agosto cominceranno a convincersi che non vi sarà nulla di nuovo e tutto funzionerà diligentemente, come del resto fu fatto sin qui.
Insisto su alcune note da voi toccate. Bisogna, quando si è al potere, e non ci sono soltanto io, ma ci siete anche voi tutti, perché la responsabilità è diffusa, comune, e la portiamo tutti insieme in solido, bisogna avere l'ignoranza, se non il disprezzo, dell'affare.
Bisogna proprio essere estranei agli affari e non farne (applausi fragorosi); rifiutarsi persino di sentirne parlare; dichiarare che alla nostra mentalità tutto ciò è estraneo e quando ci siano in ogni caso necessità di ordine nazionale, che impongano di trattare simili faccende, bisogna farlo alla chiara luce del sole ed in termini che non ammettano sofisticazioni o speculazioni di nessun genere.
Altra cosa osservata è questa. Non vi è dubbio che abbiamo un po' peccato di vanità. Ci siamo un po' troppo ingingillati; troppi commendatori, troppi cavalieri; tutto ciò doveva essere fatto per altri. Noi dovevamo magari distribuire le commende ma fuori del campo fascista. Dovevamo avere l'orgoglio di arrivare nudi alla meta.
Anche per quello che riguarda la condotta privata approvo quanto si è detto pur evitando di cadere in un rigorismo quacquero, che ci condurrebbe fuori della realtà della vita. È evidente ad esempio che, quando si occupano posti eminenti del Partito o del Governo, si deve tenere una condotta che non dia luogo ad osservazioni.
Voi avete appena toccato un argomento: quello più delicato veramente: la tragedia del giugno. Ne parlo a voi con assoluta fraternità, veramente da compagno a compagni. Il 7 giugno pronunciai un discorso alla Camera che aveva letteralmente sgominato le opposizioni. Quale era la base niente affatto paradossale del mio discorso? O voi, signori dell'opposizione, farete l'opposizione in questa linea che vi propongo, o non la farete.
La Camera approva. C'è una distensione di nervi in tutta Italia. Credevo che tutte le cose andassero secondo i piani e secondo le speranze e le possibilità umane. Voi credete veramente che l'emozione, che c'è stata e non vale nasconderlo, sia dipesa soltanto dalla scomparsa di quel deputato? No. L'emozione ha questa origine: prima di tutto il tempo, perché nessuno si aspettava ciò all'indomani di un discorso che aveva sgominato le opposizioni: il modo e soprattutto i protagonisti. Se questi fossero stati lontani dal Governo e fossero venuti su dai bassifondi all'infuori del Partito, l'impressione sarebbe stata minima. Viceversa gli uomini che ho dovuto colpire erano abbastanza vicini a me e su questa vicinanza si è miserevolmente speculato.
Quando hanno visto che io agivo, che la posizione tornava a migliorare, gli oppositori sono passati ad un altro genere di insinuazioni e hanno chiesto il processo al regime.
Certo il Fascismo ha subito un turbamento, ma ha resistito. Perché? Per una ragione molto semplice: perché aveva simpatie grandissime nella minuta popolazione italiana e poi, in secondo luogo, perché il Governo aveva nel suo bilancio un attivo notevole. Se il signor Turati ed altri da 30 anni non hanno fatto che scrivere articoli nei giornali e votare ordini del giorno, il Fascismo ha già fatto cose che sono scritte e non si possono ignorare. Se oggi Trieste è il grande emporio che avevamo sognato e sono smentite tutte le fosche profezie dei disfattisti, lo si deve al Governo fascista; se oggi c'è una ripresa nei traffici, se oggi c'è la sicurezza nelle officine, se oggi si creano dei nuovi Istituti, e le Provincie e le città si allargano, se c'è una aeronautica che quando io la presi aveva 85 apparecchi e ora ne ha molti di più, se c'è un esercito, non perché stia nelle caserme, ma perché è l'anima guerriera della Nazione, se nelle Colonie vi è la sicurezza e se abbiamo potuto aumentare di 91.000 chilometri i nostri possessi oltre il Giuba, se abbiamo potuto ottenere e fare 17 trattati di commercio, questi sono tanti fatti, non tanti ordini del giorno, questo è un enorme attivo che ha sostenuto il Governo e che ha reso vano lo sforzo delle opposizioni più o meno coalizzate. (Applausi vivissimi).
Voi credete che realmente si tratti di normalizzazione, di libertà di stampa, di milizia? No, no. Le opposizioni non sono sul Monte Sacro o sull'Aventino per questo. Non mistifichiamo. Esse sono sull'Aventino e vi restano perché hanno una speranza: credono di potermi agganciare. Se domani questo tentativo riuscirà vano, come riuscirà, allora vedrete questa gente scendere in file disordinate dal loro rifugio. Non sperano altro. Essi sperano che attraverso l'istruttoria arrivi qualche cosa per cui sia possibile mettere in giuoco il Capo del Governo. Non dico nulla di inedito se rivelo il piano strategico delle opposizioni, che è quello di isolare il Fascismo nel Paese, isolarlo moralmente, isolarlo materialmente. Si è giunti fino a proporne l'isolamento fisico: un giornale ha detto perfino che bisognava evitare i fascisti come se fossero dei lebbrosi. Noi dobbiamo rispondere a questo piano tattico e strategico dei nostri avversari cercando di evitare questo isolamento nel Paese, cioè facendo dell'azione amministrativa e del sano sindacalismo che ci avvicini alle masse.
Secondo tempo di questo piano: isolamento del Fascismo nel Parlamento con la disintegrazione della maggioranza parlamentare. Perché oggi qualche giornale prende sotto le sue ali cartacee i combattenti e i mutilati? Perché li esalta? perché li sprona? perché li schiera in un certo senso moralmente contro il Fascismo? Perché, sebbene la maggior parte dei liberali sia fedele al Governo Nazionale ed alcuni tra i migliori di essi gli danno anzi la loro salda e sincera collaborazione, si spera che sui 350 deputati del listone, dei demo-liberali a un certo momento facciano da sé e siano seguiti da qualche mutilato e combattente indeciso, anche di parte fascista, in modo che a un certo momento si possa dire: «-Voi Governo non avete più la maggioranza. Chiedete un voto di fiducia-».
Allora: o il Governo ha un voto di fiducia, e ritorna consacrato e non se ne parla più, ma se non ci fosse questo voto e se avessimo questa defezione, sarebbe subito pronta una successione che non sarebbe nel primo tempo una successione di sinistra, ma di destra con contorno di combattenti e di mutilati: degnissime figure che sarebbero magari disposte a darmi un discreto buonservito.
Se il Partito fascista reagisse davanti a questo piano con le sue masse fasciste, essi penserebbero — frase testuale — che poche giornate di sangue basterebbero per dominare le Provincie. Se il Governo non vi riuscisse si farebbe un Governo militare che dovrebbe fiaccare il Fascismo e dovrebbe aprire la strada ad un Governo demo-liberale.
Tutto come prima, anzi peggio di prima. Questo è il piano. Ne consegue che, se per evitare lo scompaginamento del Paese dobbiamo andare verso le masse che lavorano, per evitare l'isolamento nel Parlamento dobbiamo incominciare a contarci fra noi. E se anche un gruppo di deputati demo-liberali e i combattenti passassero dall'altra parte, non si potrebbe fare un Governo perché vi sarebbero sempre 250 fascisti che voterebbero contro. Il Governo dovrebbe ricercare allora l'appoggio della sinistra, ossia di Don Sturzo e di Turati, e non gli basterebbe. Quanto al Paese, si può schiacciare un focolare di rivolta, ma non si possono schiacciare 75 Provincie dove il Fascismo terrebbe assolutamente le piazze.
Voi vedete che la battaglia è delicata ed esige una strategia assai fine. Bisogna tener conto soprattutto dello stato d'animo del popolo italiano che ha un profondo bisogno di pace. Non bisogna ferire questa sensibilità psicologica delle popolazioni perché altro è muoversi in un ambiente simpatico dove le popolazioni vi accolgono, vi incitano, e diverso è muoversi in un ambiente ostile.
Combattere l'opposizione energicamente, strenuamente non vuol dire respingere tutte le possibilità di collaborazione. A questo si riferiva l'ordine del giorno politico in cui si parlava di un'accettazione leale del Fascismo e del suo avvento insurrezionale. Questo ordine del giorno è ancora un ramoscello di olivo.
In fondo noi diciamo a questi italiani: perché volete negare la realtà, perché non rendervi conto che nell'ottobre c'è stato un tracollo di un determinato regime e perché non accettare il fatto insurrezionale che non si può negare alla luce del sole e della storia? E perché allora non addivenire ad una collaborazione sopra questo terreno di leale accettazione del fatto compiuto anche perché è irrevocabile? (Applausi vivissimi). Non credo che lo faranno; non mi faccio illusioni: io sono pessimista circa lo sviluppo degli avvenimenti.
Noi dobbiamo prevedere che un giorno vi sarà un nuovo tentativo di irruzione contro il Fascismo e siccome lo vediamo, lo possiamo fronteggiare. Se il fattaccio del giugno ci ha sorpreso, quello che potrebbe avvenire in agosto o in settembre non ci sorprenderebbe più. È scontato. Il regime non si processa, quindi. Se le opposizioni pensano di fare il processo al regime mettendo in catena, come si legge nei loro giornali, tutti gli episodi di illegalismo, dichiariamo che ciò non è possibile. Si processerebbe la Marcia su Roma.
Questo Consiglio Nazionale è stato importante prima di tutto perché ha rivelato molta gente, poi perché ci ha fatto conoscere. Non ci si conosceva: ognuno stava chiuso nella sua provincia e lì pareva finire il mondo.
Bisogna mettere in contatto i fascisti, far sì che la loro attività sia anche una attività di dottrina, una attività spirituale e di pensiero. Questo Congresso non ha definito delle dottrine nel senso teorico della parola, ma ha gettato una serie di semi fecondissimi che ognuno di noi sicuramente elaborerà.
In questo Congresso si sono rivelati degli oratori e soprattutto dei pensatori fra quei fascisti, che, secondo i nostri avversari, sarebbero tutti degli analfabeti.
Il giuoco dell'opposizione è di negare ogni forza di pensiero ai fascisti. Siccome durante cinque anni abbiamo dovuto prodigarci sempre in un'attività di ordine militare, o sia pure squadrista, così, salvo dei tentativi che sono avvenuti in questi ultimi tempi attraverso delle riviste, non ci siamo mai abbandonati veramente alla trattazione completa di determinati problemi. Così accade che i nostri avversari ci trattino dall'alto in basso.
Non importa che nel Fascismo ci siano degli scienziati come Marconi, dei filosofi come Gentile, dei professori delle migliori facoltà d'Italia. Ora, se i nostri avversari fossero stati presenti alla nostra riunione, si sarebbero convinti che il Fascismo non è soltanto azione, è anche pensiero, anzi, dovendo oggi cambiare il suo fronte di battaglia, bisogna raffinare sempre più la nostra capacità di pensiero, la nostra capacità polemica ed avere non soltanto l'attacco irruento, ma anemie l'ironia ed il sarcasmo come accade talvolta nei miei discorsi.
Poi questo Congresso è importante perché ha consolidato l'unità del Partito. Abbiamo discusso per quattro giorni in una maniera fraterna. Ci siamo sentiti veramente come fratelli, non come capi e gregari che venivano da tutte le parti d'Italia, e che venivano a stringere i vincoli di un indistruttibile cameratismo. Ciò è importante perché ha dimostrato che il Fascismo non si può distruggere. Neppure un pazzo frenetico può pensare di cancellare il Fascismo dalla storia italiana. (Grandi acclamazioni).
Conclusione: bisogna tenersi pronti a tutte le necessità. Noi non possiamo inibirci nessuna delle possibilità future. Infine se i nostri avversari sono animati da un vero amor di Patria, essi trovano in questo ordine del giorno intransigente la possibilità di demordere dal loro atteggiamento; se viceversa i nostri avversari vogliono mettere la questione sul problema forza, agiremo di conseguenza.
Non rifiutiamoci a nessuna delle possibilità future, prepariamoci; cerchiamo di evitare l'allarmismo nelle popolazioni, cerchiamo di presentarci sotto il nostro aspetto guerriero, ma umano. Non vessiamo i nervi già alterati della popolazione. Cosicché se domani il Fascismo sarà armato di tutto il suo ingegno, di tutta la sua forza morale e spirituale, se potrà dire: noi teniamo, la Nazione non per nostro profitto, allora il Fascismo sarà veramente invincibile.
Uno dei grandi meriti del Fascismo è di avere abolito le distanze tra regione e regione. Il nord non deve chiedere troppo perché anche il sud deve fare i suoi progressi. Noi vogliamo unificare la Nazione nello Stato Sovrano, che è sopra di tutti e può essere contro tutti, perché rappresenta la continuità morale della Nazione nella storia. Senza lo Stato non c'è Nazione. Ci sono soltanto degli aggregati umani, suscettibili di tutte le disintegrazioni che la storia può infliggere loro.
Voi tornerete ai vostri paesi, alle vostre città portando l'impressione di questa nostra veramente mirabile adunata: essa segna una tappa che costituisce una data gloriosa di questo Fascismo che ha cinque anni di vita. Credo, in verità, che nessuna Nazione del mondo abbia qualcosa che rassomigli alla storia del Fascismo, un piccolo partito, poche decine di individui che a poco a poco ingrossano come valanga fatale, poi diventano masse, poi osano di assumere il potere. Ma il giorno in cui hanno assunto il potere, e voi ne fate parte, assumono la responsabilità tremenda di governare un popolo di 40 milioni di abitanti.
Se noi concentreremo tutte le nostre energie, se terremo alto, nel nostro spirito, il senso della responsabilità che ci siamo assunta conquistando il potere, cioè il destino presente e futuro delle generazioni italiane, non falliremo la nostra meta.
Non vogliono più che si dica che siamo pronti ad uccidere ed a morire; ebbene diremo; siamo pronti a morire pur di far grande l'Italia.
Roma, 4 agosto 1924: MUSSOLINI parla ai combattenti romani.
Alle parole pronunciate da MUSSOLINI al Congresso nazionale su l'Ordine del giorno votato il 5 agosto su le polemiche suscitate dal Convegno di Assisi, va ad aggiungersi, chiusosi il Congresso, il discorso prununciato il 7 agosto, quando la Sezione Romana dell'Associazione Combattenti si recò in corteo a Palazzo Chigi:
Commilitoni!
Vi sono grato, profondamente grato, per questa vostra manifestazione di solidarietà e di simpatia, anche perché voi sapete che io non l'ho minimamente sollecitata. È un gesto spontaneo, assolutamente spontaneo, e non è quindi una ricerca di facile e rinnovata popolarità.
Commilitoni! Voi ricordate che pochi mesi or sono, in questa stessa piazza, all'indomani del plebiscito elettorale, di fronte ad una moltitudine imponente come questa, io dissi e proclamai, rivolgendo un caldo appello a tutto il popolo italiano, che le fazioni dovevano scomparire purché la Nazione fosse grande essa sola.
Noi siamo convinti di avere raccolto questo appello. Noi lo abbiamo enunciato con tutta sincerità, con vero amore fraterno. Lo hanno raccolto quelli dell'altra riva?
Ebbene, ciò malgrado, malgrado il quotidiano illegalismo morale con cui si percuote perfidamente e sinistramente tutto il Fascismo italiano dipingendolo per quello che assolutamente non è; malgrado ciò io vorrei in quest'ora rinnovare l'appello, pur senza cullarmi nella illusione che sarà accolto. Ma è già sintomatico, è già significativo ed eloquente che i combattenti della capitale sentano il bisogno di riaffermare solennemente la loro fede.
Commilitoni che avete con me vissuto lungamente per mesi ed anni la fangosa trincea, commilitoni che avete sofferto e lottato e sanguinato come soffriva e lottava l'umile fante, commilitoni che avete fatto della Vittoria il sangue del vostro sangue, lo spirito del vostro spirito, ditemi, commilitoni: Volete tornare veramente indietro?
È pensabile, è soltanto pensabile, che i combattenti italiani, il fiore delle generazioni che ci diedero Vittorio Veneto: è soltanto pensabile che i Fanti reduci dalla guerra possano costituire la massa di manovra di una opposizione che è troppo variopinta per essere sincera?
Ebbene, allora io vi proclamo che stoltizia somma è quella di voler mettere in contrasto i Fanti con le Camicie nere perché, bisogna dichiararlo ancora una volta fortissimamente, nelle file del Fascismo i migliori vengono dalle trincee; ed io dichiaro che farò tutto il possibile per evitare contrasti fra coloro che sono stati gli artefici della nostra indimenticabile e gloriosa Vittoria.
Combattenti di Roma! Vi rinnovo il mio grazie. Voi sapete che io sono e resto sulla breccia; sono legato non al mio capriccio, ma alla mia consegna di soldato.
Debbo compiere e compirò il mio dovere preciso. Ora sono sicuro che voi mi assisterete in questa difficile fatica. Sono sicuro che se io vi chiedessi prove ed attestazioni più ancora che solenni, di solidarietà e di sacrificio. Voi, Fanti di Roma. Voi, Fanti d'Italia, rispondereste ancora una volta con voce di tuono: «Presente!».
Ravenna, 26 agosto 1924: MUSSOLINI parla al Popolo dell'Alto Casentino
Da qualche tempo, l'intensità della lotta politica aveva tenuto MUSSOLINI avvinto alla sua polemica, con l'eco continua delle beghe dei partiti; ma presto riprese a parlare direttamente alla folla degli umili, al disopra di quell'opposizione che tentava invano d'interporsi fra Lui e il popolo: il 26 agosto 1924 si recò nell'Alto Casentino e a Soci, nel Castello dei Conti Guidi, parlò ai fascisti e al popolo di quella regione. Il Sindaco del luogo gli aveva recato il saluto delle popolazioni, invocando l'aiuto di Dio «perché all'Italia sia conservato il condottiero dalle mani salde, che sa condurre la navigazione della Patria in sicuro porto». MUSSOLINI rispose con le seguenti parole:
Signor Sindaco! Cittadini!
Dopo un lungo silenzio è oggi la prima volta che ritorno a contatto del popolo. Il luogo è solenne, la moltitudine è imponente, l'accoglienza è sincera. Il vostro saluto, pieno di fraterna simpatia, mi è giunto al cuore.
Non è la prima volta che mi è accaduto di parlare e di dire cose importanti in piccoli paesi, di fronte ad un pubblico che non è il solito, ma è quello più atto a comprendermi.
Sono contento di questa rapida corsa attraverso la vostra terra che non conoscevo, attraverso popolazioni degne di un grande passato e di un migliore avvenire. Sono lieto di questo vostro contatto, perché questo popolo sano è, secondo l'espressione di Cristo, «il sale della terra»; è pieno di fede, entusiasta del suo destino.
Voi, signor sindaco, avete chiuso il vostro discorso con una similitudine marinara che io riprendo: «-La navigazione non è sempre tranquilla; talora il destino fa all'improvviso scoppiare l'uragano; è allora che il pilota deve avere la mano salda al timone e, se occorre, farsi legare all'albero del timone, per tenere fede alla sua rotta-».
Arezzo, 26 agosto 1924: MUSSOLINI parla al popolo di Bibbiena.
Lo stesso giorno, MUSSOLINI passò da Soci a Bibbiena, dove, in suo onore, ebbe luogo un ricevimento nel Palazzo Municipale. Al saluto recatogli dall'Avv. Coselschi, MUSSOLINI rispose nel modo seguente:
Signor Sindaco!
Le accoglienze del Casentino, che io avevo il torto di non conoscere, e di ciò faccio ammenda e penitenza, mi arrivano profondamente al cuore.
Qui trovo l'anima del popolo di Toscana che, in soli due secoli, ha saputo dare i più bei nomi alla storia d'Italia. Da qui veramente si può ripetere quello che io dissi a Firenze, Patria dello spirito. L'Italia, o Coselschi, non è quella del belletto, è una donna fiera del suo passato e ancor più del suo futuro.
Quello che è stato fatto non è dipeso da me, ma dal popolo che lavora e che collabora; lavora nei cantieri e nelle officine ed i risultati di questo lavoro ancora non si vedono perché tutto è coperto. Ma presto l'impalcatura che lo nasconde cadrà.
Cittadini di Bibbiena, uomini vibranti di fede: sono sicuro che voi con gli altri costruirete questa Italia come la vedo io, e così dopo il definitivo trionfo voi direte ai vostri figli: passò il Fascismo vivificatore e la Patria nostra è rimasta la terra dei grandi maestri, degli insigni artefici, dei portatori della civiltà umana.
Siena, 31 agosto 1924: MUSSOLINI parla agli operai del Monte Amiata.
MUSSOLINI si recò a presenziare all'inaugurazione del Monumento dei Caduti al Monte Amiata e nel Piazzale della Galleria Mafalda tenne agli operai il seguente discorso:
Vi prego di concedermi pochi minuti del vostro raccoglimento e della vostra attenzione.
Vi dichiaro subito che mi trovo perfettamente a posto fra voi: non soltanto per le mie origini, quanto per il fatto che tra voi la Milizia ha reclutato molte Camicie nere e che parecchi di voi, minatori, avete partecipato alla Marcia su Roma.
Poi mi trovo perfettamente a posto fra voi perché credo che il mio discorso sarà inteso da voi tutti e sarà utile. Io non vi dirò delle cose straordinarie perché oramai di straordinario al mondo non vi è più nulla.
Vi dirò quel che pensa il Fascismo dei rapporti tra capitale e lavoro, quale è la dottrina del sindacalismo fascista, che cosa vuole il Fascismo, che cosa si ripromette di compiere domani.
Il punto di partenza, o amici, è questo: la Nazione. Che cosa è la Nazione? La Nazione è una realtà, siete voi. Moltiplicatevi sino a diventare la cifra imponente di quaranta milioni di italiani che hanno lo stesso linguaggio, lo stesso costume, lo stesso sangue, lo stesso destino, che hanno gli stessi interessi: questa è la Nazione, è una realtà. Bisogna rispettarla. Che cosa in questo momento io vedo dinanzi a me? La Nazione. Vedo il popolo, il popolo che non ha più le classi e le categorie dai confini insuperabili. Qui siamo popolo: vedo degli ufficiali che guidano il nostro Esercito glorioso: vedo carabinieri che sono la espressione inflessibile del rispetto alla legge: vedo dei tecnici, dei signori, vedo dei lavoratori e delle Camicie nere; vedo la gagliarda gioventù fascista che mi dà l'idea di una primavera fiammeggiante.
Questo è il popolo. Malgrado gli egoismi individuali, vi sono degli interessi collettivi comuni. Il Fascismo insegna a subordinare gli interessi di categoria agli interessi della Nazione.
Voi specialmente, o lavoratori del Monte Amiata, di questo monte storico, voi siete i più indicati a comprendere l'essenza del sindacalismo fascista e ciò è non soltanto perché siete intelligenti, ma anche per la natura stessa del vostro lavoro. Voi vi affaticate ad estrarre un minerale prezioso, una delle poche ricchezze che abbiamo in Italia, ricca di tante cose: di cielo, di sole, di poesia, di fiori, di geni, di eroi e anche di politicanti, ma poverissima di materie prime. Mi richiamo a quello che diceva poco fa l'ing. Luzzatti: c'è un interesse comune ai datori di lavoro ed ai lavoratori.
Guai a chi varca certi limiti: i datori di lavoro non debbono volere che la massa dei loro dipendenti viva in condizioni di disagio e di povertà. Non è nel loro interesse né è nell'interesse della Nazione. D'altra parte i lavoratori non debbono chiedere all'industria ciò che l'industria non può sopportare.
Da appena tre anni si parla questo linguaggio in Italia e si sono fatti notevoli progressi.
Voi avete inteso la verità profonda di questa dottrina, e, soprattutto, avete inteso che il Fascismo non è contro il popolo che lavora. O perché dovrebbe essere il Fascismo contro il popolo che lavora? Perché? Mi sapete dare una ragione?
Prima di tutto voi siete degli italiani e io dichiaro che prima amo gli italiani e poi conservo un po' di simpatia per tutti gli altri popoli della terra. In secondo luogo voi siete dei lavoratori, cioè gente che produce, lavora e che accresce la ricchezza della Nazione. Poi, nel complesso, siete bravi. La popolazione lavoratrice italiana può dirsi all'avanguardia per probità, per onestà, per laboriosità, per diligenza, per intelligenza. Non c'è quindi nessuna ragione perché il Fascismo non debba andare fraternamente incontro al popolo che lavora. Ci va il Partito ed anche il Governo; la vostra presenza, il vostro entusiasmo, mi dimostrano che non siete tocchi da dubbi assurdi. Voi sentite che il Fascismo è solidissimo e che il Governo è piantato come una quercia nella roccia.
Si tratta di stare fermi, solidi. Vi assicuro che il clamore degli altri è molesto, ma perfettamente innocuo. Le opposizioni, tutte insieme, non dirò, come disse Bismarck, che non valgono le ossa di un granatiere della Pomerania; ma vi assicuro che sono perfettamente impotenti. Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremmo lo strame per gli accampamenti delle Camicie nere.
Con questo non intendiamo di agitare attraverso questa nostra adorabile penisola fiaccole di guerra e di inquietudini. Affatto. Noi ripetiamo qui, in questo luogo così suggestivo, che vogliamo dare la pace al popolo italiano, la pace all'estero. E l'abbiamo data senza rinuncie inutili e vogliamo darla anche all'interno, contemperando gli interessi di tutte le categorie e rispettando tutti gli elementi sinceramente devoti alla causa della Nazione.
Sono molto lieto, ad esempio, di avere qui accanto a me nel pubblico, il mio collega dei Lavori Pubblici, il vostro conterraneo Sarrocchi, di fede liberale. Egli collabora con me da qualche mese; egli può dire che la collaborazione con me non è pesante, perché io non ho borie di padrone.
Il Fascismo italiano nel suo animo è incorruttibile e non disposto a vendere, per un piatto di lenticchie miserabili, i suoi diritti ideali, ma non intende nemmeno di chiudersi in una torre d'avorio aristocratica e inaccessibile.
Questa è la collaborazione che io ho sempre sostenuta, che ho sempre vagheggiata. Ho detto che non cercavo nessuno e che non respingevo e non respingo nessuno. Però coloro che vogliono fare la strada con me debbono essere prima di tutto gente di buona fede e al di sopra degli interessi più o meno essenziali dei partiti, debbono avere in vista l'interesse comune della Nazione.
Di questa mia rapida esposizione, voi, o lavoratori del Monte Amiata, vi ricorderete tre cose: primo: che il sindacalismo fascista è molto migliore, molto più utile a voi e alle vostre famiglie del sindacalismo rosso che, colla pratica della lotta di classe, diventata norma di azione quotidiana, scava un abisso insuperabile tra cittadini e cittadini, fra figli della stessa terra; secondo: che il Governo è solido e che non demorde a nessun costo; terzo: che il Fascismo vuol fare una politica di pace, ma con dignità, con fierezza, con senso di disciplina.
Io vedo su una di quelle antenne tutti gli strumenti del vostro lavoro: strumenti antichi e moderni, comunque venerabili: sono gli strumenti della civiltà. La civiltà si misura anche e soprattutto dal progresso degli strumenti di lavoro.
Son lieto di avere trascorso qualche ora fra voi. Voi avete dinanzi il Capo di un partito, il Capo del Governo e anche un uomo come voi, con le vostre qualità, con i vostri difetti, con tutto ciò che costituisce l'elemento essenziale di quella speciale natura umana che è la natura italiana. Questo uomo vi porge il saluto fraterno, il suo attestato di simpatia e vi dice che voi non avete nulla da temere dal Fascismo, che voi avete tutto da sperare e da guadagnare dal Fascismo, che voi dovete tendere alla vostra elevazione materiale e morale per essere sempre più degni di questa Italia che noi tutti stiamo costruendo giorno per giorno, con tenacia, con fatica, fra sacrifici, fra dolori, fra penitenze; ma così è la vita; così è la storia; questo si deve fare per rendere grande e potente il popolo italiano.
Napoli, 16 settembre 1924: MUSSOLINI inaugura la Fiera Campionaria.
Dopo Roma, Perugia, Firenze, anche Napoli volle offrire a MUSSOLINI la cittadinanza onoraria. La cerimonia ebbe luogo in Municipio il 16 settembre 1924, in occasione della inaugurazione della Fiera Campionaria. Al saluto del Sindaco il Duce rispose con le seguenti parole:
Voi mi rendete in questo momento un altissimo onore e ve ne sono grato profondamente. Questo gesto di simpatia è un altro vincolo che rinsalda la catena della mia dedizione alla vostra città.
Vi dirò che sono molto lieto di essere venuto a Napoli soprattutto perché ho potuto constatare con i miei propri occhi che certi problemi che io voglio condurre a rapida soluzione, a questa rapida soluzione si avviano. Io non esagero se vi dico che ho nel mio cervello il quadro esatto di tutti i problemi interessanti Napoli e dalla risoluzione dei quali dipende l'avvenire della vostra città. Sono i problemi del mare, del porto, delle ferrovie, la ferrovia che deve abbreviare il percorso tra Napoli e le Calabrie, tra Napoli e Roma. Poi vi sono i problemi delle industrie. Sono lieto, ad esempio, quando mi si dice che si lavora e che un problema si avvia alla risoluzione. Il Mezzogiorno d'Italia non è ricco, ma può divenire ricco. Un popolo saggio, un popolo laborioso, un popolo che ha dato il fiore del suo sangue alla Patria può conquistare il Nord d'Italia e il Mezzogiorno: si livelli e scompaia questa differenza che spiritualmente non esiste più perché l'unità della Patria è un fatto compiuto, irrevocabile e tutti voi meridionali siete gelosissimi custodi di questa verità. Vi sono le differenze dovute ad eventi storici e a fattori geografici. Il Governo deve venire incontro a voi e voi dovete operare. Vi ripeto che il mio Governo ha soprattutto presenti i bisogni e i problemi di Napoli e dell'Italia meridionale. Vi ripeto che voglio, fermamente voglio, fare tutto il possibile perché si realizzi quello che fu l'auspicio di due anni fa: vedere Napoli potente, prospera, veramente regina del Mediterraneo nostro.
Napoli, 16 settembre 1924: MUSSOLINI parla al popolo di Napoli.
Nello stesso giorno, 16 settembre 1924, mentre nel Municipio aveva luogo la cerimonia per il conferimento della cittadinanza onoraria, di fuori il popolo acclamava il Duce e domandava di vederlo. Il Capo del Governo si affacciò al balcone del Palazzo Municipale, e alla folla adunata rivolse le seguenti parole:
Popolo di Napoli! Popolo nobile e saggio!
Rivolgendoti il mio saluto e porgendoti l'attestato della mia gratitudine per la tua accoglienza la mia memoria mi riconduce all'adunata di due anni fa, quando in questa metropoli si raccolse tutta la fremente giovinezza d'Italia, decisa, fermissimamente decisa, a qualsiasi sacrificio pur di attingere la meta. I ricordi tumultuano nel mio spirito: io rivedo la folla di quella sera nell'ora crepuscolare, vedo le legioni quadrate come le legioni di Roma che scandivano in un ritmo solenne e ieratico queste due sillabe fatali in tutta la storia della nostra stirpe. Fu la tua città, o nobile popolo napoletano, che mi diede il viatico, che mi assicurò la strada, che mi additò i fini da raggiungere.
