1861- 2011: Quale unità?

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Messaggio  Admin Mer 16 Mar 2011, 19:48

1861- 2011: Quale unità? Unita_10
Mentre si festeggia il 150°anniversario dell’unità d’Italia, “Liberapresenza” rammenta il vile comportamento dei monarchi, d’Italia. Savoia-(rdi), impauriti e asserviti allo straniero, si sono macchiati di gravi crimini, contro le popolazione, durate l’unificazione, e di tradimento durante il ventennio, svendendo l’Italia e il suo popolo allo stesso straniero che da sempre ha servito.

1861- 2011: QUALE UNITA' ?

Era l’alba del 16 settembre del 1866, un piccolo drappello percorre a cavallo, a lento trotto la regione detta dei Torrazzi, sulla strada che da Palermo conduce a Villa Grazia. Sono cinque carabinieri usciti poco prima della 4 dalla stazione principale di quella città.
Tre marciano in testa; gli altri due, per evitare il polverone sollevato dai compagni, seguono a breve distanza. Marciano silenziosi: gli occhi scrutano le campagne circostanti ancora avvolte nella notte, le mani intende a frenare la foga dei cavalli eccitati dalla brezza mattutina e dal riposo notturno.
La strada, che appariva deserta, s’anima d’improvviso: il silenzio è squarciato, si levano urla di centinaia di contadini, e, tra le vampe delle esplosioni, una salva di fucilate si abbatte rabbiosa sui cavalieri.
I primi tre, colpiti a morte, cadono insieme alle cavalcature; gli altri due, restano illesi, resisi conto della situazione, riescono a gettarsi sui lati, inseguiti dal crepitio degli spari e da grida di minaccia.

Che è accaduto? Quella folla e quegli spari non erano un doloroso tragico equivoco, né la reazione di malandrini che si vendicano per un intervento molesto ai loro piani criminosi. Era il primo generoso atto rivoluzionario che un popolo tradito aveva eseguito.

Ebbene si, in Sicilia nel 1866, si svolse una insurrezione.
Certamente quei due carabinieri, scampati per caso all’eccidio, riuscirono a portare dopo pochi istanti in città l’annuncio di quanto era successo, non potevano darne in quel momento una definizione esatta; ben presto però il corso degli avvenimenti susseguitisi in tumultuosa e sanguinosa concitazione poté dimostrare come il loro tragico scontro dovesse senza dubbio considerarsi come l’inizio di una vera e propria rivoluzione.
Per anni si ebbe un silenzio, quasi unanime, degli storici che hanno lasciato avvolta la triste pagina.
Gli storici hanno preferito non soffermarsi su questi avvenimenti e se qualche disamina ne hanno fatta, si son limitati a mettere in luce quanto poteva avvalorare il proprio punto di vista, tacendo, negando o lasciando in penombra il rimanente…: tutto ciò non è giustificato, né spiegabile.

Non giustificato perché a questa congiura del silenzio si è voluto quasi dare la parvenza di carità di patria e di un riguardoso riserbo verso la generosa terra dei tornanti Vespri. Nulla di più assurdo, anzi di più offensivo verso l’isola.
La Sicilia invero nulla ha da nascondere in questa dolorosa vicenda, nulla che possa intaccare il suo grande cuore e la nobiltà del suo sentire; nulla che possa adombrare la sua alta levatura morale.
Le folle, stanche e intrise dalla propaganda, si sono affiancate all’esplosione cruenta e feroce che rivoluzionari riuniti e ben organizzati in gruppi di rivoltosi che poterono costituirsi e agire, tutto ciò non può essere ascritto a colpa alcuna del popolo siciliano, né può essere motivo di vituperio.

Ben altra invece è la ragione del silenzio.
Chi più, chi meno, tutti coloro che in Italia, in quel fortunoso periodo occuparono posti di governo e di responsabilità, o esercitarono comunque un’influenza politica, sociale e religiosa, ebbero la loro parte, di errori o di colpa, nel maturarsi degli eventi che generarono i moti insurrezionali.
Il governo, in una incerta politica di mezze misure e di compromessi, non si rendeva conto che nelle nuove regioni, da poco consegnate al giovane Regno ancora non era formata quella profonda coscienza nazionale, quella forza coesiva, quella capacità collettiva di adattarsi e durare nei sacrifici in vista di un gran fine, che è proprio ai popoli di antica costituzione unitaria, e non sapeva quindi adattare la sua tecnica amministrativa e questa palese immaturità.

