L’italiano nuovo secondo Mussolini

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Messaggio  Admin Gio 13 Gen 2011, 20:22

L’italiano nuovo secondo Mussolini  Bandie10

Tra gli aforismi e le sentenze popolari più care a Mussolini, sono le frasi: <<Vivere pericolosamente>>; <<Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora>>. Queste due espressioni sono l’esaltazione del coraggio individuale, ma l’individuo, nell’era Fascista, è un milite al servizio della Patria e del suo buon nome nel mondo.
La gioia di vivere eroicamente non può infatti essere mai fine a sé stessa: se è bello osare, è ancora più bello essere amati per il nostro coraggio. Bisogna osare nelle opere e nelle finalità nobili; non soltanto per sé, ma per la famiglia e per la Patria. L’Italiano nuovo non è dunque, secondo Mussolini, un gagliardo esibitore di forza a sé stante, ma un milite dell’Idea civile dotato di ragionata generosità e di sensibilità patriottica.
In fondo, Mussolini non concepisce un <<Italiano>> dissimile dai migliori patrioti del Risorgimento, fra i quali figurano campioni di coraggio e di abnegazione che commuovono i giovani del nostro tempo.
Garibaldi è troppo conosciuto per essere citato come esempio di gagliardia nell’affrontare imprese guerresche temerarie per fini supremi e per supreme idealità. Altri esempi ebbe il nostro Risorgimento, anche più tipicamente individuali e modesti, di generosità, severi e schivi, e quasi sdegnosi della gloria immediata.
Citiamo Silvio Pellico, Pietro Maroncelli, i fratelli Bandiera, i fratelli Cairoli.
Ma uno, secondo noi, uno fra i più giovani e i più risoluti, che non appartiene né al Risorgimento né alla epoca nostra, è il più tipico e il più fulgido martire del Risorgimento, perché il ponte ideale fra due grandi epoche.
Ancora studente, egli affrontò la taccia di criminale nel puro saio dell’idealista e dello studioso: è Guglielmo Oberdan. Come il suo emulo Cesare Battisti, fu presago e sicuro da salire al patiboli. Egli non agì per sé ma per i suoi compagni di fede; egli non volle fare un <<fatto>> ma un gesto simbolico che facesse meditare i giovani al di qua e al di là delle Alpi.
Quando ebbe perduta la speranza che l’Italia aiutasse i suoi figli della Venezia Giulia a liberarsi dal giogo austriaco, Guglielmo Oberdan lasciò Roma, dove studiava medicina, passò il confine, e decise di compiere un gesto clamoroso a rischio della propria vita, per incitare i giovani a riprendere la campagna irredentista. Quello che Guglielmo voleva scuotere, era l’atmosfera ingrigita dal torpore politico dell’Italia del 1880. La vita dell’Imperatore era ben poca cosa in confronto dall’idea di un’Italia grande e indipendente, le bombe che i gendarmi rinvennero sul mistico martire non erano che lo strumento di una disperata propaganda di fede e di battaglia, non l’arma dell’attentato personale. E lo studente ebbe dalla storia quel cha alla storia egli aveva dato col sacrificio sublime della sua giovane vita. Perché vivesse la Patria egli non aveva esitato a morire sul patibolo.
Cosi Guglielmo Oberdan è il tipico eroe di due epoche: del Risorgimento e della riscossa nazionale.
Tutte le vittorie sono del pensiero, della fede, della tenacia.
L’Italiano di Mussolini deve essere un milite dell’idea; un fattore consapevole dell’ascesa e della potenza della Patria. E tale è oggi il legionario, agli occhi del mondo, che invidia all’Italia i più fulgidi esempi di eroismo e di tenacia e di spirito di sacrificio per il bene comune e futuro della Nazione. Basta dare uno sguardo a una vecchia carta d’Italia, basta connettere mentalmente Vittorio Veneto alla Rivoluzione fascista e all’impresa imperiale, per fondere l’idea e la volontà degli irredentisti giuliani con quella degli interventisti e delle Camice nere. Il <<mare nostro>> di Oberdan, Filzi, Sauro, Battisti, bagna ormai con la sua onda ideale il Vittoriano, e sale a glorificare i Caduti per la Rivoluzione, pionieri dell’idea e della gesta imperiale, ossia dell’eroismo dei Legionari.
Un torrente scende dal vulcano della Patria nel 1915 per coprire e distruggere tutte le male piante cresciute intorno alle oscurate Are del Risorgimento per fecondare nuova materia e nuovo spirito fra le Alpi e il Mediterraneo nell’alveo sacro dei padri, che rivivono prima negli eroi della grande guerra e ci ridanno il <<mare nostro>>, poi nelle Camice Nere che marciano su Roma e travolgono residuati di durissime scorie mentali politiche, e poi nei Legionari d’Africa che rifanno l’Impero perché ritornino le aquile scacciate da più di mille anni dai colli di Roma.
Chi sente l’amore di Patria e l’orgoglio delle recenti grandi battaglie civili e delle recenti imprese militari, non può guardare il Monumento a Vittorio Emanuele, senza far lavorare la mente. Il Re galantuomo sognò certamente un’Italia forte sul <<suo mare>> e signora di domini oltre il Mediterraneo, ma non osò sperare che i fati della sua adorata Patria unità si sarebbero compiuti in men di mezzo secolo. Vittorio Emanuele II giganteggia nella sua aurea statua equestre, e ben rappresenta il glorioso Risorgimento, del quale è tuttavia grande figura di soldato e di Re, di padre e di Condottiero. Ma l’Italiano nuovo associa la magnifica figura di lui a quella del Fante dei Fanti. Vittorio Emanuele III è il continuatore della storia di ieri; un realizzatore della storia di oggi; il primo Imperatore di questa Italia nuova e fascista, materiata di volontà e di fede, che si evoca in modesto rito risalendo questo Monumento e l’Ara del Milite Ignoto, e contemplando dalla gentile aiuola che ricorda i Caduti per la Rivoluzione, il Campidoglio ridonato al decoro di una Roma imperiale e signora di genti lontane e di giusti domini.
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