Quante vicende in questi due anni di storia pienissima; vicende liete, vicende tristi. La vita si compone appunto di questa alterna vicenda, ma, o popolo napoletano, ma o Camicie nere, la mia fiducia nei destini del popolo italiano è immutabile, la mia volontà è sempre diritta.
Ebbene, se io ritorno, in rapida sintesi, a questi due anni di vita vissuta sento che la mia coscienza è tranquilla. Lo sento, perché giorno per giorno io non ho avuto che un pensiero, non sono stato dominato che da una volontà: ho teso tutte le mie energie sino allo spasimo pur di servire come ultimo dei servi la nostra Patria. Voi mi rivedete qui; sono lo stesso di ieri, sono lo stesso di domani. Anche nelle tempeste il nocchiero deve mostrare il suo coraggio e la sua fermezza.
Quando partimmo, ché ormai la diana della battaglia era suonata, io avevo nell'occhio e nello spirito tutto il complesso dei problemi che vi premono e che vi tormentano, tutti i problemi dai quali dipende il vostro benessere e la vostra grandezza. Io non dico che tutti questi problemi siano stati risolti. E come potevano esserlo in due anni soli quando voi attendete invano da mezzo secolo? Ma giorno per giorno io mi sono dedicato con tutta l'anima allo studio dei problemi che interessano Napoli ed il Mezzogiorno d'Italia e vi ripeto — e vorrei che questa promessa avesse la solennità del giuramento — che io farò tutto il possibile, che io spenderò il meglio delle mie energie pure di portarvi in alto, pure di fare di voi il grande popolo che ho sognato e che meritate di diventare.
Invece posso dire, senza falsa modestia, che tutto ciò che io ho dato al popolo, fu fatto senza rinunzie inutili e bastarde. E questo anno che non annovero tra i più felici della mia vita, è l'anno che comincia con Fiume, continua col Giuba e termina con Rodi italiana.
Se vi è oggi un governo in Europa e un popolo che faccia sul serio una politica di pace con dignità, anche prescindendo dalle inutili accademie universalistiche, questo Governo è il Governo italiano, questo popolo è il Popolo italiano.
In questa stessa settimana io firmerò un altro patto: un patto che rinsalda l'amicizia con una Nazione confinante con l'Italia. Ora non è dunque vano orgoglio se vi dico che il Governo Fascista ha dato al popolo italiano la sua parte all'estero.
Ebbene, l'opera non può dirsi ancora ultimata: dopo la pace all'esterno noi vogliamo, noi sinceramente vogliamo dar la pace all'interno, a tutti gli italiani di buona volontà che accettino la disciplina sacra ed inviolabile della Nazione. Ora, voi che avete una sensibilità squisita e siete dotati da natura di una acuta intelligenza, voi sentite che come per fare la pace all'esterno era necessario di trovare dei popoli che a questa pace aderissero, così per fare la pace all'interno, la pace che noi vogliamo, occorre che anche dall'altra parte vi sia della lealtà e della sincerità.
Napoletani! Camicie nere! Non mi accorgo qui tra voi, accolto dal vostro fresco ed impetuoso entusiasmo, non mi accorgo di essere nella città che fu chiamata «la capitale delle opposizioni».
Non neghiamo il diritto delle opposizioni. Non vogliamo costringere tutti gli italiani a pensare come noi pensiamo ed a credere ciò che noi crediamo: non vogliamo la livellazione generale degli spiriti perché una Italia ridotta in questo stato sarebbe insopportabile, ma non permettiamo che si violenti la realtà sino a negare tutto il bene che abbiamo voluto e abbiamo compiuto. Non permettiamo soprattutto ed innanzi tutto, non permettiamo e non permetteremo mai che si vilipenda il sacrificio ineffabile dei nostri tremila morti che sono la garanzia, la grande garanzia che il Fascismo non mancherà ai suoi destini gloriosi.
Popolo di Napoli! Camicie nere! Noi vogliamo in quest'ora dare libero corso ai nostri sogni; noi vogliamo in quest'ora spogliarci di tutto quello che può essere negativo, basso, vile. Noi in quest'ora, davanti a te magnifica moltitudine, non vogliamo avere se non pensieri di gloria, se non pensieri di forza, se non pensieri di purità, se non pensieri di grandezza.
Cittadini! Camicie nere! Forse non sarà più necessario, io lo spero, chiamare a raccolta le nostre legioni inquadrate; ma io sento e vi domando: se ciò fosse necessario come rispondereste voi? («-Sì!-», urla la folla). E se vi domando di essere pronti a servire la Patria giorno per giorno, col lavoro diligente, con l'onestà indiscutibile, se io vi domando questo giuramento, voi me lo date? («-Sì!-», urla la folla). Ebbene, Cittadini, Camicie nere! io raccolgo questa voce potente nel mio cuore. Ancora una volta io vedo innanzi a me tutto il popolo italiano probo, serio, laborioso, disciplinato, che marcia in battaglioni serrati verso l'avvenire immancabile di prosperità della Patria.
A chi il sacrificio?
(«A noi!», urla la folla).
A chi la gloria? («A noi!», urla la folla).
A chi l'Italia? («A noi!», urla la folla).
E così sia! Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Roma, 20 settembre 1924: MUSSOLINI parla in occassione del trattato e di regolamento giudiziario fra l'Italia e la Svizzera.
A Palazzo Chigi, nel Salone della Vittoria, il 20 settembre 1924, fu firmato il Trattato di conciliazione e di regolamento giudiziario fra l'Italia e la Svizzera. S. E. il Capo del Governo aveva fatto pervenire al Presidente della Confederazione Svizzera il seguente messaggio: «-Nel momento in cui ho l'alto onore di procedere alla firma del Trattato in base ai quale ogni eventuale vertenza fra l'Italia e la Svizzera sarà risolta per via amichevole, tengo a farle pervenire l'espressione più viva del mio compiacimento per questa piena ed assoluta consacrazione dell'indistruttibile amicizia fra i due paesi, nella certezza che l'accordo concluso avrà ripercussioni efficaci e promuoverà una più larga e più fervida collaborazione fra i due popoli-».
Dopo la firma del Trattato, il Duce si rivolse al signor Wagniere, Ministro della Svizzera a Roma e alle altre persone presenti, e fece le seguenti dichiarazioni:
Signor Ministro! Signori!
Ho voluto subito annunciare al Presidente della Confederazione Svizzera ed al popolo col quale stringiamo questo patto di amicizia, la firma dell'atto che noi qui consacriamo. Ho voluto poi che questa firma coincidesse col giorno in cui Roma e l'Italia celebrano l'anniversario dell'unità della Patria, per sottolineare ancora più l'importanza che io attribuisco a questo trattato di conciliazione e di regolamento giudiziario. Voi sapete, signor Ministro, di quale particolare simpatia personale io sia animato per il vostro nobile paese. Come Capo del Governo italiano io vi dichiaro che questi sentimenti corrispondono alla profonda, cordiale simpatia che il popolo italiano nutre per la vostra Confederazione. L'atto che oggi firmiamo è destinato a rendere più stretti i rapporti di amicizia che legano i due paesi.
Esso ha la durata di dieci anni, ma io lo considero come perpetuo in quanto che, al disopra dello stesso trattato, sta la ferma volontà mia e di tutto il popolo italiano di conservare e fortificare gl'immutabili rapporti di amicizia fra i due paesi.
Rimini, 21 settembre 1924: MUSSOLINI parla per l'onoranze a Giovanni Pascoli.
MUSSOLINI si era recato in Romagna per onorare Alfredo Orioni; il 21 settembre dello stesso anno vi ritornò per le onoranze a un altro grande della sua terra, il poeta Giovanni Pascoli (1855-1912). Le onoranze ebbero luogo a Rimini. Dopo il discorso commemorativo di Alfredo Panzini, MUSSOLINI pronunziò il seguente discorso:
Gente della mia Romagna!
Tre mesi or sono io fui tra voi per onorare un altro grande spirito della nostra terra, Alfredo Oriani, il poeta de La rivolta ideale; oggi eccomi ancora una volta tra voi per onorare un grande spirito, uno dei più grandi poeti della nostra stirpe, uno dei pochi grandi poeti che abbiano saputo trarre tutti gli accenti da tutte le corde, che abbia detto una parola materiata di verità profonda, questa: che l'Italia è la grande proletaria, un paese vecchio e giovane ad un tempo, povero e ricco, grande nel suo passato, e poiché lo vogliamo, più grande nel suo avvenire.
Tra voi mi ritrovo appieno: oserei quasi dire che, anche se la consuetudine non è quotidiana, io riconosco quasi ad una ad una le vostre facce solide, quadrate, abbronzate dal glorioso sole della nostra terra e so ancora che qui tra la Marecchia ed il Reno sono le Camicie Nere fedelissime che sentono l'orgoglio di costituire la decima Legione, quella che è pronta a battersi sempre e non si arrende mai.
Niente di più solenne del contrasto tra la folla raccolta nell'arengario per ascoltare la voce di un altro illustre figlio di Romagna e voi, moltitudine inquieta e impaziente, ardente di entusiasmo e fervida di passione, che scandiva due sillabe sole nelle quali però non c'era soltanto il culto dell'uomo ma la devozione all'Idea.
Voi sentite che lungo la via Emilia furono sempre decisi i destini della Patria, voi sentite che lungo la via Emilia sfilarono nei tempi le Legioni e sfilano ancora oggi in questa rinnovata e fiammeggiante primavera della Patria.
Voi sentite soprattutto che il Fascismo non è già, non può, non vuole essere la guardia del corpo di privilegi di individui e di classi, ma vuole essere la grande guardia che tutela la sicurezza e la grandezza immancabile del popolo italiano.
Solo uomini di poca o di mala fede possono dubitare della purezza, che io vorrei chiamare immacolata, della nostra fede! Noi nulla chiediamo ma siamo pronti a dare tutto, anche, se necessario, la vita per la causa dell'Italia. E se teniamo l'Italia solidamente nel pugno, e se vogliamo inquadrare in una ferrea disciplina tutta la nazione, non è certo per ambizione stoltissima, ma è semplicemente perché i nostri morti ci hanno lasciato un testamento al quale dobbiamo essere fedeli, e perché sentiamo di portare in noi una verità che, anche se non espressa nelle formule statiche di una dottrina, è una verità, una formula, un fermento di vita immortale.
Voi tutto ciò sentite anche se non vi riesce di chiaramente esprimere. Che cosa io vi chiedo? che voglio da voi? Non certo gli applausi, o gli onori e tutto ciò che può lusingare, sia pure nell'effimero tempo, le piccole anime; voglio da voi qualche cosa di più profondo, di più serio, di più vivo, che sia vivo come voi siete vivi, che sia sangue del vostro sangue, carne della vostra carne, che diventi norma della vostra vita. Sono sicuro che voi mi darete questa disciplina fatta di devozione e di opere. Voi non avete le mani legate, non c'è bisogno di slegarvele. Le mani slegate le ho io e basta!
Camicie Nere! Alzate i vostri gagliardetti, levate le grida gioiose che ci accompagnarono nelle grandi giornate. Io so già che cosa mi risponderete alle domande che sto per rivolgervi. Voi non potete essere, perché siete troppo intelligenti, gli schiavi di formule superstiziose ed assurde. Voi sapete che ogni secolo ha il suo sigillo; che quello che andava bene cento anni fa non va più oggi in cui gli obiettivi sono diversi. Oggi, o italiani, o popolo di Romagna, non si tratta che di conquistare la civile potenza tra le nazioni del mondo! («-Sì, sì!-», gridano le Camicie Nere).
Il vostro grido mi dice chiaramente che voi siete penetrati nel senso di questa verità infallibile. Voi sentite allora che non si arriva alla potenza senza disciplina, senza la collaborazione intelligente, razionale, quotidiana di tutte le energie in modo che veramente la Nazione appaia qui e fuori, in Italia e al di là dei mari e dei monti, come un esercito solo, inquadrato, saldo, sereno e silenzioso che marcia marzialmente, quotidianamente, romanamente e non si ferma finché non ha raggiunto la meta. Così marciavano i Romani, così marciava Roma, e qui sono traccie visibili e grandiose della immensa potenza di Roma.
Camicie Nere, a chi l'Italia? a chi la disciplina? a chi il sacrificio?
(«-A noi!-», rispondono ad una voce i presenti).
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Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1924
Ferrara, 22 settembre 1924: MUSSOLINI parla al Popolo Ferrarese
Ferrara, 22 settembre 1924: MUSSOLINI parla al Popolo Ferrarese
Da Rimini, MUSSOLINI doveva recarsi a Vicenza. Decise improvvisamente di sostare a Ravenna e a Ferrara; le popolazioni commosse ed esultanti per l'inatteso passaggio del Duce, lo acclamarono con fervido entusiasmo. A Ferrara, Egli rivolse al popolo il seguente discorso:
Popolo di Ferrara! Camicie nere!
Uno dei nostri migliori, uno dei duci delle Camicie nere, il vostro concittadino Italo Balbo, mi ricordava, ora è poco, che sono passati tre anni dal giorno in cui io parlai ad una moltitudine imponente come quella che mi sta dinanzi in questo momento. Son passati tre anni! Ma lo spettacolo che io abbraccio in questo momento con i miei occhi, mi dice che, da allora ad oggi, nulla vi è di mutato nel vostro animo e, da allora ad oggi, la passione della Patria fiammeggia nei vostri spiriti e il Fascismo è ancora e sempre la vostra fede più profonda, la vostra migliore speranza.
Sono passati tre anni! E voi mi vedete a voi dinanzi così come allora, con lo stesso incoercibile spirito, con la stessa inflessibile volontà, con lo stesso religioso senso del dovere che ho compiuto e di quello che devo compiere.
Voi siete qui in moltitudine immensa, voi qui dite con voce tonante, con voce che deve essere intesa da tutti, che il Fascismo è in piedi, intatto, con tutta la sua forza, ben deciso a respingere nel passato tutte le larve che al passato appartengono, ben deciso a porgere con animo assolutamente sincero l'olivo di pace, ma ben deciso anche a snudare la spada se l'olivo della pace non venisse accolto.
Abbiamo veramente lottato; abbiamo lasciato lungo le strade e le piazze delle nostre città, nelle vie delle nostre campagne, sangue purissimo di giovani che sono morti gridando: Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Questi sacrifici purissimi, questo sangue e questa fede costituiscono per noi un impegno e un giuramento solenne.
Io vorrei che molti di coloro che, nascosti dietro le barricate di carta, tentano di negare che il Governo Fascista abbia del consenso; io vorrei che costoro potessero assistere a questa immensa adunata di popolo, potessero constatare quanto sia fresco e vittorioso il vostro entusiasmo e potessero sentire la vostra voce che sale dal profondo del vostro cuore; la vostra voce che dice che per l'Italia, che per il Fascismo voi siete ancora pronti a combattere.
Con questo spettacolo io sono orgoglioso di chiudere la mia giornata, mentre domani Vicenza e gli Altipiani sacri della nostra guerra mi attendono. Qui è il popolo, qui è la gente d'Italia, qui è il popolo delle provincie, fermo, solido, sano, laborioso.
Io rispetto i calli delle mani. Sono un titolo di nobiltà. Io spesso li ho avuti, perché nobile è veramente colui che lavora, nobile è veramente colui che produce, colui che porta il suo sasso, sia pure modesto, all'edificio della Patria. E la Patria che noi sogniamo, è la Patria dove tutti lavorano e dove parassiti non esistono più.
Camicie nere: A chi l'Italia?
A chi Roma? A chi il sacrificio?
(«A noi!», rispondono le Camicie nere).
Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Vicenza, 23 settembre 1924: MUSSOLINI parla al Popolo vicentino.
MUSSOLINI si recò a Vicenza per l'inaugurazione del Piazzale della Vittoria, e tenne al popolo, dal Palazzo del Comune, il seguente discorso:
Il vostro Sindaco, così solerte nella tutela degli interessi cittadini, e così devoto alla causa che ci è comune, desidera che io, appena giunto, vi porga quello che egli ha chiamato il saluto mattutino. Ed io accedo ben volentieri al suo desiderio, perché è anche il mio.
Voglio, senza indugio, ringraziarvi per la vostra accoglienza, così vibrante ed entusiastica, voglio porgervi il mio saluto e in voi salutare tutti gli italiani che sono devoti alla causa della Nazione.
Oggi compiremo un grande rito, inaugureremo il Piazzale della Vittoria, rievocheremo grandi momenti incancellabili, rivivremo tutti gli episodi di una epopea che è scolpita a caratteri di bronzo nei cuori degli italiani.
Voi non volete certo rendere omaggio soltanto al Capo di un Partito, ma credo anche al Capo del Governo Nazionale. Voi certamente volete attestare al Capo di questo Governo ed al Governo, tutta la vostra grande, profonda, disinteressata solidarietà. Volete certamente dargli la prova di quel consenso che esiste veramente, esiste nella massa profonda del popolo italiano. Volete dare a questo Governo una specie di conforto e dirgli che deve essere fedele al Re e alla dinastia dei Savoia.
Eleviamo dunque, in questa mattina che ci trova riuniti, in questa vostra piazza superba di bellezze per celebrare un rito di concordia, di amore, eleviamo un triplice grido: Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Vicenza, 23 settembre 1924: MUSSOLINI inaugura il Piazzale della Vittoria.
MUSSOLINI inaugura Piazzale della Vittoria, costruito sul Monte Berico in una posizione da cui si contempla la cerchia dei monti che fu teatro delle battaglie degli altipiani: visione sacra all'eroismo dei soldati italiani. In tale occasione, Egli pronunziò il seguente discorso:
Cittadini!
Voi mi avete reso un alto onore chiamandomi ad inaugurare questo che, non a torto, fu già definito il miglior monumento consacrato alla Vittoria italiana.
Sono lieto di essere venuto tra voi, sono lieto di poter rendere omaggio a Vicenza, a questa nobilissima fra le città italiane che fu sempre il baluardo della Venezia e dell'Italia nella lotta contro l'Impero degli Absburgo e che ha conosciuto, dal 1848 alla guerra mondiale, tutti gli strazi, tutte le glorie. E anche quando gli aeroplani passeggiavano nel suo cielo, anche quando si sentiva vicina la minaccia straniera e si udiva chiaro il rombo del cannone nemico, Vicenza non piegò il suo spirito! Voglio rendere omaggio alle madri e alle vedove dei Caduti, dai nostri Morti ai quali si fa maggiore onore non ricordandoli troppo, ma portandone invece la memoria e l'insegnamento nel cuore; voglia anche portare il saluto ai mutilati dei quali mi onoro di essere commilitone, ed ai combattenti della grande guerra che conobbero il travaglio fangoso, sanguinoso e terribile delle trincee. Rivolgo un saluto di gratitudine infinita ai rappresentanti dell'Esercito italiano.
È l'Esercito che, dopo secoli e secoli di divisioni, di servitù, di decadenza ha saputo raccogliere tutta la gioventù migliore d'Italia, fonderla in un grande potente e complesso organismo ed ha saputo, attraverso molte battaglie e sacrifici enormi di sangue, abbattere e demolire per sempre uno dei più potenti Imperi che annoverasse la storia!
Non si può essere qui senza sentirsi invasi da una commozione profonda né si può sostare in questo luogo senza riandare col pensiero a tutta l'epoca della nostra lunga, sanguinosa e gloriosa guerra. Voi, o cittadini di Vicenza, avete vissuto questa guerra; l'avete vissuta veramente da vicino, avete visto quanti sforzi sia costata al popolo italiano, avete visto come questa guerra sia stata veramente combattuta da tutto il popolo. Ed oggi, qui, io voglio ricordare tutti i soldati d'Italia: da quelli nati sulle alte montagne, dalle quali uscirono i grandi, eroici, formidabili battaglioni alpini, ai gloriosi fanti di Romagna e di Abruzzo, di Puglia, di Calabria, della eroica Sicilia, della eroicissima Sardegna. Tutta questa gioventù magnifica, ad un dato momento, ha abbandonato casa, famiglia, non ha chiesto il perché, perché non si doveva domandare, ed è andata incontro al sacrificio ed alla morte!
Come dobbiamo onorare, veramente onorare questi umili che si sono sacrificati, come dobbiamo rendere sempre più alto il culto della Vittoria? Certo questo culto si esprime anche attraverso alle opere materiali, certo questo piazzale è destinato a parlare con la grande eloquenza delle nobili cose alle presenti ed alle future generazioni! Ma le vittorie si onorano anche e soprattutto in altro modo: bisogna diventare migliori, bisogna che tutti gli italiani si considerino soldati fedeli al loro posto, alla loro consegna. Il lavoro tranquillo, ordinato, intelligente, deve diventare la norma fondamentale di vita di tutti i buoni cittadini italiani. Bisogna rispettare leggi e tradizioni, tutto ciò che rappresenta l'elemento spirituale e fondamentale della vita di un popolo. Se poco fa sono entrato nel Tempio e mi sono inchinato dinanzi all'Altare, ciò non ho fatto per rendere un omaggio superficiale alla religione dello Stato, lo ho fatto per un intimo convincimento perché penso che un popolo non può divenire grande e potente, conscio dei suoi destini, se non si accosta alla religione e non la considera come un elemento essenziale della sua vita privata e pubblica. Se voi che mi ascoltate adeguerete i vostri atti a queste parole, vi convincerete che la Patria si serve soprattutto in silenzio, in umiltà e in disciplina, senza grandi frasi ma col lavoro assiduo e quotidiano.
Cittadini di Vicenza!
Ancora una volta voglio ringraziarvi delle accoglienze tributatemi e voglio ringraziarvi per l'attenzione significativa e meditativa con cui avete accolto le mie parole. Ciò significa che il terreno era già preparato a riceverle. Sgombriamo in questo momento dal nostro animo tutto ciò che può dividere gli italiani dagli italiani e leviamo soltanto un pensiero di purezza e di gloria. Salutiamo, con animo devoto e reverente, il Re. Salutiamo i combattenti vivi e morti che difesero le frontiere sacre d'Italia nel chiuso arco di monti dallo Stelvio al mare e promettiamo per queste memorie di volere, oggi, domani e sempre vivere per far l'Italia sempre più grande, degna del suo passato e ancora più degna del suo avvenire.
Lodi, 4 ottobre 1924: MUSSOLINI parla ai lodigiani.
Ai primi di ottobre il Duce passò qualche giorno a Milano; e andò a Lodi, per inaugurare il viale della Rimembranza. Il Sindaco della Città, a nome di tutti i Sindaci del circondario gli portò un saluto, a cui Egli rispose nel modo seguente:
Signori Sindaci!
Ho ascoltato il discorso del Sindaco di Lodi. In esso ho visto tutto quello che su una scala più grande costituisce lo sforzo della volontà nazionale. Vi ringrazio dell'omaggio che voi mi fate, che è di assoluta spontaneità e che in quest'ora è particolarmente significativo. È un omaggio consensuale; voi mi manifestate, col fatto solo della vostra presenza, la vostra solidarietà; non già a me, uomo, che sarebbe poco dal punto di vista politico, ma a me, Capo del Governo. Il Sindaco del vostro capoluogo ha giustamente affermato che la sorte delle amministrazioni comunali mi interessa enormemente perché per me gli ottomila Comuni d'Italia sono i gangli della vita amministrativa politica del paese. Noi abbiamo tre strumenti formidabili nelle mani: abbiamo il Governo, abbiamo i comuni ed abbiamo i sindacati, a prescindere dall'organizzazione del partito e da quella che è la potente nostra organizzazione delle forze militari. Se noi impieghiamo bene questi tre strumenti, cioè governiamo bene la Nazione, amministriamo bene i comuni e, attraverso il sindacalismo, eleviamo le condizioni delle masse che lavorano, noi avremo posto le basi infrangibili del nostro avvenire.
Molto si è fatto in questo campo. Affermo che un giorno farò l'elogio delle amministrazioni fasciste in Italia. Gli avversari affermano che le amministrazioni fasciste hanno funzionato poco e male; è falso. Su cinquemila comuni, tenuti dal Fascismo e presi in singolare disordine, almeno quattromilacinquecento funzionano egregiamente, sia dal punto di vista della moralità pubblica che da quello della amministrazione e del consenso cittadino.
Signori Sindaci, si tratta di continuare. Io considero i sindaci dei Comuni come i migliori miei collaboratori.
Coll'opera vostra potrete rendere plastica, tangibile, documentaria l'opera nostra a favore del popolo. E aggiungo che se questo fate, noi potremo sfidare, senza timore, tutte le opposizioni.
Fare grande il nostro popolo, renderlo consapevole e orgoglioso dei suoi destini; renderlo una unità armonica, organica, nella quale ogni cittadino abbia il proprio posto, per l'adempimento di un proprio dovere, ecco le mete, quali prossime, quali remote, del Governo nazionale.
Occorre tendere a queste mete con tutte le nostre forze.
Milano, 4 ottobre 1924: MUSSOLINI esplicita il Governo Fasciste e la Nazione.
Nello stesso giorno, 4 ottobre 1924, il Duce ritornò a Milano e si recò al ricevimento offerto in suo onore al Cova dall'Associazione Costituzionale. Rispondendo al saluto rivoltogli dal Sen. Crespi, il Capo del Governo pronunziò questo discorso che era una sintesi polemica dell'attività del Governo Fascista fra la Marcia su Roma e l'ottobre 1924 e costituiva una risposta pacata, materiata di fatti, al vaniloquio dei partiti oppositori, e particolarmente all'atteggiamento assunto, proprio in quei giorni, dai liberali al Congresso di Livorno.
Signori!
Una semplice coincidenza di ordine puramente cronologico non deve condurre assolutamente a credere che questa riunione debba costituire una specie di contraltare al congresso liberale. Non si parlava ancora del congresso di Livorno quando il vostro Presidente Perego mi manifestò il proponimento di organizzare una cerimonia del genere di questa che vi ha qui riuniti.
Vi ringrazio. Vi parlerò molto calmamente, molto schiettamente; da milanese a milanesi.
Bisogna ritornare due anni addietro; bisogna domandarsi ancora una volta perché si viene alla Marcia su Roma.
Per quanto la memoria degli italiani sia straordinariamente labile — del resto io trovo perfettamente umano che si cerchi di dimenticare tutto ciò che è triste nella vita per ricordarsi soltanto di tutto ciò che vi è di bello e di buono — voi certamente non potete aver dimenticato il periodo di angosciante paralisi dalla quale fu colpito lo Stato italiano nei mesi di luglio, agosto e settembre 1922.
Non si poteva formare un Governo.
Si chiamavano a Roma tutti gli specialisti in materia, si facevano riunioni quotidiane, si stampavano fierissimi articoli su molti giornali, ma il Governo non nasceva.
Alla fine, poiché un Governo ci voleva, fosse pure a scartamento ridotto, il Presidente del Consiglio di allora — che io ho fatto senatore per dimostrare che la mia politica è scevra di rancori personali — si decise alla fine a caricare sulle sue spalle la croce del potere, veramente croce del potere in quell'epoca.
Intanto bisogna precisare un elemento storico: si dice che il Fascismo è venuto quando il bolscevismo era al tramonto. Si tratta di una solenne menzogna. Nel luglio 1922, due mesi prima soltanto della Marcia su Roma, tutti gli elementi sovversivi e antinazionali inscenarono il famoso sciopero generale con la relativa Alleanza del lavoro e annesso comitato segreto. Ricordo di aver letto certi articoli assai elogiativi della gioventù fascista che in quei giorni montava sui tram, faceva funzionare i treni, issava il tricolore alle finestre e ridava l'aspetto normale alla città e stroncava l'ultimo tentativo di riscossa social-comunista.
Di lì a poco nacque un dissidio. Alcuni degli oppositori odierni sono rimasti a quell'epoca. Essi avevano una soluzione al problema, una soluzione media. Non volevano l'insurrezione armata, preferivano che il partito fascista avesse dato alcuni dei suoi elementi migliori a un Governo che poteva e doveva costituirsi. Che cosa si otteneva secondo questi oppositori? Il partito sarebbe stato valorizzato, sarebbe entrato nella linea costituzionale attraverso il gioco corretto parlamentare ed evidentemente non vi sarebbe stata la Marcia su Roma. Perché io non ho voluto questa soluzione intermedia? Ho la coscienza tranquilla e credo che accoglierla sarebbe stato un formidabile errore. In fondo la situazione non si sarebbe modificata se non attraverso le forze del Paese. Il Parlamento era quello che era. Nel Parlamento non c'erano che 35 deputati fascisti. Molto probabilmente quei due o tre mandati con portafoglio o senza portafoglio in un ministero Giolitti o con un altro Presidente del Consiglio si sarebbero sciupati. La situazione non sarebbe uscita dal vicolo cieco in cui si era cacciata e molto probabilmente non si sarebbe evitato lo scoglio insurrezionale.
D'altra parte lo Stato aveva già abdicato a gran parte della sua autorità.
Bisognava uscire da una situazione paradossale e tragica.
o ricordo a coloro che vanno fantasticando di sogni cesarei che nessuno più di me è servitore devoto, leale e fedele alla Dinastia. Perché se io fossi stato ammaliato di questi sogni di grandezza, avevo allora le forze per poter tentare di attuarli.
Non ebbi mai queste ambizioni.
Dissi già e ripeto che non fu un colpo di testa; tutto al più un colpo di Stato.
La Monarchia fu rispettata.
Da allora ad oggi voi vedete quale progresso si è fatto.
La Monarchia è entrata oggi nel profondo del popolo italiano.
Di paradossale vi è questo: che molti di coloro che andarono alla Camera in 156 cantando bandiera rossa oggi fanno delle professioni così entusiastiche di lealismo, che ci rendono molto sospettosi circa la sincerità dalla quale sono animati.
Così fu rispettato l'Esercito.
Richiamo la vostra attenzione su questo fatto di una certa importanza.
Tutto quello che è accaduto dal 1919 ad oggi e che costituisce nella storia dell'Umanità un periodo di un interesse straordinario, tanto che dovremmo ringraziare la Provvidenza di averci fatto vivere in un periodo così ricco di eventi memorabili, tutto quello che avvenne nel dopoguerra doveva dimostrare che una rivoluzione si poteva fare con l'Esercito o contro l'Esercito.
Con l'Esercito sarebbe stato un disastro, perché l'Esercito non deve parteggiare. Il giorno in cui l'Esercito diventa iniziatore di sedizioni, quel giorno la Nazione corre un pericolo mortale.
O si poteva fare contro. Ma allora si sarebbe avuta la guerra civile. Altro pericolo mortale per l'Italia.
Noi l'abbiamo fatta invece al di fuori, rispettando l'Esercito, lasciandolo estraneo, totalmente estraneo a questa che era una contesa politica, fra una classe politica evidentemente in decadenza ed una classe politica in formazione che voleva il suo posto al sole.
Fu rispettata la Chiesa, rispettato lo Statuto.