Giornalisti, capi partito, politicanti, moderati ed estremisti, monarchici e repubblicani, borbonici e autonomisti, Garibaldini e clericali, nobili e plebei, pacifisti e militaristi, tutti soffiavano nel fuoco, con una visione imperfetta della realtà, con aspirazioni discordanti ed egoistiche, pretendendo l’impossibile, trascurando il legittimo, ignorando il pratico, aggravando la crisi anziché contribuire al raggiungimento di una situazione di forza e di benessere indispensabile al sereno affermarsi della vita nazionale.
Logico quindi ed umano che tutti costoro, divampato l’incendio, sentendosi in difetto per aver contribuito direttamente o indirettamente a darvi esca, preferissero, appena soffocato le fiamme, stendervi sopra, per quanto possibile, il velo dell’oblio.


Del resto, procedendo ad un esame, anche sommario, delle cause che generarono i moti rivoluzionari del settembre 1866 in Palermo, è facile convincersi che, data la triste seminagione, non potevano certamente maturare frutti migliori. Anzi se si tiene conto di altri moti sediziosi pur essi cruenti e di palese gravità avvenuti, in quel tempo, in altre regioni d’Italia e che erano origine quasi unicamente da questioni di interressi, reca meraviglia, data per la Sicilia, la ben diversa situazione e il concorso di tante più profonde e gravi ragioni materiali di malcontento esasperato da deleteria propaganda antiunitaria, l’incendio divampato tanto violentemente potesse essere circoscritto ad una sola provincia e facilmente spento.
Ciò deve essere ricordato a titolo d’onore per l’isola benedetta dal sole, donde sempre partirono i primi fremiti di patriottica riscossa, e che nella dolorosa vicenda subì una rapida e dura repressione che soffocò in sé la vampa che si era disperatamente accesa.