Infatti feci un Governo di coalizione e mi presentai alla Camera.
Si dice: ma voi teneste un discorso assai duro. Naturale. Sapevo a chi parlavo. Io sapevo che mi si subiva, che mi si tollerava, con rancori inespressi ma profondissimi. Ed io non potevo mentire a me stesso fino al punto di non far sentire a costoro ciò che io veramente pensavo.
Chiesi i pieni poteri. Se io non avessi avuto i pieni poteri non si faceva nulla. Durante il periodo dei pieni poteri, brevissimo del resto, un anno (e quando sono scaduti tutti volevano ancora porgermeli ed io non ne ho voluto sapere) durante questo periodo di pieni poteri ho l'orgoglio di dire che si son fatte grandissime cose.
Si dice adesso: Voi non avete fatto che applicare ciò che si era già studiato dai vostri predecessori. Può darsi. Si era studiato per cinquantanni, ma non si erano mai trovati i cinque minuti di coraggio civile necessari per prendere una decisione alla fine.
Ci sono delle riforme che io vorrei chiamare di ordine fondamentale, tra le quali, principalissima, quella della burocrazia.
Con questa riforma, della quale io sono gelosissimo, noi abbiamo dato non solo uno stato giuridico ai 504 mila funzionari dello Stato italiano, ma li abbiamo messi tutti nelle gerarchie. Ognuno sa bene come comincia e come finisce.
È stata una fatica improba, ma ci siamo riusciti.
E oggi tutta la burocrazia è inquadrata e lavora. La burocrazia marcia bene. Certo molti Governi l'avevano abituata un po' male. Poi, in fondo, dopo il cinematografo dei Governi, l'unico elemento di stabilità era la burocrazia.
Se non ci fosse stata la burocrazia noi ci saremmo trovati in pieno caos, perché, a prescindere da tutte le filosofie, da tutte le dottrine politiche, il Governo dello Stato è anche costituito da una serie di pratiche più o meno emarginate. Nella instabilità perpetua, rotativa, dei Governi, la burocrazia era quella che riassumeva in sé la continuità di tutta la vita amministrativa e quindi politica della Nazione.
Bisogna ricordare anche che negli ultimi periodi dei Governi precedenti, la burocrazia aveva preso delle abitudini abbastanza spregiudicate.
Bastava il minimo pretesto perché i ferrovieri sospendessero la marcia dei treni e gli impiegati postali e telefonici, che sono così necessari, che sono parte così viva della nostra vita, chiudessero gli sportelli.
Accadeva frequente che il ministro, andando in ufficio al mattino, trovasse l'ufficio occupato dai suoi funzionari, e qualche volta non si trovavano i carabinieri per farli sgomberare.
C'è stato uno sciopero dei maestri. Immaginate se si può pensare a qualche cosa di più paradossale di uno sciopero di maestri, di coloro che sono preposti all'educazione nazionale; scioperi dei professori delle scuole medie.
Siccome c'era un sindacalismo di magistrati siamo stati a un solo pelo dall'avere lo sciopero della giustizia.
È storia di ieri tutto ciò, o signori, non è storia del secolo di Tutankamen.
Oggi la burocrazia è conscia dei suoi doveri. Credo che debba essere ancora curata in certi suoi bisogni di ordine materiale e morale. L'ideale si riassume in questa formula: pochi impiegati ben pagati che possano condurre un treno di vita dignitoso e probo.
Voglio fare, presente il ministro dell'Istruzione Pubblica, che ho voluto assumere al Governo perché — più gentiliano di Gentile — continuasse nella strada battuta dal suo predecessore, l'apologia della riforma scolastica.
Non si era mai riusciti a vararla perché bisognava fronteggiare una coalizione imponente degli studenti, dei padri di famiglia, delle madri, dei professori e anche delle opposizioni generiche che cercano ogni pretesto per combattere il Governo.
Si parlava di ciò da 50 anni; ebbene molti di quelli che sono stati oppositori accaniti di quella riforma oggi riconoscono che nella scuola c'è uno stile diverso. I professori sono costretti a studiare, a rimodernare i loro cervelli, a non anchilosarsi nella ripetizione dei libri passati. Gli studenti debbono studiare perché questo è il loro preciso dovere. I padri e le madri che trascuravano questo lato così importante della vita dei loro figli oggi sono forzati a interessarsi dei problemi scolastici.
C'è tutto un nuovo sangue che circola nelle nostre istituzioni scolastiche. Vi sono dei dolori, come è naturale. Se una riforma non lacera degli interessi acquisiti, è una riforma che non lascia traccia.
La stessa riforma universitaria oggi è salutata come un avvenimento di grande portata nella storia dello spirito della Nazione. Abbiamo delle Università e ne avremo ancora delle nuove perché il Governo non vuole spegnere, ma dare incremento alla coltura italiana. Ne sorgerà una a Milano, degnissima di avere una Università; una a Firenze, altra città degnissima di avere una Università; finalmente una a Bari, che dovrà essere un grande richiamo per tutti i popoli dell'Oriente.
Ricordo di aver sostenuto un contradditorio non forse molto brillante, con ben cinque magistrati delle Cassazioni abolite i quali mi volevano dimostrare che non bisogna toccare questa questione. Io spiegai loro, pure essendo profano in materia, che non concepivo questa pluralità e d'altra parte da 50 anni si diceva che non poteva esserci che una Cassazione unica come una Cassazione unica c'è in Inghilterra, in Germania e in Francia. Siamo riusciti anche a questo, pur vincendo la resistenza di moltissimi interessi, non soltanto di quelli che venivano personalmente colpiti, ma anche degli ambienti, delle città che da gran tempo vantavano questi istituti giudiziari.
In fatto di legislazione sociale il Governo reazionario fascista ha ratificato, prima dell'Inghilterra e della Francia, la Convenzione di Washington.
Quanto alla politica estera, è così elogiata da tutti che non sento il bisogno di aggiungervi le mie considerazioni personali. Vi dirò solo che quando io decisi di andare alla Consulta, la nostra situazione in politica estera era semplicemente fallimentare. Avevamo fatto a Rapallo tutte le rinuncie possibili, ma non avevamo ottenuto Fiume, perché per l'articolo 4 del Trattato di Rapallo, Fiume doveva essere Stato indipendente: noi l'abbiamo annessa all'Italia.
Si era creata una curiosissima connessione tra l'oltre Giuba e il Dodecanneso: noi abbiamo separato queste due questioni che non avevano nessun motivo per rimanere unite. Abbiamo ottenuto il Giuba, 91.000 chilometri quadrati di territorio con uno dei più grandi fiumi equatoriali, e col Trattato di Losanna abbiamo messo fuori causa il Dodecanneso sul quale sventola ora di diritto e di fatto la bandiera italiana.
Queste sono le realizzazioni di ordine vorrei dire territoriale. Importantissime. Ma non basta.
Ho aggiunto a queste quistioni di ordine territoriale l'attuazione di un vasto piano politico di riconciliazione e di collaborazione.
Ho concluso perciò un trattato di amicizia con la Jugoslavia ed un trattato di commercio. Poi un accordo con la Cecoslovacchia.
Si è così aumentato il prestigio dell'Italia in tutto il bacino danubiano e mediterraneo.
Ho concluso anche diversi trattati di commercio. E riconosciuta la Russia. Se ne parlava da tre o quattro anni. Si diceva: bisogna riconoscere la Russia. La Russia esiste. Ma nessuno andava al concreto. C'erano delle difficoltà grandissime. Ora è stata l'Italia fascista la prima nazione che ha ricondotto la Russia nella circolazione politica e diplomatica dell'occidente europeo.
Ciò ha avuto e può avere, al di sopra dei regimi politici, conseguenze di incalcolabile portata.
La politica finanziaria voi la conoscete e ne conoscete anche i risultati, che sono brillantissimi.
Vi sono degli indici infallibili che denunciano la situazione economica dei popoli. Indici del risparmio, dell'investimento nelle società per azioni, il traffico ferroviario, il traffico dei porti. Trieste, che nel 1919-20-21 languiva ed immiseriva sotto la duplice minaccia slava e socialista, oggi ha già raggiunto il traffico di anteguerra.
Stamane da Roma mi si comunicava, e me lo comunicava l'ammiraglio Cagni, che il Porto di Genova carica oggi 2000 vagoni al giorno, 700 in più di quelli che ne caricava anteguerra.
Perché c'è dell'ordine nei porti, perché non si fermano più i piroscafi.
Vengo alla parte polemica del discorso.
Voi vi rendete perfettamente conto che un Governo non accetta condizioni da nessun partito. Nemmeno dal mio e qui in vostra presenza voglio dire l'elogio del partito fascista, che mi può aver dato delle piccole amarezze, ma che mi ha dato anche delle grandissime soddisfazioni. E non mi ha mai fatto condizioni di sorta. Sapeva che non ne avrei accettate.
Immaginate dunque se io posso accettare o soltanto esaminare condizioni che mi possono venire da un congresso qualsiasi.
Come dicevo nel principio del discorso vogliamo parlarci chiaro, schiettamente.
Che cosa è questa normalizzazione?
Io credo che vi sia un errore di vocabolo. Credo che si voglia dire normalità.
La normalizzazione è una parola di cui non riesco ancora a decifrare il significato.
Se mi si dice normalità, io capisco perfettamente.
La parola normalità è perfettamente intelligibile al mio cervello. Credo di capire anche che cosa voglia dire la normalizzazione. La normalizzazione dovrebbe consistere nella possibilità di sbarazzarsi di questo Governo attraverso un semplice voto parlamentare.
Ora io ho la mia teoria sui Governi, molto semplice, alcuni diranno lapalissiana: io credo che faccia più bene a una Nazione un Governo di mediocri ma continuo, che un Governo di genii ma discontinuo e sottoposto a tutti i capricci delle assemblee parlamentari.
Si dice: ma allora voi volete rimanere sempre al potere incrostati come l'ostrica allo scoglio. No. Il problema noi lo esaminiamo da un altro punto di vista. Noi non siamo arrivati al potere per la via ordinaria.
Non è stato un voto parlamentare con la indicazione così detta di un ordine del giorno che ci ha dato il potere. Su questo terreno siamo intransigenti. Dipende da un fatto che molti dimenticano, che noi abbiamo un grande sacrificio di sangue. Noi abbiamo lasciato migliaia di morti lungo le strade e sulle piazze d'Italia. Noi non possiamo considerarci alla stregua di tutti i partiti e considerare il Parlamento come l'unico ambiente nel quale tutte le situazioni politiche di una nazione in momenti eccezionali trovano la loro soluzione ordinaria e regolare.
Se la parola normalizzazione nasconde questo significato ambiguo, la respingo. Se vuol dire normalità, la accetto.
Io vi confesso molto apertamente che contro la libertà io ho scritto delle cose durissime come altri scrittori scrivono delle cose ferocissime contro l'autorità.
Quando leggo che si reclama la libertà assoluta, mi domando se si vive in un mondo di persone ragionevoli.
Se c'è un dato storico, è che tutta la storia della civiltà, dall'uomo delle caverne all'uomo civile o sedicente civile, è tutta una limitazione progressiva della libertà.
Gli uomini ammonticchiati nelle città o nelle nazioni moderne, debbono continuamente limitare la loro libertà, non esclusa quella di movimento. Il concetto assoluto di libertà è arbitrario. Nella realtà non esiste. Ma poi all'atto pratico dove sono le violazioni della libertà? Dove? Il decreto sulla stampa.
Ebbene, non si è mai detto tanto male del Governo come da quando quel decreto è in funzione o dovrebbe essere in funzione. Il che significa che non è liberticida come si vorrebbe dare a intendere. Anche qui c'è un equivoco. Vogliamo andare al fondo delle cose. Si vorrebbe questa libertà: di fare dei cortei con delle bandiere rosse, di fare dei grandi comizi nelle pubbliche piazze, magari fracassare delle vetrine, di rovesciare i cordoni dei carabinieri, gridare viva Lenin, di ricominciare insomma l'andamento degli anni scorsi che fu stroncato dal sangue delle camicie nere.
Ora questa libertà io non la dò, non la voglio dare anche perché coloro che me la chiedono sono quelli che, se domani l'avessero, l'annullerebbero di fatto.
Chiedere lo scioglimento della Milizia è chiedere l'assurdo. Sarebbe un errore colossale. Prima di tutto è un organismo volontario. Questo lo si dimentica molto spesso e volentieri. Ha reso dei servizi e ne può rendere. Si possono rivedere i suoi quadri. Sarà giurata fede al Re con la massima lealtà.
Coloro che richiedono lo scioglimento della Milizia io li considero senz'altro come degli avversari, quale che sia la bandiera che li raccoglie.
Tra l'8 e il 10 novembre si riaprirà la Camera. Finite le feste per la celebrazione della Vittoria, che questo anno deve perdere il suo troppo accentuato carattere di quietismo e di malinconia, si riaprirà il Parlamento.
Questa è vera normalità.
Porteremo al Parlamento tutti i decreti legge. Vogliamo sbarazzare il terreno legislativo di questi decreti. Un blocco sarà approvato con un solo voto, gli altri saranno discussi. Vi sono tutti i trattati internazionali che saranno discussi diligentemente.
Poi porteremo davanti al Parlamento il riordinamento dell'Esercito. Questa è la questione che dovrà tra tutte interessare gli italiani perché si tratta della sicurezza della Nazione. Porteremo quindi i bilanci. Io domando se si può pensare ad una politica più normale di questa, quando voi ricordiate che da 12 anni non si discutono più i bilanci e i Parlamenti sono nati per discutere i bilanci, per controllare le entrate e le uscite di quella gigantesca amministrazione che è l'amministrazione dello Stato.
Quando noi parliamo di pace parliamo con animo assolutamente sincero.
Sarebbe veramente paradossale che dopo avere fatto tanti trattati di pace con uomini che abitano al di là delle nostre frontiere, che non hanno comune con noi né la razza né la lingua né i costumi né la religione né la storia non riuscissimo a dare pace agli abitanti dello stesso paese.
Quindi vogliamo la pace. La vogliamo sinceramente. Ma accade il singolare fenomeno che quando il Fascismo alza il ramoscello di ulivo, dall'altra parte non si odono che grida di scherno e si interpreta ciò come un atto di debolezza. Non solo, ma mentre si chiede a noi il disarmo, voi sapete che a Parigi vi è stata una prima manifestazione di centurie proletarie armate, con gagliardetti e con scimmiottature fasciste. Ed in Italia si sta tentando una cosa analoga. Niente di grave: tentativi sporadici. Ma è deplorevole medico quello che trascura i sintomi.
Siamo per la pacificazione se anche gli altri vogliono la pacificazione.
E come si può andare a questa pacificazione? Bisogna riconoscere i fatti compiuti. È inutile essere più intransigenti di quel medico di cui parla Galileo nel suo dialogo dei massimi sistemi: che pur vedendo la circolazione del sangue la negava soltanto perché Aristotile l'aveva negata.
Si voglia o no, nell'ottobre del '22 vi è stato un atto insurrezionale, una rivoluzione, anche se sulla parola si può discutere.
Comunque, una presa violenta del potere.
Negare questo fatto compiuto, cercare di cancellarlo con una polemica giornalistica, con un giuoco dialettico, è veramente un non senso.
D'altra parte, signori, voi siete acuti osservatori dei fenomeni sociali, perché siete gente del lavoro, gente che vive in contatto con le masse. Avete quindi una sensibilità squisita. Il Fascismo è un fenomeno di linee imponenti. È una creazione originale italiana. Non si può disperdere come il sole disperde al mattino le nebbie nei prati.
È un fenomeno che interessa tutto il mondo.
In tutto il mondo da due anni non si fa che discutere del Fascismo. È sorta una letteratura in tutte le lingue. Individui partono dal Giappone, dalla Cina, dall'Australia per venire a studiarlo. Evidentemente anche là si soffre dei mali di cui noi abbiamo sofferto. Fastidi dell'autorità.
Abbiamo eretto degli altari a degli idoli e non abbiamo avuto il coraggio di disfarcene. Un popolo che vuole la sua indipendenza dallo straniero deve innalzare la grande bandiera della libertà. Il liberalismo operò bene nel Risorgimento. Ma un popolo per giungere alla potenza ha bisogno della disciplina. La potenza è la risultante di una coordinazione di sforzi di tutti i cittadini che si sentono al loro posto, ognuno pronto al suo dovere. Non vi è da farsi illusioni se ogni tanto qualche rivoletto si allontana dal Fascismo. Io richiamo la vostra attenzione su questo fenomeno singolarissimo che i giovani piuttosto che entrare nei vecchi partiti antifascisti preferiscono foggiarne dei nuovi.
Evidentemente questi vecchi partiti non devono dire più nulla alla generazione che è uscita dalla guerra.
Attorno al Governo c'è il consenso. D'altra parte il Governo ha tenuto fede ai suoi impegni; nel giugno e nel settembre. Nel giugno ha aperto le carceri. I cittadini che sono colpevoli pagheranno. Nel settembre il Governo ha tenuto fermi i fascisti. Oh quante telefonate il lunedì sera a Roma quando si temeva la seconda ondata, la notte di San Bartolomeo e simili fantasie. Vi era un terrore pazzo.
Si è visto che solo col mio richiamo di Capo del Governo e del Partito, i fascisti hanno smesso ogni tentativo di rappresaglia. Questo è un merito che non si può negare al Governo.
Vengo ai problemi di domani. Sono problemi che fanno tremare le vene e i polsi, sono problemi che qualche volta mi angosciano profondamente. C'è una parte d'Italia che è indietro di 50 anni, dico 50 anni, ma forse potrei dire un secolo.
Vi sono a Napoli, nella città del sole, dei sorrisi, del mare, tutto incantesimi e azzurro, vi sono 70.000 famiglie che vivono nei «bassi». Ora chi ha visto il «basso» napoletano avrà avuto un'impressione di umiliazione profonda.
Vi sono centinaia di comuni che non hanno strade, migliaia che non hanno acqua, decine che non hanno cimiteri.
Vi sono fra Messina e Reggio Calabria almeno centomila italiani che vivono nelle baracche costruite nel 1908. È uno spettacolo spaventevole, disonorante.
Quale è il dato fondamentale del nostro problema? È il nostro sviluppo demografico. Si nasce molto in Italia. Ne sono contentissimo. Ma io non farò propaganda di maltusianesimo o di neomaltusianesimo. Io non credo fra l'altro alla serietà scientifica di queste dottrine. Il solo fatto che la decadenza spaventa le altre nazioni, significa che noi dobbiamo essere soddisfatti del nostro sviluppo rigoglioso. Si nasce in 440.000 persone in più ogni anno. Siamo ben quaranta milioni in questa piccola penisola!
Voi vedete allora quali formidabili problemi balzino allo spirito dinanzi a queste cifre. Bisogna utilizzare il nostro territorio fino all'estremo, bonificare fino all'ultimo acquitrino, fare delle strade, apprestare dei porti, portare al massimo dello sviluppo tecnico le nostre officine, industrializzare l'agricoltura, attrezzarsi perché, salvo per alcune plaghe dell'alta Italia, tutto il resto dell'Italia è in condizioni assai arretrate.
Abbiamo i mercati chiusi. Quando un popolo cresce, non ha che tre strade dinanzi a sé: o si vota alla sterilità volontaria e questo gl'italiani sono troppo intelligenti per farlo; ovvero fa la guerra; oppure cerca dei mercati per lo sbocco del suo di più di braccia umane.
Richiamo la vostra attenzione sulla situazione generale. Un astro sorge di nuovo sull'orizzonte, l'astro tedesco. La Germania che credevamo schiacciata è già pronta. Voi ne sentite la presenza. Si prepara formidabilmente alla sua rinascita economica.
Nel 1925 ricomincierà la lotta per la conquista dei mercati. Credete voi che ci possiamo trastullare con dei giocattoli a uso interno quando domani possiamo essere di fronte alla prova in cui si deciderà se saremo vivi o no, se diventeremo colonia o resteremo grande potenza?
Questi, o signori, sono i problemi prospettati, così grosso modo, perché non voglio abusare della vostra intensa pazienza coi problemi gravi quotidiani dei piccoli comuni come delle grandi città, delle regioni, problemi che interessano tutta la popolazione, problemi igienici, di coltura, economici, militari, esteri; una mole enorme di lavoro. Come si potrebbe pretendere la saggezza assoluta e la infallibilità?
Qualche volta bisogna sbagliare. È fatale che si sbagli.
Anche la politica è esperienza. Si dice: voi avete abolito qualche volta quello che avevate fatto ieri. Ma è naturale. Come si deve mantenere quella legge che l'esperienza dimostra errata? Si dovrebbe dunque solo per onore di firma mantenersi nell'errore? Io credo che nessuno di voi approverebbe questa pratica di Governo. Riconosco che abbiamo commesso degli errori; ma ci siamo trovati di fronte ad un cumulo di macerie. C'era tutto da rifare.
C'era da riformare lo spirito della Nazione, c'era da dare una linea a tutta l'amministrazione dello Stato, c'erano da fissare degli obiettivi e delle mete e gl'istrumenti per raggiungerle. Tutto ciò è stato fatto da noi, da noi che siamo degli uomini non degli dei, uomini come voi, né peggiori, né migliori di voi, e quindi soggetti a tutte le passioni e a tutte le fallacie umane.
E appunto per questo, per la mole imponente dei problemi, per la delicatezza di questi problemi ed anche per la pochezza delle forze umane, noi non respingiamo nessuna collaborazione.
Sarebbe bellissimo se si potesse estendere il criterio della collaborazione a tutti. Un cantiere sonante in cui tutti lavorino concordemente. Ma questo non è possibile.
Non bisogna pretendere che un Governo come questo, come quello che ho l'onore di dirigere, vada in giro a cercare i collaboratori.
È una questione di dignità e di coerenza oserei dire storica, se non avessi in orrore le parole grosse.
Io non so se il discorso che ho improvvisato sia un discorso politico; tutto sta ad intendersi su questa parola «politico».
E non so neanche se ho detto tutto quello che mi proponevo di dire e che avevo segnato in questi appunti. Non volevo fare una grande orazione, perché non volevo sedurre, specie di sirena in tight, quei signori che stanno riunendosi a Livorno.
Tuttavia io credo che questa esposizione fatta con animo schietto potrà incontrare la vostra simpatia. Avrò riaffermato i vincoli fra la vostra Associazione veramente gloriosa ed il Governo.
Non è senza ironia che si verifica questo caso: che l'Associazione Costituzionale di Milano, una delle più antiche Associazioni, invita a parlare quegli che dovrebbe essere l'eversore della Costituzione. Evidentemente voi non credete a questa accusa. Tutte le leggi umane, non quelle divine, sono il risultato di uno sforzo di uomini. Altri uomini vengono, modificano, aboliscono, perfezionano. Non ci vuole nulla ad abolire. Distruggere è facile, ma ricostruire è difficile.
o già detto che non vogliamo toccare i muri maestri, ma la sistemazione interna si; è necessario perché oggi l'Italia che ha pure una grande industria ed anche una grande agricoltura, che è piena di fermenti di vita, non è più quella del 1848, del 1830.
Il Fascismo è la espressione più calda di questa rinnovata coscienza.
Signori, non ho parlato soltanto a voi, ma per mezzo vostro, grazie al vostro invito cortese, ho voluto parlare ancora una volta al popolo italiano.
Ancora nello stesso giorno, MUSSOLINI passò dal Cova a Palazzo Marino, ove la folla acclamante in Piazza della Scala chiedeva insistentemente d'udire la sua parola. Affacciatosi al balcone di Palazzo Marino, Egli rivolse al popolo adunato le seguenti parole:
Camicie nere!
Riconosco il vostro grido che è un grido di promessa e di fede. Riconoscete voi il vostro Capo?
Ebbene, il vostro Capo è fedele come voi gli siete fedeli e come tutti insieme siamo fedeli alla Nazione.
Se l'ora fosse più propizia io vorrei rievocare gli anni passati, gli episodi della vostra passione e le nostre battaglie. Noi siamo gli stessi: quelli che erano un piccolo manipolo, che sapevano tenere la piazza contro la folla aizzata dai cattivi pastori, siamo noi che abbiamo sbarazzato il terreno della nostra storia dalle vecchie classi politiche.
Nulla è cambiato nello spirito nostro. La nostra fede è la stessa e la nostra disciplina non conosce limiti. È inutile pensare di poter frenare l'impeto della nostra gagliardia. Questo non lo dimentichino coloro che ci provocano e ricordino che se voi siete fermi lo è per volontà mia.
Ma non è patriottico, non è umano, non è italiano il quotidiano martellamento delle calunnie e delle insinuazioni. Noi teniamo saldo nelle nostre mani il Governo nella più rigida disciplina e per il bene del Paese.
A chi l'Italia?
A chi Roma?
A chi la disciplina?
(A tutte le domande, la folla grida: «-A noi!.». Dopo l'ultimo «A noi!», il Duce conclude):
Ma la disciplina è per tutti!
Milano - Legnano - Gallarate, 5 ottobre 1924: MUSSOLINI e i discorsi del cinque ottobre
Il giorno seguente, MUSSOLINI tenne quattro brevi discorsi, due a Milano, uno a Legnano e uno a Gallarate. Qui si riportano perché, ad onta della loro brevità, hanno tutti per diverse ragioni, un valore significativo, e provano come dovunque il Duce fosse circondato dal consenso delle folle, mentre gli oppositori non erano che i residui di vecchie camarille, fuori della vita vivente e senza alcuna influenza sul Paese.
Il primo discorso fu pronunziato a Milano, all'Università Bocconi, per l'inaugurazione del quarto Congresso dei dottori in Scienze Economiche:
Signori!
Ho voluto di proposito venire tra voi per assistere a questa cerimonia inaugurale. Mi sono ricordato che in tempi lontani io sono stato studioso delle vostre discipline e discepolo di quello che non a torto poteva essere chiamato il principe degli economisti; parlo di Vilfredo Pareto. La vita poi ha spostato il mio itinerario di viaggio e non ho potuto approfondire molti problemi che mi interessavano. Posso quindi dire che sono un poco dei vostri e posso aggiungere che i problemi dell'economia hanno sempre sedotto il mio spirito.
Forse perché sono aridi, non sembrano poetici: non importa. Ma è bello che si trovino, in paese di troppi poeti com'è l'Italia, di grandi e piccoli poeti, di poetastri, di pochi veramente poeti, anche dei cervelli come i vostri, che si danno allo studio per me enormemente poetico delle cifre e dei problemi dai quali dipende in gran parte il destino dei popoli.
L'onorevole Sindaco ha fatto molto bene a ricordarmi, perché io me l'ero dimenticato, che si deve a questo Governo un decreto-legge (quindi un decreto buono malgrado fosse un decreto-legge) col quale voi siete stati elevati ad Ordine, avete avuto il vostro posto, il posto che meritavate nella gerarchia delle intelligenze nella vita nazionale.
Voi vi riunite a Congresso e, come bene ha detto il secondo oratore, non soltanto per discutere i vostri interessi professionali, ma anche per affrontare i problemi che interessano la Nazione. In questo opuscolo che ho davanti agli occhi, noto argomenti che possono appassionare voi e non soltanto voi. Vi si parla del problema della marina mercantile italiana. Sfogliandolo ho già visto che il relatore ha toccato parecchi tasti assai importanti di questo che è un problema fondamentale della Nazione italiana: se è vero che noi siamo circondati dal mare e che tutti i nostri problemi di rifornimenti dipendono in gran parte dal mare, e dal mare, come già ci venne la vita, potrà anche venirci la fortuna e la prosperità.
Esaminate dunque questo problema con animo sereno. Questo forse è un congresso più utile di altri, perché, invece di discutere sui grandi problemi della politica interplanetaria, discute di cose concrete dalle quali dipendono domani il benessere, la prosperità e la sicurezza della Nazione italiana.
Signori! In questo momento io voglio esprimervi tutti i miei fervidi auguri per il vostro lavoro e assicurarvi della mia piena e fraterna simpatia.
Dall'Università Bocconi, il Duce passò alla Casa del Fante, per l'inaugurazione della nuova sede e fece le seguenti dichiarazioni:
Un equivoco stava per togliermi il piacere di questa visita. Non sapevo che si trattasse della inaugurazione della vostra nuova sede. Son tra voi non come Capo del Governo, non come Capo di un Partito; son tra voi come soldato, come fante. Io che ho visto il fante in trincea, so quanto ha sofferto, quanto ha lottato, quanto sangue ha sparso e quale enorme tributo ha portato alla vittoria italiana. L'ottanta per cento dell'Esercito è composto di fanti. Si può ben dire che il fante rappresenta la Nazione. Io non amo specializzazioni, ma riconosco un sol privilegio: quello del fante. Il fante in guerra era una cosa speciale: aveva i compiti più gravosi, più tremendi. Poi doveva star in trincea delle volte per trenta, per quaranta giorni: una cosa ben diversa da coloro che vi venivano per sei o sette giorni o magari ci stavano un'ora, che comparivano nelle grandi occasioni, magari proprio in quella opportuna per pescare una medaglia.
Voi conoscete tutto ciò meglio di me ed è inutile che io vi ripeta la mia simpatia: vi è acquisita anche come Capo del Governo. Io voglio ricordare per voi quel motto che un fante intelligentissimo incise su una caverna alle sponde del Piave: «Non vogliamo encomi». Al fante basta un encomio solo: la coscienza tranquilla di aver compiuto il proprio dovere; e dirò di più: la coscienza che è pronto a compierlo ancora se la Patria dovesse suonare la grande campana della storia.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, MUSSOLINI andò a Legnano, ove visitò, fra l'altro, lo Stabilimento Tosi, distribuendo otto croci al merito del lavoro, assegnate ad operai dello stabilimento. In tale occasione pronunziò il seguente discorso:
Operai!
Questi vostri compagni, che si possono chiamare giustamente i veterani del lavoro, hanno avuto un piccolo segno ufficiale di riconoscimento. Ma io credo che nell'animo di questi vostri compagni chi sa quanti ricordi ha risvegliato, ricordi di tanti anni passati, di tante vicende, di tanto lavoro dato allo stabilimento e alla Nazione. Questa piccola ricompensa è un sintomo di quello che il Governo Nazionale pensa nei confronti del lavoro e dei problemi del lavoro. Vi dichiaro, con tutta la sincerità, che ho la coscienza assolutamente tranquilla; che i problemi che vi interessano sono sempre presenti al mio spirito. Quando la Regia Marina doveva iniziare nuovi lavori, nuove costruzioni, che devono dare la sicurezza alla Nazione e garantire il futuro, io pensavo agli operai che nelle officine avrebbero costruito questi ordigni possenti e delicati che possono essere chiamati il prodigio della tecnica e del lavoro. E se vi dico che i vostri legittimi interessi mi sono sempre presenti, non lo faccio per raccogliere il vostro plauso, per avere presso di voi una buona opinione pubblica. Un Governo non può essere sempre giudicato dai contemporanei, ma qualche volta occorre attendere, per essere giudicati giustamente, che il tempo passi. Ma voi sentite come il nostro prestigio all'estero sia aumentato, come si siano intensificati i traffici e aumentato il lavoro e quindi come sia anche aumentato il beneficio collettivo e anche il vostro personale, perché il miglioramento delle industrie permette quegli aumenti ai lavoratori che sono la ricompensa pratica della vostra fatica.
Così io intendo la collaborazione. Così la intendono in questa gloriosa Legnano — gloriosa non meno per le industrie che per la battaglia — così la intendono i vostri industriali dei quali un modello è il vostro onorevole Tosi, il cui padre ha creato, attraverso decenni, queste potenti officine dalle quali escono opere mirabili.
Voi, operai, potete essere oggetto di lusinghe. Ma io vi ripeto che il Fascismo ed il Governo che rappresento non hanno nessun interesse ad andare contro la classe lavoratrice. Se lo facessero sarebbero stolidi. La classe lavoratrice è la potenza, la speranza, la certezza dell'avvenire d'Italia.
Eleviamo dunque un pensiero di gratitudine a questi vostri compagni, eleviamo un inno al lavoro umano che forma, aumenta, accresce la ricchezza nazionale con la conquista dei mercati del mondo, al lavoro che è il vostro titolo di nobiltà.
Viva il lavoro, viva l'Italia.
MUSSOLINI proseguì poi da Legnano a Gallarate, ove presenziò all'inaugurazione del labaro della 26a Legione della M.V.S.N., che ha come motto «Amore armato», e rivolse al popolo le seguenti parole:
Dopo i discorsi del Cappellano della Milizia volontaria e del Console della 26a Legione, voi dite: «il Presidente deve essere stanco, si è alzato di buon'ora per la "Coppa Baracca", ha partecipato a diverse cerimonie, ha avuto una giornata piena». Vi ingannate. Non sono affatto stanco, tanto che non so resistere alla tentazione di chiudere questa grande manifestazione con un discorso politico, anzi polemico.
Sarò breve: la stagione non consente lunghi discorsi. E mi domando: sogno o sono sveglio? Tutto ciò che accade intorno a me è favola o realtà? Questa imponente massa di popolo si compone di uomini vivi o di larve uscite mentre cala il crepuscolo?
Le folle che mi hanno circondato stamane: a Cinisello, a Milano, ed erano i grandi Fanti d'Italia, a Legnano, ieri a Lodi, qui, ora, a Gallarate, esistono realmente o sono invenzioni di menti malate?
Le grida che mi accoglievano erano di simpatia o di ripulsa? Erano fiori o sassi quelli che mi venivano lanciati al mio passaggio?
I Sindaci dei vostri nobili Comuni, gli esponenti della vostra vita economica, culturale, amministrativa, i combattenti ed i mutilati, il minuto popolo, erano dunque spinti dalla violenza o obbedivano al loro istinto profondo? Ma allora questo è o non è consenso, consenso vasto di popolo? Perché mi si rimprovera di parlare spesso sulle piazze? Non è questo il più democratico dei costumi politici?
Tutto ciò accade mentre a Livorno si fa ancora una volta il processo inutile al Fascismo. Che pena questi giovani che mostrano le anemie del loro spirito precocemente accartocciato! Che pietà gli sfoghi individuali di uomini furibondi per la mancata inclusione nel listone, nonostante le assidue frequentazioni al Viminale! Che miseria la grama requisitoria antifascista pronunciata dall'uomo che dirigeva il Ministero dell'industria e commercio all'epoca del più grande crollo bancario che gettò nella disperazione quattrocentomila famiglie di piccoli risparmiatori!
No, date a Cesare quel che è di Cesare, e all'ex ministro Belotti quel che gli appartiene. Tuttavia noi siamo tranquilli. I fascisti livornesi assistono al vituperio scagliato sulla loro più pura passione nella massima tranquillità. Questi sono gli ordini partiti da Roma e i fascisti livornesi — che pure sono numerosissimi — non mancano ai doveri dell'ospitalità e danno esempio di sopportazione e di disciplina, del resto non saranno le chiacchiere dette o stampate che fermeranno le nostre ruote perché noi non abbiamo votato soltanto degli ordini del giorno o scritto dei monumentali articoli: abbiamo versato del sangue, del purissimo sangue: i nostri caduti si contano ormai a migliaia in ogni parte d'Italia» ancora e sempre sale dalle nostre anime il grido della concordia e della pace. Ma siamo uomini, non santi o candidati alla santità. Noi siamo sinceri nella nostra invocazione: non altrettanto si può dire degli altri, almeno fino ad oggi.
Camicie nere! Ho visto poco fa levare in alto i vostri moschetti nel gesto guerriero del soldato. Avere un'arma, «amore armato»: questa è ancora una grande profonda verità. Un'altra ne imparai recentemente ad Asiago: «muti e fedeli». Ma anche la vostra mi piace moltissimo. Camminiamo. Continuiamo a camminare. Non siamo stanchi. I compiti di domani ci aspettano. Noi teniamo la Nazione perché abbiamo osato quello che altri non osò mai, perché abbiamo servito in umiltà la causa della Nazione. Se abbiamo sbagliato fu la carne che ci tradì, lo spirito mai.
— Cittadini, Camicie nere della 26a legione!
— A chi l'Italia?
— A chi Roma?
— A chi il combattimento?
— A chi la disciplina?
(A tutte le domande la folla risponde entusiasticamente: «A noi!». Il Duce conclude):
A tutti gli italiani devoti alla Patria!
Milano, 7 ottobre 1924: MUSSOLINI parla agli aviatori italiani.
MUSSOLINI offrì al Cova, a Milano, un banchetto in onore dei partecipanti alla «Coppa Baracca», cui intervenne, unica signora, la Madre dell'eroico aviatore Francesco Baracca, spentosi gloriosamente nel compiere il suo glorioso dovere. Il Comandante Generale Piccio rivolse a MUSSOLINI, a nome dei partecipanti, un saluto, a cui Egli rispose nel modo seguente:
Signora! Signor Comandante! Signori!
Il saluto che mi avete porto testé in nome dei piloti che hanno partecipato al «raid Baracca», e, posso aggiungere, in nome di tutti i piloti d'Italia, giunge gradito al mio animo, sia nella mia qualità di Capo del Governo, sia nella qualità di Alto Commissario dell'aviazione, sia, anche, nella mia qualità di pilota che non ha ottenuto il brevetto perché la mia vita è stata sempre movimentata. Però anche dopo una famosa caduta io ho continuato energicamente a volare.
Manifesto a tutti i piloti che hanno partecipato alla prova di ieri il mio plauso altissimo. È stata una prova severa che si è svolta senza incidenti, il che depone a favore dei piloti e degli apparecchi, e che ha dato tutti quei risultati che ci ripromettevamo di ottenere.
Avete giustamente detto, Comandante generale: l'aviazione è l'arma del domani. Siamo forti in terra e siamo forti in mare; bisogna essere fortissimi anche nell'aria.
Questo nostro fraterno banchetto, è reso più solenne dalla presenza di questa fierissima madre di Romagna, la madre di Francesco Baracca, il vero cavaliere dell'ideale e dell'aria.
Ho pensato di fare in Italia quello che è stato fatto in Francia per Guynemer; l'asso degli assi francesi è stato biografato in maniera molto poetica, molto commovente, molto passionale, e questo libro, che è forse più interessante di un romanzo, corre in tutte le scuole della Repubblica; troverò uno scrittore che scriva la vita di Baracca.
Sono sicuro che il Ministro dell'Istruzione Pubblica non avrà difficoltà a che questo libro sia conosciuto alle anime dei fanciulli del popolo.
Signori, io levo il mio calice e bevo alla salute di S. M. il Re, porgo un saluto all'aviazione dei paesi rappresentati e bevo alle glorie passate, presenti e future, dell'eroica ala italiana.
Rieti, 12 ottobre 1924: MUSSOLINI parla al popolo sabino.
Con R. D. 4 marzo 1923, n. 545, la regione sabina veniva aggregata al Lazio: veniva così soddisfatta una vecchia aspirazione di quelle popolazioni, corrispondente anche ad antichissime ragioni storiche. La città di Rieti, il 12 ottobre 1924, offerse la cittadinanza onoraria a MUSSOLINI. Questi, dal Palazzo Municipale, rivolse al popolo le seguenti parole:
Laborioso popolo della Sabina!
Tu mi hai portato il tuo saluto mattutino, fresco e sincero. Io, a mia volta, ti saluto e ti ringrazio dal profondo del cuore.
Sin dal passo Corese la grazia e la forza di questa antica e gloriosa gente mi sono venute incontro, mentre una donna sconosciuta mi ha porto un ramoscello di ulivo; l'ho accettato come simbolo e come presagio perché nell'ulivo c'è la foglia dolce e sottile ma c'è anche il legno aspro e duro.
In questa mattinata, radiosa di sole e tumultuante di giovinezza, io agito, ancora una volta, questo simbolo, che esprime la profonda aspirazione di tutto il popolo italiano.
Se coloro che discutono eternamente sull'abusato tema della forza e del consenso mi seguissero nelle peregrinazioni che vado compiendo nelle terre d'Italia, da queste moltitudini sarebbero convinti che la mia è una verità e la loro è una menzogna.
Sin dal primo giorno del mio Governo io pensai che la nobile Rieti, la romana, la latina Rieti, dovesse tornare a Roma e accolsi il vostro voto che da cinquanta anni era rimasto inascoltato.
Conosco ora altri vostri bisogni e problemi che riguardano la vostra zona. So anche che voi non volete vivere — come mi diceva testé il vostro ottimo magistrato cittadino — sulle memorie del passato, ma volete costruire, col lavoro alacre, le fortune del vostro avvenire.
Cittadini di Rieti, vi porgo il mio saluto ed il mio grazie come Capo del Governo, come Capo del Fascismo e come italiano che è lieto di essere, sia pure per breve ora, ospite vostro.
Viva l'Italia!
L'Aquila, 12 ottobre 1924: MUSSOLINI parla al popolo aquilano.
Nello stesso giorno, 12 ottobre 1924, da Rieti il Duce passò negli Abruzzi, andò all'Aquila, ove, dal Palazzo Betti, parlò al popolo adunato.
Concittadini dell'Aquila! Laboriose e valorose popolazioni dell'Abruzzo e del Molise!
Non volevo veramente pronunciare altri discorsi dopo quello che ho pronunciato recentemente a Milano, ma questo vi sarebbe probabilmente spiaciuto: ebbene voglio venire incontro impetuosamente al vostro desiderio.
Leggevo ieri sera in uno dei tanti giornali che infettano la Capitale, questa frase singolarissima: «Il Governo è isolato». (Gli astanti ridono).
La vostra franca risata, il vostro scoppio di ilarità giovanile è già una risposta a questa affermazione, stoltissima fra le stolte affermazioni dei nostri avversari. Oggi non si può veramente dire dinanzi a questa moltitudine che raccoglie uomini di tutte le terre della vostra regione, non si può dire che il Governo sia isolato. Oggi ho udito la parola dei magistrati, dei vostri nobili Comuni, delle vostre rappresentanze provinciali, i combattenti, i mutilati, le madri e le vedove dei caduti, tutti coloro che molto hanno sofferto perché molto hanno dato alla causa della Nazione durante la; grande guerra. Poi le Camicie nere, poi il popolo con la sua grande anima è venuto a dirmi una parola schietta di solidarietà e di simpatia. Non posso supporre che questi omaggi siano di semplice convenienza o, peggio ancora di miserabile ipocrisia. Evidentemente essi rispondono ad un moto profondo, incoercibile dello spirito. Il popolo italiano, il buono, il saggio, il forte, il laborioso popolo italiano, sente che non sono un tiranno, non sono un padrone, né sono tormentato da folli ambizioni. Ho l'orgoglio invece di essere il servo della Nazione, ho la coscienza di fare tutto il possibile per rendere il popolo italiano grande, prospero, potente all'interno ed all'esterno.
Voi mi domandate come saneremo questa contraddizione. Poiché il contrasto voi lo afferrate nei suoi elementi drammatici. Si dice che noi siamo un esercito accampato nella Nazione, che noi governiamo contro la volontà del popolo italiano. Si dice che se il popolo potesse esprimere liberamente la sua voce, questa sarebbe di rampogna o di condanna. Ebbene, noi lo abbiamo consultato questo popolo, siamo andati verso questo popolo, continuamente.
Perché siete qui? C'è forse qualcuno che vi ha costretti, che vi ha imposto di venire in questa piazza? Siete venuti perché la vostra volontà ve lo ha detto, perché avete obbedito alla vostra coscienza.
Non voglio abusare della vostra attenzione anche perché so che molti di voi sono venuti da lontani paesi, forse a piedi. So che le vostre case vi chiamano.
Ebbene, sono due anni che teniamo la Nazione, sembra ieri: e pure il corso del tempo non apparve mai così breve. Abbiamo lavorato, abbiamo fatto molte cose, abbiamo dato savie leggi al popolo italiano; adesso veniamo incontro a questo popolo per alleggerirgli i pesi, per rendergli più prospera la vita, per cercare di aumentare il suo benessere, per elevarlo sia moralmente che intellettualmente. È facile dimenticare, troppo facile. Ho già detto che è umano dimenticare il tempo delle miserie, mentre altrettanto umano è ricordare le epoche delle felicità. Ma noi, che abbiamo la responsabilità suprema, non possiamo, non dobbiamo dimenticare; non dobbiamo dimenticare l'epoca in cui un solo giornale usciva in Roma ed usciva solo per settanta giorni. Questo giornale si gettò sull'inchiesta di Caporetto con foia sadica, vilipese gli ufficiali e i soldati, svalutò la Vittoria, sputò su i feriti e i decorati. E si pensava di processare il generale che, con un gesto di necessaria energia, aveva ristabilito la non meno necessaria disciplina. (La folla grida: «-Viva il generale Graziarti!-» ).
Sì, viva Graziani!
Per quanto martellati da calunnie, non vogliamo emettere propositi di estremismo: non è necessario. Siamo forti; il popolo, quello che lavora, è con noi: sono contro di noi gli esclusi, i vendicativi, quelli che, come certi dannati danteschi, hanno la faccia rivolta verso il passato. Dopo due anni, malgrado tante vicende, e liete e tristi, siamo ancora sulla breccia; ben decisi a compiere fino all'ultimo il nostro dovere.
Salutiamo in quest'ora tutti i fattori e tutte le istituzioni che sono la base sacra ed intangibile della Patria. Salutiamo il Re. Salutiamo l'Esercito di Vittorio Veneto, i rappresentanti della Chiesa, dei Comuni, degli ordini professionali, delle Corporazioni. Salutiamo la Milizia che presterà tra poco giuramento inquadrata, la Milizia che ha reso e potrà rendere grandi servigi alla Nazione.
Alzate i vostri gagliardetti, le vostre bandiere ed elevate il vostro spirito nella visione della più grande, della più bella, della più forte Italia di domani.
Popolo di Ferrara! Camicie nere!
Uno dei nostri migliori, uno dei duci delle Camicie nere, il vostro concittadino Italo Balbo, mi ricordava, ora è poco, che sono passati tre anni dal giorno in cui io parlai ad una moltitudine imponente come quella che mi sta dinanzi in questo momento. Son passati tre anni! Ma lo spettacolo che io abbraccio in questo momento con i miei occhi, mi dice che, da allora ad oggi, nulla vi è di mutato nel vostro animo e, da allora ad oggi, la passione della Patria fiammeggia nei vostri spiriti e il Fascismo è ancora e sempre la vostra fede più profonda, la vostra migliore speranza.
Sono passati tre anni! E voi mi vedete a voi dinanzi così come allora, con lo stesso incoercibile spirito, con la stessa inflessibile volontà, con lo stesso religioso senso del dovere che ho compiuto e di quello che devo compiere.
Voi siete qui in moltitudine immensa, voi qui dite con voce tonante, con voce che deve essere intesa da tutti, che il Fascismo è in piedi, intatto, con tutta la sua forza, ben deciso a respingere nel passato tutte le larve che al passato appartengono, ben deciso a porgere con animo assolutamente sincero l'olivo di pace, ma ben deciso anche a snudare la spada se l'olivo della pace non venisse accolto.
Abbiamo veramente lottato; abbiamo lasciato lungo le strade e le piazze delle nostre città, nelle vie delle nostre campagne, sangue purissimo di giovani che sono morti gridando: Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Questi sacrifici purissimi, questo sangue e questa fede costituiscono per noi un impegno e un giuramento solenne.
Io vorrei che molti di coloro che, nascosti dietro le barricate di carta, tentano di negare che il Governo Fascista abbia del consenso; io vorrei che costoro potessero assistere a questa immensa adunata di popolo, potessero constatare quanto sia fresco e vittorioso il vostro entusiasmo e potessero sentire la vostra voce che sale dal profondo del vostro cuore; la vostra voce che dice che per l'Italia, che per il Fascismo voi siete ancora pronti a combattere.
Con questo spettacolo io sono orgoglioso di chiudere la mia giornata, mentre domani Vicenza e gli Altipiani sacri della nostra guerra mi attendono. Qui è il popolo, qui è la gente d'Italia, qui è il popolo delle provincie, fermo, solido, sano, laborioso.
Io rispetto i calli delle mani. Sono un titolo di nobiltà. Io spesso li ho avuti, perché nobile è veramente colui che lavora, nobile è veramente colui che produce, colui che porta il suo sasso, sia pure modesto, all'edificio della Patria. E la Patria che noi sogniamo, è la Patria dove tutti lavorano e dove parassiti non esistono più.
Camicie nere: A chi l'Italia?
A chi Roma? A chi il sacrificio?
(«A noi!», rispondono le Camicie nere).
Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Vicenza, 23 settembre 1924: MUSSOLINI parla al Popolo vicentino.
MUSSOLINI si recò a Vicenza per l'inaugurazione del Piazzale della Vittoria, e tenne al popolo, dal Palazzo del Comune, il seguente discorso:
Il vostro Sindaco, così solerte nella tutela degli interessi cittadini, e così devoto alla causa che ci è comune, desidera che io, appena giunto, vi porga quello che egli ha chiamato il saluto mattutino. Ed io accedo ben volentieri al suo desiderio, perché è anche il mio.
Voglio, senza indugio, ringraziarvi per la vostra accoglienza, così vibrante ed entusiastica, voglio porgervi il mio saluto e in voi salutare tutti gli italiani che sono devoti alla causa della Nazione.
Oggi compiremo un grande rito, inaugureremo il Piazzale della Vittoria, rievocheremo grandi momenti incancellabili, rivivremo tutti gli episodi di una epopea che è scolpita a caratteri di bronzo nei cuori degli italiani.
Voi non volete certo rendere omaggio soltanto al Capo di un Partito, ma credo anche al Capo del Governo Nazionale. Voi certamente volete attestare al Capo di questo Governo ed al Governo, tutta la vostra grande, profonda, disinteressata solidarietà. Volete certamente dargli la prova di quel consenso che esiste veramente, esiste nella massa profonda del popolo italiano. Volete dare a questo Governo una specie di conforto e dirgli che deve essere fedele al Re e alla dinastia dei Savoia.
Eleviamo dunque, in questa mattina che ci trova riuniti, in questa vostra piazza superba di bellezze per celebrare un rito di concordia, di amore, eleviamo un triplice grido: Viva il Re! Viva l'Italia! Viva il Fascismo!
Vicenza, 23 settembre 1924: MUSSOLINI inaugura il Piazzale della Vittoria.
MUSSOLINI inaugura Piazzale della Vittoria, costruito sul Monte Berico in una posizione da cui si contempla la cerchia dei monti che fu teatro delle battaglie degli altipiani: visione sacra all'eroismo dei soldati italiani. In tale occasione, Egli pronunziò il seguente discorso:
Cittadini!
Voi mi avete reso un alto onore chiamandomi ad inaugurare questo che, non a torto, fu già definito il miglior monumento consacrato alla Vittoria italiana.
Sono lieto di essere venuto tra voi, sono lieto di poter rendere omaggio a Vicenza, a questa nobilissima fra le città italiane che fu sempre il baluardo della Venezia e dell'Italia nella lotta contro l'Impero degli Absburgo e che ha conosciuto, dal 1848 alla guerra mondiale, tutti gli strazi, tutte le glorie. E anche quando gli aeroplani passeggiavano nel suo cielo, anche quando si sentiva vicina la minaccia straniera e si udiva chiaro il rombo del cannone nemico, Vicenza non piegò il suo spirito! Voglio rendere omaggio alle madri e alle vedove dei Caduti, dai nostri Morti ai quali si fa maggiore onore non ricordandoli troppo, ma portandone invece la memoria e l'insegnamento nel cuore; voglia anche portare il saluto ai mutilati dei quali mi onoro di essere commilitone, ed ai combattenti della grande guerra che conobbero il travaglio fangoso, sanguinoso e terribile delle trincee. Rivolgo un saluto di gratitudine infinita ai rappresentanti dell'Esercito italiano.
È l'Esercito che, dopo secoli e secoli di divisioni, di servitù, di decadenza ha saputo raccogliere tutta la gioventù migliore d'Italia, fonderla in un grande potente e complesso organismo ed ha saputo, attraverso molte battaglie e sacrifici enormi di sangue, abbattere e demolire per sempre uno dei più potenti Imperi che annoverasse la storia!
Non si può essere qui senza sentirsi invasi da una commozione profonda né si può sostare in questo luogo senza riandare col pensiero a tutta l'epoca della nostra lunga, sanguinosa e gloriosa guerra. Voi, o cittadini di Vicenza, avete vissuto questa guerra; l'avete vissuta veramente da vicino, avete visto quanti sforzi sia costata al popolo italiano, avete visto come questa guerra sia stata veramente combattuta da tutto il popolo. Ed oggi, qui, io voglio ricordare tutti i soldati d'Italia: da quelli nati sulle alte montagne, dalle quali uscirono i grandi, eroici, formidabili battaglioni alpini, ai gloriosi fanti di Romagna e di Abruzzo, di Puglia, di Calabria, della eroica Sicilia, della eroicissima Sardegna. Tutta questa gioventù magnifica, ad un dato momento, ha abbandonato casa, famiglia, non ha chiesto il perché, perché non si doveva domandare, ed è andata incontro al sacrificio ed alla morte!
Come dobbiamo onorare, veramente onorare questi umili che si sono sacrificati, come dobbiamo rendere sempre più alto il culto della Vittoria? Certo questo culto si esprime anche attraverso alle opere materiali, certo questo piazzale è destinato a parlare con la grande eloquenza delle nobili cose alle presenti ed alle future generazioni! Ma le vittorie si onorano anche e soprattutto in altro modo: bisogna diventare migliori, bisogna che tutti gli italiani si considerino soldati fedeli al loro posto, alla loro consegna. Il lavoro tranquillo, ordinato, intelligente, deve diventare la norma fondamentale di vita di tutti i buoni cittadini italiani. Bisogna rispettare leggi e tradizioni, tutto ciò che rappresenta l'elemento spirituale e fondamentale della vita di un popolo. Se poco fa sono entrato nel Tempio e mi sono inchinato dinanzi all'Altare, ciò non ho fatto per rendere un omaggio superficiale alla religione dello Stato, lo ho fatto per un intimo convincimento perché penso che un popolo non può divenire grande e potente, conscio dei suoi destini, se non si accosta alla religione e non la considera come un elemento essenziale della sua vita privata e pubblica. Se voi che mi ascoltate adeguerete i vostri atti a queste parole, vi convincerete che la Patria si serve soprattutto in silenzio, in umiltà e in disciplina, senza grandi frasi ma col lavoro assiduo e quotidiano.
Cittadini di Vicenza!
Ancora una volta voglio ringraziarvi delle accoglienze tributatemi e voglio ringraziarvi per l'attenzione significativa e meditativa con cui avete accolto le mie parole. Ciò significa che il terreno era già preparato a riceverle. Sgombriamo in questo momento dal nostro animo tutto ciò che può dividere gli italiani dagli italiani e leviamo soltanto un pensiero di purezza e di gloria. Salutiamo, con animo devoto e reverente, il Re. Salutiamo i combattenti vivi e morti che difesero le frontiere sacre d'Italia nel chiuso arco di monti dallo Stelvio al mare e promettiamo per queste memorie di volere, oggi, domani e sempre vivere per far l'Italia sempre più grande, degna del suo passato e ancora più degna del suo avvenire.
Lodi, 4 ottobre 1924: MUSSOLINI parla ai lodigiani.
Ai primi di ottobre il Duce passò qualche giorno a Milano; e andò a Lodi, per inaugurare il viale della Rimembranza. Il Sindaco della Città, a nome di tutti i Sindaci del circondario gli portò un saluto, a cui Egli rispose nel modo seguente:
Signori Sindaci!
Ho ascoltato il discorso del Sindaco di Lodi. In esso ho visto tutto quello che su una scala più grande costituisce lo sforzo della volontà nazionale. Vi ringrazio dell'omaggio che voi mi fate, che è di assoluta spontaneità e che in quest'ora è particolarmente significativo. È un omaggio consensuale; voi mi manifestate, col fatto solo della vostra presenza, la vostra solidarietà; non già a me, uomo, che sarebbe poco dal punto di vista politico, ma a me, Capo del Governo. Il Sindaco del vostro capoluogo ha giustamente affermato che la sorte delle amministrazioni comunali mi interessa enormemente perché per me gli ottomila Comuni d'Italia sono i gangli della vita amministrativa politica del paese. Noi abbiamo tre strumenti formidabili nelle mani: abbiamo il Governo, abbiamo i comuni ed abbiamo i sindacati, a prescindere dall'organizzazione del partito e da quella che è la potente nostra organizzazione delle forze militari. Se noi impieghiamo bene questi tre strumenti, cioè governiamo bene la Nazione, amministriamo bene i comuni e, attraverso il sindacalismo, eleviamo le condizioni delle masse che lavorano, noi avremo posto le basi infrangibili del nostro avvenire.
Molto si è fatto in questo campo. Affermo che un giorno farò l'elogio delle amministrazioni fasciste in Italia. Gli avversari affermano che le amministrazioni fasciste hanno funzionato poco e male; è falso. Su cinquemila comuni, tenuti dal Fascismo e presi in singolare disordine, almeno quattromilacinquecento funzionano egregiamente, sia dal punto di vista della moralità pubblica che da quello della amministrazione e del consenso cittadino.
Signori Sindaci, si tratta di continuare. Io considero i sindaci dei Comuni come i migliori miei collaboratori.
Coll'opera vostra potrete rendere plastica, tangibile, documentaria l'opera nostra a favore del popolo. E aggiungo che se questo fate, noi potremo sfidare, senza timore, tutte le opposizioni.
Fare grande il nostro popolo, renderlo consapevole e orgoglioso dei suoi destini; renderlo una unità armonica, organica, nella quale ogni cittadino abbia il proprio posto, per l'adempimento di un proprio dovere, ecco le mete, quali prossime, quali remote, del Governo nazionale.
Occorre tendere a queste mete con tutte le nostre forze.
Milano, 4 ottobre 1924: MUSSOLINI esplicita il Governo Fasciste e la Nazione.
Nello stesso giorno, 4 ottobre 1924, il Duce ritornò a Milano e si recò al ricevimento offerto in suo onore al Cova dall'Associazione Costituzionale. Rispondendo al saluto rivoltogli dal Sen. Crespi, il Capo del Governo pronunziò questo discorso che era una sintesi polemica dell'attività del Governo Fascista fra la Marcia su Roma e l'ottobre 1924 e costituiva una risposta pacata, materiata di fatti, al vaniloquio dei partiti oppositori, e particolarmente all'atteggiamento assunto, proprio in quei giorni, dai liberali al Congresso di Livorno.
Signori!
Una semplice coincidenza di ordine puramente cronologico non deve condurre assolutamente a credere che questa riunione debba costituire una specie di contraltare al congresso liberale. Non si parlava ancora del congresso di Livorno quando il vostro Presidente Perego mi manifestò il proponimento di organizzare una cerimonia del genere di questa che vi ha qui riuniti.
Vi ringrazio. Vi parlerò molto calmamente, molto schiettamente; da milanese a milanesi.
Bisogna ritornare due anni addietro; bisogna domandarsi ancora una volta perché si viene alla Marcia su Roma.
Per quanto la memoria degli italiani sia straordinariamente labile — del resto io trovo perfettamente umano che si cerchi di dimenticare tutto ciò che è triste nella vita per ricordarsi soltanto di tutto ciò che vi è di bello e di buono — voi certamente non potete aver dimenticato il periodo di angosciante paralisi dalla quale fu colpito lo Stato italiano nei mesi di luglio, agosto e settembre 1922.
Non si poteva formare un Governo.
Si chiamavano a Roma tutti gli specialisti in materia, si facevano riunioni quotidiane, si stampavano fierissimi articoli su molti giornali, ma il Governo non nasceva.
Alla fine, poiché un Governo ci voleva, fosse pure a scartamento ridotto, il Presidente del Consiglio di allora — che io ho fatto senatore per dimostrare che la mia politica è scevra di rancori personali — si decise alla fine a caricare sulle sue spalle la croce del potere, veramente croce del potere in quell'epoca.
Intanto bisogna precisare un elemento storico: si dice che il Fascismo è venuto quando il bolscevismo era al tramonto. Si tratta di una solenne menzogna. Nel luglio 1922, due mesi prima soltanto della Marcia su Roma, tutti gli elementi sovversivi e antinazionali inscenarono il famoso sciopero generale con la relativa Alleanza del lavoro e annesso comitato segreto. Ricordo di aver letto certi articoli assai elogiativi della gioventù fascista che in quei giorni montava sui tram, faceva funzionare i treni, issava il tricolore alle finestre e ridava l'aspetto normale alla città e stroncava l'ultimo tentativo di riscossa social-comunista.
Di lì a poco nacque un dissidio. Alcuni degli oppositori odierni sono rimasti a quell'epoca. Essi avevano una soluzione al problema, una soluzione media. Non volevano l'insurrezione armata, preferivano che il partito fascista avesse dato alcuni dei suoi elementi migliori a un Governo che poteva e doveva costituirsi. Che cosa si otteneva secondo questi oppositori? Il partito sarebbe stato valorizzato, sarebbe entrato nella linea costituzionale attraverso il gioco corretto parlamentare ed evidentemente non vi sarebbe stata la Marcia su Roma. Perché io non ho voluto questa soluzione intermedia? Ho la coscienza tranquilla e credo che accoglierla sarebbe stato un formidabile errore. In fondo la situazione non si sarebbe modificata se non attraverso le forze del Paese. Il Parlamento era quello che era. Nel Parlamento non c'erano che 35 deputati fascisti. Molto probabilmente quei due o tre mandati con portafoglio o senza portafoglio in un ministero Giolitti o con un altro Presidente del Consiglio si sarebbero sciupati. La situazione non sarebbe uscita dal vicolo cieco in cui si era cacciata e molto probabilmente non si sarebbe evitato lo scoglio insurrezionale.
D'altra parte lo Stato aveva già abdicato a gran parte della sua autorità.
Bisognava uscire da una situazione paradossale e tragica.
o ricordo a coloro che vanno fantasticando di sogni cesarei che nessuno più di me è servitore devoto, leale e fedele alla Dinastia. Perché se io fossi stato ammaliato di questi sogni di grandezza, avevo allora le forze per poter tentare di attuarli.