L’Italia che nel 1859, con delusione cocente – nonostante la guerra vittoriosa, e la dolorosa mutilazione di due regioni (Savoia e Nizza), prezzo cospicuo dell’aiuto francese inopinatamente venuto meno – si era vista fermare sulla via delle sue aspirazioni unitarie, continuava a trovare nella tentennante, avversa politica che governava allora la Francia, l’ostacolo principale alla realizzazione delle sue più ardenti aspirazioni: Venezia e Roma.
Nel 1866 finalmente, rotti gli indugi, si era gettata nella lotta accesasi tra Prussica e Austria, ed era entrata in campagna contro quell’ultima.
Campagna infelice: Venezia è invero ricongiunta finalmente alla patria, ma l’Italia sanguina sotto il peso di due sfortunate battaglie, Custoza e Lissa, e sotto la umiliazione di dover accettare come un grazioso donativo della Francia il Veneto concesso da Francesco Giuseppe a Luigi Napoleone.
Intanto il giovane Regno, dilaniato tra opposte passioni e partiti, con l’esercito avvilito dal mancato successo militare, col bilancio stremato, incerto nell’opera di consolidamento unitario e impotente ad assumere una decisa linea di condotta nell’ardente passione per Roma verso cui, quasi unanime, l’anima del popolo era protesa, navigava, dopo la morte del grande tessitore di Santona, come nave senza nocchiero in gran tempesta.
Ma il marasma in cui si dibatteva tutta l’Italia, dava disgraziatamente ragione di ben maggiore turbamento in Sicilia.
La grande impresa garibaldina, la leggendaria spedizione dei Mille, seppure conchiusasi tanto rapidamente e felicemente con il riscatto dell’isola dal giogo borbonico, aveva lasciato il caos.
Esaminare l’enorme somma di abusi, arbitri, confusionismi, speranze, delusioni, esacerbazione che ne erano seguiti, ci renderebbe troppo lunghi.
Basti accennare che Garibaldi nei pochi mesi della sua dittatura ed i profittatori a lui succeduti, nel fervore entusiastico di quelle epiche giornate, talmente avevano abbondato in concessioni, conferimenti di cariche, di gradi, di sinecure e soprattutto in promesse – strade, ponti, ferrovie, ospedali, scuole, opere pubbliche di ogni genere – da far credere che la cornucopia dell’abbondanza si stesse rovesciando per creare una nuova terra di Bengodi.
Non ne poteva che derivare un gravissimo malcontento verso il governo reale, che a quel caos risponde con molta inettitudine e prepotenza, ledendo tanti interessi, troncando tante aspirazioni.
Quelle disgraziate popolazioni, che avevano contribuito a rovesciare il governo borbonico, si ritennero dal nuovo governo, maggiormente trascurate, o, peggio tradite.
La grande contesa poi contro quella che sembrava la rinuncia del Regno verso la Roma eterna, aveva maggiormente investito la Sicilia, ove Garibaldi contava i più esaltati seguaci, e delle cui sponde aveva avuto inizio la disgraziata ultima impresa cruentamente soffocata ad Aspromonte.
Talché anche moltissimi veri e bravi patrioti, che avevano con entusiasmo accolto, assecondato, seguito l’eroe popolare, verso cui serbavano un culto fanatico, si sentivano ora portati all’azione contro il governo reale che le promesse garibaldine aveva deluse e che contro Garibaldi stesso aveva avuto l’ardire d’agire.
Alleati naturali dei seguaci del grande Nizzardo erano per forza di eventi i numerosi proseliti palermitani di Giuseppe Mazzini. La sfortuna delle armi nazionali aveva sommamente esasperato il repubblicanismo rivoluzionario, che dalle sconfitte militari, dagli insuccessi della diplomazia italiana, e soprattutto dalle fiere rampogne del capo agitatore esule a Londra, fu talmente infiammato, che – andando oltre alle intenzioni dello stesso Maestro - . Venne collegato e affiancato ai legittimisti, arrivando infine ad essere accusato di potenziare ai suoi fini il malandrinaggio, pur di trionfare.
Ed i borbonici non eran certo disprezzabili avversari del nuovo regime.
Essi erano numerosi, per l’attaccamento ai Borboni cui riconoscevano ancora il diritto divino al Regno delle due Sicilie, e tanto più temibili in quanto sparsi in tutta l’isola e appartenenti in genere alle più grandi casate, agivano subdolamente, approfittando di ogni causa di malcontento, soffiando nel fuoco della irrequietezza e della delusione.
Nella vita siciliana – per un complesso di cause storiche e sociali – aveva parte notevole il clero, regolare o secolare.
Le corporazioni religiose comprendevano nientemeno che, 249 monasteri, 629 conventi, 53 collegi di Maria o d’altri santi, 20 tra ritiri e ospizi. in totale 959 case religiose delle quali 250 nella sola provincia di Palermo.
Questo elenco fu naturalmente quello che più risentì gli squilibri del processo di unificazione sia perché era numerosissimo, distribuito in molte specialità di ordini e conventi, sia perché assommava nelle sue mani ricchezze enormi colpite dalle leggi di soppressione delle corporazioni religiose.
Assai buon gioco peraltro avevano borbonici e clero, garibaldini delusi, repubblicani e autonomisti a proclamare in quel periodo che soltanto un nuovo regime, fosse quello di una repubblica unitaria o dei Borboni, avrebbe potuto dare alla Sicilia libertà, sicurezza e prosperità economica.

Il paese caduto di recente nelle mani di un governo rapace e rapinatore, crudele e demoralizzatore, che aveva un comportamento servaggio, dove si contavano oltre il 70% di analfabeti, dove traviato era stato nelle masse il vero senso della bontà e della giustizia e il sentimento religioso, non poteva che riuscire infausto il troppo celere processo di unificazione nazionale imposto dalla necessità in cui l’Italia si era venuta a trovare per il precipitare degli avvenimenti compresi tra il ’59 e il ’66. processo di unificazione che coi suoi inevitabili inconvenienti rendeva facile ai mestatori far apparire a quelle misere popolazioni il nuovo regime, non come il buon governo degli auspicati fratelli uniti nella redenzione nazionale, ma come una servitù non molto diversa da quella degli altri dominatori (saraceni, svevi, francesi, borboni) che per secoli avevano imposto il loro pesante giogo.
La fretta smaniosa di piemontizzare le leggi portava a far ritenere il nuovo governo più dispotico di quello passato, mentre d’altra parte col regime liberale troppo presto adottato, le masse, non più tenute a freno dalle vecchie misure coercitive e dal clero attaccato al dispotismo, trovavano ragione di maggiore turbamento in ogni nuova legge, i cui effetti erano, quasi sempre, oppressivi e nefasti.
Di queste nuove leggi citeremo solo - per non dilungarci troppo – le tre che maggiormente dettero esca al malcontento popolare: quella sulla soppressione delle corporazioni religiose, quella sul corso forzoso e quella sulla coscrizione.
Alla prima abbiamo già accennato: aggiungiamo che essa non soltanto incideva sugli interessi delle comunità religiose, ma veniva a sconvolgere l’equilibrio di vita di numerosi isolani i cui interessi erano strettamente legati ai grassi beni della chiesa. D’altra parte la legge stessa anche se bene accetta ai liberali, ai monarchici, ai repubblicani, era tuttavia tra costoro di ardenti dispute nella sua applicazione; mentre alcuni volevano l’incameramento dei beni da parte dello Stato, altri ne propugnavano la divisione tra il popolo, dando cosi appiglio a nuove mene dei facinorosi contro il governo.
La legge sul corso forzoso dei biglietti di banca, anche facendo astrazione dalle conseguenze economiche della prima applicazione, aveva prodotto un effetto disastroso tra quelle popolazioni che credevano cosi di essere state spogliate delle tradizionali monete, tari, onze, carlini,ducati, e scudi, dei lucenti colonnati d’argento e dei sonanti marenghi.