Non ebbi mai queste ambizioni.
Dissi già e ripeto che non fu un colpo di testa; tutto al più un colpo di Stato.
La Monarchia fu rispettata.
Da allora ad oggi voi vedete quale progresso si è fatto.
La Monarchia è entrata oggi nel profondo del popolo italiano.
Di paradossale vi è questo: che molti di coloro che andarono alla Camera in 156 cantando bandiera rossa oggi fanno delle professioni così entusiastiche di lealismo, che ci rendono molto sospettosi circa la sincerità dalla quale sono animati.
Così fu rispettato l'Esercito.
Richiamo la vostra attenzione su questo fatto di una certa importanza.
Tutto quello che è accaduto dal 1919 ad oggi e che costituisce nella storia dell'Umanità un periodo di un interesse straordinario, tanto che dovremmo ringraziare la Provvidenza di averci fatto vivere in un periodo così ricco di eventi memorabili, tutto quello che avvenne nel dopoguerra doveva dimostrare che una rivoluzione si poteva fare con l'Esercito o contro l'Esercito.
Con l'Esercito sarebbe stato un disastro, perché l'Esercito non deve parteggiare. Il giorno in cui l'Esercito diventa iniziatore di sedizioni, quel giorno la Nazione corre un pericolo mortale.
O si poteva fare contro. Ma allora si sarebbe avuta la guerra civile. Altro pericolo mortale per l'Italia.
Noi l'abbiamo fatta invece al di fuori, rispettando l'Esercito, lasciandolo estraneo, totalmente estraneo a questa che era una contesa politica, fra una classe politica evidentemente in decadenza ed una classe politica in formazione che voleva il suo posto al sole.
Fu rispettata la Chiesa, rispettato lo Statuto.
Infatti feci un Governo di coalizione e mi presentai alla Camera.
Si dice: ma voi teneste un discorso assai duro. Naturale. Sapevo a chi parlavo. Io sapevo che mi si subiva, che mi si tollerava, con rancori inespressi ma profondissimi. Ed io non potevo mentire a me stesso fino al punto di non far sentire a costoro ciò che io veramente pensavo.
Chiesi i pieni poteri. Se io non avessi avuto i pieni poteri non si faceva nulla. Durante il periodo dei pieni poteri, brevissimo del resto, un anno (e quando sono scaduti tutti volevano ancora porgermeli ed io non ne ho voluto sapere) durante questo periodo di pieni poteri ho l'orgoglio di dire che si son fatte grandissime cose.
Si dice adesso: Voi non avete fatto che applicare ciò che si era già studiato dai vostri predecessori. Può darsi. Si era studiato per cinquantanni, ma non si erano mai trovati i cinque minuti di coraggio civile necessari per prendere una decisione alla fine.
Ci sono delle riforme che io vorrei chiamare di ordine fondamentale, tra le quali, principalissima, quella della burocrazia.
Con questa riforma, della quale io sono gelosissimo, noi abbiamo dato non solo uno stato giuridico ai 504 mila funzionari dello Stato italiano, ma li abbiamo messi tutti nelle gerarchie. Ognuno sa bene come comincia e come finisce.
È stata una fatica improba, ma ci siamo riusciti.
E oggi tutta la burocrazia è inquadrata e lavora. La burocrazia marcia bene. Certo molti Governi l'avevano abituata un po' male. Poi, in fondo, dopo il cinematografo dei Governi, l'unico elemento di stabilità era la burocrazia.
Se non ci fosse stata la burocrazia noi ci saremmo trovati in pieno caos, perché, a prescindere da tutte le filosofie, da tutte le dottrine politiche, il Governo dello Stato è anche costituito da una serie di pratiche più o meno emarginate. Nella instabilità perpetua, rotativa, dei Governi, la burocrazia era quella che riassumeva in sé la continuità di tutta la vita amministrativa e quindi politica della Nazione.
Bisogna ricordare anche che negli ultimi periodi dei Governi precedenti, la burocrazia aveva preso delle abitudini abbastanza spregiudicate.
Bastava il minimo pretesto perché i ferrovieri sospendessero la marcia dei treni e gli impiegati postali e telefonici, che sono così necessari, che sono parte così viva della nostra vita, chiudessero gli sportelli.
Accadeva frequente che il ministro, andando in ufficio al mattino, trovasse l'ufficio occupato dai suoi funzionari, e qualche volta non si trovavano i carabinieri per farli sgomberare.
C'è stato uno sciopero dei maestri. Immaginate se si può pensare a qualche cosa di più paradossale di uno sciopero di maestri, di coloro che sono preposti all'educazione nazionale; scioperi dei professori delle scuole medie.
Siccome c'era un sindacalismo di magistrati siamo stati a un solo pelo dall'avere lo sciopero della giustizia.
È storia di ieri tutto ciò, o signori, non è storia del secolo di Tutankamen.
Oggi la burocrazia è conscia dei suoi doveri. Credo che debba essere ancora curata in certi suoi bisogni di ordine materiale e morale. L'ideale si riassume in questa formula: pochi impiegati ben pagati che possano condurre un treno di vita dignitoso e probo.
Voglio fare, presente il ministro dell'Istruzione Pubblica, che ho voluto assumere al Governo perché — più gentiliano di Gentile — continuasse nella strada battuta dal suo predecessore, l'apologia della riforma scolastica.
Non si era mai riusciti a vararla perché bisognava fronteggiare una coalizione imponente degli studenti, dei padri di famiglia, delle madri, dei professori e anche delle opposizioni generiche che cercano ogni pretesto per combattere il Governo.
Si parlava di ciò da 50 anni; ebbene molti di quelli che sono stati oppositori accaniti di quella riforma oggi riconoscono che nella scuola c'è uno stile diverso. I professori sono costretti a studiare, a rimodernare i loro cervelli, a non anchilosarsi nella ripetizione dei libri passati. Gli studenti debbono studiare perché questo è il loro preciso dovere. I padri e le madri che trascuravano questo lato così importante della vita dei loro figli oggi sono forzati a interessarsi dei problemi scolastici.
C'è tutto un nuovo sangue che circola nelle nostre istituzioni scolastiche. Vi sono dei dolori, come è naturale. Se una riforma non lacera degli interessi acquisiti, è una riforma che non lascia traccia.
La stessa riforma universitaria oggi è salutata come un avvenimento di grande portata nella storia dello spirito della Nazione. Abbiamo delle Università e ne avremo ancora delle nuove perché il Governo non vuole spegnere, ma dare incremento alla coltura italiana. Ne sorgerà una a Milano, degnissima di avere una Università; una a Firenze, altra città degnissima di avere una Università; finalmente una a Bari, che dovrà essere un grande richiamo per tutti i popoli dell'Oriente.
Ricordo di aver sostenuto un contradditorio non forse molto brillante, con ben cinque magistrati delle Cassazioni abolite i quali mi volevano dimostrare che non bisogna toccare questa questione. Io spiegai loro, pure essendo profano in materia, che non concepivo questa pluralità e d'altra parte da 50 anni si diceva che non poteva esserci che una Cassazione unica come una Cassazione unica c'è in Inghilterra, in Germania e in Francia. Siamo riusciti anche a questo, pur vincendo la resistenza di moltissimi interessi, non soltanto di quelli che venivano personalmente colpiti, ma anche degli ambienti, delle città che da gran tempo vantavano questi istituti giudiziari.
In fatto di legislazione sociale il Governo reazionario fascista ha ratificato, prima dell'Inghilterra e della Francia, la Convenzione di Washington.
Quanto alla politica estera, è così elogiata da tutti che non sento il bisogno di aggiungervi le mie considerazioni personali. Vi dirò solo che quando io decisi di andare alla Consulta, la nostra situazione in politica estera era semplicemente fallimentare. Avevamo fatto a Rapallo tutte le rinuncie possibili, ma non avevamo ottenuto Fiume, perché per l'articolo 4 del Trattato di Rapallo, Fiume doveva essere Stato indipendente: noi l'abbiamo annessa all'Italia.
Si era creata una curiosissima connessione tra l'oltre Giuba e il Dodecanneso: noi abbiamo separato queste due questioni che non avevano nessun motivo per rimanere unite. Abbiamo ottenuto il Giuba, 91.000 chilometri quadrati di territorio con uno dei più grandi fiumi equatoriali, e col Trattato di Losanna abbiamo messo fuori causa il Dodecanneso sul quale sventola ora di diritto e di fatto la bandiera italiana.
Queste sono le realizzazioni di ordine vorrei dire territoriale. Importantissime. Ma non basta.
Ho aggiunto a queste quistioni di ordine territoriale l'attuazione di un vasto piano politico di riconciliazione e di collaborazione.
Ho concluso perciò un trattato di amicizia con la Jugoslavia ed un trattato di commercio. Poi un accordo con la Cecoslovacchia.
Si è così aumentato il prestigio dell'Italia in tutto il bacino danubiano e mediterraneo.
Ho concluso anche diversi trattati di commercio. E riconosciuta la Russia. Se ne parlava da tre o quattro anni. Si diceva: bisogna riconoscere la Russia. La Russia esiste. Ma nessuno andava al concreto. C'erano delle difficoltà grandissime. Ora è stata l'Italia fascista la prima nazione che ha ricondotto la Russia nella circolazione politica e diplomatica dell'occidente europeo.
Ciò ha avuto e può avere, al di sopra dei regimi politici, conseguenze di incalcolabile portata.
La politica finanziaria voi la conoscete e ne conoscete anche i risultati, che sono brillantissimi.
Vi sono degli indici infallibili che denunciano la situazione economica dei popoli. Indici del risparmio, dell'investimento nelle società per azioni, il traffico ferroviario, il traffico dei porti. Trieste, che nel 1919-20-21 languiva ed immiseriva sotto la duplice minaccia slava e socialista, oggi ha già raggiunto il traffico di anteguerra.
Stamane da Roma mi si comunicava, e me lo comunicava l'ammiraglio Cagni, che il Porto di Genova carica oggi 2000 vagoni al giorno, 700 in più di quelli che ne caricava anteguerra.
Perché c'è dell'ordine nei porti, perché non si fermano più i piroscafi.
Vengo alla parte polemica del discorso.
Voi vi rendete perfettamente conto che un Governo non accetta condizioni da nessun partito. Nemmeno dal mio e qui in vostra presenza voglio dire l'elogio del partito fascista, che mi può aver dato delle piccole amarezze, ma che mi ha dato anche delle grandissime soddisfazioni. E non mi ha mai fatto condizioni di sorta. Sapeva che non ne avrei accettate.
Immaginate dunque se io posso accettare o soltanto esaminare condizioni che mi possono venire da un congresso qualsiasi.
Come dicevo nel principio del discorso vogliamo parlarci chiaro, schiettamente.
Che cosa è questa normalizzazione?
Io credo che vi sia un errore di vocabolo. Credo che si voglia dire normalità.
La normalizzazione è una parola di cui non riesco ancora a decifrare il significato.
Se mi si dice normalità, io capisco perfettamente.
La parola normalità è perfettamente intelligibile al mio cervello. Credo di capire anche che cosa voglia dire la normalizzazione. La normalizzazione dovrebbe consistere nella possibilità di sbarazzarsi di questo Governo attraverso un semplice voto parlamentare.
Ora io ho la mia teoria sui Governi, molto semplice, alcuni diranno lapalissiana: io credo che faccia più bene a una Nazione un Governo di mediocri ma continuo, che un Governo di genii ma discontinuo e sottoposto a tutti i capricci delle assemblee parlamentari.
Si dice: ma allora voi volete rimanere sempre al potere incrostati come l'ostrica allo scoglio. No. Il problema noi lo esaminiamo da un altro punto di vista. Noi non siamo arrivati al potere per la via ordinaria.
Non è stato un voto parlamentare con la indicazione così detta di un ordine del giorno che ci ha dato il potere. Su questo terreno siamo intransigenti. Dipende da un fatto che molti dimenticano, che noi abbiamo un grande sacrificio di sangue. Noi abbiamo lasciato migliaia di morti lungo le strade e sulle piazze d'Italia. Noi non possiamo considerarci alla stregua di tutti i partiti e considerare il Parlamento come l'unico ambiente nel quale tutte le situazioni politiche di una nazione in momenti eccezionali trovano la loro soluzione ordinaria e regolare.
Se la parola normalizzazione nasconde questo significato ambiguo, la respingo. Se vuol dire normalità, la accetto.
Io vi confesso molto apertamente che contro la libertà io ho scritto delle cose durissime come altri scrittori scrivono delle cose ferocissime contro l'autorità.
Quando leggo che si reclama la libertà assoluta, mi domando se si vive in un mondo di persone ragionevoli.
Se c'è un dato storico, è che tutta la storia della civiltà, dall'uomo delle caverne all'uomo civile o sedicente civile, è tutta una limitazione progressiva della libertà.
Gli uomini ammonticchiati nelle città o nelle nazioni moderne, debbono continuamente limitare la loro libertà, non esclusa quella di movimento. Il concetto assoluto di libertà è arbitrario. Nella realtà non esiste. Ma poi all'atto pratico dove sono le violazioni della libertà? Dove? Il decreto sulla stampa.
Ebbene, non si è mai detto tanto male del Governo come da quando quel decreto è in funzione o dovrebbe essere in funzione. Il che significa che non è liberticida come si vorrebbe dare a intendere. Anche qui c'è un equivoco. Vogliamo andare al fondo delle cose. Si vorrebbe questa libertà: di fare dei cortei con delle bandiere rosse, di fare dei grandi comizi nelle pubbliche piazze, magari fracassare delle vetrine, di rovesciare i cordoni dei carabinieri, gridare viva Lenin, di ricominciare insomma l'andamento degli anni scorsi che fu stroncato dal sangue delle camicie nere.
Ora questa libertà io non la dò, non la voglio dare anche perché coloro che me la chiedono sono quelli che, se domani l'avessero, l'annullerebbero di fatto.
Chiedere lo scioglimento della Milizia è chiedere l'assurdo. Sarebbe un errore colossale. Prima di tutto è un organismo volontario. Questo lo si dimentica molto spesso e volentieri. Ha reso dei servizi e ne può rendere. Si possono rivedere i suoi quadri. Sarà giurata fede al Re con la massima lealtà.
Coloro che richiedono lo scioglimento della Milizia io li considero senz'altro come degli avversari, quale che sia la bandiera che li raccoglie.
Tra l'8 e il 10 novembre si riaprirà la Camera. Finite le feste per la celebrazione della Vittoria, che questo anno deve perdere il suo troppo accentuato carattere di quietismo e di malinconia, si riaprirà il Parlamento.
Questa è vera normalità.
Porteremo al Parlamento tutti i decreti legge. Vogliamo sbarazzare il terreno legislativo di questi decreti. Un blocco sarà approvato con un solo voto, gli altri saranno discussi. Vi sono tutti i trattati internazionali che saranno discussi diligentemente.
Poi porteremo davanti al Parlamento il riordinamento dell'Esercito. Questa è la questione che dovrà tra tutte interessare gli italiani perché si tratta della sicurezza della Nazione. Porteremo quindi i bilanci. Io domando se si può pensare ad una politica più normale di questa, quando voi ricordiate che da 12 anni non si discutono più i bilanci e i Parlamenti sono nati per discutere i bilanci, per controllare le entrate e le uscite di quella gigantesca amministrazione che è l'amministrazione dello Stato.
Quando noi parliamo di pace parliamo con animo assolutamente sincero.
Sarebbe veramente paradossale che dopo avere fatto tanti trattati di pace con uomini che abitano al di là delle nostre frontiere, che non hanno comune con noi né la razza né la lingua né i costumi né la religione né la storia non riuscissimo a dare pace agli abitanti dello stesso paese.
Quindi vogliamo la pace. La vogliamo sinceramente. Ma accade il singolare fenomeno che quando il Fascismo alza il ramoscello di ulivo, dall'altra parte non si odono che grida di scherno e si interpreta ciò come un atto di debolezza. Non solo, ma mentre si chiede a noi il disarmo, voi sapete che a Parigi vi è stata una prima manifestazione di centurie proletarie armate, con gagliardetti e con scimmiottature fasciste. Ed in Italia si sta tentando una cosa analoga. Niente di grave: tentativi sporadici. Ma è deplorevole medico quello che trascura i sintomi.
Siamo per la pacificazione se anche gli altri vogliono la pacificazione.
E come si può andare a questa pacificazione? Bisogna riconoscere i fatti compiuti. È inutile essere più intransigenti di quel medico di cui parla Galileo nel suo dialogo dei massimi sistemi: che pur vedendo la circolazione del sangue la negava soltanto perché Aristotile l'aveva negata.
Si voglia o no, nell'ottobre del '22 vi è stato un atto insurrezionale, una rivoluzione, anche se sulla parola si può discutere.
Comunque, una presa violenta del potere.
Negare questo fatto compiuto, cercare di cancellarlo con una polemica giornalistica, con un giuoco dialettico, è veramente un non senso.
D'altra parte, signori, voi siete acuti osservatori dei fenomeni sociali, perché siete gente del lavoro, gente che vive in contatto con le masse. Avete quindi una sensibilità squisita. Il Fascismo è un fenomeno di linee imponenti. È una creazione originale italiana. Non si può disperdere come il sole disperde al mattino le nebbie nei prati.
È un fenomeno che interessa tutto il mondo.
In tutto il mondo da due anni non si fa che discutere del Fascismo. È sorta una letteratura in tutte le lingue. Individui partono dal Giappone, dalla Cina, dall'Australia per venire a studiarlo. Evidentemente anche là si soffre dei mali di cui noi abbiamo sofferto. Fastidi dell'autorità.
Abbiamo eretto degli altari a degli idoli e non abbiamo avuto il coraggio di disfarcene. Un popolo che vuole la sua indipendenza dallo straniero deve innalzare la grande bandiera della libertà. Il liberalismo operò bene nel Risorgimento. Ma un popolo per giungere alla potenza ha bisogno della disciplina. La potenza è la risultante di una coordinazione di sforzi di tutti i cittadini che si sentono al loro posto, ognuno pronto al suo dovere. Non vi è da farsi illusioni se ogni tanto qualche rivoletto si allontana dal Fascismo. Io richiamo la vostra attenzione su questo fenomeno singolarissimo che i giovani piuttosto che entrare nei vecchi partiti antifascisti preferiscono foggiarne dei nuovi.
Evidentemente questi vecchi partiti non devono dire più nulla alla generazione che è uscita dalla guerra.
Attorno al Governo c'è il consenso. D'altra parte il Governo ha tenuto fede ai suoi impegni; nel giugno e nel settembre. Nel giugno ha aperto le carceri. I cittadini che sono colpevoli pagheranno. Nel settembre il Governo ha tenuto fermi i fascisti. Oh quante telefonate il lunedì sera a Roma quando si temeva la seconda ondata, la notte di San Bartolomeo e simili fantasie. Vi era un terrore pazzo.
Si è visto che solo col mio richiamo di Capo del Governo e del Partito, i fascisti hanno smesso ogni tentativo di rappresaglia. Questo è un merito che non si può negare al Governo.
Vengo ai problemi di domani. Sono problemi che fanno tremare le vene e i polsi, sono problemi che qualche volta mi angosciano profondamente. C'è una parte d'Italia che è indietro di 50 anni, dico 50 anni, ma forse potrei dire un secolo.
Vi sono a Napoli, nella città del sole, dei sorrisi, del mare, tutto incantesimi e azzurro, vi sono 70.000 famiglie che vivono nei «bassi». Ora chi ha visto il «basso» napoletano avrà avuto un'impressione di umiliazione profonda.
Vi sono centinaia di comuni che non hanno strade, migliaia che non hanno acqua, decine che non hanno cimiteri.
Vi sono fra Messina e Reggio Calabria almeno centomila italiani che vivono nelle baracche costruite nel 1908. È uno spettacolo spaventevole, disonorante.
Quale è il dato fondamentale del nostro problema? È il nostro sviluppo demografico. Si nasce molto in Italia. Ne sono contentissimo. Ma io non farò propaganda di maltusianesimo o di neomaltusianesimo. Io non credo fra l'altro alla serietà scientifica di queste dottrine. Il solo fatto che la decadenza spaventa le altre nazioni, significa che noi dobbiamo essere soddisfatti del nostro sviluppo rigoglioso. Si nasce in 440.000 persone in più ogni anno. Siamo ben quaranta milioni in questa piccola penisola!
Voi vedete allora quali formidabili problemi balzino allo spirito dinanzi a queste cifre. Bisogna utilizzare il nostro territorio fino all'estremo, bonificare fino all'ultimo acquitrino, fare delle strade, apprestare dei porti, portare al massimo dello sviluppo tecnico le nostre officine, industrializzare l'agricoltura, attrezzarsi perché, salvo per alcune plaghe dell'alta Italia, tutto il resto dell'Italia è in condizioni assai arretrate.
Abbiamo i mercati chiusi. Quando un popolo cresce, non ha che tre strade dinanzi a sé: o si vota alla sterilità volontaria e questo gl'italiani sono troppo intelligenti per farlo; ovvero fa la guerra; oppure cerca dei mercati per lo sbocco del suo di più di braccia umane.
Richiamo la vostra attenzione sulla situazione generale. Un astro sorge di nuovo sull'orizzonte, l'astro tedesco. La Germania che credevamo schiacciata è già pronta. Voi ne sentite la presenza. Si prepara formidabilmente alla sua rinascita economica.
Nel 1925 ricomincierà la lotta per la conquista dei mercati. Credete voi che ci possiamo trastullare con dei giocattoli a uso interno quando domani possiamo essere di fronte alla prova in cui si deciderà se saremo vivi o no, se diventeremo colonia o resteremo grande potenza?
Questi, o signori, sono i problemi prospettati, così grosso modo, perché non voglio abusare della vostra intensa pazienza coi problemi gravi quotidiani dei piccoli comuni come delle grandi città, delle regioni, problemi che interessano tutta la popolazione, problemi igienici, di coltura, economici, militari, esteri; una mole enorme di lavoro. Come si potrebbe pretendere la saggezza assoluta e la infallibilità?
Qualche volta bisogna sbagliare. È fatale che si sbagli.
Anche la politica è esperienza. Si dice: voi avete abolito qualche volta quello che avevate fatto ieri. Ma è naturale. Come si deve mantenere quella legge che l'esperienza dimostra errata? Si dovrebbe dunque solo per onore di firma mantenersi nell'errore? Io credo che nessuno di voi approverebbe questa pratica di Governo. Riconosco che abbiamo commesso degli errori; ma ci siamo trovati di fronte ad un cumulo di macerie. C'era tutto da rifare.
C'era da riformare lo spirito della Nazione, c'era da dare una linea a tutta l'amministrazione dello Stato, c'erano da fissare degli obiettivi e delle mete e gl'istrumenti per raggiungerle. Tutto ciò è stato fatto da noi, da noi che siamo degli uomini non degli dei, uomini come voi, né peggiori, né migliori di voi, e quindi soggetti a tutte le passioni e a tutte le fallacie umane.
E appunto per questo, per la mole imponente dei problemi, per la delicatezza di questi problemi ed anche per la pochezza delle forze umane, noi non respingiamo nessuna collaborazione.
Sarebbe bellissimo se si potesse estendere il criterio della collaborazione a tutti. Un cantiere sonante in cui tutti lavorino concordemente. Ma questo non è possibile.
Non bisogna pretendere che un Governo come questo, come quello che ho l'onore di dirigere, vada in giro a cercare i collaboratori.
È una questione di dignità e di coerenza oserei dire storica, se non avessi in orrore le parole grosse.
Io non so se il discorso che ho improvvisato sia un discorso politico; tutto sta ad intendersi su questa parola «politico».
E non so neanche se ho detto tutto quello che mi proponevo di dire e che avevo segnato in questi appunti. Non volevo fare una grande orazione, perché non volevo sedurre, specie di sirena in tight, quei signori che stanno riunendosi a Livorno.
Tuttavia io credo che questa esposizione fatta con animo schietto potrà incontrare la vostra simpatia. Avrò riaffermato i vincoli fra la vostra Associazione veramente gloriosa ed il Governo.
Non è senza ironia che si verifica questo caso: che l'Associazione Costituzionale di Milano, una delle più antiche Associazioni, invita a parlare quegli che dovrebbe essere l'eversore della Costituzione. Evidentemente voi non credete a questa accusa. Tutte le leggi umane, non quelle divine, sono il risultato di uno sforzo di uomini. Altri uomini vengono, modificano, aboliscono, perfezionano. Non ci vuole nulla ad abolire. Distruggere è facile, ma ricostruire è difficile.
o già detto che non vogliamo toccare i muri maestri, ma la sistemazione interna si; è necessario perché oggi l'Italia che ha pure una grande industria ed anche una grande agricoltura, che è piena di fermenti di vita, non è più quella del 1848, del 1830.
Il Fascismo è la espressione più calda di questa rinnovata coscienza.
Signori, non ho parlato soltanto a voi, ma per mezzo vostro, grazie al vostro invito cortese, ho voluto parlare ancora una volta al popolo italiano.
Ancora nello stesso giorno, MUSSOLINI passò dal Cova a Palazzo Marino, ove la folla acclamante in Piazza della Scala chiedeva insistentemente d'udire la sua parola. Affacciatosi al balcone di Palazzo Marino, Egli rivolse al popolo adunato le seguenti parole:
Camicie nere!
Riconosco il vostro grido che è un grido di promessa e di fede. Riconoscete voi il vostro Capo?
Ebbene, il vostro Capo è fedele come voi gli siete fedeli e come tutti insieme siamo fedeli alla Nazione.
Se l'ora fosse più propizia io vorrei rievocare gli anni passati, gli episodi della vostra passione e le nostre battaglie. Noi siamo gli stessi: quelli che erano un piccolo manipolo, che sapevano tenere la piazza contro la folla aizzata dai cattivi pastori, siamo noi che abbiamo sbarazzato il terreno della nostra storia dalle vecchie classi politiche.
Nulla è cambiato nello spirito nostro. La nostra fede è la stessa e la nostra disciplina non conosce limiti. È inutile pensare di poter frenare l'impeto della nostra gagliardia. Questo non lo dimentichino coloro che ci provocano e ricordino che se voi siete fermi lo è per volontà mia.
Ma non è patriottico, non è umano, non è italiano il quotidiano martellamento delle calunnie e delle insinuazioni. Noi teniamo saldo nelle nostre mani il Governo nella più rigida disciplina e per il bene del Paese.
A chi l'Italia?
A chi Roma?
A chi la disciplina?
(A tutte le domande, la folla grida: «-A noi!.». Dopo l'ultimo «A noi!», il Duce conclude):
Ma la disciplina è per tutti!
Milano - Legnano - Gallarate, 5 ottobre 1924: MUSSOLINI e i discorsi del cinque ottobre
Il giorno seguente, MUSSOLINI tenne quattro brevi discorsi, due a Milano, uno a Legnano e uno a Gallarate. Qui si riportano perché, ad onta della loro brevità, hanno tutti per diverse ragioni, un valore significativo, e provano come dovunque il Duce fosse circondato dal consenso delle folle, mentre gli oppositori non erano che i residui di vecchie camarille, fuori della vita vivente e senza alcuna influenza sul Paese.
Il primo discorso fu pronunziato a Milano, all'Università Bocconi, per l'inaugurazione del quarto Congresso dei dottori in Scienze Economiche:
Signori!
Ho voluto di proposito venire tra voi per assistere a questa cerimonia inaugurale. Mi sono ricordato che in tempi lontani io sono stato studioso delle vostre discipline e discepolo di quello che non a torto poteva essere chiamato il principe degli economisti; parlo di Vilfredo Pareto. La vita poi ha spostato il mio itinerario di viaggio e non ho potuto approfondire molti problemi che mi interessavano. Posso quindi dire che sono un poco dei vostri e posso aggiungere che i problemi dell'economia hanno sempre sedotto il mio spirito.
Forse perché sono aridi, non sembrano poetici: non importa. Ma è bello che si trovino, in paese di troppi poeti com'è l'Italia, di grandi e piccoli poeti, di poetastri, di pochi veramente poeti, anche dei cervelli come i vostri, che si danno allo studio per me enormemente poetico delle cifre e dei problemi dai quali dipende in gran parte il destino dei popoli.
L'onorevole Sindaco ha fatto molto bene a ricordarmi, perché io me l'ero dimenticato, che si deve a questo Governo un decreto-legge (quindi un decreto buono malgrado fosse un decreto-legge) col quale voi siete stati elevati ad Ordine, avete avuto il vostro posto, il posto che meritavate nella gerarchia delle intelligenze nella vita nazionale.
Voi vi riunite a Congresso e, come bene ha detto il secondo oratore, non soltanto per discutere i vostri interessi professionali, ma anche per affrontare i problemi che interessano la Nazione. In questo opuscolo che ho davanti agli occhi, noto argomenti che possono appassionare voi e non soltanto voi. Vi si parla del problema della marina mercantile italiana. Sfogliandolo ho già visto che il relatore ha toccato parecchi tasti assai importanti di questo che è un problema fondamentale della Nazione italiana: se è vero che noi siamo circondati dal mare e che tutti i nostri problemi di rifornimenti dipendono in gran parte dal mare, e dal mare, come già ci venne la vita, potrà anche venirci la fortuna e la prosperità.
Esaminate dunque questo problema con animo sereno. Questo forse è un congresso più utile di altri, perché, invece di discutere sui grandi problemi della politica interplanetaria, discute di cose concrete dalle quali dipendono domani il benessere, la prosperità e la sicurezza della Nazione italiana.
Signori! In questo momento io voglio esprimervi tutti i miei fervidi auguri per il vostro lavoro e assicurarvi della mia piena e fraterna simpatia.
Dall'Università Bocconi, il Duce passò alla Casa del Fante, per l'inaugurazione della nuova sede e fece le seguenti dichiarazioni:
Un equivoco stava per togliermi il piacere di questa visita. Non sapevo che si trattasse della inaugurazione della vostra nuova sede. Son tra voi non come Capo del Governo, non come Capo di un Partito; son tra voi come soldato, come fante. Io che ho visto il fante in trincea, so quanto ha sofferto, quanto ha lottato, quanto sangue ha sparso e quale enorme tributo ha portato alla vittoria italiana. L'ottanta per cento dell'Esercito è composto di fanti. Si può ben dire che il fante rappresenta la Nazione. Io non amo specializzazioni, ma riconosco un sol privilegio: quello del fante. Il fante in guerra era una cosa speciale: aveva i compiti più gravosi, più tremendi. Poi doveva star in trincea delle volte per trenta, per quaranta giorni: una cosa ben diversa da coloro che vi venivano per sei o sette giorni o magari ci stavano un'ora, che comparivano nelle grandi occasioni, magari proprio in quella opportuna per pescare una medaglia.