Più gravi ripercussioni ebbe la legge sulla coscrizione, si da profilarsi in prima linea tra le cause determinanti della insurrezione. Sotto i Borboni il soldato era sempre stato considerato come il sostenitore della tirannide, il nemico del popolo… e non erano certo i troppo rigidi sistemi piemontesi, nella prima applicazione della legge stessa, i più adatti per rovesciare quella mentalità ed ottenere che la grande massa della popolazione anteponesse il sentimento della indipendenza e dell’onore nazionale all’interesse individuale. Acuite poi erano in quegli ultimi mesi la riluttanza e l’avversione alla legge che – per effetto della guerra – strappava gli uomini dalla Sicilia, per portarli senz’altro a combattere in alta Italia, in una lotta definita contraria ai voleri di Dio e agli interessi dell’isola.
Perciò a centinaia e centinaia i renitenti e disertori (solo la leva del 1866 aveva dato circa il 20% di renitenti) infestavano la campagne e andavano a rinforzare le già ben nutrite quadre campagnole, o bande armate che rappresentavano veramente l’organo esecutivo della rivoluzione.
Perché non è a credere che – tranne rare eccezioni - repubblicani, clero, borbonici, proprietari terrieri, separatisti, regionalisti, autonomisti, siano scesi in campo apertamente. Difatti, nessuno di costoro si palesò arditamente come un campo che desse un volto e un nome al moto rivoluzionario. Invece tutti costoro, o a mezzo di pseudo-comitati rivoluzionari, ma anche e più spesso senza comune intesa, si limitarono a potenziare e provocare l’intervento di dette squadre.
Erano queste veri vivai sorti a causa del malgoverno di cui la bella, ma infelice isola era stata vittima per tanti secoli e che negli ultimi tempi avevano potuto ancora svilupparsi e dilatarsi nel pervertimento morale conseguente all’infausta unificazione.

Alcune di queste squadre, è ben vero, dettero un efficace apporto alla impresa garibaldina, accogliendo in quell’epoca nel loro seno, ed anche in misura notevole, elementi accesi da entusiasmo patriottico, i quali seppero almeno per un po’ di tempo, nel fervore della lotta per l’indipendenza, dare anche un preponderante contenuto morale alla loro azione.

Negli ultimi mesi, poi la loro presenza era diventata soverchiante, le loro file non erano affatto diradate, ma all’incontrario straordinariamente arricchite sia per l’afflusso di centinaia e centinaia di ufficiali e soldati di quell’esercito borbonico che il Governo Italiano, con imperdonabile imprevidenza, aveva di colpo disciolto senza prima adottare sufficienti caute previdenze per controllarne gli ex componenti, sia per l’aggregazione di fitte schiere di renitenti e disertori per ultimo accorse ad esse, per protezione, pane ed impiego.
E non di uomini soli arricchite. Il rifornimento materiale di cui venivano impinguate da parte di tanti nemici del governo reale, era ormai diventato imponente, da permettere loro di agire con ostentata larghezza dimezzi.
Nè è da escludere, anzi è da ritenere per certo, che in questo prodigarsi di fondi per potenziare le squadre, concorresse anche qualche potenza straniera che aveva interesse a meglio consolidare la sua posizione strategica nel Mediterraneo.