Voi conoscete tutto ciò meglio di me ed è inutile che io vi ripeta la mia simpatia: vi è acquisita anche come Capo del Governo. Io voglio ricordare per voi quel motto che un fante intelligentissimo incise su una caverna alle sponde del Piave: «Non vogliamo encomi». Al fante basta un encomio solo: la coscienza tranquilla di aver compiuto il proprio dovere; e dirò di più: la coscienza che è pronto a compierlo ancora se la Patria dovesse suonare la grande campana della storia.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, MUSSOLINI andò a Legnano, ove visitò, fra l'altro, lo Stabilimento Tosi, distribuendo otto croci al merito del lavoro, assegnate ad operai dello stabilimento. In tale occasione pronunziò il seguente discorso:
Operai!
Questi vostri compagni, che si possono chiamare giustamente i veterani del lavoro, hanno avuto un piccolo segno ufficiale di riconoscimento. Ma io credo che nell'animo di questi vostri compagni chi sa quanti ricordi ha risvegliato, ricordi di tanti anni passati, di tante vicende, di tanto lavoro dato allo stabilimento e alla Nazione. Questa piccola ricompensa è un sintomo di quello che il Governo Nazionale pensa nei confronti del lavoro e dei problemi del lavoro. Vi dichiaro, con tutta la sincerità, che ho la coscienza assolutamente tranquilla; che i problemi che vi interessano sono sempre presenti al mio spirito. Quando la Regia Marina doveva iniziare nuovi lavori, nuove costruzioni, che devono dare la sicurezza alla Nazione e garantire il futuro, io pensavo agli operai che nelle officine avrebbero costruito questi ordigni possenti e delicati che possono essere chiamati il prodigio della tecnica e del lavoro. E se vi dico che i vostri legittimi interessi mi sono sempre presenti, non lo faccio per raccogliere il vostro plauso, per avere presso di voi una buona opinione pubblica. Un Governo non può essere sempre giudicato dai contemporanei, ma qualche volta occorre attendere, per essere giudicati giustamente, che il tempo passi. Ma voi sentite come il nostro prestigio all'estero sia aumentato, come si siano intensificati i traffici e aumentato il lavoro e quindi come sia anche aumentato il beneficio collettivo e anche il vostro personale, perché il miglioramento delle industrie permette quegli aumenti ai lavoratori che sono la ricompensa pratica della vostra fatica.
Così io intendo la collaborazione. Così la intendono in questa gloriosa Legnano — gloriosa non meno per le industrie che per la battaglia — così la intendono i vostri industriali dei quali un modello è il vostro onorevole Tosi, il cui padre ha creato, attraverso decenni, queste potenti officine dalle quali escono opere mirabili.
Voi, operai, potete essere oggetto di lusinghe. Ma io vi ripeto che il Fascismo ed il Governo che rappresento non hanno nessun interesse ad andare contro la classe lavoratrice. Se lo facessero sarebbero stolidi. La classe lavoratrice è la potenza, la speranza, la certezza dell'avvenire d'Italia.
Eleviamo dunque un pensiero di gratitudine a questi vostri compagni, eleviamo un inno al lavoro umano che forma, aumenta, accresce la ricchezza nazionale con la conquista dei mercati del mondo, al lavoro che è il vostro titolo di nobiltà.
Viva il lavoro, viva l'Italia.
MUSSOLINI proseguì poi da Legnano a Gallarate, ove presenziò all'inaugurazione del labaro della 26a Legione della M.V.S.N., che ha come motto «Amore armato», e rivolse al popolo le seguenti parole:
Dopo i discorsi del Cappellano della Milizia volontaria e del Console della 26a Legione, voi dite: «il Presidente deve essere stanco, si è alzato di buon'ora per la "Coppa Baracca", ha partecipato a diverse cerimonie, ha avuto una giornata piena». Vi ingannate. Non sono affatto stanco, tanto che non so resistere alla tentazione di chiudere questa grande manifestazione con un discorso politico, anzi polemico.
Sarò breve: la stagione non consente lunghi discorsi. E mi domando: sogno o sono sveglio? Tutto ciò che accade intorno a me è favola o realtà? Questa imponente massa di popolo si compone di uomini vivi o di larve uscite mentre cala il crepuscolo?
Le folle che mi hanno circondato stamane: a Cinisello, a Milano, ed erano i grandi Fanti d'Italia, a Legnano, ieri a Lodi, qui, ora, a Gallarate, esistono realmente o sono invenzioni di menti malate?
Le grida che mi accoglievano erano di simpatia o di ripulsa? Erano fiori o sassi quelli che mi venivano lanciati al mio passaggio?
I Sindaci dei vostri nobili Comuni, gli esponenti della vostra vita economica, culturale, amministrativa, i combattenti ed i mutilati, il minuto popolo, erano dunque spinti dalla violenza o obbedivano al loro istinto profondo? Ma allora questo è o non è consenso, consenso vasto di popolo? Perché mi si rimprovera di parlare spesso sulle piazze? Non è questo il più democratico dei costumi politici?
Tutto ciò accade mentre a Livorno si fa ancora una volta il processo inutile al Fascismo. Che pena questi giovani che mostrano le anemie del loro spirito precocemente accartocciato! Che pietà gli sfoghi individuali di uomini furibondi per la mancata inclusione nel listone, nonostante le assidue frequentazioni al Viminale! Che miseria la grama requisitoria antifascista pronunciata dall'uomo che dirigeva il Ministero dell'industria e commercio all'epoca del più grande crollo bancario che gettò nella disperazione quattrocentomila famiglie di piccoli risparmiatori!
No, date a Cesare quel che è di Cesare, e all'ex ministro Belotti quel che gli appartiene. Tuttavia noi siamo tranquilli. I fascisti livornesi assistono al vituperio scagliato sulla loro più pura passione nella massima tranquillità. Questi sono gli ordini partiti da Roma e i fascisti livornesi — che pure sono numerosissimi — non mancano ai doveri dell'ospitalità e danno esempio di sopportazione e di disciplina, del resto non saranno le chiacchiere dette o stampate che fermeranno le nostre ruote perché noi non abbiamo votato soltanto degli ordini del giorno o scritto dei monumentali articoli: abbiamo versato del sangue, del purissimo sangue: i nostri caduti si contano ormai a migliaia in ogni parte d'Italia» ancora e sempre sale dalle nostre anime il grido della concordia e della pace. Ma siamo uomini, non santi o candidati alla santità. Noi siamo sinceri nella nostra invocazione: non altrettanto si può dire degli altri, almeno fino ad oggi.
Camicie nere! Ho visto poco fa levare in alto i vostri moschetti nel gesto guerriero del soldato. Avere un'arma, «amore armato»: questa è ancora una grande profonda verità. Un'altra ne imparai recentemente ad Asiago: «muti e fedeli». Ma anche la vostra mi piace moltissimo. Camminiamo. Continuiamo a camminare. Non siamo stanchi. I compiti di domani ci aspettano. Noi teniamo la Nazione perché abbiamo osato quello che altri non osò mai, perché abbiamo servito in umiltà la causa della Nazione. Se abbiamo sbagliato fu la carne che ci tradì, lo spirito mai.
— Cittadini, Camicie nere della 26a legione!
— A chi l'Italia?
— A chi Roma?
— A chi il combattimento?
— A chi la disciplina?
(A tutte le domande la folla risponde entusiasticamente: «A noi!». Il Duce conclude):
A tutti gli italiani devoti alla Patria!
Milano, 7 ottobre 1924: MUSSOLINI parla agli aviatori italiani.
MUSSOLINI offrì al Cova, a Milano, un banchetto in onore dei partecipanti alla «Coppa Baracca», cui intervenne, unica signora, la Madre dell'eroico aviatore Francesco Baracca, spentosi gloriosamente nel compiere il suo glorioso dovere. Il Comandante Generale Piccio rivolse a MUSSOLINI, a nome dei partecipanti, un saluto, a cui Egli rispose nel modo seguente:
Signora! Signor Comandante! Signori!
Il saluto che mi avete porto testé in nome dei piloti che hanno partecipato al «raid Baracca», e, posso aggiungere, in nome di tutti i piloti d'Italia, giunge gradito al mio animo, sia nella mia qualità di Capo del Governo, sia nella qualità di Alto Commissario dell'aviazione, sia, anche, nella mia qualità di pilota che non ha ottenuto il brevetto perché la mia vita è stata sempre movimentata. Però anche dopo una famosa caduta io ho continuato energicamente a volare.
Manifesto a tutti i piloti che hanno partecipato alla prova di ieri il mio plauso altissimo. È stata una prova severa che si è svolta senza incidenti, il che depone a favore dei piloti e degli apparecchi, e che ha dato tutti quei risultati che ci ripromettevamo di ottenere.
Avete giustamente detto, Comandante generale: l'aviazione è l'arma del domani. Siamo forti in terra e siamo forti in mare; bisogna essere fortissimi anche nell'aria.
Questo nostro fraterno banchetto, è reso più solenne dalla presenza di questa fierissima madre di Romagna, la madre di Francesco Baracca, il vero cavaliere dell'ideale e dell'aria.
Ho pensato di fare in Italia quello che è stato fatto in Francia per Guynemer; l'asso degli assi francesi è stato biografato in maniera molto poetica, molto commovente, molto passionale, e questo libro, che è forse più interessante di un romanzo, corre in tutte le scuole della Repubblica; troverò uno scrittore che scriva la vita di Baracca.
Sono sicuro che il Ministro dell'Istruzione Pubblica non avrà difficoltà a che questo libro sia conosciuto alle anime dei fanciulli del popolo.
Signori, io levo il mio calice e bevo alla salute di S. M. il Re, porgo un saluto all'aviazione dei paesi rappresentati e bevo alle glorie passate, presenti e future, dell'eroica ala italiana.
Rieti, 12 ottobre 1924: MUSSOLINI parla al popolo sabino.
Con R. D. 4 marzo 1923, n. 545, la regione sabina veniva aggregata al Lazio: veniva così soddisfatta una vecchia aspirazione di quelle popolazioni, corrispondente anche ad antichissime ragioni storiche. La città di Rieti, il 12 ottobre 1924, offerse la cittadinanza onoraria a MUSSOLINI. Questi, dal Palazzo Municipale, rivolse al popolo le seguenti parole:
Laborioso popolo della Sabina!
Tu mi hai portato il tuo saluto mattutino, fresco e sincero. Io, a mia volta, ti saluto e ti ringrazio dal profondo del cuore.
Sin dal passo Corese la grazia e la forza di questa antica e gloriosa gente mi sono venute incontro, mentre una donna sconosciuta mi ha porto un ramoscello di ulivo; l'ho accettato come simbolo e come presagio perché nell'ulivo c'è la foglia dolce e sottile ma c'è anche il legno aspro e duro.
In questa mattinata, radiosa di sole e tumultuante di giovinezza, io agito, ancora una volta, questo simbolo, che esprime la profonda aspirazione di tutto il popolo italiano.
Se coloro che discutono eternamente sull'abusato tema della forza e del consenso mi seguissero nelle peregrinazioni che vado compiendo nelle terre d'Italia, da queste moltitudini sarebbero convinti che la mia è una verità e la loro è una menzogna.
Sin dal primo giorno del mio Governo io pensai che la nobile Rieti, la romana, la latina Rieti, dovesse tornare a Roma e accolsi il vostro voto che da cinquanta anni era rimasto inascoltato.
Conosco ora altri vostri bisogni e problemi che riguardano la vostra zona. So anche che voi non volete vivere — come mi diceva testé il vostro ottimo magistrato cittadino — sulle memorie del passato, ma volete costruire, col lavoro alacre, le fortune del vostro avvenire.
Cittadini di Rieti, vi porgo il mio saluto ed il mio grazie come Capo del Governo, come Capo del Fascismo e come italiano che è lieto di essere, sia pure per breve ora, ospite vostro.
Viva l'Italia!
L'Aquila, 12 ottobre 1924: MUSSOLINI parla al popolo aquilano.
Nello stesso giorno, 12 ottobre 1924, da Rieti il Duce passò negli Abruzzi, andò all'Aquila, ove, dal Palazzo Betti, parlò al popolo adunato.
Concittadini dell'Aquila! Laboriose e valorose popolazioni dell'Abruzzo e del Molise!
Non volevo veramente pronunciare altri discorsi dopo quello che ho pronunciato recentemente a Milano, ma questo vi sarebbe probabilmente spiaciuto: ebbene voglio venire incontro impetuosamente al vostro desiderio.
Leggevo ieri sera in uno dei tanti giornali che infettano la Capitale, questa frase singolarissima: «Il Governo è isolato». (Gli astanti ridono).
La vostra franca risata, il vostro scoppio di ilarità giovanile è già una risposta a questa affermazione, stoltissima fra le stolte affermazioni dei nostri avversari. Oggi non si può veramente dire dinanzi a questa moltitudine che raccoglie uomini di tutte le terre della vostra regione, non si può dire che il Governo sia isolato. Oggi ho udito la parola dei magistrati, dei vostri nobili Comuni, delle vostre rappresentanze provinciali, i combattenti, i mutilati, le madri e le vedove dei caduti, tutti coloro che molto hanno sofferto perché molto hanno dato alla causa della Nazione durante la; grande guerra. Poi le Camicie nere, poi il popolo con la sua grande anima è venuto a dirmi una parola schietta di solidarietà e di simpatia. Non posso supporre che questi omaggi siano di semplice convenienza o, peggio ancora di miserabile ipocrisia. Evidentemente essi rispondono ad un moto profondo, incoercibile dello spirito. Il popolo italiano, il buono, il saggio, il forte, il laborioso popolo italiano, sente che non sono un tiranno, non sono un padrone, né sono tormentato da folli ambizioni. Ho l'orgoglio invece di essere il servo della Nazione, ho la coscienza di fare tutto il possibile per rendere il popolo italiano grande, prospero, potente all'interno ed all'esterno.
Voi mi domandate come saneremo questa contraddizione. Poiché il contrasto voi lo afferrate nei suoi elementi drammatici. Si dice che noi siamo un esercito accampato nella Nazione, che noi governiamo contro la volontà del popolo italiano. Si dice che se il popolo potesse esprimere liberamente la sua voce, questa sarebbe di rampogna o di condanna. Ebbene, noi lo abbiamo consultato questo popolo, siamo andati verso questo popolo, continuamente.
Perché siete qui? C'è forse qualcuno che vi ha costretti, che vi ha imposto di venire in questa piazza? Siete venuti perché la vostra volontà ve lo ha detto, perché avete obbedito alla vostra coscienza.
Non voglio abusare della vostra attenzione anche perché so che molti di voi sono venuti da lontani paesi, forse a piedi. So che le vostre case vi chiamano.
Ebbene, sono due anni che teniamo la Nazione, sembra ieri: e pure il corso del tempo non apparve mai così breve. Abbiamo lavorato, abbiamo fatto molte cose, abbiamo dato savie leggi al popolo italiano; adesso veniamo incontro a questo popolo per alleggerirgli i pesi, per rendergli più prospera la vita, per cercare di aumentare il suo benessere, per elevarlo sia moralmente che intellettualmente. È facile dimenticare, troppo facile. Ho già detto che è umano dimenticare il tempo delle miserie, mentre altrettanto umano è ricordare le epoche delle felicità. Ma noi, che abbiamo la responsabilità suprema, non possiamo, non dobbiamo dimenticare; non dobbiamo dimenticare l'epoca in cui un solo giornale usciva in Roma ed usciva solo per settanta giorni. Questo giornale si gettò sull'inchiesta di Caporetto con foia sadica, vilipese gli ufficiali e i soldati, svalutò la Vittoria, sputò su i feriti e i decorati. E si pensava di processare il generale che, con un gesto di necessaria energia, aveva ristabilito la non meno necessaria disciplina. (La folla grida: «-Viva il generale Graziarti!-» ).
Sì, viva Graziani!
Per quanto martellati da calunnie, non vogliamo emettere propositi di estremismo: non è necessario. Siamo forti; il popolo, quello che lavora, è con noi: sono contro di noi gli esclusi, i vendicativi, quelli che, come certi dannati danteschi, hanno la faccia rivolta verso il passato. Dopo due anni, malgrado tante vicende, e liete e tristi, siamo ancora sulla breccia; ben decisi a compiere fino all'ultimo il nostro dovere.
Salutiamo in quest'ora tutti i fattori e tutte le istituzioni che sono la base sacra ed intangibile della Patria. Salutiamo il Re. Salutiamo l'Esercito di Vittorio Veneto, i rappresentanti della Chiesa, dei Comuni, degli ordini professionali, delle Corporazioni. Salutiamo la Milizia che presterà tra poco giuramento inquadrata, la Milizia che ha reso e potrà rendere grandi servigi alla Nazione.
Alzate i vostri gagliardetti, le vostre bandiere ed elevate il vostro spirito nella visione della più grande, della più bella, della più forte Italia di domani.
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Re: I più importanti discorsi di Benito Mussolini.
(Segue) ANNO - 1924
Busto Arsizio, 25 ottobre 1924: MUSSOLINI parla al popolo di Busto Arsizio
Busto Arsizio, 25 ottobre 1924: MUSSOLINI parla al popolo di Busto Arsizio
A Busto Arsizio inaugurava a Busto Arsizio la nuova stazione ferroviaria. MUSSOLINI vi si recò con S. E. Costanzo Ciano, Ministro delle Comunicazioni, e presenziò alla cerimonia. Visitò poi l'Ospedale, per recarsi infine al Municipio, ove rivolse al popolo adunato questo breve discorso. L'inizio di queste parole è ispirato dai berretti tricolori degli studenti.
I miei occhi sono allietati dalla bandiera vivente, dalla vista dei tre gloriosi colori che riassumono il sacrificio, la gloria e le speranze migliori della Patria. Vedo dinanzi a me i «-Balilla-» e gli avanguardisti, le camicie nere che si propongono di commemorare un anniversario glorioso e il popolo tutto che si raccoglie attorno ai gagliardetti che simboleggiano non soltanto la lotta, ma la disciplina, la concordia e il lavoro di tutti i cittadini che sono devoti profondamente alla causa della Nazione. Ogni giorno che passa noi poniamo le pietre dell'edificio della grandezza della Nazione: oggi è una stazione, domani sarà un porto, dopodomani una bonifica. Stamane era il circuito telefonico sotterraneo, novità in tutta Italia, che legherà le ire potenti città dell'Alta Italia: Milano, Genova, Torino; domani le strade calabresi, le bonifiche in Sardegna; tanti problemi che ci affaticano e che noi portiamo a compimento dopo mezzo secolo di inutili chiacchiere.
Ed è soltanto così che la Nazione diventerà prospera e potente. È soltanto così che noi cancelleremo talune deficienze per cui l'Italia è la terz'ultima nazione al mondo in fatto di telefoni: con la Russia e il Brasile. Tutte le altre nazioni sono molto più sviluppate di noi. Questi sono segni di deficienza che dobbiamo energicamente curare, altrimenti diventeremo la colonia di qualche popolo più potente del nostro; e siccome noi siamo troppo orgogliosi della vittoria che abbiamo strappato con immenso sacrificio di sangue per pensare anche lontanamente di diventare una colonia, così il dovere dell'ora di tutti i cittadini è quello di lavorare con tranquilla coscienza, giorno e notte, non soltanto otto, ma sedici ore, se sarà necessario, pur di aumentare la potenza, la ricchezza e il benessere della Patria.
Cittadini! Anche questa giornata che volge al termine in un tramonto di sole e di gloria... e per la quale avete trepidato un poco... sì! pensavate a qualche diluvio... anche questa giornata si chiude per me lasciando nel mio animo un ricordo lieto, un ricordo che non si cancellerà, vi assicuro, perché è con viva commozione che io ho ascoltato il discorso del vostro Sindaco; è stata per me una specie di rivelazione sapere che a Busto ci sono 360 tra piccoli e grandi stabilimenti, che la natività è potente, che la città si sviluppa! Quello che avviene a Busto avviene oggi in tutta la Nazione. Voi sentite che il ritmo della nostra vita si è straordinariamente accelerato; sentite che bisogna riguadagnare energicamente il tempo perduto; voi sentite, avete questa sicurezza, questa certezza suprema, che se tutti noi saremo disciplinati, concordi, laboriosi, stretti intorno al Sovrano, stretti intorno alle Istituzioni fondamentali della Patria, non potrà mancare un grande, un prospero, un glorioso avvenire.
Poco dopo, MUSSOLINI passò nella sala consigliare del Municipio di Busto Arsizio, e ai Sindaci del Circondario rivolse le seguenti parole:
Quando non si è dogmatici pur mantenendo la necessaria intransigenza ideale — la quale intransigenza risponde ai connotati di un individuo — si può tuttavia scegliere il minimo o il massimo comune denominatore che permetta di lavorare con assoluta concordia fra uomini diversi.
Io aggiungo, signor Sindaco, che se questo fosse possibile su vasta scala, sulla scala della Nazione, la cosa avrebbe certamente un'utilità grandissima. Ma debbo aggiungere con molta franchezza che se questo non è avvenuto, o non è avvenuto in quelle proporzioni che si potevano pensare, non è dipeso da me. No, non è dipeso da me. È solo con la concordia che si possono risolvere i problemi di una città, concordia che unisce i cittadini nel ramo della produzione. Tutti sanno che solo a questo prezzo è possibile realizzare l'avvenire del popolo. Quante volte io ho detto ai cittadini di buona volontà: lasciamo da parte, davanti ai problemi della ricostruzione nazionale che sono immensi, che sono urgenti (ci sono comuni in condizioni di vita premedioevale che sono in arretrato non di 50 ma di 400 anni), quante volte io ho detto: affrontiamo questi problemi, lasciamo da parte la policromia politica, l'arcobaleno, i trecento colori, lavoriamo! Lavoriamo perché è nel lavoro che si trova la concordia. Non è stato possibile. Evidentemente ogni movimento ha i suoi emigrati: la rivoluzione francese nell'89 ha avuto i suoi emigrati che andavano fuori della Francia per combattere; il movimento fascista ha avuto i suoi emigrati. D'altra parte non si può dimenticare che c'è un fatto compiuto, consegnato alla storia, che non si può cancellare. È mai possibile negare che nell'ottobre 1922 ci sia stata una Marcia su Roma, un fatto storico cioè come la spedizione dei Mille, il martirio di Belfiore, le dieci giornate di Brescia, le cinque giornate di Milano? Ebbene, signor Sindaco, non importa se gli appelli resteranno nel vuoto. Bisogna persuadersi di una cosa: che il Governo è solido, che io sono più solido ancora del Governo.
Io intendo, energicamente intendo, continuare la mia fatica. Oh! non già perché sia un piacere, non già perché sia piacevole avere sulle spalle il destino di un popolo; ma è un mio dovere preciso; ho una somma di problemi che debbo risolvere, e li voglio risolvere. Del resto vedete che vi faccio dichiarazioni politiche così, con molta familiarità, come ci fossimo sempre conosciuti, e probabilmente ci siamo davvero sempre conosciuti.
Ma queste dichiarazioni hanno forse la loro importanza. Se gli uomini di buona volontà vorranno ascoltare l'appello, bene; se no, continueremo la via da soli; la ricostruzione sarà più dura, più aspra, ma questa è una consegna storica che abbiamo; e noi siamo soldati fedeli alla consegna. Io penso che malgrado tutto, malgrado gli errori — ma chi è che non commette errori nel mondo! — ci sono ancora dei vasti consensi, ci sono sempre dei vasti consensi intorno al Governo che ho l'onore di presiedere: Governo di lavoratori, di gente che ha l'altissimo senso della propria responsabilità.
E quando nelle mie meditazioni io metto a confronto l'Italia di dieci o di quindici anni fa e l'Italia di oggi, che deve risolvere problemi essenziali, e penso che è il Governo fascista, per esempio, che ha stabilito la linea telegrafica fra l'Italia e i 10 milioni d'italiani che sono al di là dell'Oceano (nessuno prima ci aveva pensato!) per me è una grande soddisfazione avere sul mio tavolo di lavoro a Palazzo Chigi un frammento del cavo che unirà le nostre anime al di sopra degli oceani! Opera nostra! e molte altre, molte altre, Signori! Molte altre! Tanto che qualche volta commetto un peccato d'orgoglio, un grave peccato d'orgoglio; il peccato di dire che se ci lasciano tranquilli per cinque o dieci anni, fra cinque o dieci anni l'Italia sarà irriconoscibile, avrà cambiato faccia, perché sarà ricca, tranquilla, prospera, perché sarà possente, perché sarà una delle poche nazioni che potranno domani guidare la civiltà mondiale.
E in Europa, l'ho già detto e lo ripeto, c'è chi sale e chi scende; il destino dell'Europa non è irrevocabilmente tracciato e definito. Io penso che fra coloro che salgono, fra coloro che montano all'orizzonte europeo ci sono gli italiani, ci siamo noi. E tanto più saliremo, tanto più rapidamente monteremo ai fastigi di questa storia quanto più saremo uniti, quanto più saremo concordi, quanto più rispetteremo le leggi — quelle che sono e quelle che saranno — quanto più ci considereremo soldato che ha i suoi compiti, la sua consegna, le sue responsabilità. Non la caserma prussiana, ma la nostra caserma; non il falansterio ma la fraternità di tutti gli italiani, che si ritrovano, che combattono, che lavorano, che sperano e che marciano verso un sicuro, verso un prospero avvenire!
Bergamo, 27 ottobre 1924: MUSSOLINI parla al popolo bergamasco
MUSSOLINI inaugurò la torre monumentale eretta in Piazza Vittorio Veneto a memoria dei Caduti in Guerra, opera dell'architetto Marcello Piacentini. In tale occasione, rivolse al popolo il seguente discorso:
Popolo di Bergamo!
Popolo della città mistica e garibaldina: voglio, prima di inoltrarmi nel mio dire, che sarà breve, come il carattere stesso della cerimonia impone, voglio ringraziarti, o popolo silenzioso ed operante, per il magnifico spettacolo di concordia e di disciplina che tu mi hai offerto stamane. Vedendo sfilare, raccolto sotto i mille gagliardetti che esprimono la comunità della nostra fede, il popolo lavoratore, l'austero popolo dei campi e delle officine, degli uffici e dei cantieri, io mi sono domandato ancora una volta per quale drammatico equivoco, per quale assurdo paradosso, sia ancora possibile, a gente che non sia in malafede, dubitare che attorno al Governo che ho l'onore di rappresentare, non ci sia un forte, un profondo, un vasto consenso di moltitudini.
Quando io penso a Bergamo, una schiera di nomi, una costellazione di glorie, balenano nel mio spirito: è Francesco Nullo, sono i Mille di Garibaldi, gli audaci, che navigarono e marciarono per abbattere il Borbone. Penso ai fratelli Calvi e penso anche a te, Locatelli, combattitore dell'aria e vigilatore dell'Oceano, che tu varcherai ancora.
Avete voluto onorare i vostri morti erigendo sul limite delle due città dell'unica incorruttibile anima, questa torre quadrata, di sicura mole romana. Voi ravvivate in quest'ora tutte le nostre gloriose vicende. Ricordate le giornate radiose del maggio 1915, quando imponemmo la guerra liberatrice che non doveva soltanto renderci dei territori, ma mostrare al mondo che il popolo italiano sa combattere e intrepidamente morire.
Ricordate le giornate del Piave, che costituiscono la gloria della generazione novissima. Erano i giovinetti ed i solidi territoriali: chi si affacciava alla vita e chi ne era al declino, uniti sulle sponde del fiume sacro, decisi a riprendere la marcia che ci condusse a Vittorio Veneto.
Sono passati sei anni, ma forse tre non dobbiamo contarli. Non vogliamo insistere sugli anni grigi. È accaduto altra volta dopo una grande guerra, che i popoli siano stati presi da una specie di collasso morale. Era forse la stanchezza quasi umana e naturale che veniva dopo grandi, immense fatiche. Ma oggi l'Italia offre uno spettacolo magnifico. Oggi tutti quelli che hanno contribuito con la loro opera e il loro sangue alla vittoria hanno un posto altissimo nel cuore del popolo italiano. Oggi il popolo si volge con un senso di gratitudine infinita ai comandanti del glorioso esercito; si volge con gratitudine non meno infinita ai mutilati, ai combattenti ritornati alle opere civili e di pace, alle madri e vedove dei Caduti, agli orfani che portano nella loro adolescenza, priva di sorrisi, tutto il peso del sacrificio, tutto il peso incomparabile della gloria.
Questo è oggi il popolo italiano, il popolo che si è assoggettato a questa necessariamente dura disciplina. Non possiamo permetterci i lussi della discordia quando dobbiamo risolvere formidabili problemi che interessano, fin nella sostanza viva, la esistenza della Nazione. E di questo popolo, voi Camicie nere, costituite l'avanguardia. Voi siete da me amate ed ammirate. Qualche volta castigate, perché ciò è necessario. Ma io non posso dimenticare il vostro sacrificio, la vostra devozione alla Patria; la prontezza mirabile del vostro spirito per cui siete sempre pronti a dare nuova e più profonda prova del vostro amore per l'Italia.
Mentre siamo davanti a questa torre sacra, che è un simbolo e un monumento, che è fatta di pietre, ma è fatta anche di cuori e di passioni, non vogliamo che parole improvvise servano a incrudire discordie e dissensi, ma piuttosto dire ancora una volta a tutti gli italiani la parola della disciplina, della concordia civile, perché tutti l'ascoltino: e guai a chi non l'ascolterà, perché in quel momento si sarà esso stesso deliberatamente bandito dal suolo e dall'animo della Patria.
C'è un orologio su questa torre, orologio che segna il fluire fatale del tempo; che segna il passare delle nostre vite mortali col battito delle ore. Noi siamo qui a giurare che quest'orologio, mosso dallo spirito dei nostri morti, non batterà mai le ore della viltà e dell'ignominia; ma batterà sempre le ore del lavoro, del sacrificio e della gloria.
Dalmine, 27 ottobre 1924: MUSSOLINI parla agli operai di Dalmine.
Nello stesso giorno, 27 ottobre 1924, il Duce, da Bergamo andò a visitare la Chiesa di Sudorno e quindi lo Stabilimento metallurgico di Dalmine. Si adunarono, nel piazzale dello stabilimento, tremila operai, ai quali il Duce rivolse le seguenti parole:
Operai!
Voi non potete credere con quanta emozione io abbia rivisto questa officina ardente e risonante che io visitai una prima volta in tempi che parevano oscuri e che non impedivano a voi di innalzare il tricolore, simbolo della Patria, sulle ciminiere di questo stabilimento in piena efficienza materiale e morale. Poco fa, mentre mi accompagnava attraverso i reparti, il vostro capo mi spiegava e mi documentava come egli intende praticare e pratica la collaborazione di classe. Mi diceva tutte le provvidenze che egli ha realizzato ed io gli rendo ampia lode come Capo del Governo e come italiano.
Voi sapete quello che io penso: ritengo che tutti i fattori della produzione sono necessari: necessario è il capitale, necessario l'elemento tecnico, necessaria è la maestranza. L'accordo di questi tre elementi dà la pace sociale: la pace sociale dà la continuità di lavoro: la continuità di lavoro dà il benessere singolo e collettivo. Fuori di questi termini, ve lo dico con assoluta schiettezza, fuori di questi termini non vi può essere che rovina e miseria.
Voi siete legati al progresso tecnico e materiale del vostro stabilimento. Ho visto che sorgono delle case molto decorose per gli impiegati: vedo là nella pianura, che si delinea nelle sue linee semplici, un villaggio altrettanto decoroso per gli operai. Si pensa dunque alle vostre famiglie, si pensa a dare un alloggio sano, igienico ed a buon mercato. Il comm. Garbagni mi diceva che avendo importato delle farine in tempo utile non c'è stato ancora un aumento nel prezzo del vostro pane. Questa è vera collaborazione di classe; questo significa fare l'interesse della Nazione, della produzione, del capitale e della stessa maestranza.
Ricordatevi delle mie parole. Ricordatevi che in me avete un amico. Un amico severo però, non un amico lusingatore, non un amico che voglia farvi più grandi di quello che non siete. E se dico che avete in me un amico, ve lo dico con assoluta sincerità: io sono un amico che conosce i vostri diritti, ma che vi dice anche che i vostri diritti devono avere la corresponsione nel dovere compiuto. Giuseppe Mazzini non disgiungeva diritti da doveri, li considerava come termini di un binomio assoluto: il diritto è la risultante del dovere compiuto. Compite il vostro dovere e voi avrete diritto di rivendicare la tutela dei vostri interessi dalla Nazione fascista, oggi e domani.
Milano, 28 ottobre 1924: MUSSOLINI celebra il secondo anniversario della Marcia su Roma
L'atmosfera di lotta politica del 1924 aveva disgustato gli animi della maggioranza degli italiani, disgustati dalle ignobili speculazioni dei partiti avversari e dall'atteggiamento subdolo dei deputati d'opposizione ritirati su l'Aventino. Ma ormai l'Aventino e i vari gruppi d'opposizione erano vinti dall'evidenza dei fatti e dalla rivolta dell'opinione pubblica. In tale stato di cose, la celebrazione del 28 ottobre 1924, secondo anniversario della Marcia su Roma, acquistò una solennità e suscitò un entusiasmo che ebbe tutto il valore d'un'affermazione e d'un plebiscito. In tal giorno la Milizia Nazionale prestò giuramento al Re in tutta Italia. Il Duce presenziò a tale cerimonia a Milano, e in Piazza del Duomo, dalla torretta di un'autoblindata, rivolse alle Camicie Nere il seguente discorso:
Camicie Nere!
Voglio tributarvi il mio plauso altissimo e l'attestazione della mia simpatia profonda. Stamane voi avete sfilato in un modo superbo come veterani provati a cento battaglie. Prima di voi, in modo non meno superbo, hanno sfilato i reparti del nostro glorioso Esercito al quale voi, alzando i moschetti, dovete recare il vostro cordiale entusiastico saluto. Lo stesso saluto e nella stessa forma voi dovete mandare alla Maestà del Re, il primo soldato d'Italia, e rinnovare in un tempo la vostra devozione alla causa della Rivoluzione fascista per la quale siamo pronti a vivere, pronti a combattere e pronti a morire.
Camicie Nere, Legionari! Siate orgogliosi di quello che avete compiuto, preparatevi con pura coscienza ai compiti più ardui di domani; per dimostrarvi la fede incoercibile che io ho nell'avvenire del nostro movimento, fin da questo momento io vi dò appuntamento per l'anno prossimo in questa stessa piazza.
Che cosa possono davanti al nostro prorompente entusiasmo, davanti alle manifestazioni della nostra fede indomita, che cosa possono anche i piccoli e mediocri politicanti, che fantasticano su di un passato che noi abbiamo ben sepolto e che non potrà risorgere mai più?
Legionari, Camicie Nere! Voi avete bene meritato della Nazione. Il Governo fascista, ho l'orgoglio di dirlo, ha compiuto cose nobili e grandi in mezzo a difficoltà, grandissime, obiettive, e in mezzo a difficoltà create pertinacemente giorno per giorno dai nostri avversari. Ciò malgrado io proclamo dinanzi a voi che siete depositari del mio fuoco, del nostro fuoco sacro, dinanzi a voi io ripeto che non si torna indietro.
Innalzate i vostri gagliardetti, innalzate i vostri moschetti e gridate: «-Viva il Re! Viva l'Italia!-».
Nello stesso giorno, terminata la cerimonia a Milano, il Duce andò a Pallanza, e dal balcone del Palazzo Municipale rivolse al Sindaco, ai Fascisti, al popolo adunato, le seguenti parole:
Signor Sindaco! Cittadini! Camicie Nere!
Sono giunto al termine di un'altra mia faticosa giornata. Tuttavia non sono stanco e desidero intrattenermi un poco con voi, prima per ringraziarvi delle vostre accoglienze, poi per il sole che mi avete fatto trovare in questo cielo bello di Lombardia. Stamane il popolo di Milano, raccolto al Parco, vide sfilare le legioni delle Camicie Nere inquadrate, perfettamente ordinate e disciplinate. Esse non da oggi hanno giurato fedeltà al Re: la loro fede giurata era precedente alla cerimonia di oggi. Ma d'ora in poi non si potrà tornare più su questo argomento: la Milizia è ora a posto con la costituzione: essa ha reso dei servizi non indifferenti alla Patria e ne potrà rendere ancora. Tutti gli italiani dovrebbero esserne orgogliosi, poiché solo l'Italia offre lo spettacolo meraviglioso di una generazione giovane che, per fede e per una dura disciplina impostasi, si sacrifica.
Stanotte le legioni hanno dormito sulla paglia: molte di esse non hanno avuto il rancio; e ciò perché obbedivano: non è questa una manifestazione che trascende ogni bassezza, ogni diffamazione? Si dice che non c'è il consenso: ogni volta che io attraverso i paesi di questa adorabile Italia trovo che a me vengono folle entusiastiche, spesso deliranti. Si dice, per spiegare questo fenomeno, che esso dipende dal mio fascino personale. Ripudio ciò: non è sufficiente! In verità si vuole, attraverso la mia persona, onorare il Partito, che, pur avendo commesso degli errori — e chi non commise degli errori? — nacque da un fiero travaglio di spiriti, nacque dalla trincea, nacque anzi nel 1915, a cui vogliamo tornare.
Il Partito consacrò la Vittoria vilipesa, quando il popolo era mistificato. Questa è l'origine del Partito fascista che diede alla Patria non solo dei giornali e degli opuscoli che nessuno legge, ma dei morti. Diede del sangue puro, giovane; sangue di giovinetti, di mutilati, di combattenti. Così rivendicò il grave diritto ed il pesante privilegio di governare l'Italia. Ho detto «pesante privilegio» poiché qualcuno crede che sia facile governare una Nazione comprendente 40 milioni di abitanti in essa, più 8 milioni oltre oceano.
Governare è una cosa complessa, che pone giorno per giorno dei problemi gravi da risolvere. Ogni giorno c'è una nuova fatica, una nuova pena, una nuova responsabilità. Questo è il Governo: e noi non governiamo la Nazione solamente per gli italiani di oggi, il che sarebbe già molto, ma anche per le generazioni future, poiché la Patria vivrà nei secoli e nei millenni. Quindi il senso del dovere religioso deve essere in tutti i capi e in tutti i gregari.
Cittadini di Pallanza! Voi non volete un lungo discorso: io non sono abituato a farne! Voi mi avete ascoltato in un raccoglimento degno di un popolo gentile che abbia dinanzi a sé lo spettacolo grandioso del lago e del cielo azzurro. Permettete che vi porga i miei ringraziamenti e i miei saluti e che esiga da voi una promessa.
Un ammiraglio inglese, alla vigilia della battaglia definitiva, disse: «-Ognuno faccia il suo dovere: la Patria questo esige!-».
Ed a voi, che volete la Patria forte, ricca e potente, io dico: ognuno faccia il suo dovere qui ed oltre le frontiere, ovunque siano fratelli italiani, in casa, fuori e nelle officine, ed il nostro sogno orgoglioso sarà infallibilmente la realtà del domani.
Cremona, 29 ottobre 1924: MUSSOLINI parla ai cremonesi.
Il giorno seguente, MUSSOLINI si recò a Cremona ove l'on. Farinacci commemorò, nella Piazza del Duomo, Leonida Bissolati, a cui s'inauguravano una lapide e un busto, nell'ex-collegio elettorale di Pescarolo. Dopo l'on. Farinacci prese la parola MUSSOLINI che rivolse al popolo di Cremona questo discorso.
Popolo di Cremona!
Anche fra le nebbie di questo autunno incipiente si torna sempre volentieri a te, non solo perché questa piazza è suggestiva nella sua grande bellezza, ma perché tu, o popolo, mi vieni incontro col tuo fresco entusiasmo, con quella cordialità fraterna che vorrei chiamare padana.
Immediatamente si stabilisce quella che si potrebbe definire la comunione dei nostri spiriti; passano i mesi, passano gli anni nel loro ritmo fatale, mesi ed anni carichi di vicende diverse, di un immenso destino, eppure malgrado il fluire del tempo mi ritrovo davanti la stessa moltitudine di quindici mesi or sono, lo stesso entusiasmo, la stessa passione, la stessa fede.
Nulla dunque è cambiato nei vostri spiriti, perché nulla è cambiato nello spirito mio.
Ieri in tutta Italia si è svolta una cerimonia solenne, augusta, perché si trattava del giuramento all'augusta persona del Re.
Prima di questo giuramento si sussurrava: «Non giurano»; si giura, ed allora si sofistica sul giuramento. Alla vigilia tremano di paura; ogni piccolo concentramento di Camicie nere li fa verdi di terrore e poi quando le Legioni con un ordine perfettissimo ritornano ai loro paesi, depongono la camicia nera e il grigio-verde per ritornare alle opere civili del lavoro e della pace, questi avversari, la cui malafede non può più essere messa in dubbio, ricorrono ad un aggettivo ignobile per definire la nostra incoercibile passione.
Veramente mi sono collaudato in fatto di pazienza. Sono mesi e mesi che siamo martellati da una campagna di calunnie che i fatti smentiscono ora per ora. Si è osato gettare un'ombra di sospetti su un Governo al quale nessuno che sia in buona fede può negare il merito di avere in ogni ora, in ogni giorno, fedelmente adempiuto ai suoi doveri per il Re e per la Nazione. Ci siamo macerati lungamente nello spirito, abbiamo sofferto, ed abbiamo taciuto, ci siamo sottoposti a questo durissimo cilicio: perché? Perché vogliamo veramente che la concordia regni fra tutti noi italiani; perché non amiamo la violenza per la violenza.
La violenza, per noi, non è uno sport, non è mai stata né può essere un divertimento. Per noi la violenza può essere, come la guerra, necessità durissima di certe determinate ore storiche, ma il sogno che portiamo nel cuore è il sogno dell'Italia pacifica, concorde, laboriosa, in cui tutti si sentano figli della stessa madre ed accomunati agli stessi destini.
Popolo di Cremona: io ho raccolto la vostra impazienza, ma io sono paziente e debbo esserlo. Ma ve lo assicuro, la battaglia è vinta su tutta la linea.
Non saranno le poche decine di politicanti che noi rispetteremmo se fossero in buona fede, che potranno fermare con le loro dighe cartacee il corso impetuoso di questo fiume. Non saranno i signori dell'Aventino, (scendano o non scendano, della qual cosa, del resto, io mi strainfischio) che ci impediranno di discutere a Camera aperta i grandi problemi che interessano il popolo italiano, i problemi della sua economia, il problema delle sue finanze, i problemi imponenti e formidabili essenziali della sua difesa militare per terra, per mare e per cielo. Non ci impediranno di dare le savie ed oneste leggi che il popolo attende.
Intanto noi abbiamo dimostrato, pur attraverso a qualche travaglio, che sappiamo obbedire alle leggi. A tutte le leggi: a quelle che sono, a quelle che saranno, perché noi vogliamo realizzare la vera normalità da non confondersi con l'altra brutta parola che ripudio, la vera normalità di nazione civile, laboriosa, concorde, conscia dei suoi immancabili destini.
Popolo di Cremona!
Io vedo qui dinanzi a me la vera collaborazione di tutte le energie vitali di un popolo, vedo dei combattenti, dei soldati e dei militi, il Nastro Azzurro, i mutilati, le madri dei Caduti, tutti coloro che molto hanno dato per la Patria, che molto hanno sofferto ed ai quali tutti va la nostra infinita gratitudine.
Noi siamo qui ancora una volta a dire che non stolte ambizioni ci guidano, che non insensati capricci sono alla base della nostra azione e dei nostri atteggiamenti: che noi non siamo dei vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma siamo dei soldati fedeli alla consegna e la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re, solo alla Nazione noi dobbiamo rendere atto, dare giustificazione del nostro operato, non a coloro che ad ogni gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vorrebbero intentarci il loro ridicolo processo, mentre sono gli esclusi ed i condannati dalla nuova storia!
Camicie Nere!
Alzate i vostri moschetti! Alfieri, alzate i vostri gagliardetti, ed in alto i cuori per le battaglie di ieri; per le vittorie di domani.
Bissolati, 29 ottobre 1924: MUSSOLINI inaugura una lapide e un busto a Leonida Bissolati.
Nello stesso giorno, 29 ottobre 1924, il Duce passò da Cremona a Pescarolo per assistere all'inaugurazione di una lapide e di un busto a Leonida Bissolati. In tale occasione - dopo i discorsi del Sindaco del Comune e dell'on. Farinacci - il Duce pronunziò il seguente discorso:
Popolo di Pescarolo!
Sono venuto a questa cerimonia, invitato dal vostro Sindaco, dal capo del Fascismo della vostra provincia; sono venuto con cuore puro, sono venuto a compiere un rito di omaggio e di devozione.
Voi che conoscete la storia di questi ultimi anni non ignorate che fra Leonida Bissolati e me vi furono in due diversi momenti della vita italiana due fieri contrasti: uno nel 1912 a Reggio Emilia, uno più tardi, a guerra finita. Ora certa gente che vorrebbe perpetuare i dissidi anche oltre la fossa, ignorando il detto del Poeta che oltre tomba non vive ira nemica, solleva grande clamore di parole e versa fiumi inesauribili di inchiostro per protestare contro questa cerimonia, che essa avrebbe voluto monopolizzare.
Dopo il contrasto di Reggio Emilia, Bissolati fu uno dei miei amici più cari, perché il contrasto, o cittadini, non era un contrasto di interessi, non era una ignobile passione, era una diversa valutazione di quello che in quel momento avrebbe dovuto essere il socialismo italiano. Ed io, che dò ragione anche ai miei avversari quando l'hanno, riconosco oggi che Leonida Bissolati era nel vero e che io ero nel falso.
In fondo Leonida Bissolati vedeva più profondamente di me nel fenomeno e diceva una verità anticipata. Egli ammoniva: «-Guardate che questo partito è un ramo secco; un giorno o l'altro cadrà per terra. La forza non può essere che nei Sindacati. È la massa lavoratrice che, giorno per giorno, con un travaglio di educazione e di elevazione, deve essere degna dei suoi nuovi destini-».
Leonida Bissolati aveva perfettamente ragione contro il mio eccessivo giacobinismo, tanto è vero che oggi il socialismo ha tre chiese o tre botteghe che dir si voglia, le quali si odiano e si detestano a vicenda; e nessuno sa oggi a quale insegna debba andare per ritrovare il puro, l'autentico socialismo.
Secondo contrasto: quello del dopoguerra. È ancora troppo presto per giudicare un contrasto di ordine fondamentale. La storia, cioè gli uomini che vengono dopo di noi, spogli delle nostre passioni, potranno dare il giudizio definitivo. Comunque anche allora non si trattava di rivalità personali, non si trattava di dire: «Levati di lì che mi ci metto io». No. Era diversa visione di quel che poteva in quel momento costituire l'interesse nazionale.
Io intendo qui, nella mia qualità di Capo del Governo e di Capo del Fascismo, di onorare in Leonida Bissolati prima di tutto l'uomo. Era un uomo semplice, un probo gentiluomo, un cavaliere senza macchia e senza paura, un uomo che aveva vissuto tutta l'aurora del socialismo diffuso con il suo apostolato, che aveva sofferto, che aveva sempre pagato di persona. Ed è morto nell'assoluta povertà, in una povertà che si potrebbe chiamare veramente francescana.
In lui intendo onorare l'interventista, l'uomo che a 55 anni imbraccia il fucile, si arruola volontario negli Alpini, va sul Monte Nero ed è ferito in combattimento; l'uomo che sopporta il ferro chirurgico senza un lamento, senza una parola, con uno stoicismo degno degli eroi antichi. Voglio onorare in lui anche il socialista del tempo in cui il socialismo non era diventato una scuola di abbrutimento dei valori nazionali, una dottrina di mistificazione delle plebi, del tempo in cui i socialisti non si preoccupavano dei collegi elettorali e nemmeno degli stipendi delle diverse leghe delle Camere del lavoro, ma andavano al popolo per elevarlo e la prima cosa che facevano era quella di dirgli la verità. Voglio onorare in Leonida Bissolati il patriota. Egli non ha mai disgiunto il suo ideale, liberamente e santamente professato, dall'amore della Patria. Era così intransigente quando si trattava dell'interesse della Patria, che in pieno Parlamento, dopo le tristi giornate del nostro insuccesso. Egli, rivolto ai suoi ex amici dell'Estrema Sinistra, diceva tranquillamente, quantunque fosse un uomo straordinariamente mite di animo: «-Se fosse necessario io vi farei fucilare in massa-».
A chi appartiene? Faremo adesso lunghe discussioni per vedere esattamente in quale campo egli oggi avrebbe militato? Noi sappiamo soltanto che nel 1919 quando la lotta elettorale fascista si svolgeva in condizioni meravigliose e ha avuto un successo altrettanto meraviglioso, in quella lotta elettorale Leonida Bissolati era con noi, non era dall'altra parte.
Queste cose, o cittadini, io volevo dirvi e voglio aggiungere ancora: voi dovete serbare alta nel vostro cuore la memoria di questo vostro grande concittadino.
Se avete avuto dei torti verso Lui espiateli in silenzio, onorando la sua memoria. E per onorare la sua memoria dovete essere fedeli alla causa del lavoro, ma anche alla causa della Nazione, poiché Leonida Bissolati non disgiungeva il lavoro dalla Nazione.
E giacché parlo davanti a voi, che siete in stragrande maggioranza dei lavoratori, lavoratori di questa ubertosa terra che ha visto tutte le esperienze sociali e che è stata sempre all'avanguardia di tutti i tentativi rinnovatori, voglio dirvi che il Fascismo vuole che nella Patria rinnovata, redenta, il lavoro abbia il primo posto, i lavoratori siano all'avanguardia, abbiano rivendicati tutti i loro diritti quando essi abbiano compiuti i loro doveri.
Lavoratori, io chiudo perché in queste giornate celebrative di un evento che vi interessa, che voi avete voluto in parte e che in ogni modo è sacro nella storia e nessuno può cancellare, parlo della Marcia su Roma, in questi giorni, dicevo, ho fatto troppi discorsi ed ho fornito, ne son sicuro, un vasto materiale per le polemiche dei nostri avversari. Siccome ci sono abituato, il fatto mi lascia indifferente. Ma, prima di lasciarvi, né sapendo quando avrò ancora la ventura di parlare davanti a voi, in questa piazza, io voglio dirvi con accento di assoluta sincerità che il Fascismo, come Governo e come Partito, intende energicamente tutelare gli interessi della popolazione che lavora e che io, personalmente, vi manifesto il senso della mia fraternità, il senso della mia simpatia.
Come dicevo l'altro giorno a tremila operai che mi ascoltavano negli stabilimenti metallurgici di Dalmine, io sono amico degli operai, ma un amico severo. Io non inganno, non vendo fumo, non dico loro che sono grandi quando sono piccoli, non dico che sono sapienti quando sono ignoranti, non dico che essi siano il motore ed il perno dell'universo, perché io allora dovrei mettere sullo stesso piano ed in prima linea coloro che, lavorando col cervello, mandano avanti sulla via della civiltà pura la società umana. Sono un amico severo. Appunto per questo voi dovete valutare al giusto la mia amicizia.
Tristi amici sono coloro che ingannano; tristi amici sono coloro che seguono il carro quando si trionfa e si squagliano immediatamente non appena il vento cambia direzione.
Nessuno di voi nutra delle illusioni o dei dubbi. Noi teniamo la Nazione non per servircene, ma per servirla, in umiltà, con devozione assoluta, con senso che io vorrei quasi chiamare religioso del nostro dovere. E tutti dobbiamo considerarci servi della Nazione. E se questo era il sogno di Leonida Bissolati, che voleva la Patria riconciliata fra tutte le sue classi, rispettata dall'esterno, forte all'interno, diventerà presto, credetemi, per volontà di tutto il popolo italiano, la grande, la bella, la magnifica realtà di domani.
Roma, 31 ottobre 1924: MUSSOLINI annuncia il definitivo tramonto delle opposizioni.
Le ardenti celebrazioni della Marcia su Roma culminarono, il 31 ottobre 1924, con un'orazione detta all'Augusteo in Roma dalla Medaglia d'Oro Giorgio Tognoni, cieco di Guerra. L'anima vibrante dell'intera Nazione aveva riaffermato e riaffermava la sua profonda fede in Mussolini e nel Fascismo: le opposizioni erano ormai travolte e il movimento dell'Aventino finiva nel ridicolo. Dopo l'orazione del Tognoni, il Duce disse queste poche parole, che segnano in modo definitivo questa nuova vittoria del Fascismo contro le ultime insidie delle vecchie e superate classi politiche. Il settore crollato a cui allude MUSSOLINI è il Governo laburista, caduto in Inghilterra dopo le elezioni del 30 ottobre 1924, che avevano assicurato due terzi dei seggi ai partiti di destra.
Cittadini romani!
Non molte parole dopo l'orazione meravigliosa che voi avete applaudito. Ma io voglio qui ripetere ciò che ho detto in piazza del Duomo a Milano dall'alto di una possente e meravigliosa macchina da guerra. «-La battaglia è vinta su tutta la linea-».
Proprio ieri, un altro settore del fronte internazionale antifascista è crollato. Fra poco, quando si saranno accorti che è inutile e che alla fine è stupido mordere il macigno, io credo che sulle pendici dell'Aventino una mattina sarà issato un cencio bianco e sentiremo dire come udimmo gli austriaci: «-Bono Fascista-».
Noi aspettiamo tranquillamente, con assoluta certezza, questo giorno. Viva il Fascismo!
Roma, 4 novembre 1924: MUSSOLINI celebra il sesto anniversario della Vittoria.
La celebrazione del sesto anniversario della Vittoria seguiva, nello stesso alone d'entusiasmo e di fervore, la celebrazione del secondo anniversario della Marcia su Roma. All'Augusteo, in Roma, dopo un discorso dell'on. Paolucci e la lettura di una lirica del Coselschi, MUSSOLINI rivolse, ai giovani e ai combattenti, le seguenti parole:
Giovani! Combattenti di Roma!
Voi volete che io aggiunga la mia parola? Ma forse, dopo l'alato discorso della medaglia d'oro Paolucci e dopo il poema del poeta e decorato Coselschi, ogni parola può essere superflua. Anche perché questa adunata, questa imponente magnifica moltitudine di autentico popolo è di per se stessa una poesia.
Di una cosa vi ammonisco severamente ed è di nulla aggiungere fuori, nelle strade, perché ogni incidente la guasterebbe e ne turberebbe il solenne significato. Io sono sicuro che voi mi obbedirete, anche perché, malgrado l'esuberanza, voi non siete sordi all'appello della necessaria disciplina.
Gioventù di Roma! Gioventù d'Italia! Bella, fresca gioventù, che sboccia in questi tempi come una primavera fiammeggiante nel cielo della Patria: io sono sicuro — ho questa suprema e divina certezza nell'animo — che se domani, per avventura, la grande campana della storia suonasse e chiamasse all'appello, tu, gioventù che hai ancora fulve le chiome, solidi i garretti, l'occhio limpido, che si affaccia per la prima volta alla vita, tu scenderesti al canto degli inni della Patria, popoleresti il cielo della Patria, il mare della Patria, le frontiere della Patria!
Saresti disposta a morire, pur di vincere?
(«-Sì!-», urla la moltitudine).
Nel ricordo dei nostri morti, nel ricordo della gloria di Vittorio Veneto: Viva il Re! Viva la Patria!
I miei occhi sono allietati dalla bandiera vivente, dalla vista dei tre gloriosi colori che riassumono il sacrificio, la gloria e le speranze migliori della Patria. Vedo dinanzi a me i «-Balilla-» e gli avanguardisti, le camicie nere che si propongono di commemorare un anniversario glorioso e il popolo tutto che si raccoglie attorno ai gagliardetti che simboleggiano non soltanto la lotta, ma la disciplina, la concordia e il lavoro di tutti i cittadini che sono devoti profondamente alla causa della Nazione. Ogni giorno che passa noi poniamo le pietre dell'edificio della grandezza della Nazione: oggi è una stazione, domani sarà un porto, dopodomani una bonifica. Stamane era il circuito telefonico sotterraneo, novità in tutta Italia, che legherà le ire potenti città dell'Alta Italia: Milano, Genova, Torino; domani le strade calabresi, le bonifiche in Sardegna; tanti problemi che ci affaticano e che noi portiamo a compimento dopo mezzo secolo di inutili chiacchiere.
Ed è soltanto così che la Nazione diventerà prospera e potente. È soltanto così che noi cancelleremo talune deficienze per cui l'Italia è la terz'ultima nazione al mondo in fatto di telefoni: con la Russia e il Brasile. Tutte le altre nazioni sono molto più sviluppate di noi. Questi sono segni di deficienza che dobbiamo energicamente curare, altrimenti diventeremo la colonia di qualche popolo più potente del nostro; e siccome noi siamo troppo orgogliosi della vittoria che abbiamo strappato con immenso sacrificio di sangue per pensare anche lontanamente di diventare una colonia, così il dovere dell'ora di tutti i cittadini è quello di lavorare con tranquilla coscienza, giorno e notte, non soltanto otto, ma sedici ore, se sarà necessario, pur di aumentare la potenza, la ricchezza e il benessere della Patria.
Cittadini! Anche questa giornata che volge al termine in un tramonto di sole e di gloria... e per la quale avete trepidato un poco... sì! pensavate a qualche diluvio... anche questa giornata si chiude per me lasciando nel mio animo un ricordo lieto, un ricordo che non si cancellerà, vi assicuro, perché è con viva commozione che io ho ascoltato il discorso del vostro Sindaco; è stata per me una specie di rivelazione sapere che a Busto ci sono 360 tra piccoli e grandi stabilimenti, che la natività è potente, che la città si sviluppa! Quello che avviene a Busto avviene oggi in tutta la Nazione. Voi sentite che il ritmo della nostra vita si è straordinariamente accelerato; sentite che bisogna riguadagnare energicamente il tempo perduto; voi sentite, avete questa sicurezza, questa certezza suprema, che se tutti noi saremo disciplinati, concordi, laboriosi, stretti intorno al Sovrano, stretti intorno alle Istituzioni fondamentali della Patria, non potrà mancare un grande, un prospero, un glorioso avvenire.
Poco dopo, MUSSOLINI passò nella sala consigliare del Municipio di Busto Arsizio, e ai Sindaci del Circondario rivolse le seguenti parole:
Quando non si è dogmatici pur mantenendo la necessaria intransigenza ideale — la quale intransigenza risponde ai connotati di un individuo — si può tuttavia scegliere il minimo o il massimo comune denominatore che permetta di lavorare con assoluta concordia fra uomini diversi.
Io aggiungo, signor Sindaco, che se questo fosse possibile su vasta scala, sulla scala della Nazione, la cosa avrebbe certamente un'utilità grandissima. Ma debbo aggiungere con molta franchezza che se questo non è avvenuto, o non è avvenuto in quelle proporzioni che si potevano pensare, non è dipeso da me. No, non è dipeso da me. È solo con la concordia che si possono risolvere i problemi di una città, concordia che unisce i cittadini nel ramo della produzione. Tutti sanno che solo a questo prezzo è possibile realizzare l'avvenire del popolo. Quante volte io ho detto ai cittadini di buona volontà: lasciamo da parte, davanti ai problemi della ricostruzione nazionale che sono immensi, che sono urgenti (ci sono comuni in condizioni di vita premedioevale che sono in arretrato non di 50 ma di 400 anni), quante volte io ho detto: affrontiamo questi problemi, lasciamo da parte la policromia politica, l'arcobaleno, i trecento colori, lavoriamo! Lavoriamo perché è nel lavoro che si trova la concordia. Non è stato possibile. Evidentemente ogni movimento ha i suoi emigrati: la rivoluzione francese nell'89 ha avuto i suoi emigrati che andavano fuori della Francia per combattere; il movimento fascista ha avuto i suoi emigrati. D'altra parte non si può dimenticare che c'è un fatto compiuto, consegnato alla storia, che non si può cancellare. È mai possibile negare che nell'ottobre 1922 ci sia stata una Marcia su Roma, un fatto storico cioè come la spedizione dei Mille, il martirio di Belfiore, le dieci giornate di Brescia, le cinque giornate di Milano? Ebbene, signor Sindaco, non importa se gli appelli resteranno nel vuoto. Bisogna persuadersi di una cosa: che il Governo è solido, che io sono più solido ancora del Governo.
Io intendo, energicamente intendo, continuare la mia fatica. Oh! non già perché sia un piacere, non già perché sia piacevole avere sulle spalle il destino di un popolo; ma è un mio dovere preciso; ho una somma di problemi che debbo risolvere, e li voglio risolvere. Del resto vedete che vi faccio dichiarazioni politiche così, con molta familiarità, come ci fossimo sempre conosciuti, e probabilmente ci siamo davvero sempre conosciuti.
Ma queste dichiarazioni hanno forse la loro importanza. Se gli uomini di buona volontà vorranno ascoltare l'appello, bene; se no, continueremo la via da soli; la ricostruzione sarà più dura, più aspra, ma questa è una consegna storica che abbiamo; e noi siamo soldati fedeli alla consegna. Io penso che malgrado tutto, malgrado gli errori — ma chi è che non commette errori nel mondo! — ci sono ancora dei vasti consensi, ci sono sempre dei vasti consensi intorno al Governo che ho l'onore di presiedere: Governo di lavoratori, di gente che ha l'altissimo senso della propria responsabilità.
E quando nelle mie meditazioni io metto a confronto l'Italia di dieci o di quindici anni fa e l'Italia di oggi, che deve risolvere problemi essenziali, e penso che è il Governo fascista, per esempio, che ha stabilito la linea telegrafica fra l'Italia e i 10 milioni d'italiani che sono al di là dell'Oceano (nessuno prima ci aveva pensato!) per me è una grande soddisfazione avere sul mio tavolo di lavoro a Palazzo Chigi un frammento del cavo che unirà le nostre anime al di sopra degli oceani! Opera nostra! e molte altre, molte altre, Signori! Molte altre! Tanto che qualche volta commetto un peccato d'orgoglio, un grave peccato d'orgoglio; il peccato di dire che se ci lasciano tranquilli per cinque o dieci anni, fra cinque o dieci anni l'Italia sarà irriconoscibile, avrà cambiato faccia, perché sarà ricca, tranquilla, prospera, perché sarà possente, perché sarà una delle poche nazioni che potranno domani guidare la civiltà mondiale.