Queste dunque le squadre che vennero scatenate contro il governo reale nel settembre 1866.
Né il momento poteva essere più propizio all’impresa insurrezionale: oscurato e diminuito era infatti il prestigio delle autorità e del potere dello Stato per la recente disfatta militare, e scarsissime ed inefficienti le truppe rimaste a presidio dell’isola, essendo ancora completamente in armi nelle regioni Venete, in quanto era stato concluso con l’Austria (dopo la sospensione d’armi del 25 luglio) l’armistizio di Cormons (12 agosto), ma non ancora era stata definitivamente trattata la pace (segnata poi il 3 ottobre a Vienna).
Anche la provincia e la scelta per l’inizio del movimento erano quelle che meglio si prestavano ad un rapido successo e potevano offrire più probabilità di completa vittoria.
E’ bensì vero che, per quanto scarsa, la truppa rimasta in Palermo era pur sempre più numerosa di quella delle altre guarnigioni, ma, si trattava di reparti poco efficienti, composti per la massima parte di inabili alle fatiche di guerra, sì che davano poco affidamento per una strenua resistenza, mentre, l’altra parte, avendo ragione del presidio più importante, questo successo iniziale avrebbe avuto immenso valore morale, e facilmente avrebbe – si sperava – portato al rapido estendersi della rivoluzione in tutte le altre città e borghi dell’isola.
E’ altresì da considerare che in Palermo maggiormente si accentuavano tutte le cause di turbamento e malcontento sopra enumerate. La città stessa, conscia ed orgogliosa delle sue grandi tradizioni storiche, mal s’adattava, specie per l’attiva di propaganda dei numerosi autonomisti, ad essere considerata come una qualunque città di provincia. In essa, poi, fitte erano le fraterie e loro seguaci, più numerosi gli assoldatori e potenziatori delle squadre, più ardenti alle contese politiche, e soprattutto più densa la popolazione e grande la miseria, sicché era facile prevedere che si sarebbe subito avuto – il che precisamente avvenne – sin dall’inizio un cospicuo apporto alle squadre da parte del popolo, che sempre nelle grandi città affiora in ogni sommovimento, cosi come il sedimento d’un vaso viene a galla ad ogni forte scossa

Altro grande vantaggio infine recava in sé per i rivoluzionari l’iniziale puntata su Palermo; la speranza – che pure si verificò in pieno – su un poderoso immediato contributo sedizioso delle campagne. In ogni rivolgimento delle grandi città, occorre sempre il contato con la folla, tumultuante, spinta da frenesia di saccheggio e di bottino.

Anche senza risalire ai disordini di Milano descritti da Alessandro Manzoni, basti ricordare quanto avvenne a Milano stessa durante i moti del ’48 e del 1898. orbene, Palermo, con i suoi ridenti dintorni, popolati di contadini, già eccitati per il diffuso malcontento generale e in quei giorni anche esasperati per la persistente siccità, che inaridiva i loro campi, e pel colera (attribuito da vociferazioni faziose alla perfidia del governo) che serpeggiava nelle loro case, meglio d’ogni altra città poteva lasciar sperare più ingente il rinforzo della campagna all’azione delle squadre.
Riassumendo: - agenti operanti, sotto l’emblema di rosse bandiere: le bande armate, rinforzate dalle plebi cittadine e campagnole; - obbiettivo principale ed immediato: la città di Palermo; - piano d’azione: travolgere – nuovi Vespri – le poche truppe del presidio, annientare ogni resistenza, impadronirsi della città, proclamare un governo provvisorio e invitare tutta l’isola a sollevarsi, in attesa di aiuti dall’estero per stabilire un nuovo regime autonomo.

Qui sorge spontaneo un interrogativo: come poteva sì pericoloso nembo addensarsi su una città senza che le autorità responsabili corressero tempestivamente ed efficacemente ai ripari?
Era allora, da poco, prefetto di Palermo il conte Luigi Torelli, valtellinese, già due volte ministro, e anche in Sicilia noto per essere stato prefetto della stessa città nel 1862: uno dei più rabbiosi funzionari che contasse in quell’epoca l’amministrazione centrale. E’ non certamente a lui potevano sfuggire i segni precorritori della tempesta popolare imminente:

D’altronde, non potevano lasciar dubbio in proposito le concitate informazioni che, a quanto risulta, gli pervenivano dai carabinieri, ben consci della situazione, e confermate anche dagli appelli lanciati dal giovane sindaco di Palermo- marchese Antonio Starabba di Rudinì – che ebbe poi tanta parte nella vita parlamentare italiana, un nobile che in quei giorni emerse quale figura sanguinaria contro la rivoluzione.
Il prefetto Torelli si era rivolto al Ministero dell’Interno per ottenere rinforzi, allo scopo principalmente di arginare l’oramai evidente tracotanza delle bande, ma il Ministero – d’altronde in quei momenti assillato da altri gravi pensieri – non se ne preoccupò affatto, rassicurato d’altra parte dalle relazioni, a cui pareva prestare più fede, che gli pervenivano da altre fonti.
E così avvenne che le squadre, mascherando i loro movimenti nel normale traffico quotidiano delle strade confluenti su Palermo, poterono concentrarsi nei pressi dell’abitato, unendo gli agitatori della campagna e della città, e all’alba del 16 settembre suonare a fucilate la rivoluzione. Fucilate che ebbero per prime vittime i carabinieri nel cruento loro scontro con gli insorti in regione dei Torrazzi, di cui abbiamo dianzi accennato, e nel quale primo a cadere colpito a morte fu precisamente il giovane carabiniere catanese, Scuderi Giovanni.

Riassumiamo ora brevemente la cronistoria della settimana di passione della martoriata Palermo traendone i dati principali dalla pubblicazione con cui il generale Luigi Cadorna rievoca la figura del soldato, caro ad ogni cuore italiano, che fu il padre suo, generale Raffaele: “Le bande rivoluzionarie, al segnale delle prime fucilate del Pian dei Torrazzi, si avventarono all’alba del 16 alle porte della città. Presidiavano il palazzo Reale 1600 soldati e pochi carabinieri; altri 350 soldati stavano al carcere e ai Quattro Venti, 200 al Castello, le regie guardie di finanza al palazzo delle Finanze.
Il Prefetto Torelli, che fin dal primo momento dà prova di coraggio, compie subito, accompagnato da pochi carabinieri, una rapida ispezione attraverso la città, e si reca quindi al Municipio dove già si trovano il sindaco di Rudinì e molte altre notabilità. Le bande, già penetrate nell’abitato, assalgono il Municipio, ma sono respinte.
Intanto una compagnia di granatieri occupa i Quattro Cantoni, ove si incrociano le due vie principali; un altra compagnia dal Castello si trasferisce al Palazzo Reale aprendosi il passo attraverso i ribelli, che la bersagliano specialmente dal convento delle Stimmate ove si sono organizzati.
Venuta meno la speranza che la Guardia Nazionale accorresse ai quartieri (Guardia Nazionale che conformemente del resto alle previsioni del Prefetto, assisté quasi ovunque indifferente al movimento rivoluzionario, unendo, anzi, in taluni paesi le sue armi a quelle degli insorti), il Prefetto e il Sindaco determinarono di armare i borghesi convenuti al Municipio e di scendere in piazza per cercare di soffocare la ribellione prima che trascorresse la giornata.
Giunge la colonna, combattendo, sino alla Fiera Vecchia e quindi all’Olivetta, ma arrestata presso Porta Macqueda dalle bande fortemente asserragliate nei vicini conventi, è costretta a riportarsi al Municipio. Verso sera le autorità municipali riparavano al Palazzo Reale, ove erano state precedute dal Prefetto.
Sorgevano intanto barricate in via Macqueda e strade laterali, contro le quali si infrangevano gli sforzi cruenti delle truppe che tentavano impossessarsene.
Gli insorti erano quella sera padroni di tutta la città, salvo i pochi punti occupati ancora dalle truppe: il Municipio, il Castello, il Palazzo Reale, l’Istituto Garibaldi, l’Ospedale Militare, il Palazzo delle Finanze e Porta Nuova”.
L’indomani altre torme di contadini armati, con croci e coccarde rosse, al grido di <<Viva la repubblica siciliana>>, << Viva la religione>>, si riversavano sulla desolata città e gli insorti potevano così impadronirsi, dopo accanita sanguinosa difesa opposta dalle truppe, dell’Istituto Garibaldi, dell’Ospedale Militare e infine anche del Municipio, dove insediando uno governo provvisorio, dopo aver sequestrato alcuni dei più facoltosi esponenti signori della città.
Il palazzo dei marchesi di Rudini fu invaso, saccheggiato ed incendiato; le stessa scene di scompiglio e di depredazione seguirono in molti punti, i rivoltosi erano ovunque, ma nell’anarchia e nel disordine; d’ogni parte era un gridare, un gozzovigliare, suono di tamburi e di campane a stormo.