E in Europa, l'ho già detto e lo ripeto, c'è chi sale e chi scende; il destino dell'Europa non è irrevocabilmente tracciato e definito. Io penso che fra coloro che salgono, fra coloro che montano all'orizzonte europeo ci sono gli italiani, ci siamo noi. E tanto più saliremo, tanto più rapidamente monteremo ai fastigi di questa storia quanto più saremo uniti, quanto più saremo concordi, quanto più rispetteremo le leggi — quelle che sono e quelle che saranno — quanto più ci considereremo soldato che ha i suoi compiti, la sua consegna, le sue responsabilità. Non la caserma prussiana, ma la nostra caserma; non il falansterio ma la fraternità di tutti gli italiani, che si ritrovano, che combattono, che lavorano, che sperano e che marciano verso un sicuro, verso un prospero avvenire!
Bergamo, 27 ottobre 1924: MUSSOLINI parla al popolo bergamasco
MUSSOLINI inaugurò la torre monumentale eretta in Piazza Vittorio Veneto a memoria dei Caduti in Guerra, opera dell'architetto Marcello Piacentini. In tale occasione, rivolse al popolo il seguente discorso:
Popolo di Bergamo!
Popolo della città mistica e garibaldina: voglio, prima di inoltrarmi nel mio dire, che sarà breve, come il carattere stesso della cerimonia impone, voglio ringraziarti, o popolo silenzioso ed operante, per il magnifico spettacolo di concordia e di disciplina che tu mi hai offerto stamane. Vedendo sfilare, raccolto sotto i mille gagliardetti che esprimono la comunità della nostra fede, il popolo lavoratore, l'austero popolo dei campi e delle officine, degli uffici e dei cantieri, io mi sono domandato ancora una volta per quale drammatico equivoco, per quale assurdo paradosso, sia ancora possibile, a gente che non sia in malafede, dubitare che attorno al Governo che ho l'onore di rappresentare, non ci sia un forte, un profondo, un vasto consenso di moltitudini.
Quando io penso a Bergamo, una schiera di nomi, una costellazione di glorie, balenano nel mio spirito: è Francesco Nullo, sono i Mille di Garibaldi, gli audaci, che navigarono e marciarono per abbattere il Borbone. Penso ai fratelli Calvi e penso anche a te, Locatelli, combattitore dell'aria e vigilatore dell'Oceano, che tu varcherai ancora.
Avete voluto onorare i vostri morti erigendo sul limite delle due città dell'unica incorruttibile anima, questa torre quadrata, di sicura mole romana. Voi ravvivate in quest'ora tutte le nostre gloriose vicende. Ricordate le giornate radiose del maggio 1915, quando imponemmo la guerra liberatrice che non doveva soltanto renderci dei territori, ma mostrare al mondo che il popolo italiano sa combattere e intrepidamente morire.
Ricordate le giornate del Piave, che costituiscono la gloria della generazione novissima. Erano i giovinetti ed i solidi territoriali: chi si affacciava alla vita e chi ne era al declino, uniti sulle sponde del fiume sacro, decisi a riprendere la marcia che ci condusse a Vittorio Veneto.
Sono passati sei anni, ma forse tre non dobbiamo contarli. Non vogliamo insistere sugli anni grigi. È accaduto altra volta dopo una grande guerra, che i popoli siano stati presi da una specie di collasso morale. Era forse la stanchezza quasi umana e naturale che veniva dopo grandi, immense fatiche. Ma oggi l'Italia offre uno spettacolo magnifico. Oggi tutti quelli che hanno contribuito con la loro opera e il loro sangue alla vittoria hanno un posto altissimo nel cuore del popolo italiano. Oggi il popolo si volge con un senso di gratitudine infinita ai comandanti del glorioso esercito; si volge con gratitudine non meno infinita ai mutilati, ai combattenti ritornati alle opere civili e di pace, alle madri e vedove dei Caduti, agli orfani che portano nella loro adolescenza, priva di sorrisi, tutto il peso del sacrificio, tutto il peso incomparabile della gloria.
Questo è oggi il popolo italiano, il popolo che si è assoggettato a questa necessariamente dura disciplina. Non possiamo permetterci i lussi della discordia quando dobbiamo risolvere formidabili problemi che interessano, fin nella sostanza viva, la esistenza della Nazione. E di questo popolo, voi Camicie nere, costituite l'avanguardia. Voi siete da me amate ed ammirate. Qualche volta castigate, perché ciò è necessario. Ma io non posso dimenticare il vostro sacrificio, la vostra devozione alla Patria; la prontezza mirabile del vostro spirito per cui siete sempre pronti a dare nuova e più profonda prova del vostro amore per l'Italia.
Mentre siamo davanti a questa torre sacra, che è un simbolo e un monumento, che è fatta di pietre, ma è fatta anche di cuori e di passioni, non vogliamo che parole improvvise servano a incrudire discordie e dissensi, ma piuttosto dire ancora una volta a tutti gli italiani la parola della disciplina, della concordia civile, perché tutti l'ascoltino: e guai a chi non l'ascolterà, perché in quel momento si sarà esso stesso deliberatamente bandito dal suolo e dall'animo della Patria.
C'è un orologio su questa torre, orologio che segna il fluire fatale del tempo; che segna il passare delle nostre vite mortali col battito delle ore. Noi siamo qui a giurare che quest'orologio, mosso dallo spirito dei nostri morti, non batterà mai le ore della viltà e dell'ignominia; ma batterà sempre le ore del lavoro, del sacrificio e della gloria.
Dalmine, 27 ottobre 1924: MUSSOLINI parla agli operai di Dalmine.
Nello stesso giorno, 27 ottobre 1924, il Duce, da Bergamo andò a visitare la Chiesa di Sudorno e quindi lo Stabilimento metallurgico di Dalmine. Si adunarono, nel piazzale dello stabilimento, tremila operai, ai quali il Duce rivolse le seguenti parole:
Operai!
Voi non potete credere con quanta emozione io abbia rivisto questa officina ardente e risonante che io visitai una prima volta in tempi che parevano oscuri e che non impedivano a voi di innalzare il tricolore, simbolo della Patria, sulle ciminiere di questo stabilimento in piena efficienza materiale e morale. Poco fa, mentre mi accompagnava attraverso i reparti, il vostro capo mi spiegava e mi documentava come egli intende praticare e pratica la collaborazione di classe. Mi diceva tutte le provvidenze che egli ha realizzato ed io gli rendo ampia lode come Capo del Governo e come italiano.
Voi sapete quello che io penso: ritengo che tutti i fattori della produzione sono necessari: necessario è il capitale, necessario l'elemento tecnico, necessaria è la maestranza. L'accordo di questi tre elementi dà la pace sociale: la pace sociale dà la continuità di lavoro: la continuità di lavoro dà il benessere singolo e collettivo. Fuori di questi termini, ve lo dico con assoluta schiettezza, fuori di questi termini non vi può essere che rovina e miseria.
Voi siete legati al progresso tecnico e materiale del vostro stabilimento. Ho visto che sorgono delle case molto decorose per gli impiegati: vedo là nella pianura, che si delinea nelle sue linee semplici, un villaggio altrettanto decoroso per gli operai. Si pensa dunque alle vostre famiglie, si pensa a dare un alloggio sano, igienico ed a buon mercato. Il comm. Garbagni mi diceva che avendo importato delle farine in tempo utile non c'è stato ancora un aumento nel prezzo del vostro pane. Questa è vera collaborazione di classe; questo significa fare l'interesse della Nazione, della produzione, del capitale e della stessa maestranza.
Ricordatevi delle mie parole. Ricordatevi che in me avete un amico. Un amico severo però, non un amico lusingatore, non un amico che voglia farvi più grandi di quello che non siete. E se dico che avete in me un amico, ve lo dico con assoluta sincerità: io sono un amico che conosce i vostri diritti, ma che vi dice anche che i vostri diritti devono avere la corresponsione nel dovere compiuto. Giuseppe Mazzini non disgiungeva diritti da doveri, li considerava come termini di un binomio assoluto: il diritto è la risultante del dovere compiuto. Compite il vostro dovere e voi avrete diritto di rivendicare la tutela dei vostri interessi dalla Nazione fascista, oggi e domani.
Milano, 28 ottobre 1924: MUSSOLINI celebra il secondo anniversario della Marcia su Roma
L'atmosfera di lotta politica del 1924 aveva disgustato gli animi della maggioranza degli italiani, disgustati dalle ignobili speculazioni dei partiti avversari e dall'atteggiamento subdolo dei deputati d'opposizione ritirati su l'Aventino. Ma ormai l'Aventino e i vari gruppi d'opposizione erano vinti dall'evidenza dei fatti e dalla rivolta dell'opinione pubblica. In tale stato di cose, la celebrazione del 28 ottobre 1924, secondo anniversario della Marcia su Roma, acquistò una solennità e suscitò un entusiasmo che ebbe tutto il valore d'un'affermazione e d'un plebiscito. In tal giorno la Milizia Nazionale prestò giuramento al Re in tutta Italia. Il Duce presenziò a tale cerimonia a Milano, e in Piazza del Duomo, dalla torretta di un'autoblindata, rivolse alle Camicie Nere il seguente discorso:
Camicie Nere!
Voglio tributarvi il mio plauso altissimo e l'attestazione della mia simpatia profonda. Stamane voi avete sfilato in un modo superbo come veterani provati a cento battaglie. Prima di voi, in modo non meno superbo, hanno sfilato i reparti del nostro glorioso Esercito al quale voi, alzando i moschetti, dovete recare il vostro cordiale entusiastico saluto. Lo stesso saluto e nella stessa forma voi dovete mandare alla Maestà del Re, il primo soldato d'Italia, e rinnovare in un tempo la vostra devozione alla causa della Rivoluzione fascista per la quale siamo pronti a vivere, pronti a combattere e pronti a morire.
Camicie Nere, Legionari! Siate orgogliosi di quello che avete compiuto, preparatevi con pura coscienza ai compiti più ardui di domani; per dimostrarvi la fede incoercibile che io ho nell'avvenire del nostro movimento, fin da questo momento io vi dò appuntamento per l'anno prossimo in questa stessa piazza.
Che cosa possono davanti al nostro prorompente entusiasmo, davanti alle manifestazioni della nostra fede indomita, che cosa possono anche i piccoli e mediocri politicanti, che fantasticano su di un passato che noi abbiamo ben sepolto e che non potrà risorgere mai più?
Legionari, Camicie Nere! Voi avete bene meritato della Nazione. Il Governo fascista, ho l'orgoglio di dirlo, ha compiuto cose nobili e grandi in mezzo a difficoltà, grandissime, obiettive, e in mezzo a difficoltà create pertinacemente giorno per giorno dai nostri avversari. Ciò malgrado io proclamo dinanzi a voi che siete depositari del mio fuoco, del nostro fuoco sacro, dinanzi a voi io ripeto che non si torna indietro.
Innalzate i vostri gagliardetti, innalzate i vostri moschetti e gridate: «-Viva il Re! Viva l'Italia!-».
Nello stesso giorno, terminata la cerimonia a Milano, il Duce andò a Pallanza, e dal balcone del Palazzo Municipale rivolse al Sindaco, ai Fascisti, al popolo adunato, le seguenti parole:
Signor Sindaco! Cittadini! Camicie Nere!
Sono giunto al termine di un'altra mia faticosa giornata. Tuttavia non sono stanco e desidero intrattenermi un poco con voi, prima per ringraziarvi delle vostre accoglienze, poi per il sole che mi avete fatto trovare in questo cielo bello di Lombardia. Stamane il popolo di Milano, raccolto al Parco, vide sfilare le legioni delle Camicie Nere inquadrate, perfettamente ordinate e disciplinate. Esse non da oggi hanno giurato fedeltà al Re: la loro fede giurata era precedente alla cerimonia di oggi. Ma d'ora in poi non si potrà tornare più su questo argomento: la Milizia è ora a posto con la costituzione: essa ha reso dei servizi non indifferenti alla Patria e ne potrà rendere ancora. Tutti gli italiani dovrebbero esserne orgogliosi, poiché solo l'Italia offre lo spettacolo meraviglioso di una generazione giovane che, per fede e per una dura disciplina impostasi, si sacrifica.
Stanotte le legioni hanno dormito sulla paglia: molte di esse non hanno avuto il rancio; e ciò perché obbedivano: non è questa una manifestazione che trascende ogni bassezza, ogni diffamazione? Si dice che non c'è il consenso: ogni volta che io attraverso i paesi di questa adorabile Italia trovo che a me vengono folle entusiastiche, spesso deliranti. Si dice, per spiegare questo fenomeno, che esso dipende dal mio fascino personale. Ripudio ciò: non è sufficiente! In verità si vuole, attraverso la mia persona, onorare il Partito, che, pur avendo commesso degli errori — e chi non commise degli errori? — nacque da un fiero travaglio di spiriti, nacque dalla trincea, nacque anzi nel 1915, a cui vogliamo tornare.
Il Partito consacrò la Vittoria vilipesa, quando il popolo era mistificato. Questa è l'origine del Partito fascista che diede alla Patria non solo dei giornali e degli opuscoli che nessuno legge, ma dei morti. Diede del sangue puro, giovane; sangue di giovinetti, di mutilati, di combattenti. Così rivendicò il grave diritto ed il pesante privilegio di governare l'Italia. Ho detto «pesante privilegio» poiché qualcuno crede che sia facile governare una Nazione comprendente 40 milioni di abitanti in essa, più 8 milioni oltre oceano.
Governare è una cosa complessa, che pone giorno per giorno dei problemi gravi da risolvere. Ogni giorno c'è una nuova fatica, una nuova pena, una nuova responsabilità. Questo è il Governo: e noi non governiamo la Nazione solamente per gli italiani di oggi, il che sarebbe già molto, ma anche per le generazioni future, poiché la Patria vivrà nei secoli e nei millenni. Quindi il senso del dovere religioso deve essere in tutti i capi e in tutti i gregari.
Cittadini di Pallanza! Voi non volete un lungo discorso: io non sono abituato a farne! Voi mi avete ascoltato in un raccoglimento degno di un popolo gentile che abbia dinanzi a sé lo spettacolo grandioso del lago e del cielo azzurro. Permettete che vi porga i miei ringraziamenti e i miei saluti e che esiga da voi una promessa.
Un ammiraglio inglese, alla vigilia della battaglia definitiva, disse: «-Ognuno faccia il suo dovere: la Patria questo esige!-».
Ed a voi, che volete la Patria forte, ricca e potente, io dico: ognuno faccia il suo dovere qui ed oltre le frontiere, ovunque siano fratelli italiani, in casa, fuori e nelle officine, ed il nostro sogno orgoglioso sarà infallibilmente la realtà del domani.
Cremona, 29 ottobre 1924: MUSSOLINI parla ai cremonesi.
Il giorno seguente, MUSSOLINI si recò a Cremona ove l'on. Farinacci commemorò, nella Piazza del Duomo, Leonida Bissolati, a cui s'inauguravano una lapide e un busto, nell'ex-collegio elettorale di Pescarolo. Dopo l'on. Farinacci prese la parola MUSSOLINI che rivolse al popolo di Cremona questo discorso.
Popolo di Cremona!
Anche fra le nebbie di questo autunno incipiente si torna sempre volentieri a te, non solo perché questa piazza è suggestiva nella sua grande bellezza, ma perché tu, o popolo, mi vieni incontro col tuo fresco entusiasmo, con quella cordialità fraterna che vorrei chiamare padana.
Immediatamente si stabilisce quella che si potrebbe definire la comunione dei nostri spiriti; passano i mesi, passano gli anni nel loro ritmo fatale, mesi ed anni carichi di vicende diverse, di un immenso destino, eppure malgrado il fluire del tempo mi ritrovo davanti la stessa moltitudine di quindici mesi or sono, lo stesso entusiasmo, la stessa passione, la stessa fede.
Nulla dunque è cambiato nei vostri spiriti, perché nulla è cambiato nello spirito mio.
Ieri in tutta Italia si è svolta una cerimonia solenne, augusta, perché si trattava del giuramento all'augusta persona del Re.
Prima di questo giuramento si sussurrava: «Non giurano»; si giura, ed allora si sofistica sul giuramento. Alla vigilia tremano di paura; ogni piccolo concentramento di Camicie nere li fa verdi di terrore e poi quando le Legioni con un ordine perfettissimo ritornano ai loro paesi, depongono la camicia nera e il grigio-verde per ritornare alle opere civili del lavoro e della pace, questi avversari, la cui malafede non può più essere messa in dubbio, ricorrono ad un aggettivo ignobile per definire la nostra incoercibile passione.
Veramente mi sono collaudato in fatto di pazienza. Sono mesi e mesi che siamo martellati da una campagna di calunnie che i fatti smentiscono ora per ora. Si è osato gettare un'ombra di sospetti su un Governo al quale nessuno che sia in buona fede può negare il merito di avere in ogni ora, in ogni giorno, fedelmente adempiuto ai suoi doveri per il Re e per la Nazione. Ci siamo macerati lungamente nello spirito, abbiamo sofferto, ed abbiamo taciuto, ci siamo sottoposti a questo durissimo cilicio: perché? Perché vogliamo veramente che la concordia regni fra tutti noi italiani; perché non amiamo la violenza per la violenza.
La violenza, per noi, non è uno sport, non è mai stata né può essere un divertimento. Per noi la violenza può essere, come la guerra, necessità durissima di certe determinate ore storiche, ma il sogno che portiamo nel cuore è il sogno dell'Italia pacifica, concorde, laboriosa, in cui tutti si sentano figli della stessa madre ed accomunati agli stessi destini.
Popolo di Cremona: io ho raccolto la vostra impazienza, ma io sono paziente e debbo esserlo. Ma ve lo assicuro, la battaglia è vinta su tutta la linea.
Non saranno le poche decine di politicanti che noi rispetteremmo se fossero in buona fede, che potranno fermare con le loro dighe cartacee il corso impetuoso di questo fiume. Non saranno i signori dell'Aventino, (scendano o non scendano, della qual cosa, del resto, io mi strainfischio) che ci impediranno di discutere a Camera aperta i grandi problemi che interessano il popolo italiano, i problemi della sua economia, il problema delle sue finanze, i problemi imponenti e formidabili essenziali della sua difesa militare per terra, per mare e per cielo. Non ci impediranno di dare le savie ed oneste leggi che il popolo attende.
Intanto noi abbiamo dimostrato, pur attraverso a qualche travaglio, che sappiamo obbedire alle leggi. A tutte le leggi: a quelle che sono, a quelle che saranno, perché noi vogliamo realizzare la vera normalità da non confondersi con l'altra brutta parola che ripudio, la vera normalità di nazione civile, laboriosa, concorde, conscia dei suoi immancabili destini.
Popolo di Cremona!
Io vedo qui dinanzi a me la vera collaborazione di tutte le energie vitali di un popolo, vedo dei combattenti, dei soldati e dei militi, il Nastro Azzurro, i mutilati, le madri dei Caduti, tutti coloro che molto hanno dato per la Patria, che molto hanno sofferto ed ai quali tutti va la nostra infinita gratitudine.
Noi siamo qui ancora una volta a dire che non stolte ambizioni ci guidano, che non insensati capricci sono alla base della nostra azione e dei nostri atteggiamenti: che noi non siamo dei vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma siamo dei soldati fedeli alla consegna e la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re, solo alla Nazione noi dobbiamo rendere atto, dare giustificazione del nostro operato, non a coloro che ad ogni gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vorrebbero intentarci il loro ridicolo processo, mentre sono gli esclusi ed i condannati dalla nuova storia!
Camicie Nere!
Alzate i vostri moschetti! Alfieri, alzate i vostri gagliardetti, ed in alto i cuori per le battaglie di ieri; per le vittorie di domani.
Bissolati, 29 ottobre 1924: MUSSOLINI inaugura una lapide e un busto a Leonida Bissolati.
Nello stesso giorno, 29 ottobre 1924, il Duce passò da Cremona a Pescarolo per assistere all'inaugurazione di una lapide e di un busto a Leonida Bissolati. In tale occasione - dopo i discorsi del Sindaco del Comune e dell'on. Farinacci - il Duce pronunziò il seguente discorso:
Popolo di Pescarolo!
Sono venuto a questa cerimonia, invitato dal vostro Sindaco, dal capo del Fascismo della vostra provincia; sono venuto con cuore puro, sono venuto a compiere un rito di omaggio e di devozione.
Voi che conoscete la storia di questi ultimi anni non ignorate che fra Leonida Bissolati e me vi furono in due diversi momenti della vita italiana due fieri contrasti: uno nel 1912 a Reggio Emilia, uno più tardi, a guerra finita. Ora certa gente che vorrebbe perpetuare i dissidi anche oltre la fossa, ignorando il detto del Poeta che oltre tomba non vive ira nemica, solleva grande clamore di parole e versa fiumi inesauribili di inchiostro per protestare contro questa cerimonia, che essa avrebbe voluto monopolizzare.
Dopo il contrasto di Reggio Emilia, Bissolati fu uno dei miei amici più cari, perché il contrasto, o cittadini, non era un contrasto di interessi, non era una ignobile passione, era una diversa valutazione di quello che in quel momento avrebbe dovuto essere il socialismo italiano. Ed io, che dò ragione anche ai miei avversari quando l'hanno, riconosco oggi che Leonida Bissolati era nel vero e che io ero nel falso.
In fondo Leonida Bissolati vedeva più profondamente di me nel fenomeno e diceva una verità anticipata. Egli ammoniva: «-Guardate che questo partito è un ramo secco; un giorno o l'altro cadrà per terra. La forza non può essere che nei Sindacati. È la massa lavoratrice che, giorno per giorno, con un travaglio di educazione e di elevazione, deve essere degna dei suoi nuovi destini-».
Leonida Bissolati aveva perfettamente ragione contro il mio eccessivo giacobinismo, tanto è vero che oggi il socialismo ha tre chiese o tre botteghe che dir si voglia, le quali si odiano e si detestano a vicenda; e nessuno sa oggi a quale insegna debba andare per ritrovare il puro, l'autentico socialismo.
Secondo contrasto: quello del dopoguerra. È ancora troppo presto per giudicare un contrasto di ordine fondamentale. La storia, cioè gli uomini che vengono dopo di noi, spogli delle nostre passioni, potranno dare il giudizio definitivo. Comunque anche allora non si trattava di rivalità personali, non si trattava di dire: «Levati di lì che mi ci metto io». No. Era diversa visione di quel che poteva in quel momento costituire l'interesse nazionale.
Io intendo qui, nella mia qualità di Capo del Governo e di Capo del Fascismo, di onorare in Leonida Bissolati prima di tutto l'uomo. Era un uomo semplice, un probo gentiluomo, un cavaliere senza macchia e senza paura, un uomo che aveva vissuto tutta l'aurora del socialismo diffuso con il suo apostolato, che aveva sofferto, che aveva sempre pagato di persona. Ed è morto nell'assoluta povertà, in una povertà che si potrebbe chiamare veramente francescana.
In lui intendo onorare l'interventista, l'uomo che a 55 anni imbraccia il fucile, si arruola volontario negli Alpini, va sul Monte Nero ed è ferito in combattimento; l'uomo che sopporta il ferro chirurgico senza un lamento, senza una parola, con uno stoicismo degno degli eroi antichi. Voglio onorare in lui anche il socialista del tempo in cui il socialismo non era diventato una scuola di abbrutimento dei valori nazionali, una dottrina di mistificazione delle plebi, del tempo in cui i socialisti non si preoccupavano dei collegi elettorali e nemmeno degli stipendi delle diverse leghe delle Camere del lavoro, ma andavano al popolo per elevarlo e la prima cosa che facevano era quella di dirgli la verità. Voglio onorare in Leonida Bissolati il patriota. Egli non ha mai disgiunto il suo ideale, liberamente e santamente professato, dall'amore della Patria. Era così intransigente quando si trattava dell'interesse della Patria, che in pieno Parlamento, dopo le tristi giornate del nostro insuccesso. Egli, rivolto ai suoi ex amici dell'Estrema Sinistra, diceva tranquillamente, quantunque fosse un uomo straordinariamente mite di animo: «-Se fosse necessario io vi farei fucilare in massa-».
A chi appartiene? Faremo adesso lunghe discussioni per vedere esattamente in quale campo egli oggi avrebbe militato? Noi sappiamo soltanto che nel 1919 quando la lotta elettorale fascista si svolgeva in condizioni meravigliose e ha avuto un successo altrettanto meraviglioso, in quella lotta elettorale Leonida Bissolati era con noi, non era dall'altra parte.
Queste cose, o cittadini, io volevo dirvi e voglio aggiungere ancora: voi dovete serbare alta nel vostro cuore la memoria di questo vostro grande concittadino.
Se avete avuto dei torti verso Lui espiateli in silenzio, onorando la sua memoria. E per onorare la sua memoria dovete essere fedeli alla causa del lavoro, ma anche alla causa della Nazione, poiché Leonida Bissolati non disgiungeva il lavoro dalla Nazione.
E giacché parlo davanti a voi, che siete in stragrande maggioranza dei lavoratori, lavoratori di questa ubertosa terra che ha visto tutte le esperienze sociali e che è stata sempre all'avanguardia di tutti i tentativi rinnovatori, voglio dirvi che il Fascismo vuole che nella Patria rinnovata, redenta, il lavoro abbia il primo posto, i lavoratori siano all'avanguardia, abbiano rivendicati tutti i loro diritti quando essi abbiano compiuti i loro doveri.
Lavoratori, io chiudo perché in queste giornate celebrative di un evento che vi interessa, che voi avete voluto in parte e che in ogni modo è sacro nella storia e nessuno può cancellare, parlo della Marcia su Roma, in questi giorni, dicevo, ho fatto troppi discorsi ed ho fornito, ne son sicuro, un vasto materiale per le polemiche dei nostri avversari. Siccome ci sono abituato, il fatto mi lascia indifferente. Ma, prima di lasciarvi, né sapendo quando avrò ancora la ventura di parlare davanti a voi, in questa piazza, io voglio dirvi con accento di assoluta sincerità che il Fascismo, come Governo e come Partito, intende energicamente tutelare gli interessi della popolazione che lavora e che io, personalmente, vi manifesto il senso della mia fraternità, il senso della mia simpatia.
Come dicevo l'altro giorno a tremila operai che mi ascoltavano negli stabilimenti metallurgici di Dalmine, io sono amico degli operai, ma un amico severo. Io non inganno, non vendo fumo, non dico loro che sono grandi quando sono piccoli, non dico che sono sapienti quando sono ignoranti, non dico che essi siano il motore ed il perno dell'universo, perché io allora dovrei mettere sullo stesso piano ed in prima linea coloro che, lavorando col cervello, mandano avanti sulla via della civiltà pura la società umana. Sono un amico severo. Appunto per questo voi dovete valutare al giusto la mia amicizia.
Tristi amici sono coloro che ingannano; tristi amici sono coloro che seguono il carro quando si trionfa e si squagliano immediatamente non appena il vento cambia direzione.
Nessuno di voi nutra delle illusioni o dei dubbi. Noi teniamo la Nazione non per servircene, ma per servirla, in umiltà, con devozione assoluta, con senso che io vorrei quasi chiamare religioso del nostro dovere. E tutti dobbiamo considerarci servi della Nazione. E se questo era il sogno di Leonida Bissolati, che voleva la Patria riconciliata fra tutte le sue classi, rispettata dall'esterno, forte all'interno, diventerà presto, credetemi, per volontà di tutto il popolo italiano, la grande, la bella, la magnifica realtà di domani.
Roma, 31 ottobre 1924: MUSSOLINI annuncia il definitivo tramonto delle opposizioni.
Le ardenti celebrazioni della Marcia su Roma culminarono, il 31 ottobre 1924, con un'orazione detta all'Augusteo in Roma dalla Medaglia d'Oro Giorgio Tognoni, cieco di Guerra. L'anima vibrante dell'intera Nazione aveva riaffermato e riaffermava la sua profonda fede in Mussolini e nel Fascismo: le opposizioni erano ormai travolte e il movimento dell'Aventino finiva nel ridicolo. Dopo l'orazione del Tognoni, il Duce disse queste poche parole, che segnano in modo definitivo questa nuova vittoria del Fascismo contro le ultime insidie delle vecchie e superate classi politiche. Il settore crollato a cui allude MUSSOLINI è il Governo laburista, caduto in Inghilterra dopo le elezioni del 30 ottobre 1924, che avevano assicurato due terzi dei seggi ai partiti di destra.
Cittadini romani!
Non molte parole dopo l'orazione meravigliosa che voi avete applaudito. Ma io voglio qui ripetere ciò che ho detto in piazza del Duomo a Milano dall'alto di una possente e meravigliosa macchina da guerra. «-La battaglia è vinta su tutta la linea-».
Proprio ieri, un altro settore del fronte internazionale antifascista è crollato. Fra poco, quando si saranno accorti che è inutile e che alla fine è stupido mordere il macigno, io credo che sulle pendici dell'Aventino una mattina sarà issato un cencio bianco e sentiremo dire come udimmo gli austriaci: «-Bono Fascista-».
Noi aspettiamo tranquillamente, con assoluta certezza, questo giorno. Viva il Fascismo!
Roma, 4 novembre 1924: MUSSOLINI celebra il sesto anniversario della Vittoria.
La celebrazione del sesto anniversario della Vittoria seguiva, nello stesso alone d'entusiasmo e di fervore, la celebrazione del secondo anniversario della Marcia su Roma. All'Augusteo, in Roma, dopo un discorso dell'on. Paolucci e la lettura di una lirica del Coselschi, MUSSOLINI rivolse, ai giovani e ai combattenti, le seguenti parole:
Giovani! Combattenti di Roma!
Voi volete che io aggiunga la mia parola? Ma forse, dopo l'alato discorso della medaglia d'oro Paolucci e dopo il poema del poeta e decorato Coselschi, ogni parola può essere superflua. Anche perché questa adunata, questa imponente magnifica moltitudine di autentico popolo è di per se stessa una poesia.
Di una cosa vi ammonisco severamente ed è di nulla aggiungere fuori, nelle strade, perché ogni incidente la guasterebbe e ne turberebbe il solenne significato. Io sono sicuro che voi mi obbedirete, anche perché, malgrado l'esuberanza, voi non siete sordi all'appello della necessaria disciplina.
Gioventù di Roma! Gioventù d'Italia! Bella, fresca gioventù, che sboccia in questi tempi come una primavera fiammeggiante nel cielo della Patria: io sono sicuro — ho questa suprema e divina certezza nell'animo — che se domani, per avventura, la grande campana della storia suonasse e chiamasse all'appello, tu, gioventù che hai ancora fulve le chiome, solidi i garretti, l'occhio limpido, che si affaccia per la prima volta alla vita, tu scenderesti al canto degli inni della Patria, popoleresti il cielo della Patria, il mare della Patria, le frontiere della Patria!
Saresti disposta a morire, pur di vincere?
(«-Sì!-», urla la moltitudine).
Nel ricordo dei nostri morti, nel ricordo della gloria di Vittorio Veneto: Viva il Re! Viva la Patria!
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