Il palazzo Reale era ormai il punto più importante della residua difesa, stando lì riunite tutte le autorità. Precarie, però ne erano le condizioni, giacché poche le truppe, scarsissime le munizioni e i viveri. Si organizzano, sistemi i cannoni a difesa del quadrilatero della piazza Vittoria, furono costituite tre commissioni per provvedere al rifornimento delle munizioni, delle vettovaglie, nonché alla cura dei feriti.

I rivoltosi stupidamente non interruppero immediatamente la linea telegrafica, consentendo all’infame prefetto di avvertire la capitale (Firenze) dell’insorgere del moto rivoluzionario, e cosi già, il mattino del 18 iniziava a giungere un primo aiuto con la R. Pirocorvetta <<Tancredi>>, e all’alba del 19 seguirono altri rinforzi con la squadra dell’ammiraglio Riboty proveniente da Taranto. L’ammiraglio Riboty, pur non disponendo di soldati, costituì, coi marinai, una colonna da sbarco (1200 uomini) agli ordini del capitano di fregata Emerico Acton, che prese d’assalto la barricata di via Scinà e, superati altri ostacoli, poté giungere sino a San Francesco da Paola.
Intanto maggiori soccorsi giungevano dal continente. Con alcuni battaglioni sbarcavano nel pomeriggio del 20 il maggior generale Masi e il tenente generale Angioletti che doveva prendere il comando delle forze armate fino all’arrivo del generale Raffaele Cadorna nominato d’urgenza comandante generale di tutte le truppe della Sicilia e R. Commissario con poteri straordinari per la città e provincia di Palermo.
Il generale Angioletti, affidata alle truppe di marina la difesa dei Quattro Venti, sua base di operazione, inviò il generale Masi, con diversi battaglioni e con due pezzi da sbarco, al Palazzo Reale ove, superando la più ostinata resistenza, poteva giungere nella giornata del 21.
Il 22 anche il generale Angioletti raggiungeva il Palazzo Reale e di qui, muovendo da piazza della Vittoria, avanzava verso il Municipio e quindi sino a Porta Felice conquistando le barricate che chiudevano via Toledo; così finalmente tutta la città tornava in potere delle truppe, dopo una intera settimana di illusioni di libertà del popolo palermitano.
Nelle ore pomeridiane di quello stesso giorno 22 entrava in Palermo, con altri rinforzi, il Generale Cadorna.

La rivoluzione era definitivamente soffocata, ma a duro prezzo. Centinaia di migliaia furono i rivoltosi rimasti sul selciato, il numero esatto non fu mai stabilito. Ed invero chi poteva rivendicare quei caduti? Triste sorte di ogni sciagurato, eccitato a battersi per una giusta causa, di cui dopo il massacro nessuno, a conti fatti, vuole assumersi la responsabilità!

Dopo soli pochi giorni, nella stessa terra già sconvolta dalla repressa rivoluzione, questo tributo di coraggio e di abnegazione doveva rinnovarsi in altro campo. Il colera, favorito dal disordine di vita conseguente alla insurrezione, ricominciò a maggiormente infierire; ed allora, quegli stessi paesi già testimoni dello scempio e del martirio di tanti eroici insorti, videro esporre ancora le loro esistenze pervenire le sofferenze della nuova sciagura.

Abbiamo accennato dinanzi alla quasi congiura del silenzio che ha avvolto questo moto rivoluzionario; ma se questo silenzio può apparire, come abbiamo detto, spiegabile da parte dei finti storici, riesce veramente – alla stregua di quanto abbiamo sinora esposto – strano, incomprensibile, anzi ingiusto da parte di noi Fascisti.
Quindi abbiamo ritenuto doverosa questa sia pur modesta, ma commossa rievocazione, soprattutto per additare ai giovani l’ingiusta festa del 150° anniversario dell’unità d’Italia, che negli anni dei monarca ha umiliato le virtù eroiche del popolo del Sud, illuso e deluso, divenuto un popolo colonizzato dal regno dei Savoia.

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